Libri e futuro
Entrata nel suo sesto secolo di vita l’editoria libraria si trova ad affrontare il più profondo rivolgimento della propria storia, tanto profondo da porne in questione l’assetto fondamentale, le relazioni costitutive, da ultimo la stessa ragion d’essere e lo stesso oggetto proprio, vale a dire il libro.
Lo scopo di questo saggio è quello di cercare di comprendere il mutamento che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e di ipotizzarne i più verosimili esiti. Si partirà dunque da una considerazione strutturale e funzionale dell’editoria libraria, cioè da un’analisi delle sue caratteristiche specifiche e delle sue modalità di funzionamento per sé prese. In secondo luogo si cercherà di descrivere le concrete condizioni dell’editoria libraria oggi, con particolare riguardo all’Europa e all’Italia. In terzo luogo saranno ricercati, individuati e collegati tra loro tutti i segni e i semi di cambiamento che si sono manifestati e che operano nel tessuto dell’editoria libraria. Tutti quei fenomeni cioè che, indipendentemente dalle loro dimensioni, a volte molto esigue, hanno caratteristiche o manifestano dinamiche non compatibili, oppure non totalmente compatibili, con la struttura funzionale dell’editoria classica. Infine, nella quarta e ultima parte, verranno estrapolate queste dinamiche non classiche, fino a delinearne il tendenziale orizzonte di arrivo, cioè le probabili condizioni nelle quali l’editoria libraria, o per meglio dire l’erede dell’editoria libraria, si troverà a operare tra una ventina o trentina d’anni.
La struttura funzionale dell’editoria
L’editoria è una specifica formazione storica che si costituisce e si determina all’interno di una vicenda molto più lunga che è quella del libro. Il libro, inteso sia come oggetto fisico sia come forma, precisamente come forma della compiutezza in opera scritta – informativa, conoscitiva, narrativa, fantastica –, ha ormai quasi tre millenni di vita, se consideriamo convenzionalmente come primo libro la redazione scritta dei poemi omerici. Solo un sesto circa di questo arco di tempo, e cioè l’ultimo mezzo millennio, risulta coperto dall’editoria, la quale non è dunque ‘il’ modo di esistenza, ma di fatto ‘uno’ dei modi di esistenza del libro.
L’editoria nacque quando alla considerevole riduzione di costo provocata dalla stampa su carta si associò l’idea di un parallelo incremento del potenziale numero di acquirenti e quindi di un potenziale profitto proporzionale al numero degli acquirenti stessi. L’idea centrale, quella secondo cui la sete o il piacere di conoscenza e di intrattenimento, una volta abbattuta o molto abbassata la barriera economica, siano universali è, in ultima analisi, di origine aristotelica («Tutti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza», Metaph. I, 980 a 21) ed è l’assioma che fonda e giustifica, sul piano pratico oltre che su quello teoretico, l’attività editoriale. Da qui il vigoroso ottimismo implicito nell’editoria, la credenza che la diffusione della lettura e del libro siano beni in sé, indipendentemente dai contenuti, e da qui anche l’atteggiamento in via di principio antielitario, l’idea che non vi siano privilegi e riserve all’origine, ma che il contenuto dei libri sia offerto e accessibile a tutti.
Ad affiancare, e mitigare, l’ispirazione ottimistica giunge però nello stesso momento la nozione di rischio, discendente da quella di potenziale e del tutto ignota alla precedente vita del libro, quando la riproduzione da una copia all’altra avveniva per committenza diretta. Mentre, infatti, l’aspirazione alla conoscenza per sé presa e l’incommensurabile potenziale che ne deriva sono nozioni totalizzanti ma generiche, la determinazione preventiva e precisa del numero di copie da stampare di un singolo libro traduce la nozione di potenziale, divenuta ora specifica, in quella di rischio.
Viene in questo modo prendendo forma una dimensione prima inedita e del tutto ignota nell’esistenza del libro, che è quella del pubblicare e dell’essere pubblicato, una sorta di seconda nascita, dopo la creazione o la composizione, che ha precisamente il significato di rendere pubblico, aperto e disponibile al pubblico, ciò che è stato creato e scritto. Di conseguenza nasce contemporaneamente una nuova barriera, che separa i libri pubblicati da quelli che non hanno mai visto la luce, gli inediti. Un continente di cui nessuno conosce confini e dimensioni, la parte sommersa di un iceberg di cui contempliamo soltanto la vetta emersa, i pubblicati. Ma nel gesto del pubblicare (to publish, publishing come, più propriamente, si chiama in inglese l’editoria) concorrono aspetti non soltanto diversi, ma eterogenei e addirittura antitetici. La valutazione del valore intrinseco di un’opera, l’adesione totale all’opera stessa, il porsi al suo servizio e, dall’altra parte, la prospettiva di un profitto, l’intuizione commerciale. Il gesto di pubblicare, appartenente fin dall’inizio a ordini eterogenei, quello del valore culturale e quello del valore economico, è un gesto in sé ibrido e contraddittorio, impuro per definizione, teso com’è a conciliare l’inconciliabile, ma nello stesso tempo, grazie forse proprio alla sua natura così moderna e borghese, straordinariamente efficace. Grazie all’editoria, grazie al publishing, i libri hanno potuto raggiungere una dimensione e una ricchezza e toccare pubblici di una vastità inimmaginabile nei tempi della loro non compromissione, della loro purezza.
L’editoria di progetto e l’editoria d’autore
Anche se all’apparenza i libri sono tutti simili, in realtà appartengono a due categorie mutuamente esclusive e fortemente differenziate. La diversità riguarda in senso proprio la struttura dell’attività produttiva, ma si riverbera di conseguenza sulle diverse finalità di lettura, sul diverso rapporto tra domanda e offerta, sulla diversa nozione di rischio e sulla diversa distribuzione del medesimo, da ultimo sul futuro che ciascuna delle due editorie si troverà a dover affrontare.
Il primo modello è quello classico, comune a quasi ogni attività produttiva e, più specificamente, a molte industrie culturali, dal cinema all’editoria quotidiana e periodica. All’inizio della catena c’è un produttore (nel nostro caso l’editore), il quale immagina e progetta un prodotto (nel nostro caso, il libro), ne affida la realizzazione a uno o più esecutori (uno o più autori), investe e rischia il capitale necessario nella tiratura del libro e provvede infine a presentarlo, e auspicabilmente venderlo, al pubblico. Nel caso dell’editoria libraria è questa la struttura produttiva propria di varie tipologie, da quella scolastica a quella accademica e scientifico-tecnica, alle opere di reference (enciclopedie, dizionari, repertori ecc.). Per es., il presente testo e l’opera in cui esso è inserito appartengono a questa tipologia. Si può definire questa forma di editoria editoria di progetto, assumendo il termine progetto nell’accezione più dimessa possibile, riferito cioè solo al fatto che il motore, più o meno immobile, dell’intero processo è nella mente dell’editore, al quale spetta di conseguenza la proprietà ideale, anche se non sempre reale, dell’opera.
Il secondo modello è invece quello in cui il ruolo del produttore, nel senso preciso di ideatore e di estensore del contenuto, cioè del testo, spetta all’autore, il quale spontaneamente e in linea di principio autonomamente dà vita all’opera e la offre poi all’editore. Quest’ultimo effettua una scelta, cioè seleziona le opere che intende pubblicare e, all’atto pratico, ne acquista una licenza d’uso limitata nel tempo; dà forma all’opera che ha acquistato sia sul piano testuale (editing) sia su quello della configurazione fisica (publishing); investe rischiando il necessario capitale sulla tiratura del libro e, infine, provvede a presentarlo al pubblico e, auspicabilmente, a venderlo. È questa la struttura produttiva dell’editoria di narrativa e saggistica denominata in molti modi, varia in Italia, Belletristik in Germania, trade books in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ma ormai anche nell’uso comune internazionale. Si tratta in altri termini di una forma di editoria che si può definire editoria d’autore, anche qui senza alcuna enfasi sul termine autore, ma riferendosi semplicemente al fatto che l’editore viene sempre dopo il gesto e il momento che danno vita all’opera. Nell’editoria d’autore vale il principio che i libri non si fabbricano. Questo è l’unico mestiere in cui il produttore non è proprietario del suo prodotto. Tuttavia se, da un punto di vista rigoroso, in questa forma di editoria il produttore è propriamente l’autore, muta la funzione specifica dell’editore che si pone al servizio dell’autore per mediare tra quest’ultimo e il pubblico, fino a diventare una sorta di agenzia di marketing che si assume però l’onere dell’investimento.
Dall’opposizione primaria tra editoria di progetto ed editoria d’autore discendono altre tre fondamentali opposizioni che riguardano rispettivamente la lettura e il mercato, l’attività editoriale e i suoi rischi. La prima è tra lettura direttamente finalizzata o, come si ama dire, funzionale e quella non direttamente finalizzata o non funzionale. La lettura funzionale, necessitata e in qualche misura comandata dall’esterno, è per definizione utile e dunque subordinata a qualcos’altro, in generale all’apprendimento o all’informazione. È la lettura tipica dell’editoria di progetto. Al contrario, la lettura non funzionale, inutile e propria dell’otium (oggi spesso definito evasione o intrattenimento) è autocefala e tipica dell’editoria d’autore. Per quanto riguarda invece la struttura del mercato, l’opposizione è tra mercato guidato dalla domanda e mercato guidato dall’offerta. Nell’editoria di progetto il mercato è guidato dalla domanda, nel senso che la domanda di conoscenza dell’inglese preesiste alla confezione di corsi e dizionari della medesima lingua e anzi la determina. Mentre nell’editoria d’autore il mercato di The da Vinci code (il best seller di Dan Brown uscito nel 2003) o di Gomorra (il best seller di Roberto Saviano uscito nel 2006) si crea solo in occasione della comparsa di quei determinati libri: il che spiega anche le sue fluttuazioni. Infine, nell’editoria di progetto la prevedibilità e, quindi, il rischio non sono sostanzialmente diversi da quelli di ogni altra impresa. Al contrario, nell’editoria d’autore l’imprevedibilità dell’esito è talmente elevata da raggiungere l’imperscrutabilità. Da qui deriva il carattere fondamentale del business, tutto costruito cercando di massimizzare le possibilità di successo e insieme di minimizzare il singolo rischio. Tra editoria di progetto ed editoria d’autore è impossibile, oltre che inane, stabilire quale sia più importante o più vera o più propria, mentre si può asserire senza tema di smentite quale venga prima e sia dunque prioritaria. Questa posizione spetta senza dubbio all’editoria di progetto, in quanto è quest’ultima a stabilire la condizione di possibilità dell’editoria d’autore. Detto in altre parole, per poter leggere bisogna aver imparato a leggere, ovvero l’apprendimento e la conoscenza, per quanto elementari, precedono la fruizione della letteratura e l’esercizio della fantasia.
