ANGELUCCI, Liborio
Nato a Roma, da Carlo, nel 1746, laureatosi in medicina, si affermò presto come ottimo chirurgo e ostetrico; pubblicò alcune memorie mediche e fu chirurgo della colonia francese a Roma. Uomo di vasta cultura e di molteplici interessi, fu in dimestichezza con il mondo intellettuale romano e grande amico di V. Monti, che, anche in momenti difficili, non gli nascose mai il suo attaccamento. Nel 1791 si fece editore della monumentale edizione (la prima romana) della Divina Commedia curata da fra' Baldassarre Lombardi (Roma, presso Antonio Fulgoni, 3 voll. in 4°). L'A. (di cui nel III vol. è un indirizzo "Ai cortesi lettori") la dedicò al card. D. C. Carafay di cui godeva la protezione.
Di sentimenti novatori e d'animo inquieto, fu tra i primi che a Roma accettarono le idee della Rivoluzione francese e tra i pochi che per esse operarono intensamente. Nel 1793 fu in rapporti con U. De Bassville - di cui fu anche medico - e con il Moutte. Nel maggio 1794, insieme con altri due medici, p. Corona e F. Monaco, e un sacerdote, F. Poli, fu arrestato sotto l'accusa di avere avuto rapporti con la Francia e di avere tramato un attentato contro Pio VI (presso di lui fu trovata una grossa somma di denaro, della quale non gli fu facile giustificare la provenienza). L'istruttoria durò molti mesi, senza però che potesse appurare nulla di sicuro; a un certo momento l'A., essendo malato (pare avesse tentato il suicidio), fu dimesso da Castel S. Angelo e autorizzato a vivere in stato d'arresto in casa. A suo favore pare si fosse adoperato il Carafa. Più grave fu la sua situazione tre anni dopo, quando, nell'agosto 1797, fu arrestato nuovamente per complotto insieme con i due Bouchard, l'Ascarelli e altri minori indiziati: solo l'intervento dei Francesi, che fecero valere a suo vantaggio un articolo dei recente trattato di pace di Tolentino, riuscì infatti a salvarlo, ma dovette esulare. Ormai era considerato uno dei capi dei partito filofrancese (il suo nome figura tra quelli degli elementi più sicuri e devoti alla causa repubblicana seghalati a Giuseppe Bonaparte, quando questi giunse a Roma come ambasciatore). Dopo una breve sosta a Milano (dove dovette conoscere U. Foscolo che di lui parlò con la massima stima nell'Esame su le accuse contro V. Monti), l'A. si recò (settembre '97-gennaio '98) presso Napoleone Bonaparte, prima a Rastadt, poi a Parigi, per perorare la "liberazione" di Roma. Occupata alfine questa città dalle truppe del gen. Berthier, vi fece ritorno verso la metà del febbraio 1798. Proclamata la Repubblica romana, fu dapprima nominato prefetto dell'annona e, subito dopo, console provvisorio prima (22 febbr.) e definitivo poi (20 marzo).
Giunto al potere, l'A. si mostrò di gran lunga inferiore alle aspettative che gli ambienti patriottici e democratici avevano riposto in lui, interessato soprattutto ad assicurarsi una posizione di assoluto predominio, a non urtare in nessun modo i Francesi, a farsi una posizione economica e ad aiutare i suoi familiari.
L'A. aiutò particolarmente il fratello Angelo, sacerdote, che sino allora era vissuto all'estero, al servizio di importanti prelati. Nel '98 questi gettò la tonaca e aderì al regime repubblicano, e fu dapprima segretario del mini dell'Intemo, poi di quello dell'Agricoltura e, infine, tribuno. Come segretario del ministero dell'Interno si scontrò con C. della Valle, quando questi cercò di sottrarre alla giurisdizione ecclesiastica la nomina dei nuovi parroci; come segretario del ministero dell'Agricoltura redasse un interessante progetto di legge sulle terre comuni, dal quale risultano idee socialmente avanzate. Caduta la Repubblica, fu processato e condannato dalla Giunta di stato, dopo di che se ne perdono le tracce.
