LIBRO
di Guglielmo Cavallo
Nel lungo arco di tempo dall'antichità al basso Medioevo il libro è manoscritto e consiste di un supporto materiale, allestito secondo determinate convenzioni tecniche, che contiene un testo scritto manualmente. Nel corso della sua storia il libro-manoscritto ha assunto nei materiali e nella strutturazione fisica tipologie correlate sia al significato e alle funzioni ch'esso ha rivestito in una determinata società come oggetto e/o come strumento, sia ai modi di produzione, diffusione, conservazione del testo scritto, sia a più generali motivi di ordine culturale, economico, sociale.
Le forme fondamentali in cui si articolò il libro manoscritto furono quelle del volumen, il rotolo, e del codex, il codice. Ma all'interno dell'una o dell'altra specie si incontrano tipologie differenziate di formato, di consistenza testuale, di lavorazione tecnica, di qualità estetica: tipologie coesistenti in periodi di usi del libro più larghi, in strati sociali diversi e con funzioni diverse, o anche prevalenti ora l'una ora l'altra in determinate epoche e ambienti. Quanto ai materiali, nell'antichità greca e romana il papiro è stato quello più diffuso, mentre la pergamena, pur adoperata anch'essa da epoca molto antica, divenne il supporto corrente del libro - almeno fuori d'Egitto, area di produzione del papiro, e delle zone limitrofe - a partire dalla tarda antichità, rimanendo in vita nelle pratiche librarie fino allo spirare del Medioevo, anche se i secoli XIII-XV ne vedono regredire l'uso di fronte alla diffusione, sempre più ampia e infine vincente, della carta. Queste variazioni della forma e del supporto materiale del libro non sono da considerare soltanto nella dimensione, certo assai importante, di mutamenti tecnici o, se si vuole, tecnologici: da una parte, infatti, esse sono il portato di più vasti fenomeni di ordine latamente sociale e culturale, e da un'altra incidono a loro volta sulle maniere di acquisizione, ricezione e trasformazione di un certo patrimonio culturale da parte della società che del libro si serve.
Si conoscono libri greci, peraltro frammentari, a partire dal tardo IV secolo a.C., ma per quanto riguarda la fattura del libro antico, è scorretto proiettare automaticamente questa realtà o quella ancora più tarda sull'epoca precedente. Non è detto che i libri più antichi fossero nella specie di rotolo, il volumen, noto da conservazione diretta di esemplari di età ellenistica o, indirettamente, da raffigurazioni scultoree e vascolari. Non si può escludere che in epoca arcaica si siano adoperati materiali duri o pesanti, magari scritti a sgraffio e variamente strutturati in modo da formare un supporto testuale unitario, in qualche modo un 'libro': tavolette cerate (e non), lamine di piombo, placche di scisto, o anche materiali meno rigidi, cuoio o pelle. Questo uso di materie dure si attaglia perfettamente al libro primitivo, proprio di una società di cultura prevalentemente orale, concepito come strumento di conservazione o anche di composizione ma non di circolazione del testo, e dunque disagevole da praticare e inadatto alla lettura.
Nel mondo romano antico, italico e in particolare etrusco sono documentati, con funzione sacrale, libri lintei. Si trattava di manufatti di tela di lino, strutturati come il superstite liber linteus di Zagabria redatto in etrusco, il quale risulta, in pratica, come una benda ripiegata 'a soffietto', con pieghe al centro degli spazi che separano le colonne di scrittura delimitate da linee rosse verticali, sì che, combaciando le colonne stesse a due a due a guisa di pagine, queste possano essere 'sfogliate' quasi si trattasse di codice o libro moderno. La medesima strutturazione dovevano avere i libri lintei di Roma antica, vale a dire i libri Sybillini, o i libri sacerdotali nei quali era scritto l'absconditum ius pontificum, o ancora i libri contenenti i commentarii augurum. Va segnalato, inoltre, che alcune tra le numerose tavolette latine di legno sottile (di betulla o di ontano) scritte a inchiostro, restituite da Vindolanda in Britannia, risultano ripiegate e fornite di fori di legatura alle due estremità, sicché sembrano essere state strutturate in origine 'a soffietto'. Si tratta di materiali più tardi e peraltro di contenuto documentario, ma non si può escludere che in epoca antica e in certe zone dell'Occidente alcuni libri possano essere stati di materie lignee e aver avuto una tale tipologia.
Fu con l'introduzione del papiro - importato dall'Egitto faraonico in Grecia già in età arcaica, ma diffuso non prima del VI-V secolo a.C. nel mondo greco e del III-II secolo a Roma - che, grazie a un materiale morbido e a una scrittura più scorrevole, il libro si definí in forma di rotolo, tipologia che resterà in vita, come normale forma libraria, all'incirca fino al II secolo d.C., resistendo anche in seguito, pur se prima affiancata dal codice e poi, dal IV-V secolo, definitivamente sostituita, salvo casi particolari.I rotoli/libri si ottenevano di regola tagliando o congiungendo rotoli di papiro commerciali, o parti di questi, di lunghezza standard (m 3,40 ca.), a loro volta fabbricati incollando fogli composti di fibre ricavate dal fusto dell'omonima pianta accostate e sovrapposte le une in senso perpendicolare alle altre, e quindi lavorate in modo di farle aderire. La scrittura era eseguita in colonne - disposte a intervalli regolari per tutta la lunghezza del rotolo - soltanto, o comunque prima, sulla faccia che presentava le fibre in posizione orizzontale (cosiddetto recto, mentre si suole indicare come verso la faccia con le fibre verticali); lo scriba, man mano che, tenendolo sulle ginocchia, scriveva il suo rotolo, lasciava ricadere sulla sinistra la parte già utilizzata. Nome dell'autore e titolo dell'opera, ed eventualmente numero del libro (e talora del tomo all'interno di questo per opere in più libri), venivano di solito apposti alla fine del libro/rotolo, seguiti - per la retribuzione, ove si trattasse di copie dovute a scribi di professione - dal computo delle righe, segnato di solito in cifre attiche. L'esemplare veniva quindi avvolto intorno a bastoncini, o anche arrotolato, senza alcun dispositivo, intorno alla sezione iniziale del rotolo stesso, strettamente attorta e agglutinata. Autore e titolo del testo contenutovi, in quanto 'nascosti' all'interno del volumen, venivano ripresi su un cartellino, il σίλλυβοϚ, attaccato all'esterno. La filologia alessandrina aveva introdotto certe convenzioni librarie nella manifattura del rotolo e nel suo rapporto con il testo che si ritrovano sostanzialmente uguali in età romana. Queste convenzioni si riferiscono soprattutto alla lunghezza/capienza del rotolo, alla quale si deve forse ritenere commisurato il formato (o altezza). Quest'ultimo oscilla tra 16-17 cm (con qualche eccezionale minimo di 12-13) e 28-30 cm (fino a un raro massimo di 34-35), mentre la lunghezza quasi mai si dimostra inferiore ai 2,5 m o superiore ai 12. Tutto questo imponeva o che un intero scritto - un dramma, un'orazione - fosse compreso in una unità libraria conforme alle misure convenzionali, o che testi molto brevi fossero posti insieme in un unico rotolo, o ancora che grandi opere fossero distribuite in più libri/rotoli, con un'ulteriore partizione in tomi/rotoli nel caso di libri particolarmente lunghi e/o allestiti senza risparmio di spazio. Il prodotto librario normale era il volumen scritto solo sul recto. Ma, soprattutto in certi periodi, si trovano pure rotoli scritti sul verso: si tratta di libri fatti con materiali di riutilizzo, scritti in economia, talora dallo stesso lettore-consumatore, sul retro di documenti o di altri testi che non interessavano più. Il fenomeno va collegato non solo a ragioni economiche ma anche a una più forte domanda sociale di lettura.Il libro/rotolo poteva essere non solo di papiro ma anche - pur se raramente - di pergamena, la materia scrittoria di origine animale ricavata di norma da pelli ovine e bovine conciate in modi specifici, la quale, a partire dalla tarda antichità, venne man mano a sostituirsi al papiro come supporto scrittorio del libro. E quando in quella stessa epoca nelle pratiche librarie la forma del codice venne a sostituirsi definitivamente a quella del rotolo, quest'ultimo rimase limitato - in Oriente più che in Occidente - a usi particolari. Nel Medioevo sono testimoniati sia per conservazione diretta sia indirettamente numerosi rotoli liturgici, ma anche alcuni rotoli di uso obituario o di contenuto letterario, fatti con fogli di pergamena cuciti insieme e scritti transversa charta, vale a dire con la scrittura disposta parallelamente ai lati corti.
Il codice normale è formato da fogli piegati di papiro (ricavati dal taglio di rotoli commerciali standard) o di pergamena, riuniti in fascicoli, scritti sulle due facce e legati sulla piegatura di costola. Nei primi secoli della sua diffusione (II-IV d.C.) s'incontrano sovente esemplari composti di un solo, più o meno grosso, fascicolo, o da fascicoli costituiti ciascuno da un foglio singolo; se fatti di più fascicoli, questi non seguono nei diversi manufatti una norma prevalente più o meno stabile, e risultano persino di consistenza varia all'interno di uno stesso manufatto. Dal momento in cui se ne stabilizza la strutturazione, il codice è composto da più fascicoli, formati di regola ciascuno da quattro fogli che ripiegati danno luogo a otto carte, ma non mancano in ogni epoca eccezioni. Il codice di papiro di tipo più antico presenta a libro aperto, nelle pagine affrontate, contrapposizione tra fibre orizzontali e fibre verticali, ma più tardi l'andamento di queste risulta il medesimo sulle due pagine; il codice di pergamena, sempre a libro aperto, presenta lato carne di fronte a lato carne e lato pelo di fronte a lato pelo, una strutturazione correlata al sistema di piegatura della pelle animale prima del taglio o anche a una mirata sovrapposizione dei singoli fogli.