L’elevato numero dei libri
Esistono in commercio al mondo all’incirca tra 11 e 12 milioni di libri (titoli). Nei Paesi europei che definiamo comparabili – Germania, Regno Unito, Francia, Spagna e Italia – la produzione annua di nuovi titoli è nell’ordine di grandezza di un millesimo della popolazione: per es., nel 2007 è stata di 96.000 titoli in Germania, di quasi 85.000 in Gran Bretagna, di oltre 55.000 in Francia e di oltre 35.000 in Italia e in Spagna (International publishers association). Bastano queste cifre a giustificare le ricorrenti lamentele sui troppi libri? E dipende dall’elevato numero il presunto accorciamento del ciclo di vita dei libri medesimi? Forse. Aggiungiamo qualche ulteriore considerazione. Nel 2007 in Italia, su un totale di 531.000 libri in commercio (parliamo ora di sola editoria d’autore), meno di un centesimo, cioè 5000 titoli, coprivano il 49% del mercato a valore e il 50,1% del mercato a copie (Nielsen BookScan 2007). Si capisce allora perché la legittima aspirazione di ogni editore sia quella di entrare il più possibile nella ristretta e felice riserva dei titoli davvero profittevoli. Ma essendo il business di per sé imprevedibile, l’unica via per massimizzare le possibilità di successo e di minimizzare, nel senso di distribuire, il rischio appare quella di moltiplicare i tentativi, nella speranza di trovare, prima o poi, il cavallo vincente. Dunque, sotto questo profilo, l’elevato numero si delinea come una prima forma di difesa contro l’intrinseca rischiosità e imprevedibilità dell’editoria d’autore e, comunque, si configura come un carattere ineliminabile.
Una seconda ragione è invece più specifica, quasi tecnica. Nell’editoria d’autore, al contrario di quanto accade nell’editoria di progetto, la produzione assorbe e ingloba in sé la ricerca e sviluppo (R&D, Research and Development). Altrimenti detto, non è possibile né effettuare una ricerca preventiva sulla possibile ricezione da parte del pubblico di una determinata opera, né tantomeno modificarla a seguito delle valutazioni espresse da un campione del pubblico. Ancor più chiaramente, costa meno, e dunque conviene, pubblicare un libro piuttosto che testarlo preventivamente. Gran parte della produzione, e spesso la più interessante, è dunque basata su tentativi, è esplorativa, per non dire ‘alla cieca’, fondata cioè non su rilievi quantitativi, ma sull’intuito editoriale. In generale, dopo che la selezione del mercato si è esercitata sulla prima edizione – rilegata, di formato e di prezzo maggiore, ormai universalmente denominata hardcover –, i titoli sopravvissuti vengono ripresentati al pubblico (che si auspica sia, ma non sempre è, più ampio) in una veste in brossura, di formato e prezzo minore, denominata in Italia economica o tascabile, ma ormai, universalmente, paperback. In una certa misura, quindi, l’edizione hardcover costituisce la vera fase di R&D e di test del libro, mentre l’edizione paperback è l’edizione vera e propria, destinata al pubblico più ampio. A patto naturalmente che il pubblico più ampio esista. Dove così non è, come nel caso del nostro Paese, dominato da una concezione e da una pratica elitaria della lettura, il segno più evidente della ristrettezza del mercato è rappresentato dallo squilibrio quantitativo spesso molto accentuato a favore dell’hardcover.
Gli attori e la distribuzione del rischio tra le parti
All’origine dell’editoria libraria, nel 16° sec., vi erano solo due figure congiunte e contrapposte: da un lato l’autore, dall’altro l’editore-stampatore-libraio, che era editore in quanto sceglieva, era stampatore in quanto produceva e dunque investiva, ed era libraio in quanto vendeva. Questa figura composita, in un lungo arco di tempo che non è il caso di ripercorrere qui nelle sue forme e tappe storiche, si scisse in tre figure in linea di principio distinte. Anche se esistono tuttora editori che stampano e commercializzano i propri (e gli altrui) libri, le funzioni si sono divise e risultano correlate tra loro come se fossero ricoperte da entità separate. L’antica, confusa, unità è andata perduta e le figure che ne hanno preso il posto sono portatrici di istanze e di interessi distinti, anche se non necessariamente conflittuali. Una delle figure, quella dello stampatore, è scomparsa, nel senso che si è trasformata in una funzione meramente tecnica, un supporto certo necessario ma ininfluente nel processo, al pari della produzione di carta e inchiostro. Viceversa le altre due, editore e libraio (o retailer, come oggi si preferisce dire, a causa della molteplicità di punti di vendita del libro), hanno assunto configurazioni diverse – sia nei loro rapporti interni, sia nei loro rapporti con il terzo elemento che è l’autore, sia nei rapporti di tutti e tre con il quarto, incomodo, che è il pubblico – a seconda che si tratti di editoria di progetto oppure editoria d’autore.
Nell’editoria di progetto l’editore assume la guida dell’intero processo. Individuata la domanda del mercato, progetta il proprio prodotto e ne affida l’esecuzione all’autore. Il quale, pur dotato di tutta l’autonomia e la libertà intellettuale necessarie, è di fatto un esecutore, al pari di un regista o di un attore cinematografico assunti dal produttore. Portato a termine il proprio compito, lo cede al committente, il quale lo acquista e ne diviene il proprietario. È vero che nella maggior parte dell’editoria educativa e accademica, nei libri scolastici come nei manuali universitari, l’autore è compensato a royalties come nell’editoria d’autore propriamente detta, ma questa assimilazione non cambia la struttura del rapporto, che rimane sostanzialmente esecutivo. Semmai tende ad aggiungervi lo stimolo di una, eventuale, partecipazione agli utili, mentre di fatto la prestazione in sé è compensata da una somma corrisposta sotto forma di anticipo. Nell’editoria di progetto anche il libraio o retailer, al pari dell’autore, affronta rischi minori: il libro in questo caso risponde a una domanda precisa e preesistente e dunque anche l’acquisto risulta necessitato, comandato. Basti pensare, per es., alle adozioni scolastiche. E infatti, in ragione di questo minore rischio, su tale tipo di libri ovunque nel mondo è minore la percentuale del prezzo di copertina del libro, il cosiddetto sconto, che viene attribuito al retailer.
Nell’editoria d’autore le cose stanno ben diversamente. Qui il rischio, se si considera il singolo libro, è elevatissimo. Diviene tollerabile se, come si è visto sopra, lo si ripartisce tra una grande quantità di libri. Ma questo vale per l’editore e il libraio, non certo per l’autore, che è autore di un solo libro. Dunque il sistema funziona cercando innanzitutto di indurre l’autore ad affrontare il suo rischio offrendogli, da un lato, una percentuale relativamente elevata dei ricavi di auspicate future vendite e, dall’altro, mutuando dall’editoria di progetto l’idea di un compenso per l’esecuzione dell’opera sotto forma di anticipo. Ma l’idea centrale del compenso all’autore, la percentuale o royalty preferita al pur possibile acquisto in toto, discende dall’idea di minimizzare il rischio, dalla disponibilità a rinunciare all’ingente profitto del possibile buon esito pur di non esporsi troppo e, dunque, dalla realistica consapevolezza che i successi saranno in numero assai minore degli insuccessi. Sull’altro fronte, anche il retailer tende a ridurre al massimo il proprio rischio. Innanzitutto richiede e ottiene una percentuale del prezzo di copertina, lo sconto, molto più alta di quella dei libri dell’editoria di progetto: rischiando di più, vuole di conseguenza guadagnare di più. Ma soprattutto si garantisce la possibilità di restituire all’editore tutti i libri che non ha venduto, recuperando il proprio investimento. È il diritto di resa, un’istituzione tipica ed essenziale del business editoriale che è insieme la sua condizione di possibilità e la sua perenne, intrinseca, fragilità. A causa degli alti numeri di cui si è parlato non è infatti neppur pensabile un business editoriale in cui tutta l’aleatorietà, ovverosia tutto il rischio, sia scaricato sul retailer. D’altro canto, il fatto che l’elemento basilare di ogni costruzione economica, il ricavo, non sia mai certo, mai definitivo, avvolge le aziende dell’editoria d’autore in un tenace alone di precarietà che sembra assimilarle, ingiustamente, a imprese velleitarie e a volte dilettantesche. Di certo, invece, per l’editoria d’autore l’equilibrio si presenta particolarmente difficile, stretta com’è tra le opposte pressioni degli autori da una parte e dei retailers dall’altra, entrambi intenzionati, in perfetta e comprensibile buona fede, a trasmettere e a riversare sull’editore tutte le insicurezze, tutti i travagli e, da ultimo, tutti i pericoli del loro rapporto con il pubblico.
Libertà d’espressione e diritto d’autore
La libertà d’espressione e la libertà di stampa sono ovviamente valori in sé, su cui non è qui il caso di intrattenersi. Nello specifico ambito dell’editoria libraria sono irrinunciabili condizioni di esistenza e contemporaneamente conquiste faticose, tutt’oggi niente affatto assodate. L’assenza o la limitazione di queste due libertà annichilisce l’esistenza stessa dell’editoria. Nel caso estremo della coercizione, cioè del sequestro e del macero di un’opera, l’effetto diretto è la perdita economica totale relativamente a quella specifica opera. Ma molto più rilevante è l’effetto indiretto, vale a dire l’idea che ogni opera possa subire un analogo trattamento. All’aleatorietà intrinseca, come si è visto, del business, si aggiunge un puro azzardo che rende l’attività editoriale del tutto impraticabile da chi non abbia una pronunciata vocazione al martirio. Laddove ha luogo una coercizione di tale attività, infatti, l’unico editore diviene in breve tempo chi questa coercizione la esercita. Nel caso, molto più frequente, di limitazioni preventive delle libertà di espressione e di stampa, l’editoria, quando sopravvive, finisce inevitabilmente per distorcersi, per orientarsi ed esercitarsi nei settori non sottoposti a limitazione e insieme per cercare una rivalsa, un beneficio compensativo, presso coloro che impongono le limitazioni. In ogni caso, il principio della libertà di espressione e di stampa gode di un indiscusso e pacifico consenso nelle società avanzate, anche se al consenso non si accompagna quasi mai una qualsiasi forma di difesa del principio là dove esso viene spudoratamente calpestato. Valga per tutti l’esempio della Cina.
