Libertà personale
Il momento della prima concretizzazione delle moderne garanzie a tutela della libertà personale può essere convenzionalmente individuato nell'epoca in cui le strutture feudali cominciano a essere incrinate dal sorgere della civiltà comunale ovvero dall'affermarsi di un potere centrale del re, in conseguenza dell'emergere di un ceto borghese o mercantile (v. Cerri, 1990). In questo contesto capita spesso che il sovrano riconosca ai suoi sudditi determinate garanzie contro il rischio di restrizioni arbitrarie (cioè sine lege e sine iudicio) della libertà, collocandole nel quadro di più generali guarentigie relative all'integrità della persona fisica e al rispetto della legalità (v. Amato, 1967, pp. 51 ss.; v. Mochi Onory, 1937, pp. 1 ss. e 167 ss.). Emblematica, al riguardo, appare la formula risultante dall'art. 39 della Magna Charta libertatum (nella versione del 1215), nel quale si proclama a chiare lettere il principio per cui "nullus liber homo capiatur vel imprisonetur [...] aut exuletur [...] nisi per legale iudicium parium suorum vel per legem terrae": con evidente riferimento, in particolare, sia a ogni forma di arresto o di detenzione ante iudicium, sia a ogni corrispondente forma di limitazione della libertà personale in esecuzione di una pena detentiva.
Come è stato opportunamente sottolineato, tra le molte figure di libertà tutelate già dalle carte feudali e dagli statuti comunali fino ai nostri giorni - passando attraverso la stagione dell'assolutismo e degli ordinamenti liberali - la libertà personale è quella che si caratterizza sia per la continuità ininterrotta della sua affermazione, sia per la tendenziale costanza delle formule normative impiegate allo scopo (v. Amato, 1967, p. 16). Mentre per altre figure di libertà l'esigenza della tutela risulta spesso collegata a circostanze contingenti, sicché essa sorge, o vien meno, in rapporto a determinate situazioni storiche o ambientali, questa stessa dimensione relativistica non trova riscontro per quanto attiene alla tutela della libertà personale.
Vero e proprio presupposto politico di ogni altra libertà civile, fin dall'affermarsi della concezione 'moderna' di queste libertà (fondata sull'esigenza di salvaguardare determinate sfere di autonomia individuale nei confronti dei pubblici poteri: v. Amato, 1967, p. 15), la libertà personale ha infatti rappresentato l'oggetto costante e prioritario di una garanzia il cui contenuto minimo si è tradizionalmente identificato nella tutela dagli arresti illegali. E, in questo quadro, un significato emblematico ha assunto l'istituto dell'habeas corpus, affermatosi fin dal XIII secolo nel sistema inglese (v. Maitland, 1974, pp. 219 ss. e 271 ss.; v. Street, 1982⁵, pp. 45 ss.), e successivamente sviluppatosi come procedura generalizzata di controllo, da parte di un giudice, circa la legittimità delle misure limitative della libertà personale (per ampi riferimenti storici v. Patanè, 1994, pp. 167 ss.).
Come è facile immaginare sono molto diverse, e difficilmente classificabili nella loro varietà, le situazioni che nell'arco dei secoli sono state ricondotte all'area di tutela della libertà personale. Non c'è dubbio, tuttavia, che in grande maggioranza esse attengano alla sfera di esercizio della giurisdizione penale, e coprano quindi l'intera gamma delle misure che, per usare il nostro linguaggio, individuano le categorie generali della pena detentiva e della carcerazione preventiva (quest'ultima in tutte le sue varianti e con tutti i suoi inasprimenti, ivi compresi gli strumenti coercitivi impiegati nelle varie epoche come funzionali alla pratica della tortura).
Sulla scia dell'illuminismo e delle rivoluzioni della fine del XVIII secolo, accompagnate dalle prime 'dichiarazioni dei diritti dell'uomo' (fondamentale quella francese del 1789), e soprattutto con il progressivo affermarsi degli ordinamenti liberali che in esse trovavano le loro radici, la libertà personale, insieme a un nucleo ristretto di altre libertà fondamentali, cominciò a ricevere riconoscimento e garanzia a livello costituzionale. Più precisamente, veniva enucleata la categoria dei 'diritti di libertà' riconosciuti ai cittadini di fronte agli organi dello Stato, i quali vedevano in tal modo circoscritta la loro potenziale capacità di interferenza nei riguardi degli stessi, essendo anzi tenuti a rispettare e a tutelare l'esercizio di tali diritti.
Con l'avvento dello Stato moderno i diritti di libertà, e primo fra essi il diritto alla libertà personale, risultano dunque garantiti anche nei confronti dello Stato, nel senso che ogni individuo (in quanto titolare di un diritto di libertà) può pretenderne ed esigerne il rispetto da parte delle pubbliche autorità (v. Crisafulli, 1950, pp. 13 ss.). Ne discende, quale ovvia conseguenza, che ogni diritto di libertà si configura come un limite giuridicamente obbligatorio rispetto all'estrinsecazione dei poteri di supremazia appartenenti allo Stato (v. Luchaire, 1987, pp. 75 ss.).
È questo lo scenario di fondo nel quale si colloca da oltre due secoli la disciplina costituzionalistica della libertà personale (per uno sguardo ai principali sistemi contemporanei v. Bailey e altri, 1980; v. Colliard, 1972; v. Fellman, 1972; v. Schneider, 1972; v. Street, 1972; v. Pradel, 1992), a parte le cadute di tutela sempre connaturate ai regimi autoritari e a quelli totalitari, che ancora oggi in diverse parti del mondo si reggono facendo leva proprio su fortissime limitazioni delle libertà individuali, ivi compreso il ricorso a forme più o meno mascherate di tortura (v. Amnesty International, 1994; v. Cassese, Umano-Disumano..., 1994; v. Shute e Hurley, 1994).
Una disciplina che si è sviluppata, naturalmente, sulla base di diverse articolazioni e lungo una traiettoria di progressivo affinamento degli strumenti di salvaguardia, al cui interno acquista risalto soprattutto il consolidarsi di due distinti livelli di garanzia: da un lato quello della riserva di legge, dall'altro lato quello della riserva di giurisdizione, in rapporto a ogni ipotesi di restrizione di tale libertà. Ciò significa che, per questa via, il problema della libertà personale cessa di essere semplicemente un problema di rapporti tra l'individuo e lo Stato, per investire, invece, anche la tematica dei rapporti tra i poteri dello Stato, sotto il profilo delle specifiche 'competenze' di ciascuno di essi in ordine alle fattispecie restrittive della medesima libertà (v. Caretti, 1994, p. 234).
Da un simile punto di vista la disciplina oggi recepita nell'ordinamento costituzionale italiano attraverso l'art. 13 della Costituzione riflette in modo emblematico (non solo in rapporto al vetusto art. 26 dello Statuto albertino, ma anche nel confronto con altre moderne carte costituzionali) questo itinerario di progressiva concretizzazione di distinte garanzie a tutela della libertà personale (v. Amato, 1977, pp. 1 ss.; v. Barbera, 1967, pp. 1 ss.). Meno chiaro è, invece - in assenza di precisi riferimenti normativi - quali siano gli esatti confini della nozione costituzionalistica di libertà personale, giacché, trattandosi di una tipica figura di 'libertà-situazione', la cui estrinsecazione non può farsi coincidere con l'esercizio di specifiche facoltà (v. Amato, 1977, p. 2; v. Caretti, 1994, p. 234), la definizione del suo ambito può apparire talora problematica, almeno in rapporto a determinati casi limite (v. Barile, 1984, p. 112).