È stato sostenuto che furono i cristiani, a partire almeno dal II secolo, a favorire la sostituzione del codice al rotolo. Del dibattito tuttora in corso si possono rilevare alcune linee di fondo. Si deve partire dalla constatazione che il codice costituiva un modello di 'contenitore di testo' diverso dal rotolo, legato alla tradizionale cultura letteraria delle classi dominanti. Il cristianesimo, nel suo proporsi come religione scritta rivolta a tutti, faceva leva su fasce alfabetizzate di diverso livello sociale e culturale: fasce costituite non tanto o non soltanto dal tradizionale pubblico di lettori più o meno colti adusi al libro/rotolo, ma anche da quello che si può indicare come 'pubblico del codice', cioè da individui forniti di molto più che un alfabetismo funzionale, ma privi di strumenti culturali affinati: a essi, pur se non erano sconosciuti rotoli contenenti testi piuttosto semplici, la cultura scritta era più vicina e famigliare nella specie di modeste letture scolastiche o di discipline tecniche, e perciò di libri in forma di codice, forma più adatta, in quanto 'a pagine', all'uso didattico o a una letteratura manualistica o di riferimento, come in genere quella di testi non solo tecnico-professionali - grammaticali, medici, giuridici - ma anche di carattere sacro. Se a questo si aggiunge il fattore economico (a parità quantitativa di testo, v'era un notevole risparmio di materia scrittoria, giacché il codice veniva scritto sul recto e sul verso della pagina, a differenza del rotolo, scritto di norma sul solo recto), pare ben giustificata la scelta cristiana. Si ritiene tuttavia che siano stati fattori inerenti alle trasformazioni della società e della cultura a determinare man mano l'uso generalizzato del codice in qualsiasi tipo di pubblico e per qualsiasi tipo di testo. Questo definitivo successo fu assicurato anche dalla capienza del codice, capace di racchiudere un'estensione testuale assai più larga di quella del rotolo, e quindi di dare assetto unitario agli scritti divenuti canonici della nuova religione, a raccolte di leggi, a corpora di opere di uno stesso autore in un'epoca, la tarda antichità, di sistemazione di saperi e di testi. Nella sostituzione del codice al rotolo si inquadra anche il prevalere della pergamena sul papiro come materia scrittoria, pur se in epoca antica non va stabilita una relazione obbligata di manifattura papiro-rotolo e pergamena-codice.
Per il Medioevo si dispone di un più largo numero di testimonianze - letterarie e iconografiche - relative alla manifattura del codice. Di norma la pelle di animale veniva bagnata con acqua e calce, quindi tesa su un telaio, ripulita delle scorie sia dalla parte del pelo sia dalla parte della carne e lasciata asciugare, per essere poi levigata ancora con pietra pomice. Una volta ricavati e rifilati i singoli fogli, si passava alla confezione dei fascicoli, il più delle volte quaternioni, i quali venivano rigati, secondo sistemi e tipi diversi, per lo più mediante la pressione di un legnetto appuntito, guidato da una barra, o anche di strumenti metallici, che avevano comunque come punti di riferimento una serie di forellini praticati sui margini a distanza regolare con una specie di compasso. Talora si usava riutilizzare i codici, per lo più frammentari, già scritti; si trattava, in questo caso, di palinsesti: il testo veniva eraso e/o lavato, e la pergamena adattata a un altro libro e a un'altra trascrizione. Questa pratica, testimoniata soprattutto nel primo Medioevo, orientale e occidentale, e in aree periferiche, è dovuta forse a una procedura tecnico-libraria rudimentale in uso in certe comunità monastiche, piuttosto che a ragioni di economia o di disinteresse per scritti ritenuti inutili o addirittura dannosi per la salute dell'anima.
Una volta scritti ed eventualmente decorati, i fascicoli - ordinatamente numerati o segnati con opportuni rinvii man mano che procedeva la trascrizione del testo - venivano rilegati tra assi di legno tagliate e regolate mediante una piccola accetta, ricoperte di cuoio e fornite di borchie e fermagli di ottone lavorati con incudine e martelletto; né mancavano talora rilegature fatte con piatti di avorio, argento e oro e tempestate di gemme. A partire dal XII secolo, e soprattutto dal XIII al XV secolo, si assiste a mutamenti radicali nella manifattura del libro. Sotto l'aspetto tecnico, è fondamentale in quest'epoca l'adozione della carta, la materia scrittoria che finirà col trionfare - dopo una strenua lotta con la pergamena, durata fino al tardo XV secolo - divenendo d'uso generale in età moderna. E tuttavia ancora nel XVI secolo la pergamena resterà la materia scrittoria privilegiata del libro 'borghese' di lusso, così come del libro umanistico e delle aristocrazie 'di Stato'.
La manifattura del libro nel mondo antico è lavoro manuale; essa può essere perciò opus servile o opera artigianale, di bottega. Esistono tuttavia forme di produzione la cui indole precisa sfugge per mancanza di testimonianze adeguate. Nel primo Medioevo occidentale il lavoro di allestimento e di trascrizione del codice viene trasformato in pia penitenza all'interno di sedi vescovili e monasteri, mentre nell'Oriente bizantino resistono anche sistemi di produzione già del mondo antico. È nel basso Medioevo che si ritorna a un vero e proprio artigianato librario: collegati direttamente alla domanda, i sistemi di produzione del libro variano a seconda di questa e incidono profondamente sulle tecniche anche in relazione a più generali fattori di ordine culturale ed economico.
La domanda di libri - quasi inesistente in una cultura orale come quella della Grecia arcaica, ove il libro aveva soprattutto la funzione di garante della conservazione del testo - si trova più saldamente testimoniata nell'Atene del V-IV secolo a.C. È documentato un commercio librario che doveva soddisfare certe esigenze di lettura o incrementare la formazione delle prime raccolte librarie private (sono note quelle di Euripide o di Aristotele), mentre per altre raccolte di libri di quest'epoca, quelle strettamente riservate a scolarchi e seguaci di scuole mediche o filosofiche, si deve credere che le opere di riferimento o di nuova composizione fossero prodotte all'interno delle scuole stesse (ad opera di scolari? di scribi di professione?).
È l'età ellenistica che si può considerare 'epoca del libro', e non tanto per un accresciuto numero di lettori, che resta pur sempre limitato, quanto piuttosto per una nuova concezione della letteratura, tutta fondata sulla filologia e perciò su conoscenze e riscontri testuali/librari, e per la creazione di grandi biblioteche che impongono una produzione libraria notevolissima. Mancano testimonianze sui meccanismi che presiedevano al rifornimento delle biblioteche ellenistiche (si pensi ad Alessandria o a Pergamo), ma sia perché il modello a monte restava quello delle scuole scientifico-filosofiche, sia al fine di garantire edizioni di testi coerenti con l'attività filologica collegata a quelle biblioteche, è da credere che esse disponessero al loro interno di un atelier di copia. Nella 'lunga durata' questo modello di produzione libraria sarà quello adottato molto più tardi dalle scuole cristiane (il Didaskaleion di Alessandria, la scuola origeniana a Cesarea, le scuole di Gaza o di Nisibis) e che s'incontra a Costantinopoli quando Costanzo II nel 357 istituisce la biblioteca imperiale.
In età ellenistica deve essere comunque ammessa una produzione libraria anche al di fuori delle grandi biblioteche. Un vero e proprio commercio tuttavia non è saldamente attestato prima del I secolo a.C. e a Roma. A partire da quest'epoca, le testimonianze di autori latini relative a editori-librai, 'titolari' di botteghe, diventano sempre più frequenti, culminando tra I e II secolo d.C.: a Roma sono i Sosii, Trifone, Atrecto, Doro, con le loro botteghe fornite all'interno di scaffali e all'esterno di iscrizioni che ne propagandano i volumina, ma anche a Brindisi c'era almeno una qualche bancarella sul porto con i suoi libri fantasiosi in attesa di acquirenti. In città di provincia più o meno lontane era possibile trovare tabernae librariae (botteghe librarie) almeno in Gallia, a Vienne o a Lione, e in Britannia. Nella entusiastica visione degli autori del tempo i loro scritti, attraverso i libri, si diffondevano sino ai confini del mondo. Gli 'imprenditori' di queste botteghe - dove di regola si svolgevano tutte le operazioni inerenti alla produzione del libro, dall'allestimento editoriale alla vendita - erano per lo più liberti. Non a caso, giacché il libro nel mondo romano, fin da età antica, veniva confezionato e trascritto da schiavi e liberti privatamente, presso le case patrizie, rientrando talora tra le attività accessorie di un vero e proprio sistema di produzione di tipo schiavistico, come nel caso di Attico, editore delle opere di Cicerone ma pure di altri testi, anche greci. Una volta affrancati, certi schiavi-librarii al servizio dei ricchi - soprattutto in un'epoca di più ampia diffusione dell'alfabetismo e di più vasta esigenza di lettura, quali si dimostrano i secoli I-III d.C. - finiscono con il diventare essi stessi 'imprenditori' aprendo, per così dire, 'case editrici', ossia botteghe librarie.
Per il pubblico culturalmente stratificato che animava il mercato v'erano anche tipi di libro e prezzi differenziati. Un mutamento della veste editoriale implicava un diverso contesto socioculturale ed economico di circolazione. I libri di produzione commerciale avevano un prezzo alto: il libro I degli Epigrammi di Marziale, ad esempio, costava in edizione di lusso 5 denari, più del doppio, per la stessa epoca, della paga di dieci giorni di un legionario. Il prezzo cresceva, fino a diventare esorbitante, per i libri d'antiquariato, vecchi di secoli, o per i manoscritti d'autore, veri o falsi che fossero. A essere fortunati, ci si poteva imbattere anche in libri a buon mercato, perché sciupati o scuriti dall'essere rimasti a lungo esposti. V'erano, altresì, esemplari di qualità scadente per lavorazione di materiale o per scrittura e perciò meno costosi, né mancavano libri scritti dagli stessi lettori-consumatori o di seconda mano. Le edizioni di più alta qualità tecnica si devono credere quelle per bibliofili (anche se talora scarsamente istruiti) o per le biblioteche pubbliche. Mentre, infatti, in Oriente resiste largamente la tradizione di laboratori di produzione del libro annessi alle istituzioni bibliotecarie, la biblioteca pubblica dell'Occidente romano deve ritenersi fornita dall'esterno, fossero libri donati dagli autori stessi, desiderosi di far entrare le loro opere in una biblioteca pubblica, o acquistati direttamente da botteghe librarie secondo determinati criteri di politica culturale o di selezione, o magari, per quanto concerne alcuni testi, facendoli trascrivere appositamente.