Un analogo consenso non accompagna viceversa il parallelo principio, quello legato al diritto d’autore, cioè la difesa della proprietà intellettuale. Risulta ostico infatti affrontare a viso aperto il fondamento ultimo di questo principio, ossia il fatto che le opere dell’ingegno hanno, anche, un valore venale. Il principio del valore venale dell’attività intellettuale e delle opere che ne derivano è, come si è visto, alla base dell’editoria libraria. Tuttavia, nonostante la sua lunga e abbastanza prospera vita, continua a stridere, a destare scandalo: il legame tra cultura e denaro ancora oggi appare innaturale. E ripugnante risulta l’idea che una sorta di messaggio indirizzato in linea di principio all’umanità intera venga viceversa fatto pagare e contribuisca ad arricchire sia l’autore sia, soprattutto, l’editore, un intermediario profittatore. Ma, a prescindere ora dall’editore e ritornando all’autore, quel che questa ideologia sotterraneamente assai diffusa vuole nascondere, la verità davvero scandalosa, è l’esatto contrario della sua ispirazione, il fatto cioè che è stata precisamente l’attribuzione di valore venale alle opere dell’ingegno a stimolarne la creazione. Ed è proprio questa la ragione per la quale l’editoria libraria, o perlomeno la sua parte più avveduta e illuminata, è direttamente interessata al mantenimento e al totale rispetto del diritto d’autore.
L’instaurazione della proprietà intellettuale ha in concreto significato per l’autore la possibilità di affrancarsi da qualsiasi tutela, di sottrarsi a committenze esplicite e soprattutto implicite e di rivolgersi invece direttamente ai propri lettori e al proprio pubblico. Per l’editore ha significato la possibilità di attingere a un’offerta di opere sempre più ampia e soprattutto sempre più orientata a interpretare e incontrare i gusti del pubblico. A mano a mano che nasceva l’editoria d’autore, gli autori divenivano autori per il pubblico.
L’editoria libraria oggi
La condizione attuale dell’editoria libraria può essere efficacemente rappresentata come la combinazione di tre elementi o aspetti che verranno qui di seguito analizzati: innanzitutto la lettura e l’acquisto, cioè sostanzialmente il consumo, di libri; in secondo luogo la struttura e le dimensioni quantitative del mercato (o, per meglio dire, dei mercati); infine il sistema competitivo, in altre parole le caratteristiche e, anche qui, le dimensioni quantitative delle imprese che si dedicano all’editoria libraria.
Lettura e acquisto: il consumo di libri nel mondo
Sfugge in generale ai più il fatto che è merito dell’editoria se oggi una parte certo minoritaria, ma non trascurabile, dell’umanità legge libri. Il ruolo fondamentale dell’editoria, che è stato ed è quello di trasformare i più alti conseguimenti dello spirito umano e insieme le peggiori e più effimere futilità in oggetti leggeri, maneggevoli e a buon mercato, ha fatto di più per la diffusione della lettura di tutte le benintenzionate pedagogie che si sono succedute nei secoli.
La descrizione e l’analisi del fenomeno della lettura di libri nel mondo si scontrano con una difficoltà estrema nel reperimento di dati attendibili e, soprattutto, omogenei. Le fonti internazionali, principalmente l’UNESCO, tendono comprensibilmente a sottolineare gli sforzi compiuti in tema di alfabetizzazione e là dove gli sforzi non sono stati compiuti non forniscono dati. La fonte europea, Eurostat, non fornisce dati in materia, il che è tanto più stupefacente se si considera che l’editoria libraria è un’industria oggi più che mai europea. Le fonti governative tendono, anche qui comprensibilmente, a fornire una rappresentazione più favorevole della propria realtà nazionale.
Per definizione, l’alfabetizzazione implica la lettura e in particolare una lettura, per quanto elementare e rudimentale, di libri. L’alfabetizzazione è divisa sostanzialmente in tre fasce: la prima comprende gli Stati Uniti e la quasi totalità dell’Europa (inclusi i cinque Paesi comparabili), con una popolazione di 698 milioni di individui, e si aggira su percentuali attorno al 98-99%. La seconda, quella che include i Paesi in via di sviluppo, numericamente la più rilevante visto che consta di 5,2 miliardi di uomini su un totale di 6,6 miliardi, si aggira intorno al 60%, cioè a poco più di metà della popolazione. La terza infine, composta da soli 622 milioni di persone e da Paesi in condizioni di forte arretratezza, si attesta su percentuali di gran lunga inferiori (UNESCO 2000).
In sostanza più di metà della popolazione mondiale non ha mai avuto contatto alcuno con un libro, neppure nella versione elementare di un abbecedario. Ma l’editoria libraria è, come si è visto, ottimista per definizione e dunque, per questo verso, il futuro che le si prospetta è di grande sviluppo.
Come è ovvio, quando si passa dalla lettura funzionale, di apprendimento, scolastica, alla lettura non funzionale le dimensioni si contraggono bruscamente. Non vi è qui disponibilità di dati attendibili né per i Paesi fortemente arretrati, né – e qui sarebbe invece di grande interesse averli – per i Paesi in via di sviluppo. Ma anche ristretti per forza di cose ai soli Paesi sviluppati, i dati sulla lettura non funzionale, quella dell’editoria d’autore, cominciano a far intravedere i profili nazionali di lettura, specifici di ciascun Paese. Una ricerca Censis del 2007 ha misurato la lettura non funzionale nei cinque Paesi europei comparabili assumendo come criterio la lettura da tre libri in su e considerando la popolazione a partire dai 14 anni: i lettori sono risultati essere il 39,8% per l’Italia, il 48,3% per la Francia, il 63,7% per il Regno Unito, il 47,7% per la Spagna, il 60,2% per la Germania. A questa ricerca si può affiancare una rilevazione americana della NEA (National Endowment for the Arts, 2007) che prendeva in considerazione lettori maggiori di 18 anni e il criterio di un libro l’anno con un risultato del 46%. Si noti in proposito che il criterio assoluto, quello di un libro l’anno, è scarsamente attendibile, perché rilevando queste indagini le dichiarazioni e non i comportamenti reali dei soggetti, è molto elevata la probabilità di risposte difensive.
Sorvolando per il momento sull’Italia, l’elemento fondamentale è che nella parte più sviluppata del mondo la lettura non funzionale di libri è un fenomeno che tocca circa la metà della popolazione adulta, nel senso che non costituisce necessariamente una pratica assidua, ma non è neppure un costume del tutto ignoto. Stiamo parlando, sempre grossolanamente e alla ricerca non dell’esattezza ma della comprensione della realtà, di circa mezzo miliardo di persone. Coloro che, nella più comune delle accezioni, leggono libri sono dunque meno di un decimo della popolazione mondiale, ma all’incirca in quell’ordine di grandezza. Anche qui il tenace ottimismo congenito nell’editoria libraria lascia presupporre che il futuro vedrà senza dubbio alcuno una crescita estremamente significativa di questa percentuale.
Vi è una grande differenza tra lettura saltuaria e lettura abituale di libri. La lettura abituale determina un consumo altrettanto abituale e quindi una domanda stabile. Secondo un’ulteriore ricerca Censis del 2007, relativa ai Paesi sviluppati, i lettori di almeno 6 libri l’anno su una base totale sono il 22% per l’Italia, il 25% per la Francia, il 35% per il Regno Unito, il 18% per la Spagna, il 33% per la Germania e il 17% per gli Stati Uniti. In linea di massima, nei Paesi sviluppati tra un terzo e un quarto della popolazione adulta annovera tra le proprie abitudini quella di leggere libri. Non ha ovviamente senso stabilire se questo valore sia alto o basso. È il risultato di uno sforzo durato mezzo millennio che ha portato una minoranza, comunque consistente, a poter fare quello che in epoche precedenti era riservato a poche migliaia di persone. E, per converso, tutte le volte che a proposito di libri si parla, in modo denigratorio e dismissivo, di consumi di massa, occorre sempre ricordare che non si sta parlando di maggioranze, ma di ridotte, se non addirittura esigue, minoranze, e quindi, in sostanza, di élites, i cui gusti possono anche essere a volte deplorevoli, ma restano comunque sempre elitari.
Lettura e acquisto in Italia. Disponiamo per l’Italia di informazioni più articolate e precise, anche se meno confortanti. La ricerca Mondadori-Ipsos 2007 stima al 38% gli individui (maggiori di 14 anni) che hanno letto almeno un libro l’anno. Si tratta di un dato non troppo diverso dal 39,8% della precedente stima Censis per i lettori di almeno tre libri.
Questo 38% si segmenta nel modo illustrato dalla fig. 1 e determina la concentrazione della lettura rappresentata nella fig. 2.
In Italia, su una popolazione adulta di 50 milioni di individui, vi sono 15 milioni circa di lettori saltuari (deboli e borderline) e 4 milioni, pari all’8%, di lettori abituali (medi, forti e fortissimi). Dunque nel nostro Paese la lettura abituale è un fenomeno che riguarda meno di un decimo della popolazione adulta. Di poco migliore è la condizione dei ragazzi, o per meglio dire della fascia di popolazione sotto i 14 anni. Qui su 4,7 milioni, i lettori sporadici sono 1,6 milioni e gli assidui 1,1 milioni, pari al 24% del totale.
