Abstract
La contabilità, intesa come sistema di determinazione ed espressione in linguaggio matematico dei fatti e delle operazioni aziendali esprimibili in termini monetari, ha la funzione di consentire la redazione del bilancio d'esercizio e di determinare la redditività dell'impresa (utili o perdite) e gli incrementi o decrementi, e quindi la consistenza, del capitale di funzionamento. Il legislatore, fin dal codice civile del 1942, ha dettato in materia una normativa analitica, sia codificando le scritture contabili obbligatorie, come pure dettandone le regole di tenuta, e l'efficacia probatoria.
Le scritture contabili costituiscono l'incipit di un percorso che ha quale epilogo il bilancio, che «deve dimostrare con evidenza e verità gli utili conseguiti o le perdite subite» (art. 2217, co. 2, c.c.). Ed il bilancio, talvolta, ha una valenza meramente interna, come nell'impresa individuale e nelle società di persone, mentre nelle imprese nelle quali il modello organizzativo è dotato di personalità giuridica (società di capitali e cooperative), assurge a documento destinato alla pubblicazione [art. 2435, co. 1, c.c., dettato in sede di società per azioni e richiamato dalle disposizioni dell'accomandita per azioni (art. 2454 c.c.), della società a responsabilità limitata (art. 2470 bis, co. 2, c.c.) e delle cooperative (art. 2519 c.c.)].
Le scritture contabili possono essere definite come l'insieme ordinato della documentazione scritta inerente l'impresa, comprensiva sia dei singoli documenti che contengono le registrazioni contabili, che delle relative pezze di supporto quali lettere, telegrammi, e-mail, fatture, contratti e ulteriori documenti (Racugno, G., Introduzione alla contabilità d'impresa, in Riv. dir. comm., 2012, I, 269).
Le scritture contabili recepiscono a loro volta i fatti di gestione, cioè le operazioni aziendali poste in essere dall'imprenditore nelle imprese individuali, e dagli amministratori nelle imprese collettive, quali una vendita, un acquisto, un incasso, un pagamento. Dai fatti di gestione possono derivare variazioni numerarie positive (+ denaro, + crediti di funzionamento, - debiti di funzionamento) o negative (- denaro, + debiti di funzionamento, - crediti di funzionamento). Le scritture contabili hanno dunque la funzione di rilevare, al momento della loro manifestazione finanziaria (che normalmente coincide con l'emissione o il ricevimento della fattura o di documento analogo; non, di per sé, il tempo della stipulazione del contratto e neppure della consegna del bene) la consistenza quantitativa e monetaria dei fatti di gestione, cioè di far emergere attraverso il susseguirsi dei ‘numeri’ le operazioni poste in essere dall'impresa, che costituiscono la premessa logica della rilevazione contabile, intesa come raccolta dei valori e relativa rappresentazione formale.
I fatti di gestione devono essere appositamente documentati mediante i relativi documenti contabili e correttamente quindi rilevati nelle scritture contabili (v., in tal senso, per esempio, l'art. 14, co. 1, lett. b), d.lgs. 27.1.2010, n. 39). La rilevazione quantitativa nelle scritture contabili dei fatti di gestione costituisce l'atto contabile, e consiste nell'iscrivere nelle scritture contabili i valori dei fatti di gestione con le relative denominazioni. La rilevazione determina così la rappresentazione contabile dei valori mediante scritture sui libri e consente la misurazione degli accadimenti aziendali esprimibili in termini monetari, e quindi la determinazione consuntiva del reddito di esercizio e del capitale di funzionamento dell'impresa.
La rilevazione ha per oggetto la documentazione che accompagna i fatti di gestione in quanto la contabilità non registra fatti materiali e accadimenti fisici, bensì i relativi documenti che li evidenziano. Documenti questi definiti anche documenti di primo grado; sotto questo profilo il libro giornale e il libro degli inventari sono considerati documenti di secondo grado, ed il bilancio documento di terzo grado.
Il preordinato processo organico e continuo di rilevazione dà luogo alla contabilità generale, intesa come «il sistema di determinazione ed espressione, in linguaggio matematico, dei fatti e delle operazioni aziendali», la cui finalità è rappresentata dalla redazione del bilancio di esercizio, i cui dati derivano appunto dalle cifre della contabilità (Colombo, G.E., Il bilancio di esercizio, in Tratt. Colombo-Portale, VII, t. 1, Torino, 1994, 76).
Il bilancio d'esercizio (cd. bilancio ordinario), classificabile fra le scrittura contabili, espone ordinatamente e periodicamente, in sintesi – poiché riassume i dati rilevati nelle scritture contabili – i valori del reddito (conto economico) e del capitale (stato patrimoniale); a questi documenti – che considerano la medesima realtà aziendale, rispettivamente, nel suo aspetto statico e nel suo aspetto dinamico – costituiti da prospetti numerici, da redigersi secondo schemi fissi e obbligatori, si aggiunge, la nota integrativa, redatta in forma prevalentemente narrativa con funzione esplicativa dei primi due.