Tutto questo non deve far credere che il numero dei lettori fosse altissimo. Si trattava, anche nei primi secoli dell'Impero, di una minoranza, peraltro limitata alle aree urbane; va piuttosto rilevato, sotto il profilo socioculturale, che questa minoranza si dimostra più larga e stratificata che in altre epoche dell'antichità.
Nella tarda antichità il rarefarsi del pubblico colto e persino alfabetizzato, la conseguente contrazione delle letture pubbliche e private, i mutamenti nelle tecniche del libro con il prevalere della forma del codice su quella del rotolo, il più alto costo del libro stesso quale può rilevarsi - ove rapportato all'economia dell'epoca - dalle tariffe fissate da Diocleziano nel relativo editto (40 denarii a quaternione per la lavorazione della pergamena, 25 per ogni cento righe di scrittura libraria della migliore qualità, e 20 per altrettante righe di scrittura di seconda qualità), tutto questo venne a determinare la crisi delle botteghe librarie. Le rare ancora attive tra il IV e il VI secolo sembrano essere state quelle capaci di soddisfare le committenze di libri d'apparato, che venivano da un'aristocrazia facoltosa o anche da nuovi ricchi in ambiti particolari, come gli argentarii a Ravenna nel VI secolo, i quali promuovono la costruzione di fastose basiliche, ma forse anche la manifattura di libri di lusso sacri e profani.
Nello stesso arco di tempo continua a rimanere in vita il sistema, mai interrotto, di produzione del libro nelle case private, pur se in condizioni diverse giacché in un mutato contesto socioculturale di riferimento. Sottoscrizioni di codici tardoantichi conservatesi direttamente o in copie medievali, così come fonti letterarie, testimoniano l'allestimento di edizioni di 'classici' per iniziativa e nelle dimore di membri dell'ultima aristocrazia colta: si pensi già solo alla trascrizione-edizione dell'intera opera di Livio promossa dalle case cognate dei Simmachi e dei Nicomachi. E i medesimi meccanismi sono alla base della produzione e diffusione dei libri cristiani, una volta che la nuova religione venne a essere istituzionalizzata. Se determinati libri d'apparato, contenenti soprattutto testi scritturali, furono prodotti in botteghe librarie al pari di certi 'classici', la più parte delle opere patristiche - di san Girolamo, di sant'Agostino, per richiamare qualche nome eminente - fu edita nella cerchia stessa del loro autore e si diffuse attraverso una rete di amicizie e relazioni entro la quale si producevano copie private. I cristiani, come in tanti altri casi, non fecero altro che riprendere e adattare alle proprie esigenze una pratica che era consolidata da secoli.
I nuovi centri di produzione del libro, gli scriptoria dell'alto Medioevo latino - mentre assai meno si può parlare di scriptoria per il Medioevo bizantino, giacché la produzione del libro resta affidata ancora ad ateliers di copia o a singoli scribi -, non costituiscono un lascito dell'antichità ellenistico-romana. Essi nascono, invece, sul crollo degli antichi sistemi di produzione libraria (botteghe, committenze o trascrizioni private promosse da aristocratici e intellettuali). Il riannodarsi delle fila di una cultura scritta dopo l'epoca delle grandi invasioni avviene nelle sedi vescovili e nei monasteri, ed è qui che si organizzano gli scriptoria, pur se un'attività di copia di libri destinati al culto o alla lettura di edificazione va ammessa presso sedi vescovili o comunità monastiche fin dalla tarda antichità. Una notizia in tal senso si ha già all'inizio del V secolo per la sede di san Paolino vescovo a Nola, ed è indubbio che dal secolo successivo furono trascritti libri in varie sedi di vescovato (Vercelli, Ravenna, Verona, Capua); quanto a libri prodotti in ambito monastico, anche questi sono saldamente testimoniati a partire almeno dallo scorcio del IV secolo, scritti non soltanto a uso della comunità ma anche per essere venduti come altri oggetti (canestri, stuoie) nel contesto della primitiva economia monasteriale. È su questa attività di copia, inizialmente non coordinata né legata a esigenze di studio o a un qualche progetto bibliotecario, che si innestano più tardi i veri e propri scriptoria medievali dell'Occidente europeo. (La fondazione monastica di Vivarium, voluta da Cassiodoro nel VI secolo, si propone non come il primo modello di scriptorium medievale ma come l'esito ultimo dell'antichissimo modello alessandrino di istituzione culturale).
Anche oltre l'alto Medioevo, e fino al XII secolo, la più parte della produzione libraria rimase concentrata in scriptoria vescovili o monastici, con l'avvertenza tuttavia che il termine scriptorium vuole indicare solo una produzione tutta interna a istituzioni religiose, non un'attività di copia coordinata in uno spazio specifico e secondo direttive precise, che pure nell'alto Medioevo non mancò ma rimase limitata a momenti speciali di sedi vescovili o di abbazie importanti. Innumerevoli comunque in tutta l'Europa medievale furono vescovati e monasteri nei quali si svolse un'intensa attività di copia. Vengono in mente sedi vescovili come, ancora una volta, Vercelli o Verona nell'Italia settentrionale, e Frisinga in Baviera. E quanto ai monasteri, molti furono i libri usciti da scriptoria insulari o del continente, attivi in abbazie come quelle - partendo dalle Isole britanniche e dalle regioni europee d'oltralpe e procedendo verso l'Italia - di Wearmouth-Jarrow, Corvey, Hersfeld, Fulda, Lorsch, Corbie, Reims, Reichenau, Murbach, Auxerre, Fleury, Tours, Luxeuil, S. Gallo, Cluny, e in Italia Nonantola, Bobbio e più a sud Farfa. I più di questi scriptoria raggiunsero la massima fioritura in piena età carolingia, nel secolo IX. Nell'Italia meridionale rimasta longobarda, centro assai operoso di produzione libraria fu Montecassino, ma per vicende varie la sua fioritura data più tardi, a partire dai primi decenni dell'XI secolo. Anche se per tutto l'alto Medioevo i libri vengono prodotti di regola all'interno di istituzioni religiose, v'erano tuttavia anche libri scritti da uomini di chiesa o da laici e destinati a una sia pur ristretta committenza e perciò a un limitato commercio librario.
A partire dal tardo XII secolo, e soprattutto dal XIII secolo al XV, nella manifattura del libro i sistemi di produzione cambiano radicalmente a motivo di fatti diversi e tra loro correlati: il mutare della funzione stessa del libro che, da strumento di edificazione spirituale o bene patrimoniale da conservare, diventa libro destinato alla lettura, allo studio, ai riscontri frequenti; il trasferirsi della produzione libraria dal chiuso isolamento di chiese cattedrali o di comunità monastiche ai compositi ceti, sia religiosi sia laici, della società urbana; l'adozione sempre più larga della carta, materia scrittoria meno costosa della pergamena e che, soprattutto, si poteva produrre in quantità illimitata. Tutto ciò era la conseguenza della più larga diffusione sociale della scrittura a partire dall'età comunale, quando vengono acquisiti all'alfabetismo gli strati urbani medi e persino frange del popolo minuto, grazie anche all'istituzione, da parte dei governi cittadini, di scuole tenute sia da chierici sia da laici (talora notai), proprio allo scopo di soddisfare un'esigenza di alfabetismo divenuta sempre più pressante. Le forze economiche in espansione, i nuovi bisogni della vita cittadina, l'accresciuto volume degli scambi internazionali inducevano sempre più nella 'borghesia' urbana l'aspirazione a un livello di formazione più elevato. E così, partendo dai registri contabili del mercante e da esigenze inizialmente di carattere tutto pratico, questa 'borghesia' finì col raggiungere un saldo grado di alfabetizzazione e perciò la capacità di accostarsi al libro come strumento di cultura. Un altro forte impulso alla produzione libraria venne dalla nascita delle università, il cui insegnamento era tutto fondato sulla pagina scritta, e dai nuovi ordini mendicanti, i domenicani soprattutto, per i quali il libro era uno strumento di lavoro su cui esercitarsi, giacché finalizzato all'arte della predicazione. Insomma, se nell'alto Medioevo la produzione di manoscritti aveva avuto risonanze ristrette, sostenuta com'era da una base sociale chiusa, clericale e monastica, e da un'economia terriera agricola e feudale, i meccanismi della circolazione libraria dal Due-Trecento sono da vedere nella prospettiva di un'accresciuta domanda, e perciò produzione, di cultura scritta, conseguente al balzo in avanti demografico e urbano della società comunale.