Quali siano le ragioni storiche di questa umiliante condizione (dalla tarda unità nazionale alla teologia della Controriforma, che dissuadeva dalla lettura personale e diretta della Bibbia, al fatto che l’italiano sia una lingua letteraria, cioè di letterati) spetta alla ricerca storico-culturale portarlo in luce. Ma di fatto tutte hanno concorso a formare un’ideologia tenacemente elitaria della lettura, un’insofferenza sprezzante verso ogni tentativo di allargare la base di lettura del Paese, da ultimo la totale e totalmente condivisa indifferenza politica per il vero livello culturale della cittadinanza. Mentre altri Paesi, più fortunati e più sensibili (la Spagna e soprattutto il Regno Unito) hanno preso a considerare la diffusione della lettura una priorità nazionale, in Italia si fatica ancora a comprendere che senza lettura di libri non c’è competitività collettiva del Paese e non c’è contemporaneamente arricchimento individuale dei cittadini. Eppure gli obiettivi per una politica indirizzata in tal senso, cioè per una vera politica culturale italiana, sono semplici e scritti nelle statistiche. Si tratta di raggiungere il livello medio dei Paesi sviluppati, il 50% di lettori saltuari e almeno il 10% di lettori abituali. Dal punto di vista economico, la questione coinvolge qualche milione di euro all’anno per una decina d’anni.
Il mercato del libro
Non si va molto lontani dal vero se si stima per approssimazione attorno ai 65 miliardi di euro il valore annuo del mercato del libro nel mondo. Si giunge a questa cifra sommando dati abbastanza certi a congetture fortemente approssimate. Abbastanza certi sono i circa 23 miliardi dei cinque Paesi europei comparabili che diventano 32 aggiungendo, con qualche minore certezza, tutto il resto d’Europa. Molto attendibile è la stima a circa 17 miliardi del mercato statunitense, mentre già meno sicuri sono i quasi 7 di quello giapponese e del tutto ipotetici, per non dire nebulosi, i circa 6 cinesi. Come si vede dalla tab. 1, questo porta a un totale di poco superiore ai 61 miliardi, che si può arrotondare con un generoso eccesso ai 65 da cui siamo partiti includendo tutto il resto del mondo.
Occorre tuttavia aggiungere che la nozione stessa di mercato è, nel caso dei libri, a volte ambigua. Si pensi, per es., ai libri scolastici, in molti Paesi forniti, quando non addirittura prodotti, dalla scuola stessa, cioè dallo Stato. A rigore non fanno parte del mercato, e in effetti non vi vengono computati, ma rientrano per certo nella diffusione del prodotto libro.
A uno sguardo anche sommario sul mercato mondiale balzano agli occhi tre considerazioni. La prima riguarda il sostanziale equilibrio di dimensioni tra editoria di progetto ed editoria d’autore. Ciò significa che i due comparti vanno di pari passo e che dunque l’ampliamento della lettura scolastica ed educativa finisce per trasferirsi prima o poi in un parallelo ampliamento della lettura non necessitata, più libera e personale. La seconda considerazione riguarda invece il fatto che i libri hanno una geografia tutta propria, che non coincide con la geografia territoriale, né con la geografia di potenza, né con quella economica. Una geografia che sarebbe però imprudente definire culturale, termine vago e impreciso in cui è difficile non far rientrare manifestazioni – dalla musica alla cinematografia, alle arti performative e non – che hanno una distribuzione geografica diversa. La geografia a questo punto solo ‘libraria’ è fatta invece di sette mercati maggiori (più uno, quello cinese, assai imperscrutabile), ossia, in ordine di grandezza, Stati Uniti, Germania, Giappone, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna. Infine, terza considerazione, i mercati si suddividono secondo la lingua, tranne che per la lingua inglese, che appositi accordi commerciali separano in mercato britannico e mercato statunitense; il mercato complessivo in lingua inglese vale tuttavia da solo un terzo del mercato mondiale.
L’identità e la separazione linguistica, cioè l’eredità culturale primaria, rendono non globalizzato e non globalizzabile il mercato del libro. Non esistono di conseguenza in senso proprio multinazionali del libro, aziende cioè che concentrino la produzione per tutto il mercato mondiale. Altra cosa è naturalmente interrogarsi sulla permeabilità dei mercati a prodotti, cioè libri, non autoctoni. In questo caso è importante il punto di vista che si vuole adottare. Se si guarda al fenomeno sotto il profilo della polverizzazione, cioè del puro e semplice numero dei titoli, i mercati appaiono straordinariamente chiusi su sé stessi: i titoli ‘domestici’ sul totale dei titoli pubblicati sono il 95% per il Regno Unito, il 93% per gli Stati Uniti, il 92% per la Spagna, l’86% per la Francia, l’82% per la Germania e l’81% per l’Italia (UNESCO 2008).
La Germania e l’Italia, cioè i Paesi sconfitti della Seconda guerra mondiale, risultano un poco più aperti, ma l’autoctonia sembra comunque trionfare. Tuttavia, se si assume il punto di vista della concentrazione e, prendendo a esempio l’Italia, si esamina il primo centesimo dei titoli in commercio (quel primo centesimo che, come si ricorderà, vale da solo metà del mercato) si vede che i titoli non italiani sono il 44,9% e che contano per il 45,9% a copie e per il 46,3% a valore. In sostanza, metà della parte più profittevole del mercato è costituita da libri stranieri.
Le usuali rappresentazioni dei mercati dei libri soffrono della confusione e della sovrapposizione tra criteri classificatori eterogenei, quali sono i generi, cioè le grandi partizioni dei libri per contenuto, e i canali, cioè le modalità, le forme e i luoghi di reperimento e acquisto dei libri stessi. Ci sembra invece più opportuno e più efficace – e ne presentiamo qui una prima versione – combinare generi e canali in una griglia, cioè in una matrice che disponga i generi in orizzontale e i canali in verticale. La ‘griglia’, come d’ora in avanti la chiameremo, è uno strumento analitico molto potente, poiché scompone il mercato in unità genere/canale molto precise e consente di rispondere immediatamente a richieste puntuali, quali per es. quanta narrativa si venda nella grande distribuzione o quanta saggistica attraverso Internet. Molto potente certo, ma a volte troppo potente, nel senso che i dati disponibili non sono sempre così segmentati e ci si dovrà allora accontentare di aggregazioni meno puntuali. Per quanto riguarda i generi, l’editoria d’autore allinea accanto a Fiction e Non Fiction (denominazioni ormai universali per Narrativa e Saggistica) i Ragazzi e il genere Graphic, non presente in tutti i Paesi, ma molto sviluppato in alcuni, nel quale ricadono i fumetti, i manga giapponesi, la bande dessinée francese e il graphic novel anglosassone. L’editoria di progetto comprende invece oltre all’Education, che raccoglie tutti i libri scolastici, ma non quelli universitari, il genere APR (Academic Professional Reference), in cui rientrano i testi universitari, quelli scientifici, tecnici e medici, l’editoria professionale e, infine, l’editoria di referenza e di consultazione, vasta ed eterogenea categoria nella quale ricadono le enciclopedie come anche le dispense da edicola che andranno a formare un’opera di consultazione. Per quanto riguarda invece i canali, oltre alle Librerie (che a scopi più specifici si possono utilmente distinguere in Catene, Grandi Indipendenti e Piccole Indipendenti) e alla GDO (Grande Distribuzione Organizzata), vale a dire super- e ipermercati, figurano anche Internet, cioè i retailers on-line di libri fisici sul modello di Amazon, i Club del libro, le vendite porta a porta denominate DTD (door-to- door), cioè le vendite rateali, l’Edicola e infine le Vendite Dirette, cioè la categoria residuale nella quale rientrano tutte le vendite effettuate dagli editori al di fuori dei canali sopra elencati. Si tratta per lo più di vendite a scuole e biblioteche, ovvero di libri prodotti per committenti pubblici o privati. In ragione della prevalente finalità di consultazione, sono state tutte poste sotto il genere APR. Le griglie relative ai cinque Paesi comparabili e agli Stati Uniti sono mostrate nella tab. 2.
Non vi è qui modo di esporre tutte le considerazioni cui l’esame comparativo delle griglie può dar luogo. Si noti solamente che, oltre al confronto puntuale dei valori assoluti di ogni singola unità genere/canale, la griglia consente di cogliere immediatamente la composizione percentuale per genere di ogni singolo canale e, analogamente, la distribuzione di ogni genere nei diversi canali.
Il mercato italiano. Le caratteristiche salienti del mercato italiano emergono senza difficoltà dal confronto tra le griglie. La dimensione meglio esprimibile come consumo pro capite in euro annui/persona è abbastanza allineata a quella degli altri Paesi sviluppati: 55,6 per gli Stati Uniti, 97,1 per la Germania, 77,4 per il Regno Unito, 65,1 per la Francia, 65,9 per la Spagna, 57 per l’Italia (dati 2007 Nielsen BookScan e Association of American publishers).
Va tenuto tuttavia presente che circa un decimo del mercato italiano è costituito dal canale Edicola (cioè soprattutto da dispense), del tutto assente in alcuni Paesi o in ogni caso assai meno rilevante. E sempre a proposito di dimensioni del mercato, il ristretto numero degli acquirenti italiani (considerati ad abundantiam pari ai lettori) fa sì che il valore del mercato per acquirente sia più alto di quello degli altri Paesi, a riprova e conferma del carattere pervicacemente elitario della lettura e dell’acquisto di libri nel nostro Paese. Per quanto riguarda i generi, la principale e più preoccupante anomalia italiana, in vista soprattutto del futuro prossimo, è l’esiguità del mercato Ragazzi che negli altri Paesi comparabili è nell’ordine della metà del mercato Fiction o del mercato Non Fiction, mentre in Italia è nell’ordine di un terzo. Per quanto riguarda invece i canali, è vistoso il ritardo italiano nelle vendite tramite Internet. Infine è particolarmente piccolo il mercato del genere APR nel canale Libreria: il genere risulta molto gonfiato dalle vendite rateali e, come si è visto, dalle dispense nel canale Edicola, nonché dalle vendite dirette; tuttavia, sono pochissimi gli italiani che pensano di poter migliorare la propria formazione e la propria capacità professionale tramite l’acquisto di libri.
L’industria del libro
Un primo sguardo alla classifica mondiale delle prime dieci aziende librarie (tab. 3) mette in luce il fatto che sei su dieci, pari però a circa il 70% del fatturato complessivo, appartengono all’editoria di progetto. All’APR la prima, la quarta e la quinta, all’Education la seconda, la sesta e la nona, mista la settima.