Sul piano interno l'A. mancò di una prospettiva politica che non fosse quella dettata di volta in volta dai Francesi; su quello esterno sostenne una politica di equilibrio tra le varie repubbliche democratiche italiane (da raggiungersi, per la Romana, possibilmente con qualche ampliamento a danno della Napoletana); non pare però che fosse alieno da una unione della Romana alla Cisalpina. In breve, l'opiníone pubblica, dapprima a lui favorevolissima come a uno degli eroi rivoluzionari, gli volse decisamente le spalle. Gli altri consoli suoi coueghi, temendo le sue velleità di predonùnio, non esitarono ad appoggiare il tribunato e il senato a proposito della legge "di polizia costituzionale", secondo la quale nessun console da solo poteva prendere alcun provvedimento. Gli ambienti democratici, a loro volta, non gli lesinarono le critiche prima e le accuse poi; dalla tribuna del Circolo Costituzionale e dalle colonne del Monitore di Roma numerose voci si levarono contro di lui: U. Lampredi e C. della Valle giunsero a trattarlo apertamente da ladro e ad accusarlo di atti arbitrari e anticostituzionali; il suo "decantato patriottismo" fa definito una "pura cabala d'ambizione, di viltà, d'interesse". In un primo tempo l'A., forte dell'appoggio dei Francesi, tenne validamente testa ai suoi avversari; alla fine però - dopo che la stessa piazza era stata mobilitata a più riprese contro di lui l'8 giugno con una manifestazione e un mese dopo rovesciando addirittura la sua lussuosissima carrozza - dovette, travolto dal discredito, rassegnare le dimissioni (15 settembre). La goccia che fece traboccare il vaso furono le accuse mossegli (insieme con il Visconti e con N. Castelli) dal Monitore di Roma (Litanie di Pasquino, suppl. al n. LX, 13 sett. 1798) di essersi arricchito acquistando a vilissimo prezzo Beni nazionali e servito a questo scopo delle notizie riservate sulla svalutazione di cui era a conoscenza. L'accusa era pienamente giustificata: nel '98-'99 l'A. acquistò infatti (direttamente, a nome della moglie Caterina Nazzarri, a mezzo di D. Lavaggi e facendosi per questo prestare anche il denaro occorrente da alcuni banchieri tra cui il Lavaggi stesso) Beni nazionali per ben 9.725 scudi (tra l'altro acquistò, per soli 5.200 sc. il palazzo dell'Ordine di Malta a via Condotti). L'A. cercò sul primo momento di difendersi, ottenendo anche il sequestro del Monitore di Roma; vista la mala parata preferì, però, dimettersi, evitando così la destituzione, come invece toccò a E. Q. Visconti. Con le sue dimissioni poté, anzi, fruire di una disposizione costituzionale ed entrare subito a far parte del senato (di cui, l'anno successivo, fu anche segretario). Fu pure membro, per la classe medica, dell'Istituto nazionale. Nel dicembre '98, durante i 17 giorni della prima occupazione napoletana, egli fu tra i legislatori che seguirono il governo a Perugia.
Caduta nel settembre '99 la Repubblica romana, della quale, nonostante tutto, rimase sino alla fine uno degli esponenti più importanti, seguì i Francesi e riparò per qualche tempo in Francia, a Marsiglia e a Parigi. Dopo Marengo fece ritorno in Italia, ma non poté rientrare a Roma (nonostante, sembra, avesse offerto i suoi servigi come spia al card. Consalvi). Fermatosi a Milano, nel riordinamento dell'esercito cisalpino, fu nominato chirurgo della Divisione italiana e chirurgo maggiore dei Veliti della Guardia. Occupata nel 1809 Roma dai Francesi, poté finalmente far ritorno in patria, dove però, nonostante le sue proteste, l'amministrazione imperiale lo tenne ai margini della vita pubblica. Fu tra gli esponenti dell'opposizione democratica, rivendicando una politica più decisa e socialmente più impegnata.
Morì nel 1811.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Senato, Dispacci dell'Ambasciatore a Roma - A. Cappello, 17/5/1794; Arch. di Stato di Milano, Triennio, Esteri, Napoli, 274, Sopransi al Direttorio Cisalpino, 11 germile VI, G. A. Sala, Diario romano degli anni 1798-99, Roma 1882-83, 3 voll., passim; Repubblica Romana - Senato - Processi verbali, Roma VI-VII, passim; U. Foscolo, Esame su le accuse contro V. Monti, [1798], in Prose, a cura di V. Cian, I, Bari 1912, p. 67; Biographie nouvelle des contemporains, I, Paris 1820, pp. 181 s.; D. Zanoh, Sulla milizia cisalpino-italiana, I, Milano 1845, pp. 99, 147, 285; D. Silvagni, La corte e la società romana nei secoli XVIII e XIX, I, Firenze 1881, pp. 405. 407, 439-441, 456, 466, 522. 536; L. Vicchi, V. monti, le lettere e la Politica in Italia dal 1750 al 1830, 1794-99, Fusignano 1888, p. 264; I. Rinieri, La diplomazia pontificia nel sec. XIX, Roma 1902, p. 111; A. Dufburcq, Le règime jacobin en Italie. Étude sur la Rép. Romaine,Paris 1900, passim; L. Madelin, La Rome de Napoléon, Paris 1906, pp. 173, 263, 388; T. Casini, Il parlamento della Rep. Romana, in Rass. stor. d. Risorgimento, III (1916), pp. 520 s. (per Angelo, p. 534); A. Zieger, Bagliori unitari e aspirazioni nazionali (1751-1797), Milano 1933, pp. 120 s., 153-169; C. Trasselli, Processi Politici romani dal 1791, al 1798, in Rass. stor. d. Risorgimento ,XXV(1938), pp. 1498, 1524, 1613-15; V. E. Giuntella, La giacobina repubblica romana, in Arch. d. Soc. romana di storia patria, LXXIII (1950), passim; Id., Gli esuli romani in Francia alla vigilia del 18 brumaio, ibid., LXXVI(1953), pp. 234-37; R. De Felice, L'evangelismo giacobino e l'abate Claudio della Valle, in Riv. stor. ital., LXIX (1957), p. 398 (per Angelo, p. 380); Id., La vendita dei Beni Nazionali nella Rep. Romana dei 1798-99, Roma 1960, passim. Per Angelo: Archivio di Stato di Roma, Giunta di Stato 1799-1800, n. 2 (9), sub voce.