Abstract
La presente voce consente di svolgere alcune considerazioni sulla rilevanza dell’art. 33 Cost. nel quadro costituzionale dello Stato di cultura italiano, focalizzando l’attenzione sul tema dell'insegnamento ovvero sui temi dell’istruzione e dei rapporti tra scuola pubblica e privata, con particolare attenzione alle istituzioni universitarie ed al sistema di autonomia che le caratterizza e che consente di distinguerle da quelle scolastiche, per la peculiare funzione di contemporaneità humboldtiana tra attività di ricerca e di insegnamento.
La prima parte della Costituzione Italiana racchiude nel suo seno quel sistema dei principi e delle libertà fondamentali in cui confluiscono diritti e doveri dei cittadini, intesi come situazioni giuridiche soggettive e dove ogni individuo-persona può ri-trovare la sua massima espressione nonché sentirsi realmente partecipe della vita culturale dello Stato democratico nello spirito della solidarietà politica, economica e sociale di cui all’art. 2 Cost.
Il sistema delle libertà si condensa, in particolare, nel Titolo II, intitolato Rapporti etico-sociali, nell'ambito del quale è collocato l'art. 33 Cost., che spinge tale sistema all'interno della triade inscindibile arte-scienza-insegnamento.
Tale triade rappresenta, indubbiamente, una forma di attuazione della stessa formula aperta contenuta nell’art. 2 Cost. sui diritti inviolabili della persona umana. Come ben rileva il dibattito della dottrina, qui ripercorso, l’art. 33, primo e ultimo comma, enuncia principi di portata tale da far ritenere che l’autonomia delle istituzioni di alta cultura è resa indisponibile dagli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost.
Sul piano storico, lo Statuto Albertino non contemplava alcuna previsione sul punto, per cui l’ordinamento della cultura si riteneva fosse oggetto esclusivamente di una disciplina legislativa. L'evoluzione di tale disciplina in epoca giolittiana, prima, e fascista, poi, si caratterizzò inevitabilmente con l'accentramento delle strutture culturali e l'unificazione della scuola secondaria. Di contro, i lavori preparatori all'art. 33 Cost. in Assemblea Costituente videro un acceso dibattito tra le forze politiche coinvolte e, sin dal principio, lo stesso s'incentrò prevalentemente sui temi dell'istruzione, sui complessi rapporti tra scuola pubblica e scuola privata e sul tema spinoso della libertà d'insegnamento.
La materia culturale diventava un indiscusso argomento di interesse nazionale, come emerso anche recentemente nella sentenza C. cost., 21.2.2017, n. 42 sull'uso della lingua italiana nell'insegnamento universitario.
La Costituzione repubblicana enuclea due principi che si erano andati formando nelle epoche precedenti: quello della libertà d'insegnamento, maturato nell'epoca liberale, e quello della libertà della scuola. Proprio per questo la Carta fondamentale in tale tratto appare, per alcuni versi, una formulazione statica, non del tutto idonea a supportare ab initio, se non attraverso una lettura sinottica del dato costituzionale, quelle che appariranno come le nuove prospettive dello Stato di cultura, riconducibile come vero e proprio principio all’art. 9 Cost. e che si affermeranno solo a partire dagli anni ‘90.
Dal co. 1 dell'art. 33 Cost. si evincono essenzialmente due libertà costituzionalmente garantite: la libertà della scienza e dell'arte e la libertà d'insegnamento, che devono essere considerate nel senso più ampio e anche in rapporto speculare ovvero in reciproco ed inevitabile collegamento.
L’arte rappresenta, in particolare, un momento di esaltazione di quei valori e di quei contenuti capaci di documentare un’epoca, una cultura, uno stile di vita, lo stesso sviluppo della civiltà.
La scienza è un bene essenziale per l’uomo: entrambe sono manifestazioni tipicamente culturali, espressioni del principio fondamentale di cui all’art. 9 Cost., per cui la loro tutela si estrinseca in differenti situazioni soggettive con una diversità degli oggetti di riferimento.