Se poi si considera che il primo gruppo di editoria d’autore, cioè Bertelsmann (qui al terzo posto), è costituito per solo il 41% da editoria d’autore vera e propria (e per il resto da club), che il secondo (qui al sesto posto), cioè Hachette, comprende anche una cospicua parte di editoria di progetto e che, infine, l’inclusione di Reader’s Digest nell’editoria d’autore è alquanto opinabile, si può concludere che nelle posizioni alte della classifica mondiale l’editoria di progetto sovrasta e quasi annichilisce quella d’autore. La ragione è assai semplice: il mercato dell’editoria professionale e scientifica è a tutti gli effetti un mercato globale, monolingua, cioè in lingua inglese, costituito in parte da libri, ma per la parte prevalente da servizi on-line e ad alto valore aggiunto, nel senso preciso che l’informazione è preziosa. Il mercato Education è a sua volta prevalentemente in lingua inglese, come ovviamente il comparto molto profittevole dell’ELT (English Language Teaching). È naturale quindi che le imprese si siano concentrate e abbiano raggiunto dimensioni propriamente industriali in quest’ambito, incomparabili comunque con quelle dell’editoria d’autore. Se si ricorda infatti che i mercati dell’editoria di progetto e dell’editoria d’autore sono sostanzialmente equivalenti, alla maggiore concentrazione del primo deve per forza corrispondere un notevole maggior frazionamento del secondo, determinato in primo luogo dalla diversità linguistica. E dunque anche il significato di ‘concentrazione’ cambia a seconda che ci si riferisca all’editoria di progetto o a quella d’autore. Nel primo caso sta a indicare la creazione di un effettivo processo unificato e di un’unica gamma di prodotti. Nel secondo significa poco più che giustapposizione e somma di case editrici diverse, giacché per quanto riguarda l’attività propriamente editoriale non vi sono vantaggi particolari nell’incremento di dimensione.
La profonda diversità sotto il profilo imprenditoriale tra editoria di progetto ed editoria d’autore spiega anche la diversità sotto il profilo proprietario. I grandi, e prosperi, gruppi dell’editoria di progetto sono di prevalente proprietà anglosassone, mentre l’editoria d’autore è, con l’eccezione dell’angloamericana Harper Collins, di proprietà europeo-continentale (tab. 4). Non è forse privo di significato il fatto che il luogo dove l’editoria è nata sia pressoché l’unico in cui si continua a credere, fattivamente, nei libri d’autore. La bassa, o per meglio dire inesistente, barriera all’ingresso trasferisce una delle caratteristiche salienti dell’editoria libraria – la polverizzazione – anche al sistema competitivo (fig. 3). Nella sola Italia, nel 2008 si contano 4304 imprese editoriali. E, per converso, si trasferisce anche la concentrazione. Negli Stati Uniti e nei Paesi comparabili circa cinque gruppi o imprese (comunque meno di dieci) coprono metà del mercato dell’editoria d’autore (a eccezione della Spagna, dove coprono quasi l’80%).
L’industria libraria italiana. La principale caratteristica dell’industria libraria italiana è quella di essere, nella quasi totalità, di proprietà italiana (fig. 4). Fa eccezione, infatti, un solo gruppo, collocato nell’editoria di progetto, e cioè Bruno Mondadori Paravia, controllato dall’inglese Pearson.
Nell’editoria d’autore, il sistema competitivo italiano è analogo a quello degli altri Paesi comparabili. La quota di mercato del primo gruppo italiano, Mondadori, risulta lievemente inferiore a quella del primo gruppo spagnolo, Planeta, e lievemente superiore a quello del primo gruppo francese, Hachette.
Semi di futuro: fenomeni non compatibili con l’editoria classica
L’apocalisse temuta e annunciata alla fine degli anni Novanta non si è verificata. Nonostante le imprudenti e interessate affermazioni anche di grandi protagonisti di quella supposta rivoluzione. Sarebbe tuttavia incauto non prestare attenzione a quei fenomeni che, con dimensioni in un paio di casi già rispettabili e negli altri minime, stanno introducendo nel prospero quadro dell’editoria libraria elementi di qualche disagio poiché chiamano in causa, e di fatto revocano o negano, alcuni degli assiomi che dell’editoria medesima stanno a fondamento.
Il retail on-line
I libri sono il prodotto fisico e tradizionale, quindi ovviamente preesistente alle tecnologie elettroniche, nell’ambito delle quali l’e-commerce si è affermato con maggior successo. Nei mercati più sviluppati, Paesi anglosassoni e Germania, o supera abbondantemente oppure si aggira attorno al 10%: più precisamente, si attesta al 10% negli Stati Uniti, al 14,5% in Germania, al 9% nel Regno Unito, al 6,6% in Francia, al 2,3% in Italia e al 2% in Spagna (dati 2007 Nielsen BookScan, Livres hebdo e Book industry study group). Tuttavia, anche in Italia, dove il mercato on-line nel 2008 copriva ancora soltanto il 3,2%, il tasso di crescita appare comunque impressionante: dall’1,3% nel 2005 si è saliti all’1,9% nel 2006, al 2,3% nel 2007, sino ad arrivare al 3,2% appunto nel 2008 (Nielsen BookScan 2008).
Il retail on-line è caratterizzato da un numero ridottissimo di operatori: un leader mondiale, Amazon, protagonista del mercato americano e presente in Europa nel Regno Unito, in Francia e Germania (con progetti di espansione soprattutto in India e Cina), e operatori nell’ordine delle unità in ciascun Paese. In Italia gli operatori sono quattro, due maggiori, IBS (Internet Book Shop) e BOL (Books On Line), e due minori, Lafeltrinelli e Hoepli.
Si potrebbe obiettare che il retail on-line è, semplicemente, un altro canale di vendita, ma non è così. Il primo elemento non classico è la tendenza totalizzante, cioè l’assunzione del ‘tutto’ come campo di riferimento, tipica delle nuove tecnologie. Qui il ‘tutto’ è l’assortimento, la totalità dell’assortimento, qualcosa cioè che nessun altro canale di vendita ha mai offerto o potuto offrire. Per fare solo un esempio, IBS mette a disposizione 450.000 titoli, BOL 300.000: in pratica tutti i libri in commercio. Il secondo elemento non classico – il maggiore – è l’eliminazione del luogo fisico di vendita, la libreria, e di tutti i costi connessi. Il terzo è l’eliminazione della resa, legata in effetti al bisogno di avere una presenza fisica dei libri sul punto di vendita. Il retailer on-line ha un magazzino proprio composto da poche migliaia di titoli (contro le decine di migliaia di una libreria media e le molte decine di migliaia di una grande) e per il resto si approvvigiona direttamente soltanto nel momento in cui riceve la richiesta da parte del suo cliente.
Il retail on-line traduce in concreto uno degli ideali regolativi del mondo dei libri, cioè il reperimento assoluto, trovare quel che si cerca o, perlomeno, sapere se quel che si cerca c’è. È quindi il canale di vendita elettivo per la ricerca di libri, cioè per la domanda e per il mercato guidato dalla domanda. Rispetto alla visione tradizionale il retail on-line opera un capovolgimento: non più una miriade, ma pochissimi retailers; non più una selezione, ma la totalità dei titoli; non più l’incertezza, ma la certezza della reperibilità; non più il tempo per recarsi nel punto di vendita, ma il tempo per seguire le linee della propria ricerca.
Non solo libri a scuola
«Un futuro in cui i nostri figli saranno più motivati, perché impareranno non guardando una lavagna, ma toccando uno schermo. Un futuro in cui ogni studente in ogni classe avrà un personal computer sul banco. Un futuro in cui i ragazzi non si limiteranno a buttar giù un riassunto, ma progetteranno una presentazione in Power Point, in cui non faranno un tema, ma costruiranno un sito web, in cui una ricerca non consisterà nel prendere un libro in biblioteca, ma nell’entrare in corrispondenza via mail con i maggiori esperti del settore». Questa perorazione, pronunciata da Barack Obama nel discorso tenuto a Dayton il 9 settembre 2008 (A 21st century education, http://www. barackobama.com/2008/09/09/remarks_of_senator_ barack_obam_111.php), esprime bene sia una visione largamente condivisa a favore di quella che viene ritenuta una pedagogia più progressiva e modernizzatrice, sia una realtà che nei fatti viene guadagnando sempre più terreno. Per fermarci alla sola Europa, nel Regno Unito, uno dei Paesi sotto questo profilo più avanzati, il 38% degli insegnanti usa il computer in classe per almeno il 50% delle lezioni. Ma la tendenza a usare permanentemente il computer all’interno della classe è dimostrata dal confronto tra la situazione del 2001 e quella del 2006 (tab. 5).
Tranne che nel nostro Paese (in evidente e frequente ritardo), il computer migra dalle biblioteche e dai laboratori informatici per installarsi permanentemente all’interno delle classi. D’altra parte, il 74% degli insegnanti europei considera interessante e attendibile il materiale trovato in Internet e comunque oltre il 63% ne fa effettivo uso nella pratica didattica. Più in generale, sempre il 74% degli insegnanti europei, che sono in tutto quattro milioni e mezzo, dichiara di usare il computer in classe. Per quanto riguarda gli studenti, siamo ancora lontani, molto lontani dalla situazione auspicata da Obama della disponibilità di un computer a testa: sul totale degli studenti, i computer disponibili sono il 7,7% in Germania, l’8,5% in Spagna, l’8,9% in Francia, il 6,5% in Italia, il 20% nei Paesi Bassi, il 16,2% in Finlandia, il 18,5% nel Regno Unito (Commissione europea, Benchmarking access and use of ICT in European schools 2006).
Ma la tendenza più che chiara è incontrovertibile: le tecnologie informatiche stanno entrando nelle scuole dei Paesi europei a un passo e a un ritmo rapportabili al generale livello di sviluppo culturale di ciascun Paese (la media del 74% prima citata è fatta di un 36% della Grecia e di un 95% del Regno Unito). Ed è del pari evidente per quale ragione questo mutamento tocca i libri: nella tradizionale sequenza insegnante-libro-studente si è inserito un quarto incomodo, o comodo, se si preferisce, che inevitabilmente o sottrae spazio al libro tradizionale o, con maggiore probabilità, ne determina una collocazione e una funzione diversa. Il libro in sostanza non è più solo, non è più unico e dovrà forse giustificare e motivare la propria esistenza e la propria necessità. Del resto la parziale detronizzazione del libro in altri settori, nell’editoria scientifica e professionale, è un fatto già avvenuto. Ma certamente ben altro peso avrà nell’editoria scolastica ed educativa in generale. Come abbiamo già ricordato, la lettura funzionale e necessitata è propedeutica alla lettura non funzionale, quella che viene comunemente ritenuta la lettura vera. E un processo educativo in cui il libro è strutturalmente affiancato e integrato alle tecnologie non potrà non avere effetti decisivi sul modo di rapportarsi alla lettura in generale.
