Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La tradizione scolastica prosegue durante tutto il Seicento. I luoghi in cui si sviluppa sono principalmente le università, sia dell’Europa cattolica, in particolare spagnola e portoghese, sia del Nord Europa (si può infatti parlare di una scolastica luterana e calvinista). L’oggetto di studio di tale tradizione sono i testi di Aristotele, in particolare la Metafisica. Animano il dibattito scolastico le controversie teologiche, soprattutto all’interno del mondo cattolico, tra gesuiti e domenicani.
Nel Seicento, la grande corrente di pensiero sorta in Spagna negli anni del concilio di Trento e diffusasi in tutta Europa grazie all’opera dei gesuiti, la cosiddetta “seconda scolastica”, perde molta della sua forza teorica teoretica e, come si è potuto leggere nel capitolo dedicato in quest’opera alla tradizione del sapere universitario, si riproduce quasi esclusivamente nell’insegnamento nelle università. In tal senso, essa si sviluppa in particolare nelle facoltà di teologia delle università cattoliche spagnole, portoghesi e italiane, come Alcalá, Coimbra e Padova e, in Belgio, a Lovanio. Inoltre lo stesso fenomeno si verifica nelle facoltà di filosofia e talvolta anche di medicina delle grandi università dominate dalla Riforma: Altdorf, Basilea e Heidelberg, e, in Olanda, Leida e Haarlem, per quanto concerne quelle calviniste; Wittenberg, Helmstedt e Rostock per quelle a orientamento luterano.
Oggetto principale di studio è il pensiero aristotelico e segnatamente la Metafisica. In particolare, gli scolastici del Nord Europa sono più attenti a studiare e depurare le incongruenze della Metafisica di Aristotele nei termini della teoria della scienza che si trova negli Analitici Secondi. Ma non è tutto: in Italia, a Padova, e nel Nord Europa si studiano anche le opere scientifiche e l’Etica Nicomachea. Importanti nozioni sul curriculum universitario di uno studente del Seicento si trovano nelle Directions for a Student in the Universities, una “guida dello studente” che circola a Cambridge a partire dalla metà del secolo. È fondamentale, e consigliato anche dalla Ratio studiorum dei gesuiti, sapere alla perfezione le lingue antiche e in particolare il latino classico.
Va da sé che uno studente deve conoscere perfettamente le opere di Aristotele (in greco s’intende); infine, è ritenuta buona cosa anche conoscere l’opera di Tommaso d’Aquino e munirsi di buoni commenti contemporanei. Questi acquistano sempre più rilievo e subiscono un’evoluzione che li porta a divenire il testo base dell’insegnamento universitario. Ed è interessante notare che la scuola degli oratoriani, dove insegna Malebranche, è invece organizzata sullo studio di alcune discipline fondanti come la storia, la geografia e la matematica: la partita tra visioni del mondo alternative, si gioca anche, se non soprattutto, a partire dalla trasmissione del sapere.
Rispetto alle teologie medievali, e in particolare rispetto al XIV secolo, gli scolastici del Seicento non si occupano di problemi di fondazione della teologia. Non ci si chiede più se la teologia sia una scienza, se sia pratica e divisa dalla metafisica e quali siano i suoi oggetti. I testi dei maestri del XIV secolo continuano tuttavia a essere stampati e a circolare nelle biblioteche: le discussioni cartesiane sulla certezza esistenziale, il “Dio ingannatore” e il “genio maligno” sollevano problemi attuali ma che, come ha mostrato Tullio Gregory, risalgono anche a Gregorio da Rimini, Gabriel Biel e al movimento ockhamista del XIV secolo. Tuttavia, i protagonisti della tradizione scolastica del XVII secolo preferiscono concentrare i propri studi sulla metafisica. Essa per Aristotele è insieme scienza dell’essere in quanto tale, scienza dei principi delle scienze particolari i cui oggetti non sono soggetti a mutamento e, quindi, anche scienza divina: infatti la divinità è eterna e immutabile. Questa idea della divinità viene esaminata nelle sue possibili interrelazioni con il concetto cristiano di Dio, creatore del mondo in seguito a un atto di libera volontà: si introduce in questo modo l’idea della possibilità e della dinamicità della creazione all’interno del modello statico di Aristotele.