Il collegamento tra il bilancio e le scritture contabili costituisce il passaggio nodale nel sistema della contabilità aziendale, considerato che il bilancio ha la funzione di esporre, appunto in sintesi, i dati contenuti nelle scritture contabili fra le quali lo stesso è annoverato, costituendone la risultanza.
La sequenza dell'itinerario contabile passa dai fatti di gestione alle scritture contabili, e quindi al bilancio: il passaggio intermedio fra quest'ultimo e le scritture contabili, procedendo a ritroso, è costituito dalle scritture di assestamento o di rettifica dei saldi contabili (quali il calcolo dei ratei e dei risconti, la determinazione delle quote di ammortamento, la rettifica del valore nominale dei crediti, la valutazione del magazzino, e altri) propedeutiche alla costruzione del bilancio annuale, consistenti, fra l'altro, nella rilevazione di quei fatti di gestione che, pur di competenza economica dell'esercizio, in fase di chiusura non risultano ancora iscritti in contabilità per mancanza della correlata documentazione giustificativa: le scritture contabili elaborate nel corso dell'esercizio vengono così «integrate» (Gianfelici, C., Dalle operazioni di gestione al bilancio d'esercizio: le scritture di integrazione, in Contabilità, finanza controllo, 2011, 944) ai fini della predisposizione del bilancio d'esercizio con queste scritture, non potendo figurare nel bilancio «poste» o «voci» che non siano già state rilevate in contabilità: «solo dai dati registrati nel libro giornale, e raggruppati in distinti conti nel mastro, è possibile desumere gli effetti economici e patrimoniali delle operazioni compiute nell'esercizio e sintetizzati nel bilancio» (Colombo, G.E., Il bilancio di esercizio, cit., 76).
Il successivo controllo sulla regolare tenuta delle scritture contabili ha la funzione di verificare che nelle scritture sia stata correttamente effettuata la «trascrizione» dei documenti evidenzianti i fatti di gestione, a cui fa seguito la verifica della corretta sintesi nel bilancio di esercizio delle risultanze delle scritture (Racugno, G., L'ordinamento contabile delle imprese, in Tratt. Buonocore, I, t. 5, Torino, 2002, 13).
Specie in passato il tema della natura giuridica delle scritture contabili, ha costituito oggetto di vivaci dibattiti se non, addirittura, di polemiche. Ascarelli, Carnelutti, Biondi e Messineo sono stati tra i principali protagonisti di queste dispute. Pacificamente può oggi affermarsi che le scritture contabili non hanno natura di scrittura privata (art. 2702 c.c.) non essendo prevista la sottoscrizione da parte dell’imprenditore, salvo che per l’inventario (Panuccio, V., La natura giuridica delle registrazioni contabili, Napoli, 1964).
Il problema della natura giuridica si pone, naturalmente, non tanto per il documento, quanto per il ‘documentato’: e quest’ultimo, che può definirsi come ‘registrazione contabile’ o ‘dichiarazione contabile’, va classificato tra le dichiarazioni di scienza (o di verità) non recettizie. Non recettizie nel senso che, pur rivestendo rilevanza esterna all’impresa, le registrazioni contabili sono in primo luogo destinate allo stesso imprenditore, sussistendo un interesse dei terzi alla conoscenza soltanto virtuale e non attuale delle scritture.
Le scritture non hanno dunque carattere confessorio. Trattandosi di dichiarazioni di verità, e non già di atti negoziali, non sono configurabili impugnazioni per incapacità, dolo o violenza. Pertanto le registrazioni contabili sono dunque revocabili, o comunque rettificabili, previa dimostrazione della non rispondenza al vero dei fatti che costituiscono oggetto e fondamento.
Che le scritture contabili non possano essere qualificate ‘confessioni’ e che sia consentito all’imprenditore di rettificare ciò che risulta dai libri solo anche provando l’esistenza di altri fatti dai libri non risultanti, è stato ben avvertito da tempo dalla giurisprudenza. In buona sostanza non si tratta di una prova assoluta ma piuttosto di una sorta di presunzione legale (art. 2728 c.c.), con la conseguenza che in difetto di una differente dimostrazione da parte dell’imprenditore, cioè dell’insussistenza per qualsivoglia causa del fatto registrato, rimane ferma l’efficacia probatoria delle dichiarazioni contenute nelle scritture.
Parimenti deve escludersi natura ed efficacia confessoria all'annotazione di un debito in bilancio, che costituisce una prova semplice con connessa ammissibilità di prova contraria, rimanendo ogni valutazione rimessa al giudice, alla stregua di ogni altro elemento acquisito agli atti di causa (Cass., 19.11.1980, n. 6161).
Le scritture nominativamente individuate dal codice civile sono costituite dal libro giornale, dal libro degli inventari e dal fascicolo della corrispondenza. Le prime due costituiscono le ‘scritture contabili’ in senso stretto; i documenti che compongono il fascicolo sono detti anche ‘scritture giuridiche’.