D'altronde, secondo la dottrina prevalente non si possono estendere alla libertà dell'arte e della scienza i limiti previsti dall'art. 21 Cost.; anche se tale affermazione deve raccordarsi con i soggetti destinatari di tali attività. A sostegno della tesi del bilanciamento si esprime la stessa Corte Costituzionale precisando che la libertà dell'arte e della scienza non può considerarsi tutelata fino al punto di pregiudicare altri interessi costituzionalmente garantiti. Tra l’altro, l'art. 33 Cost. non avrebbe ad oggetto la diffusione delle creazioni artistiche e scientifiche, in quanto ri-comprese nell'art. 21 Cost. Altro contributo fondamentale in materia di scienza e insegnamento si evince dal dibattito avutosi nella giuspubblicistica tedesca. Anche in tale prospettiva di diritto comparato, la particolare funzione dei diritti fondamentali all’istruzione, alla ricerca e all’insegnamento non può essere disgiunta dal soddisfacimento delle altre esigenze della comunità. Probabilmente la soluzione più appropriata deve essere ricercata nel giusto equilibrio fra diritti fondamentali di questo tipo e compiti generali dello Stato contemporaneo, considerando che diritto allo studio, ricerca e insegnamento sono momenti alti di quello che viene definito Stato sociale di diritto ovvero, in una prospettiva di evoluzione ordinamentale, lo Stato sociale dei nuovi diritti (e doveri). D’altronde, in Germania, l’insegnamento come complemento e completamento della ricerca, nello spirito humboldtiano, è un veicolo di diffusione dei risultati scientifici raggiunti dai docenti nella piena libertà e nel rispetto della stessa libertà della scienza. Ritornando all’esperienza italiana la dottrina concorda nel ritenere l'insegnamento come quell'attività di trasmissione del sapere volta alla promozione dello sviluppo e della ricerca scientifica. Anche per questo tipo di libertà si devono tracciare dei limiti, per cui è opportuno distinguere la problematica in relazione ai rapporti tra docenti e allievi. Tale rapporto docente-allievi implica un profilo di responsabilità che discende dal vincolo educativo che si instaura in virtù del diritto-dovere del docente di partecipare attraverso l'insegnamento al progresso materiale e spirituale della società. L'insegnamento deve essere garantito dallo Stato in una prospettiva pluralista, derivante dalla garanzia della coesistenza tra strutture pubbliche e strutture private. Nondimeno l’insegnamento è una attività professionale diretta a produrre istruzione, è una tipica libertà professionale da tutelarsi come la più intellettuale delle professioni. Appare, tuttavia, indubbio che l’avvento dello Stato sociale di diritto abbia comportato un ruolo penetrante dei pubblici poteri nella sfera della cultura. La consapevolezza che il nostro Costituente ebbe del rilievo di questo fenomeno è rispecchiata dall’inserimento nella Carta Costituzionale del 1948 di plurime disposizioni attinenti al fattore culturale ex artt. 9, 33 e 34 Cost. Dalla lettura piana di questi articoli si desume il ruolo centrale della Res publica nella promozione, tutela, normazione e istituzione della cultura, della ricerca scientifica, dell’insegnamento. Vale sottolineare, tuttavia, il cambiamento di prospettiva e la rilettura del termine Repubblica che assume nel tempo e nello spazio delle riforme un significato univoco, ordinamentale, pluralista e sussidiario. Sono proprio quelle norme generali invocate per configurare lo Stato-persona a confutare questa nuova impostazione, molto timida nel dato dottrinario. Conseguenza notevole di ciò è che le norme generali sull’istruzione sono espressione di una riserva di legge non tanto di carattere assoluto ma di segno relativo e/o di normazione in senso autonomistico.