Gli scolastici cattolici affrontano questo problema secondo due aspetti che possiamo considerare classici: 1) da un punto di vista conoscitivo, ci si interroga su come sia possibile dire e conoscere l’essere partendo dalle creature e 2) da un punto di vista ontologico ci si chiede, invece, posto che in Dio le creature coincidono necessariamente, quale distinzione vi sia tra l’essenza e l’esistenza.
La fonte principale è Francisco Suárez (1548-1617) con le sue Disputazioni metafisiche. Un’opera innovativa che affronta la metafisica non più attraverso il commento ai testi aristotelici, ma secondo un metodo per problemi e questioni; queste sono di volta in volta risolte per essere poi ordinate in un quadro sistematico. Le Disputazioni costituiranno il modello per l’insegnamento universitario della metafisica fino al Settecento inoltrato. Per Suárez, l’essere è caratterizzato dalla possibilità di esistere e se ne può parlare grazie alla cosiddetta “analogia di attribuzione estrinseca”. L’analogia di proporzionalità, che Aristotele intende come un rapporto che lega tra loro quattro termini di cui il primo sta al secondo come il terzo sta al quarto, viene chiamata da un lato a risolvere il problema della conoscenza di Dio e della sua formulazione in termini umani: Dio sta ai suoi attributi come la creatura alle proprie qualità; d’altro lato, il campo d’applicazione fondamentale dell’analogia è quello dei cosiddetti “trascendentali”, cioè termini come “unità”, “bontà”, “verità” che esprimono quelle proprietà che si ritrovano in forma analoga in tutti i modi che l’essere può esprimere. La trascendenza del concetto di ente in questo contesto implica la sua inclusione in ogni altro concetto: “In primo luogo dico allora che al concetto formale di ente corrisponde un unico concetto oggettivo, adeguato e immediato, il quale non dice espressamente né la sostanza né l’accidente, né Dio né la creatura, ma tutte queste cose al modo di una sola, vale a dire in quanto sono in qualche modo simili tra di loro” (Disputazioni metafisiche, II, 2, 8). L’attribuzione indica che un termine può avere un significato diverso a seconda della sua attribuzione a questa o quell’altra realtà: per esempio, sia la medicina sia il colorito del volto (minora analogata) vengono detti “sani” perché hanno entrambi ordine e proporzione alla “salute” (princeps analogatum) che sola verifica il concetto in senso pieno. Il fatto di essere intrinseca, infine, riguarda uno stesso nome che viene attribuito a cose diverse in virtù del fatto che possiedono, seppur in forma diversa, una medesima realtà.
La via scelta da Suárez è quella più seguita dai cattolici che insistono molto sulla dottrina dei trascendentali e considerano la questione del rapporto tra Dio e le creature secondo la dottrina dell’essere e della sostanza. Essi si impegnano a cercare una posizione intermedia tra l’idea tomista della teologia come scienza e quella scotista secondo la quale la dottrina di Dio non è, a differenza della metafisica, una scienza teoretica in senso proprio, dovendo piuttosto muovere a fini pratici: la salvezza, l’agire morale ecc. Si cerca di mantenere un rapporto, se non di subordinazione, quantomeno di continuità tra la scienza dell’essere e la teologia. Nel contempo si tiene anche in conto la teoria di Giovanni Duns Scoto dell’univocità dell’ente. Duns Scoto (1265-1308), diventato nel 1633 l’autorità per eccellenza dei francescani, sostiene che il concetto di ente è univoco: se così non fosse, non sarebbe possibile attribuire alcun attributo a Dio risalendo per via causale dalle creature.