Ciò non toglie che dal contesto dell'art. 13 della Costituzione sia possibile ricavare un complesso di ipotesi idonee a circoscrivere un nucleo certo di tutela indiscutibilmente ricollegabile alla garanzia della libertà personale, e non c'è dubbio che tale nucleo valga a individuare - almeno in prima approssimazione - una nozione piuttosto ristretta dell'oggetto della garanzia: da intendersi, dunque, fondamentalmente con riferimento alla libertà personale in senso fisico, cioè alla 'libertà dagli arresti' (v. Elia, 1962, pp. 29 ss.; v. Galeotti, 1953, p. 10; v. Pace, 1985, pp. 150 ss.), secondo il portato della tradizione storica, del resto tenuto ben presente nei lavori preparatori della Costituzione (v. Amato, 1977, p. 4; v. Pace, 1974, p. 295). E, d'altra parte, non è senza significato che il legislatore, nel delineare il catalogo delle libertà civili all'interno della carta costituzionale, dopo aver dettato in via prioritaria la disciplina della libertà personale, le abbia successivamente affiancato quella della libertà di domicilio (art. 14), della libertà di corrispondenza (art. 15), nonché della libertà di circolazione e di espatrio (art. 16): tutte fattispecie di libertà che, se non fossero state riconosciute e garantite in via autonoma, sarebbero state verosimilmente da ricondurre a una nozione lata di libertà personale, in quanto dirette a tutelare la persona lungo una serie di prospettive di sviluppo connaturate alle più elementari dimensioni della stessa (v. Caretti, 1994, p. 235).
Questa scelta sistematica di enucleazione e di specificazione nel testo costituzionale di singole figure di libertà attinenti alla persona, ma distinte dalla libertà personale, combinandosi con l'ulteriore cospicuo ventaglio di libertà tutelate nel medesimo contesto, in quanto più ampia proiezione della personalità individuale - dalla libertà di riunione (art. 17) e di associazione (art. 18) alla libertà religiosa (art. 19) e a quella di manifestazione del pensiero (art. 21) - viene in definitiva a confermare l'intenzione legislativa di riferire l'art. 13 soprattutto, se non esclusivamente, alla tutela della libertà personale intesa quale libertà da coercizioni fisiche o materiali (per un ampio inquadramento v. Pace, 1974, pp. 287 ss.; v. anche Cerri, 1990, pp. 3 ss.). Come dire, a parte l'ulteriore quesito circa la possibilità di estendere la relativa tutela anche al profilo della libertà morale (ad esempio in relazione agli obblighi e ai divieti implicati dalle cosiddette misure di pubblica sicurezza: v. Barile, 1966; v. Galizia, 1967; v. Grossi, 1962; v. Guarino, 1967), ovvero al profilo della dignità sociale (v. Barbera, 1967, pp. 52 ss. e 190 ss.; v. Mortati, 1960, pp. 683 ss.), che le situazioni e le vicende 'coperte' dalle garanzie dettate dall'art. 13 della Costituzione sono, in linea di massima, quelle legate alla fenomenologia del processo penale: dalla fase delle indagini della polizia giudiziaria e del pubblico ministero alla fase caratterizzata dall'intervento del giudice, fino a quella dell'esecuzione dell'eventuale condanna a una pena detentiva (per un'ampia sintesi v. Bresciani, 1993, pp. 443 ss. e 446).
L'architettura interna dell'art. 13 della Costituzione sintetizza bene, specialmente attraverso i primi tre commi, i diversi livelli di garanzia della libertà personale definiti dalla tradizione storica e oggi recepiti expressis verbis nell'ordinamento italiano. È ovvio, infatti, che le enunciazioni contenute nel testo costituzionale sono destinate a riflettersi su qualunque disciplina legislativa concernente la sfera della libertà personale, in quanto definiscono il modello di riferimento dal quale il legislatore non potrà discostarsi nel dettare condizioni e limiti delle misure volte a incidere su tale libertà (v. Amato, 1977, pp. 6 ss.; v. Caretti, 1994, pp. 234 ss.; v. Cerri, 1990, pp. 10 ss.; v. Pace, 1974, pp. 287 ss. e 303 ss.).
Da questo punto di vista la solenne proclamazione contenuta nell'art. 13, comma 1, per cui "la libertà personale è inviolabile", non corrisponde soltanto a una pur doverosa affermazione di principio (tanto più emblematica se rapportata a esperienze storico-politiche nelle quali il valore dell'inviolabilità non sempre ha ricevuto adeguata tutela), ma riveste altresì un preciso significato normativo da diversi punti di vista (v. Grossi, 1972; v. Riccio e altri, 1991, pp. 226 ss.). Anzitutto perché, ponendo in risalto il requisito dell'inviolabilità, essa definisce la regola, in materia di libertà personale, destinata a rimanere ferma ove non risulti espressamente derogata nelle forme previste dalla stessa Costituzione. In secondo luogo perché, grazie al ruolo cardine assunto da tale regola all'interno del sistema, e grazie all'evidente collegamento con la presunzione costituzionale di non colpevolezza (v. Illuminati, 1979), essa fonda anche un non equivoco canone di orientamento per gli organi chiamati a interpretare e applicare singole disposizioni di legge attinenti al tema della libertà personale: nel senso che, tutte le volte in cui possa esservi incertezza tra la salvaguardia della libertà e il suo sacrificio, debba necessariamente affermarsi il primato dell'inviolabilità, quale del resto risulta espresso dal brocardo di matrice garantistica in dubio pro libertate. In terzo luogo, infine, perché, con riferimento alle situazioni nelle quali la legge debba stabilire dei limiti alla naturale espansione della libertà personale, intesa come 'inviolabile', tali limiti dovranno ubbidire al criterio della stretta necessità, e quindi essere coerentemente disciplinati in linea con l'esigenza del 'sacrificio minimo' compatibile con la tutela degli altri valori ritenuti meritevoli di protezione (v. Chiavario, 1984³, pp. 299 ss.; v. Grevi, 1976, pp. 19 ss.; v. Pisani, 1974, pp. 3 ss.).
Rispetto al principio enunciato dal comma 1 dell'art. 13 della Costituzione, la disciplina contenuta nel comma 2 dello stesso articolo assume un'importanza fondamentale in quanto delinea l'ambito delle 'compressioni' che - stando al disegno costituzionale - la libertà personale può legittimamente subire, ovviamente in chiave derogatoria rispetto alla regola della sua inviolabilità. Ed è qui, per l'appunto, che il legislatore costituzionale, rivolgendosi anzitutto al legislatore ordinario per vincolarne la sfera di discrezionalità, sancisce le due più qualificanti garanzie a tutela della libertà personale, rappresentate dalla previsione della riserva di legge e della riserva di giurisdizione in rapporto a ogni atto limitativo di tale libertà.
Più precisamente, stabilendo in linea di principio, quale ovvio corollario del comma 1, che "non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale", ma subito dopo ammettendo la legittimità delle corrispondenti limitazioni in quanto operate "per atto motivato dell'autorità giudiziaria" e "nei soli casi e modi previsti dalla legge", il comma 2 dell'art. 13 della Costituzione definisce con chiarezza i presupposti in presenza dei quali soltanto può addivenirsi al sacrificio della suddetta libertà. Con l'ulteriore specificazione, per quanto riguarda l'area di incidenza della garanzia, che attraverso la formula di chiusura imperniata su "qualsiasi altra restrizione della libertà personale" (v. Amato, 1977, p. 51), lo stesso art. 13, comma 2, ha mostrato di voler andare al di là delle fattispecie precedentemente richiamate in via esemplificativa, con prevalente riferimento alla fenomenologia del procedimento penale (tali le ipotesi della "detenzione", nonché della "ispezione o perquisizione personale"). Anche se proprio il richiamo a queste fattispecie, manifestamente allusive a situazioni di sacrificio della libertà in senso fisico, denota bene quale sia stata la dimensione della tutela al centro dell'interesse del legislatore costituzionale (v. Caretti, 1994, p. 234).