L'art. 33, co. 2, Cost., meglio specificato nell’art. 34 Cost., sembra, a primo acchitto, sganciato dalla logica del primo e sesto comma. Esso riconosce alla Repubblica il compito di dettare le norme generali sull'istruzione e di istituire scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Infatti, nel successivo art. 34, co. 1, Cost. si connota propriamente il dictamen dell’eguaglianza nella «scuola aperta a tutti», facendo carico allo Stato non solo di dettare la disciplina normativa in tema di istruzione, ma anche di creare, organizzare e gestire un sistema completo e compiuto, per ogni ordine e grado. In materia scolastica, dunque, allo Stato compete sia una funzione normativa di principio sia una funzione di realizzazione degli obiettivi generali. La natura doverosa dell'istruzione pubblica è stata interpretata non solo nel senso di vietare allo Stato di abbandonare l'istruzione completamente ai privati, ma anche nel senso di imporre ad esso l'obbligo di mettere in piedi un'organizzazione capace di accogliere tutta la popolazione in età scolare, senza che una parte di essa sia costretta a frequentare scuole private non per libera scelta, ma per carenza di strutture statali. Vale ribadire che in dottrina è pacifico che l'espressione “Repubblica” debba essere ridefinita alla luce della l. cost. 18.10.2001, n. 3, in virtù della quale si è affermata una nuova articolazione policentrica, con l'attribuzione di significative competenze in materia di istruzione alle autonomie territoriali; esse hanno rimesso in discussione l'interpretazione tradizionale a vantaggio di una nozione più estesa e comprensiva di Repubblica sul modello di altre esperienze comparate e delle disposizioni che governano il sistema del diritto comunitario europeo sempre più ancorato al rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità. Sicuramente non si usa mettere in discussione il ruolo dello Stato (parte determinante della Repubblica) impegnato nella istituzione di scuole in tutti gli ordini e gradi e nella garanzia, nella formazione culturale, di quella prospettiva laica chiaramente enunciata negli artt. 7 e 8 Cost., particolarmente sentita nel recente dibattito, in una ottica multiculturale, multilivello e globale. La presenza dello Stato, di concerto con le autonomie, pubbliche e private, è preconizzata all'effettiva garanzia del pluralismo nelle sue diverse accezioni ed intesa, soprattutto, quale possibilità di scelta tra una formazione culturale pubblica e/o privata, fasi che possono addirittura intersecarsi nel percorso dello studente. Tra l’altro le innovazioni territoriali prendono avvio a Costituzione invariata con la l. 15.3.1997, n. 59, che valorizza le autonomie locali e il rafforzamento dell'autonomia funzionale-culturale con l'intento di smantellare l'assetto burocratico e centralizzato dell'istruzione. In particolare, poi, con la nuova formulazione dell’art. 117 Cost., fatte salve le norme statali generali, il tema dell’istruzione ricade, sempre più, nella competenza delle Regioni. Con l'autonomia culturale si realizza un nuovo modello di organizzazione in virtù del quale la libertà di insegnamento dei docenti, sia nella scuola pubblica che in quella privata, finisce per vedere ridimensionata la propria connotazione individuale e accentuata la propria funzionalizzazione a fini collettivi in ragione della necessità di coordinarsi con lo specifico progetto formativo elaborato da ciascuna scuola.
4. Il carattere non esclusivo dell'insegnamento statale
Il principio del pluralismo culturale si concretizza, altresì, nell'art. 33, co. 3, Cost., che riconosce ai privati il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza oneri per lo Stato, facendo venir meno il monopolio pubblico nel campo dell'istruzione. La libertà della scuola può assumere, dunque, due significati distinti seppur tra loro connessi: in primo luogo, essa sta a significare la libertà per i soggetti privati di istituire e gestire scuole diverse da quelle statali; in secondo luogo, indica anche la libertà per gli utenti di scegliere una scuola diversa da quella statale. A tal proposito non sono mancate interpretazioni circa il rapporto pubblico-privato nel sistema dell'istruzione alla luce delle più recenti riforme costituzionali e legislative. Il perdurante primato della scuola statale viene giustificato con il carattere doveroso dell'intervento pubblico e per dirla con le parole del Calamandrei: «la scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius». Alla luce dell'ultimo inciso dell'art. 33, co. 3, Cost., si riscontra una questione di particolare interesse in merito al finanziamento pubblico alle scuole private. Molte ed aspre sono state le dispute interpretative intorno all'inciso «senza oneri per lo Stato» e la riflessione sul tema del finanziamento pubblico alla scuola privata ha fortemente risentito di condizionamenti ideologici e