È da quest’ultimo, sul piano logico, che il discorso deve procedere. La seconda parte del co. 2 dell’art. 2214 c.c. dispone che l’imprenditore deve «conservare ordinatamente per ciascun affare gli originali delle lettere, dei telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite». Il criterio di tenuta della corrispondenza è dunque quello della sistematicità.
L’insieme di questi documenti – detti anche documentazione sottostante, pezze giustificative o di appoggio, e più propriamente ‘documenti contabili’ – costituisce quello che tradizionalmente viene definito il fascicolo della corrispondenza, che non contiene effettive rilevazioni contabili e non costituisce una scrittura contabile in senso tecnico.
L’evoluzione tecnica della corrispondenza – è di questi anni la decisa affermazione della posta elettronica – ha comportato nuove formule di raccolta e conservazione delle pezze giustificative, mediante, per lo più, l’istituzione di archivi informatici. Ed in tal senso la l. 8.8.1994, n. 489 ha legittimato l’utilizzo di tecniche informatiche nella tenuta delle scritture con l’aggiunta di un terzo comma all’art. 2220 c.c., che appunto dispone: «Le scritture e i documenti di cui al presente articolo possono essere conservati sotto forma di registrazioni su supporti di immagini, sempre che le registrazioni corrispondano ai documenti e possano in ogni momento essere rese leggibili con mezzi messi a disposizione dal soggetto che utilizza detti supporti». Per altro verso i telegrammi, di cui è ancora menzione nella norma in esame, sono pressoché scomparsi dalla circolazione per essere stati sostituiti prima dai fax e, più recentemente, dalle e-mail. Sicuramente nel futuro nuove forme di negoziazione degli affari, e quindi di documentazione degli stessi, verranno elaborate dalla tecnologia, ormai in questo settore, in particolare, inarrestabile.
A questo punto, sulla base cioè della documentazione giustificativa, l’imprenditore può procedere alla rilevazione in contabilità del documento, iscrivendo nelle scritture contabili i valori dei fatti economico-aziendali con le relative denominazioni. La rilevazione, che determina la rappresentazione contabile di ciascun fatto di gestione, deve avvenire, in primo luogo, nel libro giornale, nel quale sono indicate giorno per giorno le operazioni sia attive che passive relative all’esercizio dell’impresa (art. 2216 c.c.).
Caratteristica primaria del libro giornale è dunque la cronologicità e l’analiticità delle annotazioni, ferma la libertà dell’imprenditore nella scelta del sistema da seguire nelle scritturazioni, non esistendo una norma che imponga l’annotazione delle singole operazioni, ancorché sia praticamente d'obbligo il metodo della partita doppia (Cincotti, C., Il sistema della contabilità d'impresa. Profili giuridici, Cagliari, 2012, 271).
Nel libro giornale non vanno indicate le operazioni extra-aziendali, quali, per esempio, il dettaglio dei costi sostenuti dall’imprenditore per la famiglia: dal giornale risulteranno i prelevamenti che l’imprenditore effettua per le spese di famiglia, ma non il loro impiego.
Ove l’impresa sia articolata in più sedi o anche in distinti reparti potranno essere tenuti distinti libri giornale, a formazione parallela, che, nel loro insieme, costituiscono il vero libro giornale dell’impresa.
In contrapposizione alla visione dinamica delle operazioni quotidiane dell’impresa propria del libro giornale, il libro degli inventari, tipica scrittura analitico-descrittiva, fornisce una visione statica e a carattere riepilogativo degli elementi del patrimonio attivi e passivi dell’imprenditore.
L’inventario, che deve essere redatto sia all’inizio dell’esercizio dell’impresa (inventario iniziale), sia, successivamente, ogni anno (inventario annuale), «deve contenere l’indicazione e la valutazione delle attività e delle passività relative all’impresa» (art. 2217 c.c.). Periodicamente, attraverso la redazione dell’inventario, l’imprenditore verifica la consistenza del patrimonio aziendale, a cui si aggiunge, per espressa disposizione di legge, quella del patrimonio extra-aziendale o personale dovendo l’inventario contenere anche l’indicazione e la valutazione delle attività e delle passività dell’imprenditore esterne all’impresa (art. 2217, co. 1, c.c.). Nella redazione dell’inventario l’imprenditore deve procedere alla valutazione delle attività e delle passività attenendosi, in quanto applicabili, «ai criteri stabiliti per i bilanci delle società per azioni» (art. 2217, co. 2, c.c.): in particolare cioè ai principi di cui agli artt. 2423 bis e 2426 c.c.
L’inventario «si chiude con il bilancio e con il conto dei profitti e delle perdite» (art. 2217, co. 2, c.c.): il bilancio (documento di sintesi) viene così, nella disciplina generale dell'imprenditore commerciale, ricollegato direttamente alla chiusura dell'inventario (documento analitico). Di qui la classica definizione: il bilancio d'esercizio è «un prospetto contabile riassumente i saldi, in un certo momento, dei vari conti dell'azienda, accertati col sussidio dell'inventario» (De Gregorio, A., Il significato delle parole inventario e bilancio nel Codice di Commercio, in Riv. dir. comm., 1911, I, 450).