Quanto al contenuto delle due predette garanzie, appare evidente come la riserva di legge prevista dall'art. 13, comma 2, miri anzitutto a escludere che le misure restrittive della libertà personale possano venire disposte se non trovino base in un atto legislativo formale, richiedendo inoltre l'individuazione ex lege dei "casi" e dei "modi" per l'adozione delle stesse. Il che significa che la legge non potrà limitarsi a prefigurare la tipologia di tali misure, ma dovrà definirne sia, da un canto, i presupposti e le finalità, sia, d'altro canto, le forme e le procedure strumentali ai relativi provvedimenti (v. Cerri, 1990, pp. 10 ss.). A quest'ultimo proposito è lo stesso comma 2 dell'art. 13 a stabilire uno specifico vincolo sul piano degli aspetti procedurali, in forza della ricordata riserva di giurisdizione, che viene così a innestarsi nell'ambito già coperto dalla riserva di legge. Ne discende che il legislatore, nel disciplinare i "modi" delle misure restrittive della libertà personale, sarà tenuto ad attribuire il corrispondente potere soltanto a un'"autorità giudiziaria" (rectius, a un organo giurisdizionale, sebbene la formula impiegata risulti estensibile anche agli organi del pubblico ministero) (v. Amato, 1967, p. 388; v. Galeotti, 1953, p. 99; v. Grevi, 1974, p. 343; v. Lozzi, 1965, p. 172; v. Pace, 1974, p. 310), per di più imponendo alla stessa autorità di emettere il conseguente provvedimento per iscritto, nella forma dell'"atto motivato". Alla garanzia della motivazione si riallaccia, poi, l'art. 111, comma 2, della Costituzione, là dove prescrive - in vista dell'esigenza di un controllo giurisdizionale sui provvedimenti in questione - che "contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge" (v. il quadro di sintesi tracciato da Barile, 1984, pp. 114 ss.).
È chiaro che, tra le misure restrittive della libertà personale cui devono applicarsi le garanzie previste dall'art. 13, comma 2, della Costituzione, le più importanti sono quelle di natura detentiva, sia che la detenzione venga disposta nei confronti dell'imputato durante il processo (nel qual caso l'art. 13, comma 5, parla di "carcerazione preventiva", ancorché al solo scopo di esigere la previsione legislativa di adeguati "limiti massimi"), sia che essa venga disposta in sede di esecuzione della pena. Nell'uno e nell'altro caso, tuttavia, la Carta costituzionale risulta avara di ulteriori riferimenti apprezzabili sul piano della tutela della libertà personale, soprattutto per quanto riguarda i fini delle corrispondenti misure restrittive: fini che, pure, investono un profilo di notevole importanza nella fisionomia sistematica delle stesse.Poco si dice, in proposito, circa le finalità proprie della pena detentiva e del sistema sanzionatorio in generale (v. Palazzo, 1985³), a parte l'indicazione tendenziale ricavabile dal comma 3 dell'art. 27 della Costituzione, per cui le pene "devono tendere alla rieducazione del condannato" (v. Dolcini, 1979), mentre nulla del genere risulta esplicitato circa le possibili finalità delle misure carcerarie cui può essere sottoposto l'imputato (e, al riguardo, non sono consentiti dubbi, di fronte all'art. 13, comma 5), per esigenze cautelari durante l'itinerario del processo. L'unico spunto offerto dal tessuto costituzionale per colmare questo vero e proprio 'vuoto dei fini' (v. Elia, 1962, pp. 23 ss., e 1964, p. 950; v. Riccio e altri, 1991, pp. 229 ss.) è quello desumibile dall'art. 27, comma 2, che nel proclamare la presunzione di non colpevolezza dell'imputato "sino alla condanna definitiva" (v. Illuminati, 1979) implicitamente esclude che l'imputato stesso possa venire sottoposto a custodia carceraria per una finalità di anticipazione della pena, o comunque in vista di esigenze che presuppongano già accertata la sua colpevolezza (v. Amato, 1967, p. 373; v. Amodio, 1967, pp. 862 ss.; v. Grevi, 1974, pp. 329 ss.; v. Pisani, 1974, pp. 7 ss.; v. Vassalli, 1978).
Anche per quanto concerne i contenuti e le modalità applicative delle misure incidenti sulla libertà personale la Costituzione non offre indicazioni specifiche, se si esclude la pur sintomatica previsione dell'art. 13, comma 4, dove si prescrive che venga "punita" (e quindi, a maggior ragione, bandita dal sistema) "ogni violenza fisica e morale" sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà (v. Barile, 1984, p. 113). Previsione sintomatica, al di là della sua apparente movenza retorica, in quanto espressiva della necessità di porre almeno un limite minimo invalicabile, in nome del rispetto dell'uomo detenuto, al carico di afflittività potenzialmente proprio di ogni misura restrittiva. Qui trova fondamento, tra l'altro, se pur ce ne fosse bisogno, il divieto di qualunque forma di tortura, ovvero di trattamento disumano o degradante, nei confronti delle persone a qualunque titolo detenute ante iudicium, come pure il divieto di ogni strumento diretto a eliminarne la libertà di autodeterminazione (v. Amato, 1977, pp. 26 ss.; v. Grevi, 1972, pp. 118 ss.; v. Vassalli, 1960, pp. 1642 ss.), mentre nei riguardi dei condannati definitivi queste stesse esigenze risultano esplicitamente soddisfatte dall'enunciazione del principio per cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità" (art. 27, comma 3).
Tornando alla garanzia della riserva di giurisdizione contemplata dal comma 2 dell'art. 13 della Costituzione, si deve subito aggiungere che essa, al contrario della riserva di legge, non ha carattere assoluto. Esistono situazioni, infatti, nelle quali - profilandosi l'esigenza di adottare al più presto una misura restrittiva della libertà personale, ad esempio durante o subito dopo la commissione di un grave delitto - non è realisticamente pensabile che ci sia il tempo per attendere l'intervento dell'autorità giudiziaria e il conseguente atto motivato, poiché tale attesa vanificherebbe il buon esito della misura. E appunto a situazioni del genere allude il comma 3 dell'art. 13 quando, derogando al disposto del comma precedente, ammette che "in casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge", il potere di adottare "provvedimenti provvisori" incidenti sulla libertà personale possa venire attribuito anche all'"autorità di pubblica sicurezza": espressione impropria, da intendersi come comprensiva di ogni autorità di polizia, ma difficilmente riferibile alle sole autorità di polizia giudiziaria (v. Grevi, 1974, p. 345; v. Pisani, 1974, p. 6).
Anche in queste ipotesi, tuttavia, affidate alla definizione del legislatore ordinario in virtù di una riserva di legge piuttosto rigorosa (tale, cioè, da imporgli la predeterminazione tassativa dei parametri della "necessità" e dell'"urgenza"), non viene del tutto meno la garanzia della riserva di giurisdizione. Anziché in via anticipata, essa finisce infatti per operare ex post rispetto all'intervento provvisorio dell'autorità di polizia, in quanto il medesimo art. 13, comma 3, prevede che i correlativi provvedimenti debbano venire comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria, affinché la stessa, ove ne ricorrano i presupposti, li convalidi (v. Cerri, 1990, p. 12; v. Pace, 1974, p. 310). Con la conseguenza che "se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto".
Ciò vuol dire che, in ogni caso, la restrizione della libertà personale provocata da un provvedimento di polizia non potrà protrarsi per una durata superiore alle novantasei ore, scadute le quali essa è destinata a perdere efficacia, a meno che la competente autorità giudiziaria - chiamata nel frattempo a un controllo sulla legittimità del provvedimento provvisorio - non decida di convalidarlo e di disporre la prosecuzione della misura restrittiva, in virtù di un proprio autonomo "atto motivato". E poiché tale procedura di convalida viene evidentemente a saldarsi con l'ordinario meccanismo di intervento dell'autorità giudiziaria previsto dal comma 2 dell'art. 13, ne deriva che nelle situazioni "eccezionali" ipotizzate dal successivo comma 3 la garanzia della riserva di giurisdizione non risulta pretermessa, ma soltanto differita per un arco temporale equivalente, al massimo, a novantasei ore (v. Barile, 1984, p. 118).
Si tratta di un prezzo tutto sommato ragionevole ai fini di un equilibrato contemperamento tra le esigenze di tutela della libertà personale e le esigenze di "necessità e urgenza" di cui la stessa Carta costituzionale non poteva non farsi carico. È intuitivo, infatti, al di là delle dispute sull'ammissibilità di provvedimenti di polizia aventi esclusiva finalità di prevenzione - come il cosiddetto fermo di sicurezza (v. Amato, 1967, p. 397; v. Pace, 1974, p. 311) -, che entro i confini tracciati dall'art. 13, comma 3, debbano ricondursi in primo luogo i provvedimenti urgenti di polizia giudiziaria post delictum, soprattutto quelli legati alla flagranza del reato e al pericolo di fuga della persona indiziata. E non c'è dubbio che, di fronte a ipotesi del genere, dovesse trovarsi una soluzione a livello costituzionale, anche in deroga (sia pure temporanea), rispetto alla garanzia della riserva di giurisdizione.