L’e-book
«Anything, anytime, anywhere» ogni cosa, in ogni momento, in ogni luogo. Le tre ‘a’ dello slogan pubblicitario di Kindle colgono il punto centrale, il vero vantaggio dell’e-book, il libro elettronico, in generale e dell’e-book di Amazon, Kindle appunto, in particolare. Di per sé, infatti, leggere su uno schermo non presenta vantaggi, tranne la possibilità di variare, cioè di ingrandire, il corpo dei caratteri. La reale appetibilità dell’e-book (soprattutto il vantaggio di avere in un device, cioè in un apparecchio elettronico dotato di schermo per la lettura di e-book, centinaia di libri) è stata alquanto dubbia, fino alle possibilità tecnologiche offerte dalla connessione wireless, ossia senza fili, come quella di un telefonino. È infatti il device, il dispositivo di lettura stesso, Kindle, a collegarsi con la biblioteca in formato elettronico di Amazon, a scaricare il libro prescelto senza dover passare attraverso un computer e a renderlo immediatamente (cioè in circa 45 secondi) disponibile alla lettura. L’effetto finale è quello di ingigantire la nozione di ‘acquisto d’impulso’, da ‘vedo e compro’ all’interno di un punto di vendita a ‘mi viene in mente e compro’ in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. L’idea è quella della disponibilità totale, di una piccola onnipotenza e insieme ancora della istantaneità nel soddisfacimento di un desiderio. Anche qui dunque ritorna quella dimensione totalizzante caratteristica delle tecnologie elettroniche applicate al libro.
Nonostante non si possa consultare qualsiasi libro (sono 240.000 i libri disponibili nella biblioteca elettronica di Amazon) e il collegamento sia possibile soltanto all’interno degli Stati Uniti, la potenza del mezzo è fuori discussione e i vantaggi collaterali sono evidenti. Innanzitutto la convenienza del prezzo, meno di metà di un’edizione hardcover, con la prospettiva di un’ulteriore riduzione, come per tutti i prodotti elettronici; poi la facilità di lettura: l’e-ink, il nuovo inchiostro elettronico, eguaglia in nitidezza la stampa tradizionale; infine la capienza: la memoria di ogni apparecchio può contenere 1500 libri, una rispettabile biblioteca. Il 3 marzo 2009, a meno di un mese dall’uscita di un nuovo modello (Kindle 2) presentato alla Morgan Library di New York, Amazon ha annunciato di aver concluso un accordo con Apple per rendere gli e-book leggibili su iPhone. Vi erano già diverse altre società che producevano e-book leggibili su telefonini di ultima generazione, ma la novità di Amazon consiste nel fatto di rendere lo stesso testo leggibile a piacere su un device specifico, cioè su Kindle 2, e/o sul telefonino, riprendendo la lettura su un mezzo dal punto in cui era stata interrotta sull’altro. Questo sistema, chiamato multidevice reading, rende la lettura di libri praticabile in ogni momento disponibile senza dover portare niente con sé. Amazon non ha mai fornito e non fornisce dati sulla diffusione di Kindle e degli e-book, cosa che alimenta sospetti di un esito pratico per ora non esaltante. Ma si stima che già nel 2008 gli e-book pesino per gli Stati Uniti per oltre l’1% del mercato Trade. Come che sia, la tendenza è chiara: per i libri con lettura lineare, cioè per i libri dell’editoria d’autore, l’e-book con collegamento wi-fi e capace di multidevice reading è destinato a crescere molto rapidamente. L’unico fattore di rallentamento rilevante potrà essere quello geografico: nei Paesi linguisticamente isolati e con un mercato ad alta intensità, ma a bassa estensione, come l’Italia, potrebbe non esserci una diffusione a breve termine. Ma già a medio termine è inevitabile che ovunque la lettura su supporto elettronico conquisti una sua rispettabile posizione.
Da un punto di vista più generale l’effetto dell’e-book sulla struttura classica dell’editoria libraria appare sconvolgente. Interi segmenti dell’industria e di conseguenza interi blocchi di costo potrebbero scomparire completamente. Soprattutto tutto ciò che è legato alla fisicità del libro. E dunque non soltanto il processo e il costo di produzione fisica (carta, stampa e legatura), ma il processo e il costo di distribuzione e vendita e infine il costo dell’invenduto finale. Nell’insieme, fissato a cento il prezzo di copertina di un attuale libro di carta, scompare, al minimo, tra il 60 e il 70%. E insieme scompaiono figure familiari del mondo del libro: il libraio innanzitutto, ma poi anche lo stampatore, il distributore, il venditore. Non è azzardato affermare che l’e-book rappresenta una cesura nella vita del libro e un cambiamento di paradigma paragonabili solo a ciò che è accaduto con la nascita del libro di carta e stampato.
Google, o della frammentazione
Sono sette milioni i libri che Google ha scannerizzato e inglobato nel suo archivio alla fine del 2008, anche se non nel senso di titoli, dato che di numerosi classici sono presenti diverse edizioni. Ma se anche i sette milioni dovessero diventare sei e mezzo, con una riduzione probabilmente troppo abbondante, rimarrebbe una dimensione di tutto rispetto: per essere precisi di gran lunga superiore alla metà del totale dei libri in commercio nel mondo che, come abbiamo già ricordato, sono undici milioni.
Google è il più grande e potente motore di ricerca che oggi esista. Trae i suoi ricavi e i suoi profitti dalla pubblicità inserita nelle pagine che vengono aperte e consultate dagli utenti. Il suo scopo e il suo principale interesse è dunque quello di soddisfare nella maniera più ampia e completa possibile la richiesta di informazione che le viene rivolta ogni volta che, componendo una parola, viene avviata una ricerca. Si comprende dunque la ragione principale che ha indotto Google a intraprendere, e a quanto risulta a proseguire, il suo gigantesco programma di scannerizzazione e di digitalizzazione. Si tratta di ampliare in maniera decisiva il proprio ‘potere di referenziazione’, in altri termini la capacità di reperire e integrare informazioni opportunamente indicizzate, estendendolo all’intero patrimonio di conoscenze depositato nei libri. Le modalità di fruizione dei testi librari sono e saranno differenziate. Per i testi di pubblico dominio, fuori diritti, sarà possibile vedere l’intero testo o qualsiasi sua porzione. Viceversa per i testi protetti dal diritto d’autore si potrà andare dalla visualizzazione della semplice frase in cui la parola ricercata si trova inserita a visualizzazioni più ampie.
La materia è attualmente oggetto di dispute e molto oscura. Google, dopo aver avviato il suo programma di scannerizzazione, è stato chiamato in giudizio nel 2005 dagli editori statunitensi e dalla Authors Guild (l’associazione statunitense degli autori) e ha perso. Ha quindi proposto nel 2008 un accordo extragiudiziale, e di conseguenza una remunerazione, ai propri avversari, alcuni dei quali hanno accettato e altri no, ma con modalità differenziate. Ancora diversa è la posizione degli editori europei, non ancora ben definita. Così come non definite, o non completamente definite, rimangono ancora le possibilità che Google utilizzi il lavoro di digitalizzazione fin qui accumulato per finalità diverse da quelle di pura referenziazione, prima tra tutte quella di fornire e-book.
Sembra chiaro comunque che, una volta avviata, la dinamica interna al processo di digitalizzazione universale finirà per prevalere su ogni ostacolo e tenderà a estendersi in ogni direzione. Alla lunga nessun autore e di conseguenza nessun editore accetterà che i propri libri ne rimangano esclusi, perché così facendo finirebbero per rimanere esclusi da quello che potrà o potrebbe affermarsi come ‘il’ sistema di ricerca universalmente diffuso e praticato.
L’idea di superficie di Google è elementare nella sua semplicità e per questo dirompente: costruire un sistema di consultazione universale della biblioteca universale, di tutti i libri cioè presenti nel mondo. Ma è l’idea retrostante quella davvero inusitata e piena di interrogativi ancora senza risposta. L’idea di poter frammentare, triturare, sbriciolare l’intero patrimonio della cultura scritta e di renderlo leggibile e utilizzabile in forme sostanzialmente diverse da quelle entro le quali fu concepito. La tendenza totalizzante delle nuove tecnologie si esprime qui in una doppia direzione, ossia nel massimo della totalità del campo, assunto per la prima volta ‘tutto’, nell’idea di una biblioteca totale, e nel minimo, cioè nell’idea che la biblioteca totale è composta da tutti gli infiniti e infinitesimi atomi portatori di un significato.
Il self-publishing
Sono sempre esistite case editrici specificamente dedicate a stampare e a pubblicare libri a spese degli autori. Ma si è sempre considerato che svolgessero un’attività non proprio rispettabile, per non dire che sfruttassero cinicamente una umana debolezza. Quel che ha cambiato le cose e ha trasformato l’antica stampa a pagamento nel moderno self-publishing, o autopubblicazione, è stata l’introduzione della tecnologia POD (Print on Demand), una modalità di riproduzione nella sostanza più simile alla fotocopia che alla stampa tradizionale. Il vantaggio sta nel fatto che il costo della stampa tradizionale ha una componente variabile, legata al numero di copie, ma anche una componente fissa, legata all’allestimento degli impianti di stampa, molto elevata e tale comunque da richiedere per essere ammortizzata una tiratura consistente. La tecnologia POD non ha in sostanza la componente fissa: il costo unitario è molto elevato, ma tutto variabile, ed è dunque possibile stampare quantitativi molto ridotti, da poche unità a poche decine a poche centinaia, in ogni caso non una copia in più di quelle richieste o necessarie.