L’art. 2214 c.c., dopo aver indicato nominativamente le scritture contabili obbligatorie, prosegue, al co. 2, stabilendo che l’imprenditore «deve altresì tenere le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa».
Il sistema vigente, innovando rispetto al passato, fissa da un lato, come si è visto, alcuni libri obbligatori per tutte le imprese (scritture obbligatorie nominate), e richiede nel contempo ulteriori scritture contabili in funzione delle esigenze proprie che derivano all’impresa dalla sua natura e dalle sue dimensioni (scritture obbligatorie innominate), costituenti «un nucleo per così dire mobile, ma parimenti obbligatorio» (Buonocore, V., Manuale di diritto commerciale, Torino, 2006, 84).
L’obbligo dell’integrazione dei libri obbligatori nominativamente indicati con ulteriori libri, pure obbligatori ma non indicati nominativamente dal legislatore, sorge ogni qualvolta i primi siano insufficienti, data la natura e le dimensioni dell’impresa, «a documentare la consistenza del patrimonio e il movimento giornaliero degli affari».
Le scritture contabili obbligatorie innominate comprendono, fra l’altro: il libro mastro, nel quale le operazioni vengono annotate e ordinate, anziché in ordine cronologico, in scritture omogenee secondo un criterio sistematico, predeterminato dal ‘piano dei conti’ con il metodo della partita doppia; il libro magazzino, in cui vengono annotate l’entrata e l’uscita delle merci, delle materie prime, ecc.; il libro cassa, contenente le operazioni che hanno dato luogo a pagamenti ed incassi; il libro dei cespiti ammortizzabili; lo scadenzario o libro delle scadenze cambiarie; il libro dei conti correnti; il libro paga e il libro matricola, ecc. Ed in tal senso soccorre, nell’individuazione delle scritture obbligatorie innominate, la dottrina aziendalistica alla quale espressamente il legislatore ha fatto riferimento richiamando «le norme di un’ordinata contabilità» (art. 2219 c.c.), nonché i principi contabili, che statuiscono le procedure e i metodi di contabilizzazione dei fatti di gestione.
La formula contenuta nel richiamato co. 2 dell’art. 2214 c.c. lascia qualche incertezza in ordine alla distinzione fra scritture obbligatorie innominate e scritture facoltative. Le prime infatti, secondo la dimensione dell’impresa, possono transitare dal ruolo di scritture obbligatorie innominate a quello di facoltative. Ove cioè il giro di affari sia limitato o comunque caratterizzato da operazioni facilmente individuabili e classificabili attraverso l’esame del libro giornale, può accadere che il libro mastro, il quale, secondo la natura e la dimensione dell’impresa, costituisce un libro obbligatorio seppure innominato, non sia più obbligatorio in quanto non indispensabile per la conoscenza delle vicende economiche dell’azienda, e confluire fra i libri facoltativi.
Può quindi formularsi una distinzione fra scritture contabili obbligatorie innominate e scritture facoltative in funzione della circostanza che le stesse siano o meno indispensabili per la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari dell’impresa.
Un contributo in materia si rinviene dalle norme penali in materia di fallimento. La legge fallimentare individua la fattispecie del delitto di bancarotta documentale (art. 216, co. 1, n. 2, l. fall.) nell’aver l’imprenditore tenuto i libri o le altre scritture contabili «in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari». La formula, nella sua incisività, bene evidenzia quella che è la funzione primaria delle scritture contabili, con la conseguenza che ove questa ricostruzione sia comunque possibile, anche senza l’ausilio di scritture ulteriori rispetto al libro giornale o a quello degli inventari, le scritture ulteriori potranno qualificarsi come facoltative.
L’obbligo della tenuta delle scritture contabili è proprio dell’imprenditore commerciale non piccolo. In tal senso, espressamente, la prescrizione contenuta nel co. 1 dell’art. 2214 c.c., a cui si accompagna l’eccezione di cui al co. 3 della medesima disposizione. Questa norma peraltro deve essere coordinata con le innovazioni introdotte nella legge fallimentare dalle più recenti riforme, che prevedono nuove disposizioni circa i requisiti dimensionali (art. 1, co. 2, l. fall.) che l'imprenditore commerciale deve congiuntamente possedere al fine di sottrarsi al fallimento (Ferri, G., jr., In tema di piccola impresa tra codice civile e legge fallimentare, in Riv. dir. comm., 2007, II, 739).
La tenuta delle scritture fa carico anche a tutte le società aventi per oggetto lo svolgimento di un’attività commerciale. L’obbligo della tenuta delle scritture contabili prescinde dall’elemento dimensionale della società, essendo queste sempre tenute alla redazione del bilancio d'esercizio.
Nonostante l’art. 2214 c.c. prescriva l’obbligo della tenuta delle scritture per le sole imprese commerciali non piccole, con esclusione quindi delle imprese agricole, è opinione pacifica che la prescrizione sia diretta anche alle società di tipo commerciale con oggetto diverso dall’esercizio di un’attività commerciale (Ragusa Maggiore, G., Società agricola in forma commerciale e obbligo della contabilità, in Dir. fall., 1965, I, 95).