Il nuovo mercato tendeva a creare, da una parte, un libro di lusso di intrattenimento o di devozione, il libro 'borghese', e da un'altra un libro da lavoro intellettuale che fosse nel contempo economico e funzionale: traguardo, quest'ultimo, che fu raggiunto non tanto o non soltanto mediante l'impiego della carta, ma anche riducendo il modulo della scrittura e infittendo l'uso di abbreviature in modo da ottenere livelli di forte densità della pagina. Al mercato del libro si richiedeva, infatti, che per una determinata somma si potesse acquistare una quantità di testo notevole: di qui la necessità di concentrare, per studio o lettura individuale, testi 'lunghi' o più testi in un unico libro-contenitore, anche perché i campi disciplinari della cultura scolastico-universitaria dell'epoca - filosofia, teologia, diritto - imponevano un libro che costituisse il corpus o la summa degli scritti di un autore o degli scritti dedicati a una disciplina.Nelle città che sono sedi universitarie - i nuovi centri di studio del basso Medioevo - era necessario avere in tempi brevi copie numerose e corrette di testi destinati a studi rinnovati nei metodi: è per questo che nasce un nuovo artigianato librario e un nuovo sistema editoriale, quello della pecia. I testi-exemplaria, da cui tutti gli altri dovevano essere trascritti, venivano controllati da una commissione di professori, i petiarii, che ne accertava la fedeltà ai modelli o, se ricavati da lezioni, al dettato dei magistri, e quindi ne fissava la tariffa di trascrizione o di fitto che gli stationarii, artigiani-librai alle dipendenze dell'università stessa, potevano percepire; non tuttavia la tariffa di un intero exemplar, ma quella di ciascuna pecia di cui era composto, vale a dire di ogni singolo fascicolo. L'exemplar ufficiale, infatti, non veniva rilegato, ma lasciato sciolto in fascicoli staccati per permetterne una trascrizione simultanea: più scribi potevano copiarne contemporaneamente il contenuto pezzo a pezzo, e d'altro canto le peciae potevano essere affittate a turno a più studenti.
Sotto il profilo della produzione libraria gli stationarii rappresentavano la prima alternativa - pur se, sotto certi aspetti, ne costituivano anche la continuazione - agli scriptoria altomedievali; a differenza di questi ultimi, essi, saldamente inseriti, come le università, nel tessuto urbano, sono collegati con la vita della città, con un pubblico di maestri, scolari, professionisti, ecclesiastici, ma pure sempre più numerosi laici (la differenza, comunque, negli ambienti universitari era talora molto sfumata), i quali vi ricorrevano per prendere in fitto le peciae o per ordinarne copie. E se inizialmente si trattò di librai non organizzati, ben presto, già nel XIII secolo, lo stazionariato si presenta regolato - soprattutto nelle Università di Bologna e Parigi - da appositi statuti al pari delle altre corporazioni medievali. Siamo di fronte, perciò, al sorgere (o meglio al risorgere, giacché così era stato - tenuta presente la diversità del quadro storico-sociale - fino al VI secolo) di un'imprenditoria libraria, né gli stationarii, incorporati nelle scuole superiori per editare i libri di insegnamento e di testo, ne erano l'unica espressione: anzi essi costituivano soltanto uno degli aspetti del nuovo mercato di manoscritti, divenuto man mano un ramo dell'economia urbana. L'artigianato librario, insomma, era sostenuto da una domanda che andava ben al di là e al di fuori dei centri universitari, giacché investiva fasce alfabetizzate nuove e diverse.L'umanesimo non determinò tanto un mutamento nei sistemi di produzione libraria, quanto piuttosto impose un nuovo modello di libro, una nuova scrittura, un nuovo repertorio di testi.
Qualsiasi società abbia prodotto forme complesse di cultura letteraria, o scientifico-filosofica, o tecnico-pratica ha considerato di epoca in epoca il libro come il supporto materiale più idoneo non solo per la registrazione ma anche per la conservazione - intesa anche come organizzazione e trasmissione - di quel patrimonio culturale. Anzi, la funzione del libro come strumento di tutela di un contenuto testuale ne ha condizionato le tecniche non meno del suo ruolo di mezzo di comunicazione analitica di un discorso o simbolica di determinati significati. Ma questo aspetto tecnico-strumentale del libro in riferimento alla conservazione di un contenuto testuale non può essere isolato da un altro fondamentale aspetto del processo, quello rappresentato dalle istituzioni che hanno presieduto, proprio tramite il libro, alla tutela del patrimonio culturale, e dai gruppi sociali che di tali istituzioni hanno progettato, detenuto e orientato il funzionamento in relazione a esigenze e intenti diversi. S'impone l'avvertenza, tuttavia, che non sempre i meccanismi di conservazione messi in atto hanno avuto effetti diacronici determinando la conservazione di più o meno ampie raccolte librarie, ma che, anzi, la conservazione si è tante volte risolta in occultamento e perciò in perdita di un certo patrimonio.
In età arcaica la prima forma di conservazione non è il libro, ma la memoria: è nel rapsodo che il più antico sapere greco, il canto epico di Omero, è depositato e destinato a conservarsi. Ma accanto a Omero c'era il sapere scientifico-filosofico, espresso in una testualità elaborata, inadatta a un sistema mnemotecnico. Esemplare è il caso di Eraclito, che tra il VI e il V secolo a.C. consegna la sua dottrina a uno scritto, depositandolo nel santuario di Artemide a Efeso: si tratta di una conservazione sacrale, tipica di età senza biblioteche, che al mondo greco veniva forse da usi sacerdotali già dell'antico Egitto. A quest'epoca la pratica di conservazione del libro si deve ritenere limitata all'esemplare d'autore depositato presso un tempio, o anche custodito nella cerchia dell'autore stesso, magari segnato da un sigillo, da una 'firma' di appartenenza: esemplare che assicurava nel tempo non solo la durata dell'opera, ma anche l'autenticità della registrazione testuale.
Le prime raccolte di libri vere e proprie nel mondo greco sono opera di 'intellettuali'. Assai fornita, e momento di svolta nella creazione di un modello bibliotecario, risulta la biblioteca di Aristotele nel IV secolo a.C., cui sono ispirate quelle di altri scolarchi. Queste biblioteche - costituite nel loro nucleo originario dagli scritti e dai libri altrimenti acquisiti del maestro-fondatore - venivano man mano ad accrescersi sia con le opere degli scolarchi successivi, sia con i libri fatti trascrivere, donati, lasciati in eredità da questi ultimi e, più in generale, da quanti partecipavano a un qualche titolo all'attività della scuola. Ma non si trattava di biblioteche pubbliche, in quanto né istituite dal potere pubblico, né destinate a qualsiasi lettore volesse accedervi, né, di conseguenza, fornite di opere di svariato argomento. La raccolta libraria era finalizzata alla ricezione delle dottrine fondamentali della scuola nonché ad assicurare la continuità del pensiero degli scolarchi e a garantire l'autenticità degli esemplari di riferimento a seguaci o 'iniziati'.
A partire dal III secolo a.C., la fondazione di grandi biblioteche 'pubbliche', come quelle di Alessandria al tempo dei Tolomei o di Pergamo sotto gli Attalidi, modificò solo in parte il modello di origine aristotelica (o più largamente scientifico-filosofica); ne impose, piuttosto, l'adattamento all'ideologia 'universalistica' dei sovrani ellenistici, a esperienze archivistico-bibliotecarie di antica tradizione orientale, a mutate istituzioni letterarie. Ai Tolomei, come agli altri sovrani ellenistici, interessava la conservazione sincronica degli scritti di tutti i tempi e di tutta l'ecumene nota, ma questa biblioteca 'universale' doveva anche essere 'razionale': in essa i libri dovevano essere ricondotti a un ordine, a un sistema di classificazione che permettesse di organizzarli secondo autori, opere, suddivisioni interne. Questa biblioteca, infatti, era intesa a contenere tutti i libri/testi hic et nunc: autori più antichi e autori contemporanei, greci e non (ma in tal caso tradotti); altrimenti non si spiegherebbe, al di là della confusione delle cifre tramandate, la smisurata quantità di rotoli in essa custoditi. Ma la biblioteca di Alessandria, quella di Pergamo, o altre grandi biblioteche ellenistiche sono sostanzialmente (e paradossalmente) biblioteche 'pubbliche' senza pubblico, altrettanto esclusive - giacché destinate a uno sparuto numero di eruditi interni all'istituzione stessa - quanto le raccolte librarie delle scuole scientifico-filosofiche o gli archivi-biblioteche del Tempio o del Palazzo di tradizione orientale.
Trapiantato a Roma, il modello di biblioteca definitosi nel mondo ellenistico-alessandrino si modifica ulteriormente. A Roma già la tarda Repubblica, ma soprattutto l'età imperiale segnavano l'insorgere di nuovi e più vivaci fermenti intellettuali, la crescita di scuole di grammatica e di retorica, la formazione di un vero e proprio pubblico di lettori dovuta alla più larga diffusione sociale dell'alfabetismo. A partire dal torno di tempo tra il I secolo a.C. e il I d.C. si assiste, così, alla creazione di biblioteche private e pubbliche in tutto il mondo romano (o meglio, ormai, greco-romano), atte a soddisfare le accresciute esigenze di cultura scritta. Sdoppiata in due aule - una per i libri greci, l'altra per quelli latini - la biblioteca romana non è più una biblioteca a uso interno, esclusivo, come quella ellenistica; è invece biblioteca aperta a un pubblico esterno che può fruirne. Mancano tuttavia testimonianze letterarie o iconografiche che documentino la lettura all'interno dello spazio bibliotecario. Luogo di 'sociabilità' e di incontro, dove si potevano consultare, prendere in prestito, o anche scorrere libri, anche la biblioteca pubblica romana resta una biblioteca soprattutto di conservazione: una conservazione talora sacrale, in loca secreta come nel caso dei libri Sybillini, e sovente controllata dal potere politico che poteva impedire l'accessione di determinate opere.
Gli interventi operati nella tarda antichità per assicurare la conservazione del patrimonio culturale attraverso i libri furono d'indole diversa, con una forte divaricazione tra Oriente e Occidente, non per gli strumenti tecnici - o meglio tecnico-librari - adottati, ma per le forze in gioco. Ai massimi livelli istituzionali si pone nel 357 l'iniziativa di Costanzo II che, assicurando mezzi finanziari adeguati, istituisce la biblioteca imperiale di Costantinopoli e promuove una trascrizione di libri/testi antichi in nuova veste (da esemplari di papiro in codici di pergamena?) al fine di tutelarne la conservazione. Sempre in Oriente, anche da parte cristiana non mancarono iniziative analoghe, pur se mirate quasi esclusivamente al recupero e alla conservazione di opere dottrinali: nel tardo IV secolo il vescovo Euzoio 'rinnovò' a Cesarea di Palestina la biblioteca già di Origene, arricchita da Panfilo ed Eusebio, trasferendo in codici di pergamena gli scritti contenuti in libri ormai consunti.