La metafisica cattolica mostra uno spiccato interesse per l’indagine sull’ente in quanto tale: il termine stesso “ontologia”, nonostante le origini greche della scienza che definisce, compare per la prima volta nel 1613, all’interno del Lexicon philosophicum di Goclenius. Il gesuita Pedro Hurtado de Mendoza (1579-1641) sostiene che l’ente è trascendente e che esso è identico e uniforme se considerato in modo astratto come un concetto, ma che tuttavia si “contrae” nelle varie differenze determinate dagli enti individuali: è proprio su questo rapporto che si regge l’analogia. Tuttavia esiste qualche collegamento tra le creature e Dio non basato su un rapporto analogico: il concetto di sostanza intellettuale si riferisce in modo univoco a Dio e alle creature. Per quanto riguarda, infine, la distinzione tra l’essenza e l’esistenza, essa è di tipo razionale: non si può pensare in alcun modo l’essenza separata dall’esistenza individuale nelle creature. Rodrigo de Arriaga (1592-1667), personaggio piuttosto noto nei dibattiti del tempo (è citato anche da Bayle nel suo Dizionario), arriva addirittura a sostenere che, per quanto riguarda la metafisica, la separazione dell’ente dalle creature è esclusivamente concettuale. Pertanto non ha senso discutere sull’analogia o sull’univocità: sono solo nomi diversi per la stessa cosa. Arriaga nega anche la trascendenza dell’ente e propende per la sua più completa univocità: tra l’ente e i suoi inferiori vi è la stessa univocità che tra il termine generico “animale” e le sue differenziazioni. Alcuni tomisti “radicali”, infine, sostengono la tesi che tra l’essere di Dio e l’essere delle creature vi sia un’analogia di proporzionalità. In altri termini, questo discorso non è incompatibile con il fatto che un nome possa essere attribuito a cose diverse in virtù di un loro rapporto, come nell’esempio che abbiamo visto sopra di “sano”. Ma, dato che il concetto analogico più pieno è Dio, le creature in rapporto al suo essere sono da considerare come dei non enti. Per quanto riguarda il rapporto tra essenza ed esistenza esse sono interpretate come due cose (res) ben distinte.
La tarda scolastica cattolica è attraversata dalle dispute dottrinali che vedono schierati su fronti opposti gesuiti e domenicani. La controversia più animata, che come abbiamo visto in questo stesso volume affonda le proprie radici negli scontri tra teologi protestanti e cattolici all’indomani del concilio di Trento (1545-1563), è quella sulla grazia divina e la libertà dell’uomo, in particolare tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento. Come ha ricostruito, tra gli altri interpreti, J. Schmutz, l’apparato concettuale, invece, attinge alle soluzioni della teologia tardo medievale, da Ockham a Giovanni Duns Scoto. I gesuiti mirano a difendere l’autonomia della ragione naturale e la sua continuità con il piano della grazia divina; posizione che suscita la reazione dei domenicani, orientati a sottolineare il ruolo autosufficiente della grazia di Dio nel determinare le azioni umane e la salvezza dell’anima.
La disputa sugli “aiuti divini” (de auxiliis) al libero agire dell’uomo si accende con la pubblicazione, nel 1588, della Concordia del libero arbitrio con il dono della Grazia, opera del gesuita Luis de Molina. Le questioni filosofiche che il testo solleva si possono così riassumere: la natura della prescienza e della libertà divina, le condizioni di possibilità della libertà umana e la compatibilità tra i due piani. Quella di Molina è una critica radicale alle tesi del teologo domenicano Domingo Báñez (1528-1604): questi sostiene che Dio è causa che muove direttamente la volontà umana a compiere una ben determinata azione; che il libero arbitrio umano è tale solo in relazione allo stato di indeterminatezza in cui l’uomo fa le proprie scelte, ma è totalmente necessitato in relazione alla prescienza divina; che quindi le due dimensioni sono perfettamente conciliabili perché non si dà libertà fuori dai decreti divini che consentono alla volontà umana di operare in autonomia (che è tale quindi non in senso assoluto ma solo in relazione al modus cognoscendi dell’uomo).
Nella Concordia Molina ribatte rifiutando l’intervento di Dio come motore unico di ogni atto umano, e parla dell’azione divina come causa cooperante agli atti liberi di volontà. Dio ha generato la volontà umana come capace di autodeterminazione: essa produce atti di volizione, di cui sarà poi Dio a determinare l’esistenza. Inoltre, la compatibilità tra la libertà dell’uomo e la prescienza divina è garantita dal fatto che, pur non causando da solo gli atti liberi della volontà umana, Dio ha in sé virtualmente tutte le scelte dell’uomo, ogni possibile scenario e complesso di situazioni, e può quindi prevederle con assoluta necessità senza che questo comporti una predestinazione per l’uomo che le compie.