Queste debbono altresì essere tenute dagli enti pubblici i quali abbiamo per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale. È discusso se l’obbligo gravi anche sugli enti pubblici esercenti un’attività commerciale non in via esclusiva o principale «limitatamente alle imprese da essi esercitate» (art. 2093 c.c.), cioè all’attività commerciale dagli stessi svolta.
Parimenti obbligate alla tenuta sono le associazioni e le fondazioni (artt. 14-42 c.c.), ove esercitino un’impresa commerciale anche soltanto in via secondaria e complementare (Colombo, G.E., Contabilità e bilancio per le organizzazioni di volontariato, in Corr. trib., 1995, 3496), i consorzi che svolgono un’attività imprenditoriale, come pure le joint ventures a questi assimilabili, e i G.E.I.E. (Gruppo europeo di interesse economico).
L’obbligo della tenuta delle scritture contabili è a carico: nelle imprese individuali, dell’imprenditore e, ove vi sia, dell’institore (art. 2205 c.c.); nelle società, degli amministratori e, ove vi siano, dei direttori generali (Cass., 19.12.1985, n. 6493); negli enti pubblici e nei consorzi, parimenti, degli amministratori e, ove vi siano, dei direttori generali.
Sono soggetti agli obblighi di tenuta delle scritture contabili anche i liquidatori fino alla chiusura della fase di liquidazione (Racugno, G., Interessi, poteri e criteri nella liquidazione dei beni degli enti, in Giur. comm., 2014, I, 33).
È evidente che, specie nelle imprese di maggiori dimensioni, la materiale tenuta della contabilità sarà curata dai dipendenti e, più in particolare, da quelli addetti al relativo ufficio: in ogni caso dell’inosservanza o della non corretta osservanza risponderanno non già i dipendenti, bensì i soggetti obbligati alla tenuta, né potrebbe essere diversamente, considerato che a costoro fa capo il potere di organizzazione dell’impresa di cui la tenuta delle scritture è espressione.
Attualmente l'art. 2215, ult. co., nel testo di cui all'art. 8 della l. 18.10.2001, n. 383, dispone che il libro giornale e il libro degli inventari devono essere numerati progressivamente e non sono soggetti a bollatura né a vidimazione. Di qui l'implicita abrogazione del riferimento dell'art. 2710 c.c. ai libri «bollati e vidimati delle forme di legge», fermo rimanendo, ex art. 2219 c.c., l'obbligo di regolare tenuta.
L’unica formalità estrinseca ulteriore concerne il solo libro degli inventari e consiste nell’obbligo per l’imprenditore di provvedere alla sottoscrizione dell’inventario entro tre mesi dal termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi ai fini delle imposte dirette (art. 2217, co. 3, c.c.). Con la sottoscrizione l’imprenditore assume la responsabilità dei dati contenuti nell’inventario.
Le innovazioni peraltro non terminano qui.Il novellato art. 2215 bis c.c., al fine di consentire il più ampio utilizzo delle procedure informatiche per la tenuta della contabilità, recita: «I libri, i repertori, le scritture e la documentazione la cui tenuta è obbligatoria per disposizione di legge o di regolamento o che sono richiesti dalla natura o dalle dimensioni dell'impresa possono essere formati e tenuti con strumenti informatici. Prosegue quindi la norma statuendo: Le registrazioni contenute nei documenti di cui al primo comma debbono essere rese consultabili in ogni momento con i mezzi messi a disposizione dal soggetto tenutario e costituiscono informazione primaria e originale da cui è possibile effettuare, su diversi tipi di supporto, riproduzioni e copie per gli usi consentiti dalla legge». Il co. 3 dell'art. 2215 bis c.c. precisa che: «Gli obblighi di numerazione progressiva e di vidimazione previsti dalle disposizioni di legge o di regolamento per la tenuta dei libri, repertori e scritture sono assolti, in caso di tenuta con strumenti informatici, mediante apposizione, almeno una volta all'anno della marcatura temporale e della firma digitale dell'imprenditore, o di altro soggetto dalmedesimo delegato».
I libri, i repertori e le scritture tenuti con strumenti informatici, secondo quanto previsto dall'articolo 2215 bis c.c., hanno l'efficacia probatoria di cui agli artt. 2709 e 2710 c.c. Rimane ferma, naturalmente, la possibilità di bollatura facoltativa anche in relazione alla efficacia probatoria delle scritture (art. 2218 c.c.).
L’art. 2219 c.c. prevede, quindi, che le scritture devono essere tenute «secondo le norme di un’ordinata contabilità, senza spazi in bianco, senza interlinee e senza trasporti in margine». Vi è l’assoluto divieto di procedere ad abrasioni e, se è necessaria qualche cancellatura, questa deve eseguirsi in modo che le parole cancellate siano leggibili, cioè per incasellamento. La ratio della norma è evidente: garantire la contemporaneità tra fatti di gestione e relativa rilevazione contabile, ed impedire successive manipolazioni e artificiose ricostruzioni della contabilità.