A differenza che in Oriente, nell'Occidente tardoromano si assiste a una crisi irreversibile di qualsiasi tipo di conservazione istituzionale; di qui l'intervento di un ceto dirigente colto, che valse a salvaguardare certo patrimonio di cultura, o quanto meno a contenerne vuoti e perdite attraverso trascrizioni di testi e biblioteche private. Queste ultime sono attestate nel mondo romano fin dall'età repubblicana, precedendo l'istituzione stessa delle biblioteche pubbliche. Anche se alcune, soprattutto nei primi secoli dell'Impero, risultano mero ornamento delle case di individui facoltosi (e scarsamente istruiti), non v'è dubbio che nella tarda antichità, quando le biblioteche pubbliche furono travolte da invasioni e lasciate deserte, esse contribuirono a salvare fondi librari che, giunti attraverso vicissitudini varie fino al Medioevo, finirono col trasmettere saperi e testi altrimenti destinati a perdersi.
A partire dal tardo VI secolo scompaiono man mano - con la decadenza delle strutture urbane e la drammatica rarefazione della società colta e persino alfabetizzata - gli spazi stessi deputati alla salvaguardia di un patrimonio librario. Nel Medioevo gli eredi del mondo antico sono da una parte la Chiesa, dall'altra i regni barbarici e quindi le corti. È in queste forze, in queste strutture della società che va cercato il lento riannodarsi dei fili della conservazione - come della produzione - del libro. I vescovati (o arcivescovati) possono essere stati, con i loro archivi non soltanto di documenti ma anche di libri, le prime sedi in cui quei fili hanno cominciato a riannodarsi: e questo perché già nella tarda antichità membri dell'aristocrazia colta, entrando nella Chiesa e nelle sue istituzioni, erano saliti ai ranghi più alti della gerarchia, portando con sé e introducendo nelle cerchie ecclesiastiche certe abitudini intellettuali e quindi l'uso, l'accumulo bibliotecario, la tutela dei libri. Più tardi, anche a motivo dell'insorgere di scuole cattedrali, vennero a formarsi vere e proprie biblioteche vescovili, le quali tuttavia raccolsero assai raramente quantità notevoli di libri, destinate com'erano - anche sotto il profilo architettonico, giacché anguste e addossate alle chiese - solo a un certo numero di testi ritenuti indispensabili (biblioteche come quelle delle cattedrali di Verona o di Frisinga, molto fornite di libri, sono piuttosto eccezionali).
Diverso il percorso degli statuti di conservazione nel monachesimo, il quale - legato com'è inizialmente alla secessio nel deserto o in luoghi disagevoli - nel suo momento originario rifiuta il sapere. In questa fase, se si scrivono libri, i più si scrivono per essere venduti, e i pochi necessari alla liturgia o alla lettura di edificazione si ripongono in qualche spazio ricavato nella parete o in un rudimentale armadiolo o cassettone, quasi sempre insieme ad altri oggetti di uso domestico. Fu solo più tardi che il monachesimo giunse a un diverso atteggiamento verso il sapere e si dette strumenti, quali i libri, atti alla sua acquisizione e conservazione. A partire dal VII secolo quindi, prima nel monachesimo irlandese e poi, tramite questo, sul continente, nelle comunità monastiche di regola benedettina la conservazione del libro trovò un'organica soluzione, interna agli stessi cenobi: sorgono così, in stretto collegamento con i relativi scriptoria e da questi soprattutto rifornite di libri, le biblioteche monastiche. Da tutto questo discende, sotto il profilo architettonico, la coincidenza o contiguità che nell'alto Medioevo di solito si ha tra biblioteca monastica e scriptorium: si trattava infatti di uno o più armaria, armadi, o arcae, casse (ma l'uno e l'altro termine possono significare le due cose), nei quali erano conservati i libri o i documenti, e che si trovavano collocati nello scriptorium stesso o in una stanza-deposito al piano superiore cui si accedeva per una scala.
Questa soluzione architettonica si trova nella pianta ideale dell'abbazia di S. Gallo progettata nel IX secolo, nella quale biblioteca e scriptorium sono collocati tra il presbiterio e il braccio nord del transetto della chiesa. Di tipologia rara sembra la parvula, ma abbastanza capace, edecula - in pratica una costruzione monolocale dovuta nell'XI secolo all'iniziativa dell'abate Desiderio a Montecassino - in qua libri reconderentur: pur se non si può escludere che questa edecula facesse anche da scriptorium, sembra trattarsi piuttosto di una biblioteca indipendente da quest'ultimo, autonoma, destinata soltanto alla conservazione dei libri. Una biblioteca della medesima specie pare testimoniata in epoca precedente anche in area carolingia, a Fontenelle. Alcuni monasteri raggiunsero tra il IX e l'XI secolo patrimoni librari piuttosto cospicui, soprattutto di opere teologiche, ma anche di testi classici. Si trattava però di biblioteche soltanto di conservazione, non di lettura, essendo altri i luoghi a quest'ultima deputati (chiesa, cella, refettorio, chiostro, scuola) e non molti i libri d'uso frequente. In ogni caso è un equivoco ritenere che nell'alto Medioevo biblioteche monastiche ben fornite indichino una fervida attività di lettura o di studio: esse costituiscono, piuttosto, un bene patrimoniale della comunità, registrato in cataloghi e inventari, e sono, d'altra parte, un segno di prestigio, restituito dal sapere che nei libri è custodito, anche quando non è praticato.
Resta da dire delle corti. Per tutto l'alto Medioevo queste non sembrano aver dato uno specifico impulso alla salvaguardia del patrimonio culturale tramandato e quindi dei libri. Non pochi sovrani, del resto, in quest'epoca erano dediti solo ad arma. I libri di corte - status symbol piuttosto che strumenti del sapere - erano considerati possesso privato del sovrano, apparato della sua persona, e ne seguivano perciò anche gli spostamenti. Al pari di queste raccolte, anche altre (e assai rare) biblioteche laiche risultano essere state create non in quanto funzionali alla conservazione, ma come biblioteche di decoro.
A partire dal XII secolo in ambito monastico si assiste, a motivo della riforma cistercense, alla rottura del modello di conservazione del libro e quindi del modello di biblioteca proprio dell'alto Medioevo. I cistercensi - con il loro programma di ritorno all'austerità dell'esperienza monastica primitiva - trasformano il monastero sia all'interno sia nel contesto sociale di riferimento. Già sotto il profilo architettonico viene operata una separazione tra biblioteca, archivio e scriptorium. La biblioteca, non collegata più in alcun modo con quest'ultimo, è ridotta all'inizio a una nicchia più o meno ampia, incavata nella parete e affacciata sul chiostro, dove, camminando, si faceva di preferenza la lettura. Quando il numero dei libri aumentava, la biblioteca poteva essere strutturata in più nicchie, ricavate - oltre che nel chiostro - nella chiesa o nel refettorio, o anche veniva adibito a luogo di conservazione libraria un qualche altro ambiente. In ogni caso si trattava pur sempre di una biblioteca intesa non come spazio di lettura, ma come deposito di libri.
Una vera 'rivoluzione' del modello bibliotecario è operata nell'ultimo quarto del XIII secolo dagli ordini mendicanti, domenicani e francescani (sui quali per certi aspetti vennero a modellarsi anche agostiniani e carmelitani), i quali creano la grande biblioteca religiosa di conservazione, tutta funzionale alla cultura scolastico-universitaria. Questa biblioteca - chiamata di solito libraria e destinata a larga fortuna per più secoli - è costituita, sotto il profilo architettonico, da un'aula oblunga, percorsa al centro da un corridoio vuoto e occupata nelle due navate laterali da due serie di banchi di lettura disposti in file parallele, con i libri a questi incatenati, offerti alla consultazione e allo studio. La pianta è in pratica quella della chiesa gotica e richiama, al di là del fatto puramente architettonico, la concezione mentale sottesa alla civiltà del gotico: la biblioteca si fa urbana e ampia, divenendo lo scenario del libro, esposto e disponibile. Dalla biblioteca di pura conservazione si è passati alla biblioteca di lettura. Di conseguenza il catalogo, da semplice inventario, redatto soprattutto per documentare la proprietà di beni, diventa strumento finalizzato a segnalare la collocazione dei libri all'interno di una determinata biblioteca o in altra biblioteca dell'ordine. Entra in uso comune il memoriale, una scheda sulla quale venivano segnati dal bibliotecario i volumi in prestito. Oltre alla biblioteca di consultazione qui descritta, v'era una biblioteca detta 'segreta' perché chiusa in armadi, più fornita dell'altra e destinata al prestito, e perciò detta pure 'circolante'.
Il tipo di biblioteca creato nel XIII secolo dagli ordini mendicanti fu recepito, in pratica, da tutte le istituzioni bibliotecarie dell'epoca: a esso si conformano le antiche biblioteche cattedrali, su di esso si modellano le nuove biblioteche dei collegi secolari annessi alle università, ed è a esso che queste ultime si ispirano quando, a partire dal XV secolo, organizzano proprie biblioteche. Da questo stesso modello di biblioteca religiosa non prescindono, inoltre, le biblioteche private cardinalizie o dell'uomo dotto, maestro o dottore in teologia, diritto, medicina, le quali non sono altro che la proiezione in scala ridotta di quel modello, risultando anch'esse funzionali alla cultura scolastico-universitaria.