radicali contrapposizioni politiche. I tentativi più o meno diretti di superamento del divieto costituzionale di finanziamento pubblico alla scuola privata, di recente vistosamente aumentati, hanno imboccato essenzialmente due strade: la prima ha visto protagoniste le Regioni che, attraverso l'esercizio delle competenze riconosciute dal d.lgs. 31.3.1998, n. 112, hanno provveduto ad erogare contributi alle scuole non statali; la seconda, al fine di incentivare il diritto allo studio, ha riconosciuto provvidenze economiche statali a favore non direttamente delle scuole ma degli studenti delle scuole paritarie. In tale prospettiva, già le leggi sulla parità scolastica l. 10.3.2000, n. 62 e la successiva l. 27.12.2002, n. 289 hanno posto il tema del finanziamento della scuola privata in termini nuovi, avendo esplicitamente previsto, nell'ottica di una costruzione di uno statuto generale della scuola pubblica, l'erogazione di contributi mediante borse di studio a favore degli iscritti alle scuole rientranti nel sistema nazionale dell'istruzione. Già con la stessa l. n. 62/2000 si è data attuazione al co. 4 dell’art. 33 Cost., rimasto a lungo nel limbo, laddove si è provveduto a dare alle scuole private parità scolastica con le scuole statali e le scuole pubbliche non statali. In questa logica di integrazione tra pubblico e privato e di garanzia della qualità dell'istruzione, come servizio oggettivamente pubblico, si giustifica la relazione tra riconoscimento della parità e possesso di taluni imprescindibili requisiti necessari ad assicurare alla collettività che il servizio pubblico reso dalle scuole paritarie è, sotto il profilo qualitativo, comparabilmente adeguato a quello prestato dalle scuole private. Aspetto rilevante è anche quello contenuto nel co. 5 dell'art. 33 Cost. ove si afferma l'obbligatorietà dell'esame di Stato. In merito, la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che la disciplina dell'istituto in esame resti affidata alla discrezionalità del legislatore statale e ha escluso che l'art. 33, co. 5, Cost., abbia posto una riserva di legge in ordine alla determinazione delle prove di esame, che si configura inevitabilmente come un momento di ritorno al controllo e di unità, pur nella diversità dei percorsi e delle opzioni culturali attivate.
Il co. 6 dell’art. 33 Cost. mette in risalto l'università e l'autonomia in virtù della libertà e del pluralismo di cui essa gode. L’autonomia universitaria è uno strumento di garanzia indispensabile delle libertà culturali, che sono diritti inviolabili ex art. 2 Cost., esercitati nell’ambito di formazioni sociali a rilevanza costituzionale. Appare, infatti, indubbio che l’Università quale comunità di docenti e discenti può essere inclusa fra le formazioni sociali. La dottrina è concorde nel ritenere che l’autonomia universitaria non è da considerarsi complessiva ed unitaria ma si determina come una caratteristica propria di ogni singola università: solo così si potrà sviluppare la competizione fra le sedi ed elevare il livello di produttività scientifica del sistema universitario italiano. In tale direzione l’autonomia universitaria diviene di tipo prevalentemente politico e molto simile a quella degli enti territoriali, finanche sul piano dei controlli. Il tratto distintivo delle istituzioni universitarie rispetto a quelle scolastiche si coglie, poi, nella connessione inscindibile tra attività di ricerca e attività di insegnamento. L’autonomia universitaria è intesa come garanzia della libertà dei docenti di porre in questione la scienza ricevuta, di ricercare nuove frontiere dello scibile, di trasmettere i risultati, di talché la libertà della scienza si inserisce nel processo formativo dell’individuo. Il senso del riconoscimento dell’autonomia universitaria è chiaro: garantire una libertà di pensiero critico del docente nei cui confronti anche il ruolo dei discenti è ben definito, perché essi sono i destinatari di un insegnamento che è, ad un tempo, metodo e contenuti. Questa autonomia si realizza attraverso una università che non è una semplice articolazione burocratica del potere centrale ma una struttura indipendente, una corporazione di docenti e discenti, una sorta di organizzazione autocefala. Oggi, quindi, ri-appare indiscutibile il diritto dell’università di disciplinare autonomamente con propri statuti le materie cd. universitarie sia sul piano amministrativo sia sul piano dell’organizzazione della ricerca e dell’insegnamento. Si auspica, pertanto, quanto meno un’ampia libertà nella scelta degli impieghi dei modesti fondi disponibili sulla base di parametri coerenti con gli interessi della ricerca e dell’insegnamento.
Sul piano generale, infatti, la crisi attuale delle università italiane è soprattutto finanziaria, legata al vecchio problema del «vincolo di destinazione», ma anche fisiologica, connessa ai mutamenti sociali e al cd. merito abusato.