I principî sanciti nell'art. 13 della Costituzione hanno trovato puntuale traduzione nella legislazione ordinaria italiana, in particolare con riferimento al settore del diritto e della procedura penale, anche se non va trascurata la tematica delle misure di prevenzione applicabili nei confronti dei soggetti socialmente pericolosi, alcune delle quali volte a incidere in modo sensibile (si pensi alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno) sulla libertà degli stessi soggetti. Proprio perciò il sistema delle misure di prevenzione, quale risulta da una complessa stratificazione di leggi (dalla legge 27 dicembre 1956, n. 1423, e successive modificazioni, fino alla legge 19 marzo 1990, n. 55), prevede come punto fermo che le più gravose tra le suddette misure vengano applicate dal tribunale, a seguito di un procedimento giurisdizionale caratterizzato dal principio del contraddittorio (v. Miletto, 1994, pp. 126 ss.). Sotto questo profilo, dunque, siamo nel pieno rispetto del disposto dell'art. 13, comma 2, mentre più delicati sono i problemi legati all'esigenza di una precisa determinazione legislativa dei destinatari di tali provvedimenti e dei relativi "casi", trattandosi per loro natura di fattispecie di pericolosità ante delictum, quindi difficilmente ancorabili a elementi di tipo oggettivo (v. Amato, 1977, p. 49; v. Barbera, 1967, p. 226; v. Barile, 1984, p. 144; v. Bricola, 1974, pp. 351 ss.; v. Elia, 1962; v. Caretti, 1994, p. 247; v. Fiandaca, 1994, pp. 111 ss.).
Passando all'ambito più propriamente penalistico, nessuna particolare questione sorge, dal punto di vista della cornice costituzionale, rispetto alla disciplina delle pene detentive applicate dal giudice di cognizione al termine di un regolare itinerario processuale in forza di una sentenza divenuta irrevocabile (v. Chiavario, 1987, p. 213). Qui il discorso potrebbe riguardare non tanto il momento dell'applicazione di tali pene, garantito dai meccanismi giurisdizionali tipici del processo penale e, quindi, dalla piena applicazione del contraddittorio tra le parti, quanto il momento della loro esecuzione, soprattutto in sede carceraria. Tuttavia anche per quanto concerne la fase esecutiva bisogna riconoscere che la vigente legislazione, grazie alla riforma dell'ordinamento penitenziario operata nel 1975 (legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), appare più che soddisfacente, almeno sulla carta: non solo dal punto di vista del trattamento rieducativo preordinato per i detenuti in espiazione di pena, ma anche dal punto di vista delle opportunità di 'apertura verso l'esterno' offerte agli stessi condannati durante tale fase (v. Grevi, 1994).
A quest'ultimo riguardo meritano di essere segnalati, a testimonianza di un sistema che tende ad adeguare le modalità di esecuzione della pena detentiva alla personalità del condannato, sia l'istituto dei permessi (artt. 30 e 30-ter dell'ordinamento penitenziario), sia l'ampia gamma delle misure "alternative alla detenzione", dall'affidamento in prova (artt. 47 e 47-bis) alla detenzione domiciliare (art. 47-ter), dalla semilibertà (artt. 48-50) alla liberazione anticipata (art. 54): tutti provvedimenti rigorosamente riservati alla competenza della magistratura di sorveglianza. E sebbene negli ultimi anni, sulla scia delle preoccupazioni suscitate dall'emergenza criminale, siano stati sanciti diversi divieti e limitazioni circa la fruibilità dei suddetti benefici da parte dei condannati per i più gravi delitti di criminalità organizzata (v. Presutti, 1994), anche allo scopo di favorirne la collaborazione con la giustizia (artt. 4-bis, 58-ter e 58-quater dell'ordinamento penitenziario), ciò non toglie che l'impianto dell'ordinamento penitenziario, tuttora all'avanguardia rispetto alle legislazioni europee del settore, continui a esprimere un felice punto di equilibrio tra i principî costituzionali rispettivamente dettati in materia di libertà personale e di finalità rieducativa della pena.
Circa la disciplina della libertà personale dell'imputato, che all'epoca del codice previgente aveva rappresentato uno dei settori di più difficile compatibilità con i corrispondenti principî costituzionali (v. Chiavario, 1985; v. Corso, 1983²; v. Grevi, 1976 e 1985; v. Pisani, 1974; v. Tranchina, 1986; v. Vassalli, 1978) - anche a seguito degli irrigidimenti prodotti dalla legislazione antiterroristica (v. Grevi, Sistema penale..., 1983) - il nuovo Codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1989, si è sforzato di costruire un sistema cautelare il più possibile aderente al modello delineato dall'art. 13 della Costituzione (v. Grevi, 1989; v. Galati, 1991; v. Marzaduri, 1989, pp. 292 ss.): a cominciare dalla fondamentale premessa per cui la libertà deve rappresentare la 'regola', mentre le misure dirette a limitarla non possono che configurarsi come 'eccezione' nel corso dello svolgimento processuale (v. Bresciani, 1993, p. 453). E questo vale non solo per l'imputato, ma anche per la persona sottoposta alle indagini preliminari (equiparata al primo in forza dell'art. 61 del Codice di procedura penale), fin dalla fase degli atti di polizia giudiziaria.In quest'ordine di idee nel Codice (v. Chiavario, 1990; v. Galati, 1991; v. Grevi, 1988; v. Marzaduri, 1994; v. Ramajoli, 1993) è stato elaborato un compatto complesso normativo che, nel giro di pochi articoli (artt. 272-275), dopo aver fissato il principio di tassatività in tema di limitazioni della libertà personale mediante misure cautelari, detta i presupposti delle medesime sotto il profilo del fumus commissi delicti e del periculum libertatis, indicando inoltre i parametri da seguire per l'individuazione in concreto della misura da disporsi, all'interno delle due grandi categorie delle "misure coercitive" (artt. 280-286-bis) e delle "misure interdittive" (artt. 287-290) (v. Peroni, 1992).
Più precisamente, da un canto vengono definite le "condizioni generali" di applicabilità delle misure cautelari personali sul versante dei "gravi indizi di colpevolezza" (art. 273) e dall'altro vengono descritte in termini dettagliati le "esigenze cautelari" (art. 274), in presenza delle quali soltanto sono consentiti l'applicazione (art. 292) e il mantenimento (art. 299) delle suddette misure (v. Ascione e De Biase, 1990, pp. 243 ss.). Ed è evidente come, attraverso la predeterminazione di un simile quadro cautelare, articolato secondo la più tradizionale tripartizione dei pericula libertatis, da valutarsi in chiave di concretezza (pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova; pericolo di fuga; pericolo di commissione di delitti gravi o della stessa specie), il legislatore abbia adeguatamente colmato quel 'vuoto dei fini', che si era lamentato con riferimento all'art. 13, comma 2 della Costituzione.In stretta connessione con i presupposti così individuati (il cui accertamento dovrà necessariamente riflettersi nella motivazione del provvedimento applicativo della misura cautelare ex art. 292 del Codice di procedura penale) vengono quindi enunciati nell'art. 275, commi 1 e 2, i criteri cui il giudice è tenuto a uniformarsi nel momento della decisione sulla richiesta di una misura cautelare. Essi sono il criterio dell'adeguatezza (che fissa il rapporto di necessaria idoneità della misura rispetto alle esigenze da fronteggiare nel caso concreto) e il criterio della proporzionalità (che fissa il rapporto della misura con l'entità del fatto e con la sanzione irrogabile), l'uno e l'altro da applicarsi alla luce del più generale principio di gradualità, in forza del quale il giudice è sempre tenuto ad adottare, tra le diverse misure previste dal sistema, quella meno gravosa per l'imputato, purché risulti concretamente sufficiente a conseguire le accertate finalità cautelari (v. Chiavario, 1990, pp. 9 ss.; v. Grevi, 1988, coll. 487 ss.; v. Marzaduri, 1994, pp. 70 ss.).