Ad avvertire infine l'esigenza di una vera e propria biblioteca pubblica furono tra il XIV e il XV secolo gli umanisti, anche se le iniziative al riguardo intendevano innestarsi sulle istituzioni preesistenti, in particolare proprio sulle biblioteche degli ordini mendicanti. E tuttavia gli umanisti proponevano, in realtà, un modello di biblioteca diverso, anzi alternativo a quello divenuto ormai tradizionale e che pure si mantenne in vita ancora a lungo. Essi - secondo una linea che da Petrarca, passando attraverso Coluccio Salutati e Poggio Bracciolini, giunge fino a Niccolò Niccoli - mettevano al bando i libri della vecchia cultura scolastico-universitaria e ne recuperavano lo spazio ai classici, ai Padri della Chiesa, alle opere degli stessi umanisti. Si trattava di una strategia che prevedeva l'occupazione di luoghi già consacrati alla conservazione e alla fruizione del libro, sostituendo al vecchio patrimonio culturale un repertorio librario e testuale di segno diverso. Proprio per questo il modello bibliotecario umanistico non poteva non incontrare resistenze; solo a fatica, parzialmente e in forme ibride riuscì a occupare i vecchi luoghi di presenza del libro. Il modello s'impose e risultò vincente, invece, presso i gruppi dirigenti della società contemporanea, dando luogo a 'biblioteche di Stato', come quelle degli Sforza a Milano, dei Montefeltro a Urbino, dei re d'Aragona a Napoli. E questo modello fu pure alla base della creazione a Roma, nel 1475 e ad opera di Sisto IV, della biblioteca, cristiana e umanistica, della Chiesa, la Biblioteca Apostolica Vaticana.
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di Armando Petrucci
1. Le origini: il protolibro quattrocentesco
Intorno al 1450 in Europa la produzione di libri manoscritti in latino, nei diversi volgari in uso, in ebraico, e, limitatamente, anche in greco, aveva raggiunto dovunque, dalla penisola iberica alle regioni danubiane, livelli quantitativi assai alti. Particolarmente attive nella produzione, nel commercio e perciò nell'uso di libri di ogni natura e tipo, apparivano le maggiori città nelle quali si trovavano fianco a fianco centri culturali, come le università, istituzioni religiose, come vescovadi e grandi monasteri, biblioteche, imprese artigianali e commerciali, ricchezze private e mecenatismo pubblico. Dunque Parigi e Firenze, Venezia, Napoli e Roma, ma anche Barcellona e Praga, Oxford e le fitte concentrazioni urbane della valle del Reno. Nell'Italia centrosettentrionale il nuovo libro umanistico costituiva un prodotto di lusso e di moda all'avanguardia; ma ivi e altrove la produzione prevalente, scientifica o religiosa o in lingue volgari, ricalcava ancora modelli medievali ed era sostenuta e richiesta da un sempre più folto pubblico di alfabetizzati, composto non più soltanto di uomini, ma anche di donne, non più soltanto di colti, ma anche di semicolti. D'altra parte nelle medesime zone si aveva sempre più bisogno, da parte di istituzioni e magistrature, soprattutto ecclesiastiche, di documenti seriali (dichiarazioni, ricevute, indulgenze, circolari e così via), di libri religiosi destinati alla devozione dei laici, soprattutto di 'libri d'ore' e di libretti scolastici. La produzione manoscritta, pur diffusamente affidata a molti professionisti e semiprofessionisti (maestri, studenti, notai, preti, donne laiche e suore, artigiani), rimaneva irrimediabilmente lenta, oltre che altamente costosa, e perciò incapace di soddisfare una domanda di testimonianze scritte, librarie e non, di così vaste proporzioni, quale, in Occidente, non si era mai verificata dal II-III secolo d.C.
Fra XIV e XV secolo si era venuta diffondendo in Europa la pratica dell'incisione in legno (xilografia), che consisteva nell'imprimere su stoffe o carta blocchi di legno inchiostrati, precedentemente scavati in modo da recare in rilievo i tratti di un'immagine, di un brano di scrittura o di ambedue. Il procedimento d'incisione su legno e quindi di impressione di un intero testo, magari di centinaia di pagine, era troppo lento e costoso e la conservazione dell'ingombrante materiale, eventualmente da riutilizzare, era difficoltosa. Il libro tabellare o xilografico, che pure fu prodotto e usato nel corso del XV secolo soprattutto nei Paesi Bassi e nel mondo germanico meridionale (se ne conosce un solo esempio italiano), non costituì mai una reale alternativa al libro manoscritto e a quello - nascente - stampato a caratteri mobili, e rimase confinato in ambienti produttivi - e di uso - del tutto marginali; anche perché l'incisione su legno della fitta scrittura gotica del tempo (textura) non riuscì mai a raggiungere buoni livelli di ordine, chiarezza e leggibilità. I primi libri xilografici contengono, oltre a un corredo iconografico, brevi testi di natura devozionale (Biblia pauperum, Ars moriendi, Apocalisse e così via) in latino e in volgare e non recano data; non è certo che essi siano anteriori ai primi esempi di stampa a caratteri mobili e non possono comunque esserne considerati un diretto antecedente, per le evidenti diversità di tecnica artigianale e di ambiente produttivo.
Il modello del libro impresso da matrici costituite da blocchi di legno non era, in realtà, europeo, ma orientale, anzi, per la precisione, cinese. Il più antico esempio è costituito da un rotolo contenente testi buddhisti dell'868; nel corso del X secolo furono stampati con questa tecnica un gran numero di testi della letteratura cinese. In Corea, al contrario, il re Htaitong nel 1403 emanò un decreto con il quale fu deciso di procedere alla stampa di libri con caratteri mobili di rame; il processo fu completato e messo in opera nel corso della prima metà del XV secolo e comunque prima che in Europa si arrivasse al medesimo risultato; ma non sembra che possa da ciò desumersi con sicurezza un'influenza diretta del precedente coreano sull'elaborazione di analoghe tecniche in Occidente.
In Europa occidentale, e in particolare nelle città della valle del Reno, nel corso della prima metà del XV secolo si era venuto intanto sviluppando un fervido e raffinato artigianato dei metalli, che aveva messo a punto avanzate tecniche di lavorazione e di fusione, tali da permettere la fabbricazione di armi portatili, cannoni, oggetti domestici, oreficerie e così via. È in questo contesto, e non in quello dell'antica e semplice arte del legno, che va individuato l'ambiente, tecnicamente avanzato, nel quale, attraverso un relativamente lungo periodo di sperimentazione, si venne perfezionando una nuovissima e complessa procedura: quella della fusione e fattura di caratteri mobili metallici per la stampa di testi in scrittura latina. Al termine di tale processo, durato dagli ultimi anni trenta del secolo fino a poco oltre il 1450 (per quanto se ne può ipotizzare), la tecnica di fabbricazione e di uso dei caratteri mobili era così articolata: si incideva a mano in rilievo una serie completa di lettere e di segni su punzoni di metallo duro (acciaio); da questi si ricavavano matrici cave di rame, nelle quali si versava una lega fusa di piombo, stagno e antimonio, ricavandone i caratteri, che, composti in pacchetti tipografici, venivano poi inchiostrati mediante tamponi con inchiostro a olio nero, grasso e brillante, e infine premuti per mezzo di un torchio su fogli di carta (o raramente di pergamena) in esso opportunamente disposti. La procedura di fabbricazione dei caratteri era certamente complessa, ma permetteva la produzione di centinaia di migliaia di pezzi, che venivano distribuiti in casse, ordinati in modo che i compositori potessero facilmente individuarli; quella della stampa vera e propria era relativamente rapida e poteva arrivare, con operatori esperti, all'impressione di circa 3.000 fogli al giorno.
È difficile (anzi, impossibile) stabilire quando sia stato stampato il primo libro a caratteri mobili in Europa e chi lo abbia stampato. Com'è noto, il merito dell'invenzione del processo di fabbricazione dei caratteri mobili e della stampa è generalmente ascritto a Johann Gutenberg, nato a Magonza e ivi morto nel 1468, dopo aver lavorato per dieci anni circa a Strasburgo e aver subito numerose traversie; a lui, in particolare, viene attribuita la stampa della splendida e monumentale Bibbia cosiddetta 'delle 42 righe', avvenuta fra il 1452 e il 1454 (nell'ottobre di quell'anno ne erano pronte più di centocinquanta copie). Si sa anche, tuttavia, che già nel 1444-1446 il praghese P. Waldfoghel era membro ad Avignone di una società che si proponeva di sfruttare l'"ars artificialiter scribendi", di cui non si hanno altre notizie; e non sono mancati altri pretendenti. Ciò che conta è che nei primissimi anni cinquanta nella valle del Reno, e in particolare a Magonza, si era cominciato a produrre libri stampati con il processo descritto; e che assai rapidamente, per merito di numerosi prototipografi tedeschi ambulanti, questa avanzata forma di artigianato si diffuse dalla Germania in Italia (1464-1465, Subiaco) e in Francia (1470, Parigi), quindi, in pochi decenni, praticamente in tutta l'Europa, dalla Boemia e dalla Polonia fino alla penisola iberica, dal Montenegro all'Inghilterra (W. Caxton, 1476).
Sostanzialmente gli incunabuli (cioè i libri stampati nella seconda metà del Quattrocento) si distinguono dal libro manoscritto, di cui imitavano i formati, l'impaginazione e i tipi di scrittura, soltanto per tre elementi: il processo tecnico della stampa, il sistema di ornamentazione e illustrazione (xilografico prima e poi anche calcografico) e la possibilità di riproduzione del testo in un numero assai alto di esemplari fra loro sostanzialmente identici. Possiamo definire casuali le scelte dei testi da pubblicare, dettate soltanto dall'interesse immediato o da occasionali committenze; si stamparono soprattutto opere vecchie appartenenti alla cultura ufficiale e tradizionale: Sacra Scrittura, testi liturgici e devozionali (complessivamente circa il 45%), testi filosofici, classici e volgari (complessivamente circa il 36%), giuridici (circa l'11%) e scientifici (circa il 9%). Il latino fu naturalmente la lingua in assoluto più adoperata (circa il 78%); fra i volgari primo fu l'italiano (circa l'8%), seguito dal tedesco (circa il 6%) e dal francese (circa il 5%); minori le percentuali di altre lingue.Il protolibro quattrocentesco, malgrado la sua rapida espansione, aveva altri difetti: spesso era stampato male; era certamente mal distribuito, aveva bisogno di notevoli capitali (soprattutto per la carta) e infine era soggetto agli arbitrii e al controllo di ogni tipo di autorità. Complessivamente si può dire che, nel Quattrocento, come anche nei secoli seguenti, per diverse ragioni, attinenti all'arretratezza, alle divisioni e alla pigrizia culturale della società dell'Europa d'antico regime, la straordinaria invenzione della stampa a caratteri mobili restò a lungo sottoutilizzata. Ciononostante essa costituì una novità sconvolgente, che allargò enormemente la circolazione dei testi, accrebbe fortemente il numero dei lettori, contribuì decisamente alla diffusione dell'Umanesimo e della Riforma, allargò le frontiere geografiche dell'influenza culturale europea.