Naturalmente la crisi può tradursi in un fatto patologico se il cambiamento viene reso difficile o addirittura bloccato. Nell'art. 33 della Costituzione è stabilito che «le università […] hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalla legge dello Stato». Siamo in presenza di una dichiarazione di sommo principio che ha ancora bisogno di essere tradotta in disposizioni e procedure coerenti a livello statutario e regolamentare, visto che l'autonomia dell'Università prevista dalla l. 9.5.1989, n. 168 non si è rivelata un dato abbastanza consolidato. La sua importanza può essere argomentata anche in funzioni di comparazioni storiche: lo Statuto Albertino non parlava né di autonomia, né di università, né di istruzione, né di scuola, rinviando ogni decisione su questi argomenti direttamente alle leggi. Ovviamente la dichiarazione di principio va soppesata in tutti i suoi aspetti; il diritto che le Università hanno è di darsi, non di ricevere, ordinamenti autonomi. Si tratta, quindi, di una tematica complessa, oggetto di varie leggi che hanno travasato e profuso i loro effetti l'una nell'altra, dalla legge Casati del 1859 alla legge Gentile del 1923, dal T.U. del 1933 alla legge sulla liberalizzazione dei piani di studio del 1969, dal d.l. 1.101973, n. 580 convertito nella l. 30.11.1973, n. 766 alla l. 21.02.1980, n. 28, dal D.P.R. 11.07.80 n. 382 e dalla l. 11.07.1980, n. 312 alla legge, finalmente, n. 168/89 e s.m.i., istitutiva del MIUR, con la quale viene definitivamente stabilito che le Università, dotate di personalità giuridica, hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile e si danno ordinamenti autonomi solo ed esclusivamente con propri Statuti e Regolamenti. Un insieme di elementi di continuità percorre, dunque, la storia dell'Università in Italia sino ad oggi.
Questi elementi possono essere sommariamente indicati nel modo seguente:
a) La maggior parte dei comportamenti dell'Università deve essere regolata solo dalla legge generale. Di conseguenza, più l'Università si è fatta complessa nelle dimensioni quantitative e qualitative e nell'organizzazione delle attività sue proprie, maggiore e più complesso diviene l'intervento della legge generale. Anche il cambiamento delle norme che, se rilevante, prende il nome di riforma, deve essere posto in essere per legge.
b) Poiché l'Università è regolata dalla legge generale e/o quadro e adempie a funzioni di interesse pubblico, essa deve essere sottoposta al controllo e alla vigilanza dello Stato, tramite il Ministero. Tale controllo è avvenuto fino ad oggi almeno in due modi: uno di essi è costituito dall'attribuire al Ministero il potere di interpretare e applicare le norme legislative, l'altro è consistito nel più sottile potere di indurre comportamenti e atteggiamenti di subordinazione in coloro che avrebbero avuto, invece, interesse a difendere l'autonomia dell'istituzione. Tutto questo ha portato alla decisione storica dell'istituzione del MIUR, con la l. n.168/89 e s.m.i., da considerarsi una legge quadro per la rinnovanda realtà universitaria italiana, ancora oggi in crisi. Una legge quadro che prevede e rinvia, di fatto, il coordinamento dei restanti finanziamenti ad un nuovo Testo Unico, indicando quali siano le competenze dei diversi livelli di governo dell'Università. Naturalmente vi è da aggiungere che una delegificazione e/o un decentramento autonomico delle decisioni, richiede forme di partecipazione e di coinvolgimento molto ampie: insomma, sia a livello nazionale che a livello locale si vanno aprendo occasioni configurabili come vere e proprie “costituenti” universitarie.