Nessun limite è posto all’imprenditore circa la lingua da utilizzarsi nella redazione delle scritture, quand’anche diversa dall’italiano, con la conseguenza che, ove le scritture tenute in lingua diversa dall’italiano debbano essere utilizzate in una controversia giudiziaria, il giudice potrà avvalersi di un consulente.
La normativa tributaria (dell’art. 142, co. 3, d.P.R. 29.9.1973, n. 600) consente l’utilizzo per le scritture previste da quelle disposizioni anche del linguaggio in codice, accompagnato da apposito registro che ne renda possibile la lettura. Non vi è motivo per non ritenere applicabili siffatti principi anche alle scritture contabili obbligatorie, diverse dal libro giornale e dal libro degli inventari, ed a quelle facoltative.
Circa l’obbligo di conservazione delle scritture contabili, tradizionalmente ricollegato all’efficacia probatoria delle registrazioni, stabilisce l’art. 2220 c.c. che devono essere conservate per dieci anni dalla data dell’ultima registrazione, termine questo che coincide con quello della prescrizione ordinaria (art. 2946 c.c.). Per lo stesso periodo devono conservarsi le fatture, le lettere e i telegrammi ricevuti e le copie delle fatture, delle lettere e dei telegrammi spediti.
La conservazione delle scritture è obbligatoria anche nell’ipotesi di cessazione dell’attività imprenditoriale. Nell’impresa individuale, in caso di morte dell’imprenditore l’obbligo di conservazione compete agli eredi. Nel caso di trasferimento d’azienda l’obbligo grava sul cessionario, considerata la funzionalità delle scritture allo svolgimento dell’attività.
Passati i dieci anni le scritture continuano naturalmente, ove conservate, ad avere rilevanza al pari di quelle relative al decennio. L’unica differenza consiste nel fatto che decorso il decennio dovrà darsi prova della loro esistenza da parte di colui che intenda giovarsene, mentre nel decennio l’esistenza è presunta. Pur nel silenzio della legge deve infine concludersi che l’inosservanza dell’obbligo di conservazione equivale a mancanza o irregolarità delle scritture.
La funzione primaria della tenuta della contabilità, si è visto, è quella di apprestare all’imprenditore uno strumento di controllo sulla propria impresa, di cui l’ordinamento tutela l’interesse al segreto. Di qui la ‘riservatezza’ che accompagna le scritture. Questa regola può subire una vistosa eccezione nel corso di un processo civile di cui sia parte l’imprenditore o comunque nel quale rilevi la sua attività (Canavese, E., Le scritture contabili dell'imprenditore, in Ronco, A., diretto da, Il documento nel processo civile, Bologna, 2011, 201). Le scritture assumono a questo punto rilevanza esterna e come tali sono annoverate dal codice civile (capo II, titolo II, libro VI) tra le prove documentali.
Nelle ipotesi che di seguito verranno delineate è riconosciuto ai terzi il diritto di conoscere, sotto il controllo del giudice e la verifica dei relativi presupposti, i fatti interni dell’impresa come emergono dalla contabilità. Le scritture costituiscono così veri e propri mezzi di prova. Le norme di riferimento in materia sono costituite dagli artt. 2709 e 2710 c.c. e traggono logico fondamento dalla considerazione, di comune esperienza, che nessuno predispone liberamente attestazioni a sé sfavorevoli ove non rispondano a verità.
Dispone l’art. 2709 c.c.: «I libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore. Tuttavia chi vuol trarne vantaggio non può scinderne il contenuto». La norma – che prescinde dalla regolarità o meno delle scritture, dall’essere queste obbligatorie o facoltative – consente al terzo di trarre dalle scritture mezzi di prova a proprio favore, ma stabilisce il divieto di estrapolazione utilitaristica di questa o quella scrittura, con il divieto cioè per il terzo di scinderne il contenuto: principio della inscindibilità. Le scritture vanno cioè lette ed interpretate nella loro globalità (Signorelli, F., L'efficacia probatoria delle scritture contabili dell'imprenditore e il principio dell'inscindibilità, in Fallimento, 2007, 810). Terzo, beneficiario per così dire della norma, può essere qualsivoglia soggetto che abbia interesse a trarre prova dalle scritture, sia esso imprenditore commerciale, come pure imprenditore non commerciale o semplice soggetto privato o pubblico privo di qualsivoglia specifica qualità imprenditoriale.
I principali problemi che sono emersi dall’applicazione dell’art. 2709 c.c. possono così sintetizzarsi.
In primo luogo, gli studi in materia si sono soffermati sulla natura della presunzione introdotta dall’art. 2709 c.c. pervenendo alla conclusione secondo cui questa norma pone una presunzione legale juris tantum contraria all’imprenditore in ordine alle risultanze delle annotazioni contabili. È consentito quindi all’imprenditore di contrastare le registrazioni con qualunque mezzo di prova.
In secondo luogo, non essendo le scritture contabili sottoscritte dall’imprenditore, non possono mai assolvere le funzioni proprie della scrittura privata (art. 2702 ss., c.c.), né quindi surrogare l’atto per il quale la legge richieda la forma scritta ad substantiam o ad probationem.