2. Nascita e sviluppo del libro editoriale
Soltanto fra Quattro e Cinquecento, a Venezia, a Basilea, a Parigi i libri di autori moderni e contemporanei, in latino e in volgare, cominciarono a rappresentare una considerevole percentuale di produzione e di mercato. Si ricordi il successo editoriale di un intellettuale 'europeo' come Erasmo da Rotterdam: la terza edizione dei suoi Colloquia (1522) arrivò a toccare le 24.000 copie. In questa fase di trasformazione grande fu il ruolo di alcuni editoritipografi di alte capacità culturali e imprenditoriali, quali il tedesco Johann Amerbach, attivo a Basilea, il fiammingo Josse Bade, attivo a Lione e poi a Parigi, Johann Froben, editore di Erasmo, attivo anch'egli a Basilea, e soprattutto Aldo Manuzio, che iniziò la sua attività tipografico-editoriale a Venezia nel 1494-1495, pubblicò testi greci, latini, italiani, creò il concetto di collana editoriale, lanciò sul mercato i libretti da mano, adottò la scrittura corsiva italica, pubblicò nel 1499 il più bel libro illustrato del Rinascimento: l'Hypnerotomachia Poliphili.
La cultura europea nel corso del XVI secolo fu influenzata e caratterizzata da alcuni grandi fenomeni del tutto nuovi rispetto al passato: la Riforma protestante, il Concilio di Trento e la Controriforma cattolica, la scoperta e la colonizzazione del Nuovo Mondo, la regolamentazione istituzionale della cultura classicistica del Rinascimento, la canonizzazione delle lingue volgari. In tutti questi fenomeni la stampa, strumento, fermento, merce, ebbe un suo specifico ruolo; per riuscire a svolgerlo dovette creare un nuovo tipo di libro del tutto differente dai precedenti, il libro 'editoriale'. Nato in un universo totalmente diverso da quello di un secolo prima, esso fu favorito dalla collaborazione attiva fra editori e intellettuali, dalla creazione di grandi ditte tipografico-editoriali resa possibile dalla nuova disponibilità di capitali e da larghi rapporti commerciali di dimensione europea: il primo catalogo collettivo della famosa fiera libraria di Francoforte è del 1564.
Le principali caratteristiche del libro 'editoriale' cinquecentesco furono il formato medio, a volte piccolo, la presenza di prefazioni e indici, l'affermarsi del frontespizio, la graduale prevalenza dell'illustrazione calcografica su quella xilografica, le alte tirature, il largo uso di caratteri corsivi, l'ampliamento sensibile del repertorio, la costituzione di vere e proprie collane editoriali. Nel corso del Cinquecento l'aspetto grafico del libro subì un forte processo di regolamentazione; mentre nei paesi nordici e in quelli centro-orientali di lingue germaniche e slave la 'textura' gotica rimase la scrittura più adoperata, in Italia e in Francia il tondo 'romano' e il corsivo 'aldino', di origine umanistica, si diffusero secondo modelli frutto dell'elaborazione consapevole dei maestri di scrittura e arrivarono a una prima altissima definizione stilistica, dal 1530 in avanti, per opera del punzonista francese Claude Garamont; a lui si devono anche i nuovi e diffusissimi caratteri greci corsivi, detti Grecs du roy, disegnati per incarico del grande e dotto editore parigino R. Estienne a partire dal 1540. In Francia venne elaborata in forme di grande espressività la bastarda corsiva, che caratterizzò nel corso del Cinquecento il libro letterario francese in lingua.
Superata la fase sperimentale, caratterizzata dalla casualità delle scelte, il libro 'editoriale' era ormai in grado di estendere i suoi interessi alla costituzione di un reale e completo repertorio della produzione testuale tradizionale e contemporanea; il che, nel clima caratterizzato in tutta l'Europa da forti tensioni religiose, pose spesso gli editori in contrasto con le autorità e favorì l'instaurazione di specifici meccanismi di censura, di cui il più noto e universalmente influente fu l'Index librorum prohibitorum della Chiesa cattolica, la cui prima edizione fu pubblicata a Roma da Paolo Manuzio, figlio di Aldo, nel 1564. Caratteristica appare la vicenda della grande casa tipografico-editrice creata a Venezia dai Giolito, che mutarono profondamente il repertorio delle loro edizioni intorno al 1565, passando da un orientamento prevalentemente letterario-trattatistico a un altro, opposto, di ispirazione prevalentemente religiosa. Ciononostante, almeno nei paesi di lingue germaniche, il successo dei libri protestanti e in lingua fu clamoroso; le opere di Martin Lutero arrivarono a tirature altissime, sintomo della capacità dell'editoria di soddisfare un pubblico estremamente vasto.
L'età del libro 'editoriale' è l'epoca in cui si viene precisando la figura dell'editore moderno, che ha a sua disposizione non solo un cospicuo capitale e una fornita tipografia, ma anche una vera e propria redazione formata di letterati, consulenti e poligrafi, che producono, rivedono, traducono e manipolano i testi più diversi, secondo orientamenti dettati da un mercato sempre più vivace e vasto, in cui si verificano sempre più spesso casi di contraffazione e riedizione fraudolenta di testi di successo. In Italia è proprio la casa dei Giolito a rappresentare a Venezia questo fenomeno di modernizzazione della stampa. Ma il ruolo di Venezia si stava già esaurendo; le nuove grandi case editoriali europee non sono più italiane, ma d'oltralpe, come quella lionese di S. Gryphe, o come quella di C. Plantin ad Anversa, avviata con cospicui capitali nel 1563 e che contava, al massimo del suo splendore, molti torchi e più di cento operai. Nel corso del Cinquecento si sviluppò anche l'uso, da parte dei maggiori editori, di approntare cataloghi dei libri pubblicati, a volte anche con il relativo prezzo. Un'ultima e importante conseguenza della crescita esponenziale della produzione libraria europea fu la sua espansione in regioni che ne erano fino ad allora rimaste escluse: nel 1584 fu stampata una Bibbia nell'Islanda danese; in Russia subito dopo la metà del XVI secolo lo zar Ivan il Terribile promosse la pubblicazione, a Mosca, di libri in caratteri cirillici e in lingua russa, seguita da altre iniziative in altri centri dello Stato. Dal 1539, al limite opposto dell'espansione europea, a Città del Messico, si cominciarono a stampare libri a opera di un tipografo giunto da Siviglia; complessivamente nel Cinquecento vi si pubblicarono centosedici opere, mentre a Lima, dal 1584, cominciò a operare un'altra tipografia. I Portoghesi già nel 1557 avevano impiantato una tipografia a Goa, cui ne seguì un'altra a Macao e una terza in Giappone, a Nagasaki, nel 1590, con produzione in portoghese e in lingue locali. Fu così che nella seconda metà del secolo il libro 'editoriale' europeo s'affacciò e si impose in territori e presso culture assai differenti, facendo della stampa a caratteri mobili (in Asia in concorrenza con il libro xilografico) un fenomeno universale.
3. La biblioteca-museo dell'età barocca
Per buona parte del Cinquecento le strategie e le pratiche dell'ordinata conservazione e dello studio dei libri manoscritti e a stampa rimasero generalmente le stesse realizzate con le grandi biblioteche 'di Stato' del secondo Quattrocento, di repertorio sostanzialmente umanistico e concepite come raccolte più di prestigio che di uso dai nuovi regnanti e signori prima d'Italia e poi anche d'Europa, da Ferrante d'Aragona ai Malatesta a Federico da Montefeltro agli Sforza fino al duca di Humphrey a Oxford e a re Mattia Corvino in Ungheria. Con la costituzione degli Stati moderni, nell'Europa cinquecentesca, le biblioteche 'di Stato' assunsero nuove caratteristiche, indotte dall'accettazione e dalla necessità di ordinamento dell'accresciuto patrimonio librario fornito dalla stampa; a esse si vennero progressivamente affiancando dovunque, nelle grandi città e nei centri minori, una miriade di biblioteche private, aristocratiche o di grandi ecclesiastici (innanzitutto cardinalizie), e religiose, di seminari, di collegi, di ordini. Queste biblioteche dovettero innanzitutto affrontare il problema dello spazio, di fronte alla comune tendenza a fornire un'informazione universale, che spaziava dalla teologia alla storia, dalla tradizione classica alle scienze, dal diritto alla medicina, sino alle letterature volgari e che allargava quindi a dismisura il repertorio, laicizzandolo e specializzandolo in modi imprevedibili fino a un secolo prima. Nella prima metà del Seicento una biblioteca aggiornata e costantemente aggiornabile non poteva possedere meno di 30.000 volumi e spesso superava questa cifra, fosse di nuova istituzione o di antica tradizione. La soluzione al problema della conservazione ordinata di tale enorme (per l'Occidente europeo) massa di libri fu trovata con la geniale sostituzione della disposizione di appoggio su un piatto della legatura dei singoli volumi negli scaffali con quella verticale, in cui il libro poggiava sul taglio inferiore, cioè quella moderna, che fu introdotta per la prima volta nella nuova grande biblioteca reale dell'Escurial, presso Madrid, inserita dall'ossessione megalomane di Filippo II nel complesso del monastero di S. Lorenzo e compiuta nel 1584, e poi adottata altrove, come nell'Ambrosiana di Milano (1603).