È divenuto in tal modo possibile, con una spesa non infima, ma affrontabile, avere il proprio libro, poter cioè dare a qualcosa di proprio – le proprie fotografie, le proprie memorie, le proprie poesie, ma anche il frutto della propria esperienza professionale o i propri tentativi di narrazione – la forma e l’aspetto fisico, sentiti evidentemente come segni di valore, del libro normalmente pubblicato e normalmente in commercio. Di conseguenza i libri del self-publishing hanno in generale tre scopi: o una gratificazione privata e personale, e in questo caso sono essenzialmente rivolti all’ambito delle relazioni familiari e amicali; o l’autovalorizzazione professionale, costituendo una sorta di biglietto da visita più corposo e indirizzato, e l’ambito di riferimento sono allora i possibili clienti; o il tentativo di segnalarsi in quanto autori presso il pubblico certamente, ma soprattutto al mondo dell’editoria maggiore e ufficiale, lettori, editor, agenti, nella speranza di un auspicato ingresso in quel mondo medesimo.
Nel giro di pochi anni le aziende di self-publishing si sono moltiplicate (negli Stati Uniti, terra di nascita e di elezione, se ne contano oggi parecchie decine) e alcune hanno raggiunto una dimensione di qualche rilievo. Per fare un esempio, Author Solutions, una società che possiede tra le altre iUniverse, una delle cinque maggiori insieme con Booklocker, Lulu, DogEar e BookSurge, ha pubblicato nel 2008 13.000 titoli e ha venduto due milioni e mezzo di copie, con una vendita media a titolo, considerando i titoli pubblicati negli anni precedenti, di circa 150 copie. Ma vi sono anche aziende che pubblicano libri destinati in prevalenza all’uso personale dell’autore e in questo caso il numero delle novità sale vertiginosamente. Blurb ha pubblicato nel 2008 300.000 titoli, ma i suoi ricavi sono saliti in due anni da uno a trenta milioni di dollari. Il modello del self-publishing è più o meno costante. L’autore/cliente paga una somma iniziale che varia tra 600 e 1200 dollari, ai quali però si aggiungono ulteriori pagamenti per ogni specifico servizio che l’azienda è in grado di fornire: editing, progettazione di copertina, correzione bozze, distribuzione, naturalmente comunicazione e persino attribuzione del codice ISBN (International Standard Book Number). L’autore acquista le copie per uso personale, mentre su quelle vendute attraverso Internet o attraverso i librai che le ordinano riceve una royalty che si aggira in media attorno al 35%.
Un discorso a parte merita il self-publishing nel formato e-book. Amazon gestisce una delle principali società di self-publishing, BookSurge, e naturalmente rende disponibili su Kindle i libri pubblicati da BookSurge. Fa anzi qualcosa di più: li associa e li accoppia a libri ‘normali’ di successo che per un verso o per l’altro siano loro affini. In questo modo il compratore su Amazon del libro di successo, fisico o elettronico che sia, si trova automaticamente indirizzato al libro del self-publishing. Tuttavia, poiché lo scopo principale di Amazon è acquisire e fidelizzare nuovi clienti, dalla fine del 2008 chiunque lo desideri può inviare un proprio testo al servizio Kindle Compatible File Conversion di BookSurge il quale, gratuitamente, lo trasforma nel formato digitale compatibile per Kindle e quindi lo rimanda all’autore.
Non c’è dubbio che il self-publishing di primo acchito appaia come la più radicale negazione dell’editoria classica, ma a ben vedere l’atteggiamento è duplice. Da un lato, l’editoria classica e i suoi prodotti sono l’obiettivo irraggiungibile o, per meglio dire, non raggiunto. Per questo verso l’odiosa e amata editoria si circonfonde di un alone di potenza e di eccellenza che non le è proprio e che in verità non le appartiene, ma in questo contesto occorrerà comunque riflettere sulla forza simbolica del libro e sull’attrazione che è in grado di esercitare. Dall’altro lato, in nessun settore quanto nel self-publishing si coglie appieno l’impopolarità dell’editoria. L’editoria classica è pachidermica e dunque stolida, indecifrabile nelle proprie motivazioni, ma soprattutto e peggio di tutto selettiva, gerarchica, autoritaria. Nel self-publishing vi è una specie di ribellione contro la grandeur dell’editoria, c’è una sorta di irrisione e di sberleffo ogni volta che la fitta rete dei grandi editori si lascia sfuggire un pesce grosso ed è poi costretta a inseguire con prepotente goffaggine libri pubblicati con pochi dollari. Ma c’è anche nel self-publishing un grande e ingenuo amore per i libri, un desiderio di averli più vicini e forse la scoperta che le nuove tecnologie possono aumentare e allargare il prestigio del libro mitigandone nello stesso tempo alcuni degli aspetti meno gradevoli.
I social networks di libri
Il fenomeno dei social networks di libri non ha lo stesso peso dei fenomeni non classici fin qui elencati. Come gli altri, infatti, anche i social networks sono essenzialmente luoghi di comunicazione, scambio e condivisione di informazioni, opinioni, reazioni emotive. In sostanza il libro e il processo editoriale che lo genera sono un assunto iniziale, un dato di partenza o, in modo più proprio, un precedente. Tuttavia, per le dimensioni che sono andati assumendo e per le dinamiche interne che li percorrono i social networks di libri danno luogo a fenomeni e a tendenze del tutto ignote al quadro classico dell’editoria.
All’origine questo tipo di social network si costituisce su due vettori, il primo legato all’idea, propria di tutti i social networks, di condivisione diretta, il secondo, meno comune, all’idea di catalogazione, vista quest’ultima come delimitazione di un perimetro di interesse preciso. LibraryThing, il più grande social network di libri, ha oltre mezzo milione di utenti che apportano e si scambiano informazioni bibliografiche al fine di costruire «uno strumento di descrizione e catalogazione, secondo il modello della catalogazione condivisa». LibraryThing ospita 540.000 recensioni e 38 milioni di tag, ma la sua finalità primaria resta quella esplorativa e di reperimento, quella cioè di circoscrivere l’intero continente dei libri costruendo una sorta di recinzione all’interno della quale tutto sia descritto in maniera uniforme e risulti quindi reperibile.
Ma anche il più noto aNobii, classico social network orientato allo scambio di opinioni e pareri, ha all’origine un intento catalogatorio. Chi si iscrive crea infatti innanzitutto la propria libreria o il proprio scaffale virtuale, il proprio catalogo dunque, che, elaborato dagli algoritmi del sistema, permette di individuare immediatamente gli altri utenti più affini, di mettersi in contatto con loro e di avviare lo scambio. Da notare che aNobii, su un totale di utenti tra i 300 e i 400.000, ne ha ben 100.000 solo in Italia. La preponderanza del nostro Paese (il network è stato fondato a Hong Kong) si spiega con il suo carattere particolarmente orientato alla community, puntato al dialogo, meno serioso di LibraryThing e anche di GoodReads, terzo principale social network di libri. I social networks non vendono direttamente libri, anche se possono essere collegati a retailers on-line e dalla connessione ricavano parte dei loro ricavi. Il loro principale patrimonio è il database degli utenti, per la cui creazione sacrificano la possibilità di ricavi e profitti nei primi anni di esistenza. Una volta raggiunta la massa critica di utenti e un loro preciso profilo, si apre ovviamente la possibilità di applicare modelli di pubblicità mirata e di raccolta dati da rivendere poi sotto forma di ricerche di mercato.
I social networks di libri costituiscono una delle sedi principali, se non la principale, per lo sviluppo del cosiddetto viral marketing denominato anche contagio. L’idea sottesa è quella di propiziare in tal modo la formazione autonoma, per aggregazione e selezione, di una tendenza di mercato e quindi di una selezione spontanea, dal basso. Nell’editoria classica, infatti, il marketing è il vero collo di bottiglia, in quanto le risorse disponibili, anche nella più generosa delle ipotesi, non sono in grado di sostenere tutti i titoli pubblicati e la selezione in questo caso è compiuta dall’alto ed è dunque avvertita dal pubblico come impositiva, come una forzatura della propria volontà. Nel caso dei social networks invece è l’insieme delle interazioni libere, dei liberi contatti a creare prima una coagulazione di interesse, poi una vera spinta di mercato attorno a un titolo.
Punti di fuga
In quest’ultima parte si cercherà di estrapolare linearmente alcune delle tendenze attualmente in atto non per fare profezie, tantomeno catastrofiche, ma per comprendere meglio quali saranno i dilemmi di un futuro non si sa quanto prossimo. Pur con tutta la prudenza del caso, si può comunque affermare con sufficiente certezza che attorno a tre punti ruoterà il futuro dell’editoria libraria.
Il primo è il futuro della proprietà intellettuale, ossia del diritto d’autore, di conseguenza della professione di scrittore. Il secondo è il futuro dell’editoria libraria in quanto tale, del suo spazio, della sua funzione, della sua esistenza e della legittimità, non tanto pratica quanto di principio, della medesima. Il terzo è il futuro della forma libro, non dunque del libro di papiro, di pergamena, di carta o di bit elettronici, ma di quella singolare formazione, concreta ma anche molto astratta, che ha determinato e dominato la vita culturale dell’umanità negli ultimi tre millenni. Infine due questioni di cornice, la prima riguardante la natura della rivoluzione tecnologica che abbiamo di fronte, per quanto riguarda i suoi effetti sul libro e sull’editoria. La seconda riguardante invece i tempi nei quali il mutamento si produrrà.
La proprietà intellettuale e lo scrittore professionista
Non c’è dubbio che il mondo di Internet è pervaso da un’ideologia non propensa a difendere la proprietà intellettuale come un principio irrinunciabile. Al duplice antico pregiudizio secondo cui il valore intellettuale nulla ha a che vedere con il valore venale e le opere dell’ingegno appartengono per definizione all’umanità intera e debbono dunque essere liberamente accessibili, si aggiunge la specifica ideologia ‘internettiana’ secondo cui non vi sono produttori e consumatori, emittenti e ricettori, nel caso specifico autori e lettori, ma una comunità totale di eguali, che possono di volta in volta ricoprire entrambi i ruoli. L’idea di fondo è quella di uno scambio che, essendo in linea di principio paritario, elimina, sempre in linea di principio, la necessità di compensi.