Da questa intelaiatura di previsioni tra loro teleologicamente raccordate discende poi, in via consequenziale, l'ulteriore enunciazione del principio che configura la custodia in carcere - cioè la misura più gravemente incidente sulla libertà personale dell'imputato - quale extrema ratio, da adottarsi "soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata" (art. 275, comma 3). Anche se bisogna aggiungere che questo principio ha successivamente subito una cospicua deroga - motivata da dichiarate esigenze di difesa sociale - con riferimento agli imputati dei più gravi delitti, soprattutto di criminalità organizzata (v. Grevi, 1993, pp. 9 ss.), essendosi previsto nella stessa disposizione che a loro carico debba necessariamente applicarsi la custodia carceraria "salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari". Ed è questa una previsione che, riflettendo una sorta di presunzione relativa di periculum libertatis nei riguardi di tali imputati, e traducendosi di fatto in un rovesciamento dell'onere della prova sul tema delle esigenze cautelari, può prestare il fianco a non lievi perplessità dal punto di vista della presunzione costituzionale di non colpevolezza (v. Marzaduri, 1994, p. 73).
Quanto agli aspetti procedurali, va anzitutto sottolineato come la competenza in materia di applicazione, di sostituzione e di revoca delle misure cautelari sia attribuita in via esclusiva all'organo giurisdizionale (più esattamente, al "giudice che procede", a norma dell'art. 279 del Codice di procedura penale), essendo invece escluso qualunque potere sul punto in capo al pubblico ministero. Il che realizza nella maniera più completa la riserva di giurisdizione sancita nell'art. 13, comma 2, della Costituzione.
Al pubblico ministero è attribuito, invece, il potere di richiedere l'applicazione delle misure cautelari, sulla base degli elementi da lui stesso presentati al giudice (art. 291), nonché il potere di richiederne la revoca o la sostituzione quando risultino mancanti, o si siano modificati, i presupposti che ne avevano giustificato l'adozione (art. 299). Il potere di richiedere la revoca e la sostituzione delle misure cautelari è riconosciuto, naturalmente, anche all'imputato, che potrà tra l'altro esercitarlo - se detenuto - nel corso dell'interrogatorio cui, ai sensi dell'art. 294, deve essere necessariamente sottoposto entro cinque giorni dall'inizio della custodia carceraria (ovvero entro quindici giorni, ove sia assoggettato agli arresti domiciliari). Ed è ovvio che tale interrogatorio, realizzando il primo momento di attuazione del contraddittorio di fronte al giudice dopo l'esecuzione della misura detentiva, rappresenti un'importante espressione di garanzia difensiva per l'imputato ristretto nella sua libertà; al punto che, ove il predetto interrogatorio non venisse effettuato nei termini prescritti, l'imputato stesso dovrebbe essere immediatamente liberato (art. 302).Tra le varie cause di estinzione delle misure cautelari e, quindi, di liberazione dell'imputato sottoposto a custodia in carcere (artt. 300-302) acquista uno specifico risalto, dal punto di vista costituzionale, la disciplina dei termini della durata massima della medesima custodia (artt. 303-307), dettata in palese collegamento con la previsione dell'art. 13, comma 5, della Costituzione (v. Marzaduri, 1994, pp. 84 ss.).
Attraverso un articolato reticolo di termini riferiti, anche in rapporto alla gravità dell'imputazione, sia alle singole fasi processuali (i cosiddetti termini "intermedi"), sia all'intero arco della custodia (i cosiddetti termini "complessivi"), ivi comprese le eventuali proroghe ex art. 305, il legislatore ha scandito, in sostanza, i tempi della durata massima della carcerazione dell'imputato in rapporto alle diverse vicende del procedimento, preoccupandosi altresì di fissare un limite di durata comunque insuperabile, nonostante gli eventuali fenomeni di sospensione del decorso di quei termini (art. 304), sulla scorta di soluzioni già accolte nel codice abrogato (v. Ceresa Gastaldo, 1989). Ed è espressamente previsto che, nell'ipotesi di scadenza dei termini così stabiliti, l'imputato detenuto debba essere immediatamente scarcerato e non possa venire di nuovo sottoposto a custodia se non in presenza di ben definiti presupposti, quali risultano dall'art. 307 (v. Dalia, 1987).
Quanto ai rimedi contro le misure cautelari restrittive della libertà personale, a parte la garanzia costituzionale del ricorso in cassazione per violazione di legge (anche per saltum, a norma dell'art. 311, comma 2), il più significativo tra gli strumenti di gravame predisposti dal sistema è costituito dall'istituto del riesame, di fronte al tribunale della libertà, relativamente a tutti i provvedimenti applicativi di una misura coercitiva (v. Ceresa Gastaldo, 1993; v. Ferraioli, 1989): dalla più blanda, consistente nel divieto di espatrio (art. 281) fino alla più gravosa, rappresentata dalla custodia in carcere (art. 285). Mediante questa procedura di impugnazione - introdotta nel sistema fin dal 1982 (v. Grevi, Tribunale..., 1983) - viene assicurato a ogni imputato il diritto di ottenere un controllo entro tempi assai brevi, da parte di un organo collegiale, non solo sulla legittimità, ma anche sul merito della misura di coercizione che gli sia stata applicata (art. 309), mentre per gli altri provvedimenti in materia di misure cautelari personali è previsto il più tradizionale rimedio dell'appello, sempre di fronte al medesimo tribunale (art. 310), salva nell'uno e nell'altro caso la possibilità di ricorso in cassazione avverso i provvedimenti pronunciati dal tribunale in sede di riesame o di appello (art. 311).
Alla tematica dei rimedi successivi contro l'indebita applicazione di misure restrittive della libertà personale si riallaccia infine - sia pure su un piano diverso - anche l'istituto della riparazione per l'"ingiusta detenzione" (artt. 314-315), assolutamente inedito per l'ordinamento italiano (v. Coppetta, 1993), sebbene già contenuto in nuce nel principio costituzionale che impone al legislatore di determinare "le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari" (art. 24, comma 4, della Costituzione).
In particolare, dopo aver individuato due diversi ordini di fattispecie di custodia cautelare ritenuta ingiusta (ora sotto il profilo dell'ingiustizia "sostanziale", in rapporto alla sentenza conclusiva del processo, ora sotto il profilo dell'ingiustizia 'formale', per l'assenza di determinate condizioni di applicabilità), la legge riconosce in simili ipotesi al soggetto già sottoposto a custodia un vero e proprio diritto a una "equa riparazione", sia pure contenendola entro la soglia massima di cento milioni di lire. Il che, se da un lato comporta un'evidente limitazione all'aspettativa dell'imputato di vedersi per intero risarcito il danno così subito (non a caso la legge parla di "equa riparazione", anziché di risarcimento), del resto sulla scorta di comprensibili preoccupazioni di carattere finanziario, dall'altro riflette una precisa consapevolezza legislativa circa l'esigenza che l'indebito sacrificio di un bene "inviolabile", come la libertà personale, non risulti privo di conseguenze, quantomeno nell'ottica della dimensione riparatoria pro reo.
Al di fuori del sistema delle vere e proprie misure cautelari, ma in stretta connessione con la tematica delle limitazioni alla libertà personale, si colloca nel Codice di procedura penale la disciplina dei provvedimenti di polizia giudiziaria - arresto in flagranza e fermo di indiziati di delitto (v. Ferraro, 1994; v. Filippi, 1990) - cui il legislatore attribuisce un'esplicita finalità precautelare, in presenza di ben definite situazioni di urgenza post delictum. Non risulta invece oggi riprodotta nel sistema italiano, dopo la breve esperienza della legislazione antiterroristica (v. Chiavario, 1981), alcuna figura di fermo di pubblica sicurezza, avente cioè esclusive finalità di prevenzione ante delictum, mentre ubbidisce a esigenze tipicamente strumentali allo svolgimento delle indagini l'istituto dell'accompagnamento coattivo, che nelle sue varie forme comporta sempre - ad opera della polizia giudiziaria - un sia pur circoscritto sacrificio della libertà personale del soggetto che vi sia sottoposto. Ci si riferisce, in particolare, all'accompagnamento per scopi di identificazione negli uffici di polizia previsto dall'art. 349 del Codice di procedura penale (per un tempo comunque non superiore alle dodici ore) e, soprattutto, alle diverse ipotesi di accompagnamento dell'imputato o di altri soggetti dinanzi all'autorità giudiziaria, rispettivamente previste dagli artt. 132 e 133 per un tempo comunque non superiore alle ventiquattro ore (v. Bresciani, 1993). I poteri di arresto in flagranza e di fermo di indiziati, tradizionalmente attribuiti a ufficiali e agenti di polizia giudiziaria (ma nel caso del fermo il relativo potere è riconosciuto in via primaria anche al pubblico ministero), trovano la loro base di legittimità nell'art. 13, comma 3, della Costituzione, essendo i loro presupposti riconducibili all'ambito dei "casi eccezionali di necessità e di urgenza" cui il testo costituzionale subordina la possibilità dell'adozione dei corrispondenti "provvedimenti provvisori" da parte degli organi di polizia.