Una posizione intermedia è quella di Francisco Suarez: Dio stabilisce a priori chi destinerà alla salvezza, ma la sua prescienza gli consente di conoscere le “grazie” (il complesso di circostanze necessarie) che consentiranno a quell’uomo di meritarla; decide così di renderle effettive, producendo di conseguenza la salvezza stessa ma secondo una modalità “congruente” alla libertà umana.
Infine si ricordano alcuni teologi, come Bartolomeo Mastri (1602-1673) e Giuseppe La Napola (1586-1649), i quali individuano la soluzione della controversia nel modello concordista di Duns Scoto, ed elaborano la formula nota come “dottrina dei decreti concomitanti”, oggi al centro di un rinnovato interesse storiografico grazie alle ricerche di Marco Forlivesi e Jean-Pierre Anfray. Secondo questa dottrina, nei decreti della volontà di Dio in merito alle azioni umane c’è sia la prescienza divina sia la collaborazione della libera volontà dell’uomo: questa è compresa nella libera volontà divina, che ha voluto crearla capace di autodeterminarsi, così che Dio, per conoscere e determinare le scelte umane, non deve far altro che “simularle” all’interno della propria volontà, dove tutte le possibili “combinazioni” sono contenute.
Sulla questione si pronuncia anche il cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), docente di controversie teologiche al Collegio romano. Nei suoi scritti egli raccomanda sempre di non perdere di vista il cuore del problema, cioè il legame necessario tra libertà umana e grazia divina; questo può essere tutelato solo superando il clima di contrapposizione radicale del dibattito in atto. L’atteggiamento di Bellarmino tradisce la preoccupazione delle istituzioni ecclesiastiche per una conflittualità che rischia di indebolire la posizione cattolica di fronte alle critiche del mondo protestante. La controversia dura infatti diversi anni. Báñez, appoggiato dai confratelli domenicani, accusa i molinisti di eresia e cerca di bloccare la pubblicazione dell’opera di Molina, senza peraltro riuscirci. Il gesuita, dall’altra parte, ritorce l’accusa di eresia contro l’avversario, bollando le sue tesi come calviniste e denunciandole all’Inquisizione. La nomina di una commissione (1597) per giudicare l’opera di Molina, invocata dai báñeziani, non risolve la questione. Nel 1607 Paolo V, convocati i ministri generali di gesuiti e domenicani, promette a breve una risoluzione dogmatica, che non arriverà mai: la disputa si trascina a lungo, arenandosi nella contrapposizione tra due posizioni inconciliabili, e tuttavia destinate a convivere nel quadro della dottrina cattolica. Viene sopita infine nel 1611, quando un editto dell’Inquisizione romana vieta la pubblicazione di testi in materia de auxiliis.
La tradizione delle dispute, lungi dallo scomparire definitivamente con il Seicento, è rimasta come una sorta di fiume carsico nella tradizione metafisica, in particolare nei Paesi a più forte impronta cattolica, come la Spagna, e non solo in ambito filosofico. Più estesamente, essa ha improntato di sé l’atmosfera culturale, in particolare nell’ambito del giudizio sull’azione morale. Basti pensare alla rappresentazione che ha saputo darne il genio visionario di Luis Buňuel, mettendone in scena il gioco delle parti, emblema di un inutile conformismo, nel duello a colpi di spada e sottigliezze logiche, tra il conte giansenista e il padre gesuita ne La via lattea (1969).