Nella nostra Costituzione non è casuale che l'Università goda di una particolare e specifica attenzione rispetto all'intero comparto dell'istruzione, in quanto le sue connotazioni di libertà e di autonomia non potevano e non possono schiacciarla su realtà scolastiche alle quali non compete l'elaborazione scientifica del sapere, quanto piuttosto la trasmissione, in termini informativi e formativi, di contenuti culturali, sebbene problematizzati e pedagogicamente sperimentati e/o semplessi. Infatti, l'Università ascrive statutariamente tra i suoi fini primari la ricerca scientifica: la stessa attività didattica espletata nelle strutture universitarie si interconnette, nello spirito humboldtiano, con la ricerca, di cui rappresenta l'essenziale corollario. Rimane a questo punto da sottolineare perché, alla peculiarità istituzionale sancita dalla Costituzione e dalla specificità dei fini assegnati all'Università, sia stato mantenuto più volte l'accorpamento delle due realtà nell’unico Ministero. La risposta è storica e ideologica insieme: il passaggio dal modello corporativo e privatistico a quello statale e pubblico dell'Università che, specialmente dopo l'unità d'Italia, ha esaltato la funzione dello Stato nel dirigere e ordinare l'insegnamento superiore. Quando nell'Università l'ambito della ricerca ha assunto sempre più rilevante spessore e non si è più coniugato con le esigenze formative del sistema scolastico, allora sono emerse le sue anomalie nell'inserimento entro una struttura ministeriale monolitica, asfissiante e totalizzante. Di recente, infatti, si è tornati ad una struttura unitaria di governo del sistema universitario attraverso il MIUR. Da parte sua l'Università ha tentato di scrollarsi di dosso “la camicia di Nesso” di un ordinamento rigido e burocratico e di guadagnarsi ambiti di autonomia sempre più consistenti capaci di far fronte all'articolata e composita organizzazione della scienza e della ricerca. Sul punto, la Corte Costituzionale pronunciandosi su tale materia ha affermato che non basta perché una scuola attinga a livello universitario che vi siano impartiti, sia pure da professori universitari, insegnamenti a fini professionali, ma occorre che vi venga svolta la ricerca scientifica e inoltre aggiunge che sono due e inscindibili i compiti istituzionali dell'università: l'attività didattica e quella scientifica. L'autonomia universitaria richiamata all'art. 33, co. 6, Cost. trova ragion d'essere nel raggiungimento della più ampia e convinta promozione culturale, della libertà di ricerca scientifica e di insegnamento artistico e scientifico, riconnettendosi alla libertà del co. 1 del medesimo articolo. L'autonomia universitaria si traduce nel diritto di ogni singola università a governarsi liberamente attraverso un proprio ordinamento, con precisi ambiti statutari e regolamentari e organi liberamente scelti; a questo proposito in dottrina si è sottolineato come la potestà di auto-ordinamento rappresenti la manifestazione più rilevante dell'autonomia. Dunque, si tratta di autonomia, innanzitutto, normativa che vanta natura giuridica pubblicistica non dissimile dall'autonomia degli enti pubblici (in particolare dagli enti territoriali) e rilevanza esterna nell'ordinamento generale. L'autonomia universitaria può definirsi esterna in virtù del rapporto con lo Stato e con gli altri Enti, interna per quanto attiene al rapporto organizzativo nella stessa realizzato. La Corte Costituzionale, entrando ancora una volta nel merito della natura della riserva contenuta nel co. 6 dell’art. 33 Cost., ha dichiarato che l'intera materia non deve avere essenzialmente un contenuto disciplinato dalla legge, ma che quest'ultimo può essere legittimamente integrato dalla normativa, per alcuni versi, secondaria; la Consulta ha definito tale riserva aperta, anche in riferimento agli atti normativi europei. Il legislatore statale in tale ricostruzione deve limitarsi a delimitare il contenuto esterno dell'autonomia universitaria. I poteri contenuti nell'autonomia universitaria debbono conciliarsi con la libertà d'insegnamento dei singoli docenti a cui deve essere garantita la titolarità e l'inamovibilità della cattedra da essi occupata. Postilla finale, ma non marginale, è il richiamo a ordinamenti sopranazionali e comparati ove si esprime con fermezza e chiarezza che il sistema delle libertà, richiamato dall’art. 33 della Costituzione italiana, è un principio cardine anche nel panorama europeo ed internazionale.
Artt. 9, 21, 33, 34 e 117 Cost.; Art. 16, l. 09.05.1989, n. 168; l. 15.03.1997, n. 59; d.lgs. 13.03.1998, n. 112; l. 10.02.2000, n. 30; l. 19.01.2001, n. 3; l. 27.12.2002, n. 289; l. 28.03.2003, n. 53; l. 04.11.2005, n. 230, l. 16.1.2006, n. 18, l. 24.11.2006, n. 286, l. 9.1.2009, n. 1, l. 30.12.2010, n. 240; dlgs 14.3.2013, n. 33, l. 13.7.2015, n. 107, l. 26.5.2016, n. 89
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