In questo quadro, presidiato dall'esigenza di una tassativa previsione ex lege, si colloca anzitutto l'istituto dell'arresto in flagranza, nella duplice versione dell'arresto "obbligatorio" (art. 380 del Codice di procedura penale) e dell'arresto "facoltativo" (art. 381), a seconda che gli organi di polizia siano obbligati, o invece soltanto autorizzati, ad arrestare chiunque sia colto nella flagranza dei delitti elencati nelle correlative disposizioni (v. Ferraro, 1994, pp. 15 ss. e 25 ss.; v. Filippi, 1990, pp. 283 ss.). Mentre nel primo caso la situazione della sorpresa in flagranza, combinandosi con la gravità dei delitti cui fa riferimento l'art. 380, integra di per sé il presupposto sufficiente a far sorgere l'obbligo di arresto, nel secondo caso è riservato un certo margine di discrezionalità agli organi di polizia, che potranno procedere all'arresto, in forza dell'art. 381, comma 4, soltanto quando tale provvedimento risulti giustificato dalla gravità del fatto ovvero dalla pericolosità del soggetto.
Nell'una e nell'altra ipotesi è evidente come la legge non ricolleghi il provvedimento di arresto ad alcuna delle esigenze cautelari richieste, invece, dall'art. 274 quale presupposto per l'adozione di una misura coercitiva, e lo stesso vale anche per la particolare "facoltà di arresto da parte dei privati" ammessa dall'art. 383 nei casi di arresto obbligatorio. Dove la peculiarità, anche in rapporto al testo costituzionale (v. Amato, 1967, p. 421, nota 101; v. Grevi, 1974, p. 346; v. Pisani, 1974, p. 7), è rappresentata dall'attribuzione del potere di arresto a "ogni persona" (in quanto operante pro tempore nell'esercizio di una pubblica funzione), salvo il dovere della stessa, una volta eseguito l'arresto, di consegnare senza ritardo agli organi di polizia l'arrestato e le cose costituenti il corpo del reato.
Più vicino al modello delle misure cautelari coercitive si configura il provvedimento di fermo di indiziati, che l'art. 384 consente agli organi di polizia (oltreché al pubblico ministero) anche "fuori dei casi di flagranza", quando vi sia un fondato pericolo di fuga, nei confronti di persone gravemente indiziate di uno dei delitti indicati nello stesso articolo. Come già accadeva nel codice abrogato (v. Moscarini, 1981), l'esplicito riferimento al pericolo di fuga ricollega, infatti, questa misura di polizia alle misure coercitive finalizzate all'analoga esigenza cautelare ex art. 274, comma 2, lett. b, e anzi un simile collegamento risulta ancora più esplicito in rapporto alla speciale figura di fermo prevista dall'art. 307, comma 4, con riferimento all'ipotesi in cui si sia dato alla fuga l'imputato scarcerato per decorrenza dei termini di custodia, avendo trasgredito alle prescrizioni precedentemente impostegli.
Una volta eseguito l'arresto o il fermo da parte degli organi di polizia, prende avvio un'articolata procedura diretta a consentire all'autorità giudiziaria il controllo sulla legittimità del provvedimento adottato, secondo lo schema ed entro i limiti temporali previsti dall'art. 13, comma 3, della Costituzione. Anzitutto, al più tardi entro ventiquattro ore, la persona arrestata o fermata deve essere trasferita in carcere ex art. 386 del Codice di procedura penale, a disposizione del pubblico ministero il quale - dopo l'eventuale interrogatorio, ove non debba disporre la liberazione (artt. 388-390) - nel giro di quarantotto ore dall'esecuzione della misura restrittiva di polizia dovrà richiederne la convalida al giudice per le indagini preliminari (art. 390).
A seguito di tale richiesta, entro le successive quarantotto ore si svolge a norma dell'art. 391 (con la partecipazione necessaria del difensore della persona arrestata o fermata, che sarà normalmente sottoposta a interrogatorio) la correlativa udienza di fronte al giudice, destinata a concludersi con un provvedimento di convalida quando l'arresto o il fermo risulti legittimamente eseguito (v. Ferraro, 1994, p. 101; v. Filippi, 1990, p. 307). Nel qual caso il giudice provvederà anche riguardo alle eventuali richieste del pubblico ministero relative all'applicazione di una misura coercitiva, ivi compresa la custodia in carcere ove ne ricorrano i presupposti (art. 391, commi 4 e 5).
In questo modo, attraverso l'intervento dell'organo giurisdizionale successivo al provvedimento di polizia (al massimo nell'arco di novantasei ore dalla sua esecuzione) si realizza la saldatura tra il procedimento relativo all'arresto o al fermo e l'ordinario procedimento diretto all'applicazione delle misure cautelari, concretandosi così, sia pure ex post, la garanzia della riserva di giurisdizione voluta dal testo costituzionale. Sempre nell'osservanza del medesimo testo, l'arresto o il fermo cessa di avere efficacia sia nel caso di diniego della convalida sia, comunque, nel caso in cui il giudice non abbia deciso sulla richiesta di convalida nelle quarantotto ore successive a quella in cui sia stato investito della corrispondente procedura, mentre la persona arrestata o fermata dovrà essere liberata anche quando il provvedimento di polizia sia stato convalidato, ma a esso non sia conseguita l'applicazione di alcuna misura coercitiva (art. 391, commi 6 e 7).
Le garanzie dettate in tema di libertà personale nella Costituzione italiana, e successivamente precisate all'interno del Codice di procedura penale, rappresentano un esempio sufficientemente emblematico delle tecniche e dei meccanismi di tutela di tale diritto inviolabile accolti nei moderni ordinamenti liberaldemocratici (v. Morange 1989², pp. 10 ss. e 136 ss.), sullo sfondo della più generale tematica relativa alla protezione dei diritti umani (da ultimo v. Cassese, I diritti umani..., 1994; v. Shute e Hurley, 1994).
Se di una conferma ci fosse bisogno, basterebbe gettare uno sguardo sulle più recenti carte internazionali relative ai diritti dell'uomo, al cui interno è enunciata - per quel che qui importa - una serie di principî fondamentali nei quali si concretano le 'garanzie minime' ritenute imprescindibili, a livello internazionale, nel settore della libertà personale (v. Chiavario, 1984³, pp. 299 ss.). Un testo ormai classico è costituito, al riguardo, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (v. Amodio, 1967, pp. 861 ss.; v. Chiavario, 1969, pp. 167 ss.; v. Trechsel, 1974, pp. 169 ss.), cui ha fatto seguito il Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881: l'una e l'altro in vario modo diretti a tradurre e a sviluppare principî e previsioni già contenuti in forma sintetica nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.
Così, per esempio, in entrambi i testi appena menzionati della Convenzione europea e del Patto internazionale, accanto ai tradizionali divieti concernenti la tortura e le pene inumane o degradanti (art. 3 della Convenzione europea e art. 7 del Patto internazionale) (v. Ferranti, 1989), nonché l'assoggettamento a schiavitù, a servitù e ai lavori forzati (art. 4 della Convenzione europea e art. 8 del Patto internazionale), si colloca l'ampia affermazione per cui "ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza" (art. 5, comma 1, della Convenzione europea e art. 9, comma 1, del Patto internazionale). Un'affermazione evidentemente generica, alla quale però corrisponde subito un nutrito catalogo di norme di garanzia, dirette a stabilire in quali casi l'individuo possa essere privato della libertà personale nei "modi previsti dalla legge" (v. Chiavario, 1984³, pp. 314 ss.; v. De Salvia, 1979, pp. 1406 ss.). Questa, almeno, è la scelta operata dall'art. 5, comma 1, della Convenzione europea (al cui interno vengono definite le diverse fattispecie di misure detentive ritenute ammissibili, per lo più in vista di esigenze di giustizia penale), mentre il corrispondente art. 9, comma 1, del Patto internazionale si accontenta di una classica riserva riferita ai "motivi" e alla "procedura previsti dalla legge" (v. Chiavario, 1978, pp. 481 ss.), salva la successiva precisazione, sia pure alquanto datata, secondo cui nessuno può essere incarcerato "per il solo motivo che non è in grado di adempiere a un obbligo contrattuale" (art. 11 del Patto internazionale).