Anche nel Nord Europa si studia Aristotele nonostante le critiche di Lutero e Melantone. Vi sono molte influenze della metafisica cattolica: i due grandi blocchi, divisi da un punto di vista teologico, lo sono meno per quanto riguarda gli scambi teorici a livello accademico. Molti teologi luterani e calvinisti si formano in Italia; viceversa molti italiani si recano nel Nord esportandovi la tradizione e l’interpretazione in chiave di filosofia della natura dell’aristotelismo padovano. Lo studio della metafisica nella scolastica protestante si caratterizza per il tentativo di separare la scienza dell’essere in quanto tale (la metafisica) dalla scienza di Dio (la teologia). Mentre i luterani sono più cauti nel distinguere drasticamente le due discipline e tendono a vedere nell’ente reale l’oggetto della metafisica, i calvinisti prendono gli “intelligibili” come oggetto di studio e sono decisamente più rigidi nell’asserire l’eliminazione dalla metafisica di ogni concetto della teologia. Da più parti viene inoltre ripresa l’idea di Giovanni Duns Scoto che nega la possibilità di una conoscenza naturale di Dio e che per parlare della realtà immateriale aggiunge ai trascendentali le coppie atto/potenza, necessità/contingenza, finito/infinito.
Lo Scientiae metaphysicae compendiosum systema di Bartholomeus Keckermann è considerato il testo base per tutto lo sviluppo del movimento: la metafisica è articolata a partire dal rapporto sostanza /accidente (siamo pur sempre nel Seicento) piuttosto che da quello ente/differenziazioni. Clemens Timpler nel suo Metaphysicae systema methodicum definisce la metafisica come una ars contemplativa il cui oggetto è l’intelligibile che si conosce grazie a capacità naturali. Di qui Timpler muove per inserire anche il nulla (nihil) nella metafisica: l’intelligibile infatti può essere qualcosa (aliquid), che a sua volta si divide in essenza (essentia) ed ente (ens), o nulla. La dottrina dell’ente si fonda sulla coppia nihil-essentia.
Fondatore della scolastica luterana è considerato Cornelius Martini. Docente a Rostock, ritiene che lo studio della filosofia sia utile per la teologia: la conoscenza è la via che porta lo spirito alla gloria. La sua Metaphysica commentatio è incentrata sul fatto che la metafisica ha per oggetto l’ente reale: questo prova gli influssi del naturalismo e il carattere non interamente teologico del movimento metafisico tedesco. Johannes Scharf, professore a Wittenberg, propone di separare la scienza dell’ente e delle sue affezioni da quella di Dio: la scienza di Dio, degli angeli e dell’anima viene definita metafisica, mentre la metafisica in senso proprio, cioè la scienza dell’essere in quanto tale, dovrebbe chiamarsi Philosophia prima: anche se rientra nella teologia, il suo oggetto non sono i temi religiosi. Christian Scheibler riprende la trattazione propria della metafisica spagnola dei trascendentali aggiungendo all’unum, al bonum e al verum anche il perfectum. La cosa è di rilievo perché anche Spinoza nei Cogitata metaphysica riprenderà questa nozione.
In Olanda si ha una forte presenza scolastica sia calvinista sia cattolica. Il maggior centro calvinista è l’università di Leida; personaggio di maggior rilievo è Franck Burgersdijk, che riprende le idee già sostenute da Timpler: l’oggetto della metafisica è l’intelligibile e in essa rientra anche lo studio del nulla. La dottrina dell’analogia, che permette un rapporto tra la scienza dell’essere e la teologia a partire dalle creature, viene abbandonata e l’ente è studiato a partire dalla sua divisione in sostanza e accidente.
Il confronto tra la nuova filosofia cartesiana e la scolastica è in Olanda particolarmente vivace. La vicenda delle Meditazioni metafisiche di Cartesio è emblematica: le Meditazioni, infatti, sono concepite come un confronto con la metafisica scolastica. Caterus, autore delle Prime obiezioni all’opera cartesiana, è un perfetto esponente della scolastica olandese. La discussione tra il teologo olandese e il filosofo francese è un dialogo tra sordi. Caterus, leggendo il testo, non vede nessuna difficoltà nel riportare Cartesio a Tommaso, mentre il sistema cartesiano, basato sulla incommensurabilità del rapporto tra esperienza scientifica e metafisica pur senza negarne la possibilità, è l’opposto esatto del progetto scolastico che mira a tenere insieme le due discipline. Cartesio vuole ottenere l’approvazione dell’autorità alla sua metafisica che, per sua stessa ammissione, contiene gran parte della sua fisica. Si può interpretare questa circostanza come un escamotage o un’abile strategia dissimulatoria: un procedere cauto e reticente per infiltrare la propria filosofia nei luoghi dominati dallo strapotere degli accademici scolastici, attraverso l’esibizione di un falso “complesso di inferiorità”. Tra l’altro, è interessante notare come due visioni del mondo opposte vengano espresse con lo stesso linguaggio: Cartesio adotta la medesima terminologia degli scolastici imponendo ai termini dei significati completamente diversi (li invita a ragionare a rigor di logica, mentre ne rifiuta completamente la concezione della logica).