Attualmente la questione, con tutte le sue conseguenze, ancora non si pone per la semplice ragione che i materiali si possono scaricare solo su computer. Tutto cambierà il giorno in cui vi sarà – e vi sarà – un device simile a Kindle, ma in grado di scaricare un qualsiasi file non criptato esistente sulla rete. Non vi è infatti modo di impedire che i sistemi di protezione vengano violati e dunque in breve tempo tutti i libri di maggior interesse per il pubblico potrebbero trovarsi (si troveranno) sulla rete disponibili a essere scaricati e letti su un device per e-book. A titolo assolutamente gratuito. E, occorre aggiungere, nel pieno rispetto della legalità. Secondo la giurisprudenza accreditata, infatti, il file sharing, cioè lo scambio di file senza scopo di lucro, è del tutto legittimo e non viola la normativa sul diritto d’autore e sulla proprietà intellettuale.
Non è stata l’editoria a creare la figura dell’autore, che è nata con il libro, ma quella dello scrittore sì. Dello scrittore professionista s’intende, di colui che vive vendendo ciò che scrive ai suoi lettori, senza dover dipendere da una corte, da una chiesa, da uno Stato, da un partito. Se l’editoria ha creato il pubblico dei lettori, ha anche creato sull’altro fronte la categoria degli scrittori e li ha indissolubilmente connessi facendo dipendere le fortune dei secondi dai gusti dei primi. E anche se è doloroso ammetterlo, occorre riconoscere che nulla ha stimolato la creatività e la fantasia umana quanto la prospettiva di un vantaggio economico. Per converso, dove e quando il legame tra scrittori e pubblico mediato dal concreto atto dell’acquisto è stato impedito o è venuto meno, è diminuita fino quasi a cessare la produzione di libri, è cessata l’invenzione, si è inaridita la fantasia. Se finirà per prevalere un modello di produzione intellettuale che di fatto le toglie un significato economico, è probabile che si esauriscano le forme espressive e le modalità costruttive dell’immaginazione e del pensiero che abbiamo fin qui conosciuto.
La funzione dell’editoria d’autore
Che cosa resta del processo editoriale una volta che il libro ha perduto la sua fisicità? Scompaiono per certo le fasi finali, la distribuzione e la vendita fisica. Scompare, ovviamente, la stampa. Scompare l’invenduto e la necessità di eliminarlo.
Ammesso, e certo non concesso, che si trovi una soluzione ai problemi descritti nel paragrafo precedente, ammesso cioè che continuino a esistere scrittori, l’editoria d’autore finirà per ridursi, o meglio concentrarsi, nelle fasi di scelta, di lavorazione del testo, ovvero di editing, e di promozione e comunicazione. In altri termini, e fatta esclusione per l’editing, l’editoria d’autore, che già per sua natura non fabbrica il proprio prodotto (i libri non si fabbricano), non rischia neppure più sulla produzione fisica, che sarà scomparsa, e di fatto si trasformerà in una sorta di agenzia di marketing, che garantirebbe con il proprio marchio il valore del prodotto, cioè dei libri. Nel caos primigenio della totalità dei libri presenti sulla rete, l’editore finirebbe per rappresentare agli occhi del consumatore, cioè del lettore acquirente, una guida e un garante di qualità o, quantomeno, di coerenza di gusto.
Divenuta dunque un’agenzia di marketing, l’editoria d’autore potrà evolvere verso due modelli. Nel primo concentrerà la competizione e quindi il rischio sull’unica variabile decisiva, l’acquisizione di autori, perché solo attraverso la qualità del proprio portafoglio potrà elevare il valore del marchio. Crescerà dunque l’investimento in autori, molto aleatorio e rischioso. E comunque possibile solo una volta che si sia risolto il problema preliminare della salvaguardia della proprietà intellettuale. Ma sarebbe astrattamente possibile anche un modello a parti capovolte, in cui cioè l’editore anziché pagare viene pagato dall’autore per i servizi che è in grado di offrire.
I retailers on-line, e in particolare i retailers di e-book, negano vigorosamente di voler invadere o usurpare le funzioni degli editori. Ma in realtà è esattamente quello che stanno facendo, nel momento in cui si annettono e tendono a rendere automatiche – cioè governate da appositi algoritmi – le funzioni di marketing. I retailers on-line seguono la loro visione totalizzante e non badano a spese: oggi Amazon vende a 9,99 dollari e-book che acquista a un prezzo maggiore, dunque sottocosto. Lo fa per fidelizzare e profilare una sempre più vasta platea di clienti, cui poi rivolgersi attraverso un marketing automatizzato con un’offerta di estrema precisione. Domani, quando governeranno sempre attraverso appositi algoritmi la formazione spontanea dell’opinione e del gusto, saranno in grado di offrire agli autori una divisione diretta autore/retailer dei proventi, saltando completamente la mediazione dell’editore.
La forma libro e l’editoria di progetto
Il libro è una forma ed è una forma chiusa. Non è stato e non è solo un oggetto fisico, ma è stato ed è il modo della compiutezza, nell’informazione, nella conoscenza, nell’immaginazione, nella fantasia. Ma è chiuso, non diversamente da una statua o da una tela dipinta. Questa chiusura è bifronte, da un lato diviene eccellenza, dall’altro limite. Non cambia, dunque non si aggiorna, non si modifica, non interagisce.
Venendo a contatto con la rete la forma libro tende a perdere via via la nettezza del suo contorno, finendo progressivamente per erodersi e disgregarsi. Il fenomeno ha gradazioni diverse. A un primo livello il testo scritto comprende o affianca altri materiali, sonori o soprattutto visivi, con i quali viene a costituire un’ibrida unità che sarebbe improprio continuare a chiamare libro. Già oggi parte (domani gran parte, presto la totalità) dei testi didattici, scientifici e professionali hanno questa natura. Un secondo livello è quello dei libri che potremmo definire interattivi, o testi che vengono direttamente aggiornati se l’argomento lo richiede oppure testi che vengono direttamente costruiti attraverso un’interazione. Come i giapponesi keitai shosetsu, romanzi scritti e letti da una pluralità di autori su telefoni cellulari e che, trasferiti poi su carta, nel 2007 hanno occupato quattro dei primi cinque posti nella classifica dei romanzi più venduti. Al terzo e ultimo livello la forma libro si dissolve del tutto. Lascia il posto al contenuto, nozione questa assai astratta che in concreto significa la frantumazione e la polverizzazione di un libro in particelle che possono poi essere riconnesse in modalità, per usi e per fini completamente diversi. La teoria (e la pratica) del contenuto dispone su un unico, immenso piano questa specie di ghiaia di libri che riaggrega successivamente in strutture di nuova, e sua specifica, invenzione.
Si comprende dunque come e perché, a fronte del nebbioso futuro dell’editoria d’autore, l’editoria di progetto guardi al domani non solo con tranquillità, ma con la certezza che il domani le appartiene. L’opera di riaggregazione dei contenuti, di scoperta di nuovi nessi, di intuizione delle esigenze latenti di precisi gruppi di lettori, è infatti per definizione l’opera dell’editoria di progetto. E non solo è questo un compito che non può essere reso automatico e che resta invece tipico del talento editoriale, ma è persino possibile che dalla disgregazione della forma libro emerga qualcosa che non si era mai visto prima, un patrimonio e una ricchezza intellettuale che ci era fin qui rimasta nascosta.
Le modalità e i tempi del cambiamento
Tempi e modi del mutamento tecnologico sono ardui da prevedere, come sanno coloro che alla fine degli anni Novanta annunciarono l’avvento di una nuova era e profetarono che entro tre anni non vi sarebbe più stato commercio, ma solo e-commerce.
Una premessa è ovviamente necessaria, anche se si tratta di poco di più di un truismo. La pressione evolutiva della tecnologia produrrà dispositivi – devices – sempre più potenti e sofisticati, di sempre più facile uso, sempre più integrati se non identificati con la telefonia cellulare più avanzata. Sull’altro fronte la conversione in e-book, e la conseguente piena disponibilità di e-book, finirà per toccare tutti i libri, tutte le lingue e tutti i mercati. Naturalmente restano da vedere, per un verso, i tempi e, per l’altro, le forme e le articolazioni del nuovo business, cioè chi vorrà e saprà trarre profitto dal cambiamento. Quanto alla sua inevitabilità e anche alla sua prossimità, non ci si può fare illusioni. Certo, il libro di carta è come il cucchiaio, un insostituibile prodigio della tecnica, uno straordinario e irripetibile compromesso tra peso, maneggevolezza e facilità d’uso. E il libro non è un semplice medium, ma un oggetto quasi sacro, circondato da un’aura fortissima, portatore di un valore simbolico cui proprio i praticanti del self-publishing rendono il più devoto degli omaggi. E ancora, chi è abituato alla lettura sui libri di carta difficilmente si adatterà a tasti e schermi. Ma la notevole riduzione di prezzo e l’immediatezza di approvvigionamento dell’e-book saranno più forti e, alla fine, vinceranno. Sino alla Rivoluzione francese fiorì l’artigianato dei libri manoscritti su pergamena. Erano tanto più belli, tanto più eleganti. Però il libro di carta, più brutto, più volgare, aveva già stravinto e alla fine cancellò completamente il proprio antenato. Non è detto che torni a succedere esattamente lo stesso. È possibile, e anzi probabile, che il libro di carta sopravviva a lungo e forse non perisca mai. Ma contro l’e-book perderà la battaglia fondamentale, quella che porterà a leggere libri gran parte di quei miliardi di uomini che oggi non li leggono.
È molto verosimile che per un paio di decenni gli e-book si affianchino e si aggiungano ai libri di carta. I lettori di libri non rinunceranno facilmente alle proprie abitudini. L’oggetto libro e la forma libro sono archetipi dell’inconscio culturale e quindi impediranno alla psiche in cui si sono installati di abbandonarli. Dall’altra parte la comunità ‘internettiana’ tende a rappresentare sé stessa come un mondo e quindi a chiudersi, non ha di per sé progetti imperialistici e il versante egualitario della sua ideologia non la rende bellicosa. È possibile dunque che per un certo periodo di tempo il cambiamento proceda con accelerazione crescente, nelle scuole, nel commercio on-line di libri fisici, nell’uso di devices per e-book, senza però determinare una rottura. È questo il tempo che rimane all’editoria libraria per comprendere, e quindi per scegliersi, il proprio destino.
Poi sarà probabilmente troppo tardi. Quando i bambini di oggi, vissuti sin dalla nascita a contatto con il computer, abituati a usarlo a scuola, con l’archetipo della rete presente nel proprio inconscio culturale, insegneranno nelle università, il libro di carta raggiungerà la sua collocazione definitiva, accanto alle vele d’epoca e all’equitazione.