Per quanto riguarda le modalità procedurali, d'altro canto, entrambe le carte internazionali scandiscono un complesso di punti fermi idonei a individuare la sequenza delle garanzie riconosciute a chi venga privato della libertà personale. Schematizzando, i diritti spettanti a chiunque sia arrestato o detenuto per ragioni di giustizia penale possono essere così sintetizzati: a) diritto a essere informato immediatamente e in una lingua comprensibile dei motivi dell'arresto e delle accuse rivolte a suo carico (art. 5, comma 2, della Convenzione europea e art. 9, comma 2, del Patto internazionale); b) diritto a essere portato al più presto dinanzi a un giudice o ad altra autorità giudiziaria e conseguente diritto a essere giudicato entro un termine ragionevole, ovvero a essere scarcerato, salva la possibilità di adottare misure volte ad assicurare la successiva comparizione della persona rimessa in libertà (art. 5, comma 3, della Convenzione europea e art. 9, comma 3, del Patto internazionale); c) diritto di rivolgersi a un tribunale affinché operi un controllo sulla legalità della misura detentiva e ne ordini la cessazione, ove risulti illegale (art. 5, comma 4, della Convenzione europea e art. 9, comma 4, del Patto internazionale); d) diritto a ottenere una riparazione da parte di chi sia stato vittima di un arresto o di una detenzione illegali (art. 5, comma 5, della Convenzione europea e art. 9, comma 5, del Patto internazionale).Si tratta, come si è precisato poco sopra, del resto in conformità ai criteri seguiti nella prassi delle convenzioni internazionali sui diritti dell'uomo, di standard minimi di garanzia, tali da poter essere accolti da tutti gli Stati aderenti, ferma ovviamente per ogni singolo ordinamento statale la possibilità di maggiori approfondimenti o di più ampie articolazioni delle medesime garanzie, come risulta anche dalle 'raccomandazioni' provenienti dal Consiglio d'Europa (v. Giarda, 1981). E così accade anche in rapporto all'ordinamento italiano, che nella maggior parte dei casi risulta più garantista rispetto alle corrispondenti previsioni convenzionali. Basti pensare, per esempio, alla complessa e articolata disciplina dei presupposti delle misure cautelari coercitive, e della custodia carceraria in ispecie, quali risultano dai già richiamati artt. 273-275 del Codice di procedura penale, e confrontarla con la previsione dell'art. 5, comma 1, lett. c della Convenzione europea, che considera legittima una misura detentiva durante il processo 'quando vi sono ragioni plausibili per sospettare che l'arrestato abbia commesso un reato o vi sono fondati motivi per ritenere necessario di impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso' (v. Chiavario, 1984³, pp. 323 ss.). Dove evidentemente ci si accontenta, in alternativa, del presupposto del fumus commissi delicti ovvero di quello del periculum libertatis, salvo doversi domandare come possa ritenersi compatibile tale previsione con il principio per cui ogni accusato 'è presunto innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata' (art. 6, comma 2, della Convenzione europea e art. 14, comma 2, del Patto internazionale).
Al di là di queste e di altre consimili notazioni appare, comunque, manifesto che gli orientamenti affermatisi sul piano internazionale circa le linee di tutela della libertà personale si raccordano a una serie di principî per larga parte convergenti che - nel loro insieme - compongono un quadro piuttosto articolato, ma omogeneo nei suoi aspetti fondamentali. In particolare per quanto riguarda il delicato problema del contemperamento tra il diritto alla libertà personale, inteso quale proiezione essenziale e imprescindibile dell'uomo, e gli interessi di rilevanza pubblicistica che, di volta in volta, possono giustificarne la compressione.
Tutto ciò testimonia, per un verso, la comune origine di tali principî, radicati nell'humus filosofico e ideologico che è all'origine delle grandi rivoluzioni liberali di fine Settecento, e conferma, per altro verso, la coerente collocazione - all'interno della medesima cornice - della disciplina accolta nella legislazione italiana, sia costituzionale sia ordinaria, in materia di libertà personale. Una disciplina che da molte parti viene ritenuta all'avanguardia, almeno per quanto concerne la sua più recente traduzione nel Codice di procedura penale, sotto il profilo del punto di equilibrio raggiunto tra garanzie individuali ed esigenze cautelari, mentre le residue critiche riguardano, semmai, l'aderenza della prassi applicativa alle previsioni sancite dal legislatore e il completo funzionamento dei meccanismi giurisdizionali di controllo. Si tratta, peraltro, di problemi che attengono non tanto alla disciplina dei 'casi' e dei 'modi' riguardanti le diverse misure restrittive della libertà personale, quanto piuttosto ai rapporti tra pubblico ministero e giudice: sia a livello di ordinamento giudiziario, sia, soprattutto, sotto il profilo del ruolo di quest'ultimo quale organo garante in materia di provvedimenti de libertate, sulla base dei poteri di verifica allo stesso attribuiti di fronte alle richieste provenienti dal pubblico ministero.
(V. anche Diritti dell'uomo).
Amato, G., Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano 1967.
Amato, G., Art. 13, in Commentario della Costituzione. Rapporti civili (a cura di G. Branca), Bologna-Roma 1977, pp. 1 ss.
Amnesty International, Rapporto 1994, Torino 1994.
Amodio, E., La tutela della libertà personale dell'imputato nella Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1967, X, pp. 841 ss.
Ascione, G., De Biase, D., La libertà personale nel nuovo processo penale, Milano 1990.
Bailey, S.H., Harris, D.J., Jones, B. L., Civil liberties, London 1980, pp. 33 ss.
Barbera, A., I principî costituzionali della libertà personale, Milano 1967.
Barile, P., Le libertà nella Costituzione, Padova 1966.
Barile, P., Diritti dell'uomo e libertà fondamentali, Bologna 1984.
Bresciani, L., Libertà personale dell'imputato, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. VII, Torino 1993, pp. 438 ss.
Bricola, F., Forme di tutela ante delictum e profili costituzionali della prevenzione, in "Politica del diritto", 1974, V, pp. 351 ss.
Caretti, P., La disciplina della libertà personale nei più recenti sviluppi legislativi, in Nuove dimensioni nei diritti di libertà. Scritti in onore di P. Barile, Padova 1990, pp. 235 ss.
Caretti, P., Libertà personale, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino 1994, pp. 231 ss.
Cassese, A., I diritti umani nel mondo contemporaneo, Roma-Bari 1994.
Cassese, A., Umano-Disumano. Commissariati e prigioni nell'Europa di oggi, Roma-Bari 1994.
Ceresa Gastaldo, M., Sospensione, congelamento e proroga dei termini di custodia cautelare, Milano 1989.
Ceresa Gastaldo, M., Il riesame delle misure coercitive nel processo penale, Milano 1993.
Cerri, A., Libertà. II. Libertà personale (dir. cost.), in Enciclopedia Giuridica, vol. XIX, Roma 1990.
Chiavario, M., La Convenzione europea dei diritti dell'uomo nel sistema delle fonti normative in materia penale, Milano 1969, pp. 167 ss.
Chiavario, M., Profili di disciplina della libertà personale nell'Italia degli anni sessanta, in La libertà personale (a cura di L. Elia e M. Chiavario), Torino 1972, pp. 197 ss.
Chiavario, M., Le garanzie fondamentali del processo nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1978, XXI, pp. 465 ss.
Chiavario, M., Un anno di fermo di polizia nelle relazioni del Ministero dell'interno, in "Legislazione penale", 1981, I, pp. 296 ss.
Chiavario, M., Processo e garanzie della persona, vol. I, Milano 1982², pp. 28 ss.; vol. II, Milano 1984³, pp. 299 ss.