All’interno dell’insegnamento universitario gli studi di logica vertono principalmente sull’analisi filosofica del linguaggio; pochi sono gli sviluppi della logica formale. Per quanto riguarda le fonti, fermo restando che la base resta l’Organon, e in particolare gli Analitici di Aristotele, le grandi conquiste formali del XIV secolo vengono dimenticate o fraintese. Molto forte è invece l’influenza di Pierre de La Ramée.
Dinnanzi al problema di come trovare un fondamento alla logica, la maggior parte degli studiosi sostiene che essa si basa su concetti che si formano nell’intelletto: si sceglie quindi un’ipotesi “psicologistica”. Passa in secondo piano il problema di come i termini all’interno delle proposizioni rinviino alle cose e si privilegia invece il rapporto tra le parole e la comunicazione o la comprensione di concetti: le significationes. La maggior parte degli interpreti non distingue tra significazione e “supposizione” (suppositio). Secondo la tradizione logica medievale nella scolastica medievale la “supposizione” deve essere intesa come la funzione di sostituzione che un termine svolge, all’interno di una proposizione, rispetto a qualcosa d’altro: per esempio una o più cose nel mondo, un concetto, una parola.
Per i logici del Seicento, invece, la supposizione è solo l’uso di un nome per la cosa che il nome designa. In particolare, la “supposizione” viene ridotta a un tipo particolare di significazione: quella dei termini sostantivi. Ogni termine sostantivo “sta per” (supponit pro) il suo significato e ne permette la comprensione. Ciò avviene indipendentemente dalla sua verificazione e dal fatto che si trovi o meno in una proposizione.
Una interpretazione diversa è nella parte sulla logica del Cursus philosophicus thomisticus di Giovanni di San Tommaso, il più perspicace interprete della logica scolastica del XVII secolo. Il testo, per ammissione dell’autore stesso, vuole essere la più completa esposizione del pensiero di Tommaso d’Aquino. In realtà, almeno in logica, il suo pensiero mostra di provenire da diverse fonti. Se per questioni molto tecniche si notano alcune assonanze con le tematiche di Guglielmo di Ockham, la sua fonte principale è il pensiero di Giovanni Buridano.
Tra le questioni più significative si può menzionare la ripresa, da parte di Giovanni, della nozione di “supposizione naturale”. La “supposizione naturale”, che connota l’ambiente della tradizione logica parigina sin dal XIII secolo, è una proprietà che un termine possiede al di fuori di un contesto proposizionale. I termini acquisiscono, grazie alla significazione, la capacità naturale di stare per degli oggetti passati, presenti e futuri e questa funzione viene realizzata grazie alla “supposizione naturale”. La questione non è di poco conto: le proposizioni scientifiche, che riguardano verità eterne, appartengono al tipo preso in esame. Per esempio, proposizioni come “Pietro è un uomo” (dove Pietro è l’Apostolo) non sono verificate sulla base di entità sensibili, perché sarebbero sempre contingenti, ma grazie al fatto che l’esistenza a cui rinvia la copula è atemporale. In altre parole “Pietro” rinvia a Pietro inteso come un essere atemporale che era, è, sarà, essenzialmente un “uomo”.
Infine, il compito del logico: secondo il teologo inglese Robert Sanderson, egli deve chiarire le strutture del linguaggio quotidiano. L’analisi logica del linguaggio ordinario, infatti, permette di risalire, secondo un’idea già espressa da Buridano nel XIV secolo, alla struttura concettuale che sta dietro alla formulazione degli enunciati.