In terzo luogo, è stato posto il problema se possa trarsi elemento di prova dalla mancata registrazione in contabilità di un fatto di gestione, cosiddetta prova negativa. Secondo la Cassazione le scritture contabili fanno piena prova contro l’imprenditore solo su quanto in esse figura, con la conseguenza che la mancata menzione di un credito in tali documenti non può costituire prova della inesistenza del credito medesimo; ancorché sempre secondo la Cassazione, l’omessa registrazione nei libri di un fatto di gestione, pur non avendo l’efficacia probatoria di cui agli artt. 2709 e 2710 c.c., può valere come fonte di elementi congetturali sfavorevoli all’imprenditore (Cass., 6.2.2000, n. 2995).
Profili probatori differenti vengono disciplinati dal successivo art. 2710 c.c. che, a differenza della prima disposizione rivolta a regolare in generale l’efficacia probatoria dei libri e delle scritture contro l’imprenditore, circoscrive i contenuti della norma all’ipotesi dell’efficacia probatoria delle scritture nei rapporti fra imprenditori. Si tratta di una regola che «esprime in termini attuali un privilegio mercantile di antica origine, risalente al diritto statutario» (Cottino, G., L’imprenditore, in Tratt. Cottino, I, Padova, 2001, 210).
La norma ha la funzione di mettere a confronto i libri dei due imprenditori al fine di verificare l’esattezza delle annotazioni contenute nel libro del preteso creditore e trova applicazione in relazione a tutti i libri, anche non obbligatori, purché regolarmente tenuti. Secondo la giurisprudenza l’utilizzo di libri contabili a favore dell’imprenditore in controversie con soggetti non imprenditori è possibile soltanto a limitati fini indiziari, potendo le registrazioni contabili costituire presunzioni semplici (art. 2729 c.c.) la cui valutazione, specie in concomitanza con ulteriori elementi di prova, è lasciata alla prudente valutazione del giudice (Cass., 9.1.1975, n. 6660).
Per quanto concerne le controversie fallimentari in cui sia parte un curatore, la giurisprudenza (Cass., 26.5.1987, n. 4703) distingue l'ipotesi in cui lo stesso eserciti un'azione già esistente nel patrimonio del fallito – con la conseguenza che il curatore subentra nella stessa posizione processuale del medesimo, che comporta l'applicazione dell'art. 2710 c.c. – dall'ipotesi in cui il curatore agisce nell'interesse della massa dei creditori, che vede lo stesso non più qualificabile come imprenditore, con connessa disapplicazione dell'art. 2710 c.c.
Infine, sempre sotto il profilo processuale va sottolineato, soprattutto per l’importanza operativa che l’istituto riveste, il disposto dell’art. 634, co. 2, c.p.c., che, con riferimento alla possibilità per il creditore di ottenere un’ingiunzione di pagamento o di consegna ove il diritto fatto valere sia fondato su prova scritta, considera a tal fine idonei gli estratti autentici delle scritture contabili di cui agli artt. 2214 ss. del codice civile (Cass., 6.12.1982, n. 6660).
Le modalità di acquisizione delle scritture contabili al processo sono due, la comunicazione e l’esibizione.
La comunicazione (art. 2711, co. 1, c.c.) ha per oggetto i libri e le scritture contabili, nonché la corrispondenza nella loro integralità, ivi comprese le scritture facoltative, e può essere ordinata dal giudice solo su istanza di parte e non d’ufficio. Compete al giudice stabilire le modalità operative per l’esecuzione della comunicazione, che, per lo più verrà attuata mediante deposito in cancelleria delle scritture per un tempo stabilito. Destinataria della comunicazione è l’altra parte del giudizio.
Data la vistosa deroga che l’istituto costituisce rispetto al principio della tutela del segreto che accompagna la materia delle scritture, il legislatore ha limitato la comunicazione integrale a tre soli tipi di controversie: a) scioglimento della società; b) scioglimento della comunione dei beni; c) successione per causa di morte. Trattasi di ipotesi tassative che non possono essere estese, né derogate, né, soprattutto, applicate per analogia a fattispecie pur similari costituendo la disposizione contenuta nel co. 1 dell’art. 2711 c.c. una norma eccezionale, come tale non applicabile oltre i casi considerati (art. 14 disp. prel. c.c.).
Un caso particolare di comunicazione di tutte le scritture contabili è previsto dalla legge fallimentare: l’imprenditore che chiede il proprio fallimento deve depositare presso la cancelleria del tribunale le proprie scritture contabili relative ai due anni precedenti ovvero dall’inizio dell’impresa se questa ha avuto una minore durata (art. 14 l. fall.); parimenti l’art. 16, co.1, n. 3, l. fall. stabilisce che in ogni altro caso di fallimento, dichiarato cioè su istanza dei creditori, del pubblico ministero o d’ufficio, la sentenza dichiarativa ordina al fallito il deposito delle scritture contabili entro tre giorni.