Chiavario, M., Problemi attuali della libertà personale, Milano 1985.
Chiavario, M., Libertà personale e processo penale, in "Indice penale", 1987, XXI, pp. 209 ss.
Chiavario, M., Libertà personale (dir. proc. pen.), in Enciclopedia Giuridica, vol. XIX, Roma 1990.
Colliard, C.A., Libertà e sicurezza nel quadro della legislazione francese, in La libertà personale (a cura di L. Elia e M. Chiavario), Torino 1972, pp. 4 ss.
Conso, G., La libertà provvisoria a confronto con le esigenze di tutela della collettività, ovvero la 'legge Reale' tra politica e diritto, in "Giurisprudenza costituzionale", 1980, XXV, pp. 470 ss.
Coppetta, M.G., La riparazione per ingiusta detenzione, Padova 1993.
Corso, P., Nuovi profili della custodia preventiva, Milano 1983².
Crisafulli, V., Manuale dei diritti del cittadino, Roma 1950.
Dalia, A.A. (a cura di), Il controllo giudiziario sugli imputati scarcerati, Torino 1987.
De Salvia, M., Privazione di libertà e garanzie del processo penale nella giurisprudenza della Commissione e della Corte europea dei diritti dell'uomo, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1979, XXII, pp. 1403 ss.
Dolcini, E., La 'rieducazione del condannato' tra mito e realtà, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1979, XXII, pp. 469 ss.
Elia, L., Libertà personale e misure di prevenzione, Milano 1962.
Elia, L., Le misure di prevenzione fra l'art. 13 e l'art. 25 della Costituzione, in "Giurisprudenza costituzionale", 1964, IX, pp. 938 ss.
Elia, L., Chiavario, M. (a cura di), La libertà personale, Torino 1972.
Fellman, D., Tutela della libertà e due process of law negli Stati Uniti d'America, in La libertà personale (a cura di L. Elia e M. Chiavario), Torino 1972, pp. 137 ss.
Ferraioli, M., Il riesame dei provvedimenti sulla libertà personale, Milano 1989.
Ferranti, G., Prevenzione e repressione della tortura in Europa, in L'Italia e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (a cura di V. Grementieri), Milano 1989, pp. 129 ss.
Ferraro, A., Arresto e fermo, Milano 1994.
Fiandaca, G., Misure di prevenzione (profili sostanziali), in Digesto delle discipline penalistiche, vol. VIII, Torino 1994, pp. 108 ss.
Filippi, L., L'arresto in flagranza nell'evoluzione normativa, Milano 1990.
Galati, A., La libertà personale dal codice Rocco al codice Vassalli, in Studi in onore di G. Vassalli, vol. II, Milano 1991, pp. 235 ss.
Galeotti, S., La libertà personale, Milano 1953.
Galizia, M., La libertà di circolazione e soggiorno, in La pubblica sicurezza (a cura di P. Barile), Vicenza 1967, pp. 545 ss.
Giarda, A., Un'importante raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa in tema di carcerazione preventiva, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1981, XXIV, pp. 696 ss.
Grevi, V., 'Nemo tenetur se detegere', Milano 1972.
Grevi, V., Libertà personale dell'imputato, in Enciclopedia del diritto, vol. XXIV, Milano 1974, pp. 315 ss.
Grevi, V., Libertà personale dell'imputato e Costituzione, Milano 1976.
Grevi, V., Sistema penale e leggi dell'emergenza: la risposta legislativa al terrorismo, in La prova delle armi (a cura di G. Pasquino), Bologna 1983, pp. 17 ss.
Grevi, V. (a cura di), Tribunale della libertà e garanzie individuali, Bologna 1983.
Grevi, V. (a cura di), La nuova disciplina della libertà personale nel processo penale, Padova 1985.
Grevi, V., Le garanzie della libertà personale dell'imputato nel progetto preliminare: il sistema delle misure cautelari, in "Giustizia penale", 1988, XCIII, coll. 461 ss.
Grevi, V. (a cura di), La libertà personale dell'imputato verso il nuovo processo penale, Padova 1989.
Grevi, V. (a cura di), Processo penale e criminalità organizzata, Bari 1993.
Grevi, V. (a cura di), L'ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova 1994.
Grossi, P., Libertà personale, libertà di circolazione e obbligo di residenza dell'imprenditore fallito, in "Giurisprudenza costituzionale", 1962, VII, pp. 200 ss.
Grossi, P., Introduzione ad uno studio sui diritti inviolabili nella Costituzione italiana, Padova 1972.
Guarino, G., Lezioni di diritto pubblico, Milano 1967.
Illuminati, G., La presunzione di innocenza dell'imputato, Bologna 1979.
Lozzi, G., I provvedimenti impugnabili del pubblico ministero, in Studi in onore di F. Antolisei, vol. II, Milano 1965, pp. 172 ss.
Luchaire, F., La protection constitutionelle des droits et des libertés, Paris 1987.
Maitland, F.W., The constitutional history of England, Cambridge 1974.
Marzaduri, E., Custodia cautelare nel diritto processuale penale, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. III, Torino 1989, pp. 280 ss.
Marzaduri, E., Misure cautelari personali, in Digesto delle discipline penalistiche, vol. VIII, Torino 1994, pp. 59 ss.
Miletto, P., Misure di prevenzione (profili processuali), in Digesto delle discipline penalistiche, vol. VIII, Torino 1994, pp. 126 ss.
Mochi Onory, S., Studi sulle origini storiche dei diritti essenziali della persona, Bologna 1937.
Morange, J., Droits de l'homme et libertés publiques, Paris 1989².
Mortati, C., Rimpatrio obbligatorio e Costituzione, in "Giurisprudenza costituzionale", 1960, V, pp. 683 ss.
Moscarini, P., Il fermo degli indiziati di reato, Milano 1981.
Pace, A., Misure di sicurezza e pericolosità sociale presunta, in "Giurisprudenza costituzionale", 1966, XI, pp. 191 ss.
Pace, A., Libertà personale (diritto costituzionale), in Enciclopedia del diritto, vol. XXIV, Milano 1974, pp. 287 ss.
Pace, A., Problematica delle libertà costituzionali, parte speciale, vol. I, Padova 1985.
Palazzo, F., La recente legislazione penale, Padova 1985³.
Patanè, V., Il writ di habeas corpus, in "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1994, XXXVII, pp. 167 ss.
Peroni, F., Le misure interdittive nel sistema delle cautele penali, Milano 1992.
Pisani, M., Libertà personale e processo, Padova 1974.
Pradel, J. (a cura di), Les atteintes à la liberté avant jugement en droit pénal comparé, Paris 1992.
Presutti, A. (a cura di), Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Milano 1994.
Ramajoli, S., Le misure cautelari (personali e reali) nel codice di procedura penale, Padova 1993.
Riccio, G., De Caro, A., Marotta, S., Principî costituzionali e riforma della procedura penale, Napoli 1991.
Schneider, P., Principî costituzionali e problematica della libertà nella Germania Federale, in La libertà personale (a cura di L. Elia e M. Chiavario), Torino 1972, pp. 47 ss.
Shute, S., Hurley, S. (a cura di), Diritti umani (Oxford Amnes~ty lectures), Milano 1994.
Street, H., Le garanzie della libertà personale nel Regno Unito, in La libertà personale (a cura di L. Elia e M. Chiavario), Torino 1972, pp. 85 ss.
Street, H., Freedom, the individual and the law, London 1982⁵, pp. 15 ss.
Tranchina, G., Custodia cautelare, in Dizionario di diritto e procedura penale (diretto da G. Vassalli), Milano 1986.
Trechsel, S., Die europäische Menschenrechtskonvention, ihr Schutz der persönlichen Freiheit und die schweizerischen Strafprozessrechte, Bern 1974, pp. 169 ss.
Vassalli, G., La libertà personale nel sistema delle libertà costituzionali, in Scritti giuridici in memoria di P. Calamandrei, Padova 1958, pp. 363 ss.
Vassalli, G., Il diritto alla libertà morale, in Scritti in memoria di F. Vassalli, Torino 1960, pp. 1642 ss.
Vassalli, G., Libertà personale dell'imputato e tutela della collettività, in "Giustizia penale", 1978, LXXXIII, coll. 1 ss.