La seconda modalità di acquisizione al processo delle scritture contabili è costituita dall’esibizione (art. 2711, co. 2, c.c.), che, a differenza della comunicazione, può essere disposta dal giudice oltre che su istanza di parte anche d’ufficio, in qualsivoglia controversia, ma limitatamente a singole scritture contabili, lettere, telegrammi o fatture concernenti la controversia, sia relativamente alle scritture obbligatorie come pure a quelle facoltative.
Dei libri può esserne ordinata l’esibizione per estrarne le registrazioni sempre purché concernenti la controversia in corso. Per la formazione degli estratti compete al giudice la nomina di un notaio o di un esperto che assista nelle operazioni (art. 212 c.p.c.). Di fronte all’esibizione di estratti notarili in sostituzione dei libri o dei documenti contabili, ben potrà il giudice disporre l’esibizione in giudizio degli originali.
Lo statuto dell’imprenditore commerciale, come è noto, annovera tradizionalmente due obblighi fondamentali in capo allo stesso: da un lato quello di procedere all’iscrizione nel registro delle imprese (art. 2195 c.c.), dall’altro quello di tenere le scritture contabili. Ora accade che, mentre il primo obbligo è accompagnato da una sanzione, il secondo ne è del tutto privo. Non sussiste, secondo la disciplina civilistica, cioè sanzione né per la mancata tenuta, né per la tenuta irregolare. Né d’altronde la soluzione sarebbe potuta essere differente date le obiettive difficoltà di accertamento della violazione dell’obbligo di tenuta delle scritture. Mentre la violazione dell’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese può agevolmente essere accertata con un semplice raffronto tra la presenza nel mercato di un’impresa e la contemporanea assenza della stessa nell’apposito registro, senza necessità quindi di accertamenti interni all’impresa, analogamente non potrebbe procedersi per l’accertamento dell’obbligo di tenuta delle scritture.
Queste infatti non vengono di regola percepite all’esterno, né sarebbe praticabile quel controllo per così dire incrociato che è possibile per l’accertamento dell’assolvimento dell’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese. Le scritture sono interne all’impresa, e non sono soggette a deposito, neppure per estratto, in pubblici registri, salvo lo spontaneo utilizzo da parte dell’imprenditore nel processo o l’ingresso coattivo delle stesse in sede giudiziaria. L’unico modo di verifica del rispetto dell’obbligo di tenuta non potrebbe che essere costituito da ispezioni o controlli periodici di tipo amministrativo: strumento questo sicuramente macchinoso e destinato all’insuccesso sotto il profilo operativo. Inoltre, come già sottolineato da antica e autorevole dottrina, questi controlli verrebbero per via riflessa a danneggiare quegli «stessi creditori che si vorrebbero proteggere» (Vivante, C., Trattato di diritto commerciale, I, Milano, 1928, 185).
Questo finché l’impresa è in bonis e non è sfiorata da patologie finanziarie. Ove per converso emergano i presupposti per il ricorso alla dichiarazione di fallimento a causa dell’insolvenza dell’impresa, l’ordinamento reagisce e sanziona pesantemente l’imprenditore che dolosamente (art. 216, n. 2, l. fall.), come pure con semplice colpa (art. 217, co. 3, l. fall.), non abbia tenuto i libri e le scritture contabili obbligatori o li abbia tenuti in maniera irregolare o incompleta. Altresì le irregolarità contabili, ove volte a influire sul giudizio dei creditori nel concordato preventivo, comportano l'applicazione dell'art. 173 l. fall. e conseguente apertura del procedimento per la revoca all'ammissione del concordato (Cass., 4.6.2014, n. 12533).
Nessuna sanzione finché la vita dell’impresa, nel suo svolgimento fisiologico, non intacca i diritti dei terzi e dei creditori in particolare. È con l’insolvenza che emerge l’obbligo per l’imprenditore di documentarne le cause. In caso di fallimento le sanzioni per la mancata o irregolare tenuta delle scritture colpiscono, oltre l’imprenditore, anche tutti gli altri soggetti sui quali grava il relativo obbligo, cioè l’institore (art. 227 l. fall.) e, nel caso di imprese sociali, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori (art. 224 l. fall.). In ogni caso, secondo Cass. 3.2.2014, n. 2324, la tenuta in modo sommario e non intellegibile della contabilità sociale, risolvendosi nella violazione di specifici obblighi di legge, è di per sé idonea a tradursi in pregiudizio per il patrimonio sociale ed è giustificativa della condanna dell’amministratore al risarcimento del danno.
Artt. 14, 42, 2093, 2195, 2205, 2214-2215 bis, 2216-2220, 2423, 2426, 2435, 2454, 2470, 2519, 2702, 2709-2711, 2728, 2729, 2946 c.c.; art. 14 disp. prel. c.c.; artt. 212, 634 c.p.c.; artt. 1, 14, 16, 173, 216, 217, 224, 227 l. fall.; art. 142, d.P.R. 29.9.1973, n. 600; l. 8.8.1994, n. 489; art. 8, l. 18.10.2001, n. 383; art. 14 d.lgs. 27.1.2010, n. 39.
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