Il canone della nuova biblioteca rispondente alle esigenze della complessa cultura delle élites europee del primo Seicento e del mercato librario fu dettato dal giovane G. Naudé nel 1627 (e poi di nuovo nel 1644), secondo una tendenza cosmopolita e modernistica della cultura scritta, che faceva spazio, in un nuovo ordinamento del sapere, alle più diverse discipline e alle più avanzate curiosità, che deprimeva la fedeltà al classicismo per fare spazio al diritto e alla politica, alla narrativa e alle scienze, in funzione di un pubblico vario e attivamente presente, favorito anche da orari di apertura fissi. A ciò devono aggiungersi anche caratteristiche propriamente fisiche, quali la concentrazione della maggiore e migliore parte del patrimonio librario in un unico grande locale a forma ovale o circolare (il cosiddetto 'vaso'), la presenza di altre sale minori, la coesistenza, spesso, anche se non sempre, di oggetti curiosi, sculture, dipinti, reperti archeologici, che contribuivano a dare alla biblioteca un aspetto, e anche una funzione, museali. In effetti le maggiori biblioteche sei-settecentesche, ordinate secondo criteri moderni con i libri disposti verticalmente in scaffali che coprivano quasi interamente le pareti di uno o più saloni contigui, avevano anche un aspetto decorativo in cui il fattore estetico era volutamente ricercato ed esaltato. In esse, molto più che in quelle medievali e rinascimentali, interrotte e affollate di banchi e di scaffali, il libro assumeva una funzione di arredamento e di ornamento ed esse fornivano agli utenti un ampio spazio in cui era possibile non soltanto leggere, ma anche soggiornare confortevolmente e conversare: luoghi di studio e di lavoro, ma anche di confronto, di scambio e di socialità civile. Si tratta di un aspetto che anche i contemporanei amavano spesso mettere in risalto e che corrispondeva ai nuovi atteggiamenti e ai nuovi comportamenti di una società colta in via di rapida trasformazione.
Al di fuori dell'Europa due altre grandi aree culturali e linguistiche hanno saputo conservare il loro patrimonio librario in collezioni organizzate: quella rappresentata dalla Cina e quella rappresentata dal mondo islamico. In ambedue i casi si è trattato di raccolte preminentemente di conservazione e prevalentemente costituite di libri manoscritti. In Cina l'introduzione precoce della stampa xilografica non sembra aver modificato sensibilmente il patrimonio di cui la biblioteca imperiale costituiva da tempo il deposito canonico; a essa si affiancavano le biblioteche monastiche e quelle dei funzionari bibliofili. Nel mondo islamico, in assenza della stampa, le biblioteche mantennero a lungo il carattere di raccolte di natura religiosa, in genere custodite nelle maggiori moschee e adoperate per l'insegnamento delle scuole coraniche.
4. Il Seicento, secolo del libro
Fra Cinque e Seicento l'aumento generalizzato dell'alfabetismo nelle diverse aree dell'Europa e la conseguente formazione di un più vasto pubblico di lettori provocarono una più capillare diffusione della stampa, forti modificazioni nelle tipologie del libro e una netta articolazione del repertorio, sempre più prevalentemente in lingue nazionali; la parallela nascita dei periodici letterari e dei primi giornali d'informazione non fece che accentuare la presenza generalizzata della stampa nella società del tempo. Per questo e per altro il Seicento può essere ritenuto il secolo del libro, anche perché esso segnò la fine della tradizione libraria rinascimentale e la nascita di pratiche di produzione e di modelli formali assolutamente nuovi e moderni. Più libri significò allora anche più editori, più tipografi, più librai, un'organizzazione più articolata per la diffusione della merce stampata e una forte espansione dei centri produttivi. Nel corso del secolo le diverse esigenze della società colta, delle élites socioculturali e del sempre più numeroso pubblico stimolarono la creazione di nuovi modelli librari, di cui il più caratteristico fu quello del libro illustrato di lusso, di grande formato, ricco di tavole calcografiche, di vignette, di finalini, di iniziali ornate, che descriveva e illustrava monumenti e città, eventi pubblici, nascite, funerali, raccolte di oggetti artistici e così via e che era il risultato della collaborazione fra autore del testo, disegnatori e incisori delle illustrazioni, editore, tipografo e autorità committente. Anche i libri in forma di album, con contenuto musicale, tecnico o calligrafico e con testi spesso incisi in rame, come anche gli atlanti (specialità olandese) e i libri di emblemi, costituirono altrettante novità della stampa secentesca, in cui calcografia e tipografia coesistevano fianco a fianco.
Tutti questi prodotti erano comunque una parte minoritaria e d'élite della produzione libraria europea; ben più cospicua in termini numerici era la produzione seriale di libri di medio livello e formato, offerti a prezzi accessibili al pubblico più vasto di lettori borghesi, costituita soprattutto di romanzi, testi teatrali, letteratura in lingua, opere divulgative e religiose, in formati medi e piccoli, con illustrazioni calcografiche modestamente eseguite e carta di cattiva qualità, cui si affiancava la numerosa produzione di opuscoli di attualità e di controversistica politica e religiosa, rigogliosa soprattutto in Inghilterra e in Francia. A un livello ancora più basso si collocava la produzione in lingua di testi brevi di natura devozionale, fantastica, narrativa, informativa e formativa destinata soprattutto all'educazione e all'edificazione del 'popolo', leggente e non, caratterizzata da costi e prezzi molto bassi, piccolo formato, ridotto numero di pagine, stampa scorretta, illustrazioni xilografiche spesso di riporto o vecchie di decenni, spregiudicata manipolazione dei testi e frequentissime riedizioni. Il fenomeno, che aveva avuto dei precedenti nel secondo Cinquecento e che continuò nel Settecento, ebbe un carattere europeo: esso si diffuse dalla Scandinavia all'Inghilterra e alla Germania; famosa, in particolare, fu la produzione francese, concentrata soprattutto a Troyes (la cosiddetta Bibliothèque bleu); in Italia si trattò di una produzione presente in particolar modo in alcuni centri minori.
Nel corso del Seicento fu largamente modificata anche la geografia della stampa europea; alcuni centri importanti, come quelli italiani e in particolare Venezia, decaddero; altri, come Anversa e soprattutto Amsterdam (con ben 154 tipografi attivi) e Leida, centro universitario dal 1575, crebbero impetuosamente. Ne conseguirono una forte separazione formale e culturale fra aree nordiche e aree mediterranee e una netta caratterizzazione nazionale della produzione libraria. Esemplare fra le altre è la vicenda dei grandi editori e tipografi olandesi, gli Elzevier, impiantati a Leida verso la fine del XVI secolo come librai, che, fornitisi nel 1616 di una attrezzatissima tipografia, per superare i problemi posti dalla carenza - sempre più drammatica - di carta, lanciarono sul mercato nel 1629 un'accurata serie di libri di formati assai piccoli (in 12° e in 16°) con caratteri di corpo ridottissimo e illustrazioni in rame che ebbero universale successo e imposero un nuovo modello grafico e librario. Quasi a metà del medesimo secolo, nel 1640, a Parigi, ove erano attive più di 70 tipografie, fu formalmente fondata come istituzione regia l'Imprimerie Royale, che dedicò la sua attività alla produzione di opere monumentali e di collane di lusso, sobriamente e splendidamente stampate, con repertorio prevalentemente classico e ufficiale. In Inghilterra l'età elisabettiana conobbe, soprattutto a Londra, un impetuoso sviluppo della stampa, dedicata prevalentemente alla divulgazione di opere in lingua nazionale per mezzo di libri generalmente di non buon livello, con l'eccezione dei prodotti delle stamperie accademiche di Oxford e di Cambridge. Nella Germania, devastata dalla guerra dei Trenta anni (1618-1648), il primato fu assunto da Lipsia, che divenne il principale centro produttore e il primo centro di distribuzione del libro tedesco. In Italia Roma, sotto la spinta del mecenatismo di Urbano VIII (papa dal 1623 al 1644) e dei Barberini, ebbe per qualche tempo un ruolo importante e produsse i migliori libri illustrati italiani del secolo. Il Seicento fu anche caratterizzato da un'ulteriore espansione extraeuropea della stampa, che nel 16391640 fu per la prima volta importata nelle colonie nordamericane (Harvard, Mass.), per arrivare quindi a Boston (1675) e a New York (1693); alla base del successo della stampa nell'ambiente dei coloni nordamericani vi furono sia la loro 'bibliomania' di natura prevalentemente religiosa, sia il loro desiderio crescente di liberarsi dalla dipendenza inglese anche in questo particolare settore.
Il libro europeo di età barocca fu riccamente ornato, sia all'interno per mezzo di illustrazioni calcografiche, vignette, finalini e iniziali ornate, figurate, 'parlanti', sia all'esterno per merito di legature di lusso in genere in pelli di capra (marocchino) rosse o, più raramente, di altri colori (verde, nero), sempre più fittamente decorate sui piatti e sul dorso (e perfino sul taglio dorato) con fasce, ornati, stemmi, complessi motivi figurativi (ventagli, spirali, uccelli, cherubini, stelle, roselline, globi), che a volte, soprattutto nelle officine di Parigi, le rendevano vere e proprie opere d'arte.
Nel 1709 una legge inglese (Copyright act) per la prima volta riconosceva i diritti degli autori e degli editori di libri contro i contraffattori; in effetti nei due maggiori paesi europei produttori di libri del XVIII secolo, Francia e Inghilterra, la figura dell'autore (oltre che quella dell'editore) venne assumendo nel corso del secolo un'importanza sempre maggiore. Nel medesimo tempo, però, si venne accrescendo dappertutto il peso della censura di Stato, contro cui il mondo intellettuale europeo (da John Milton con l'Areopagitica del 1644 fino a Mirabeau e ad Alfieri) combatté con accanimento celebri battaglie, fino a ottenerne in alcuni casi l'abolizione (in Svezia nel 1766, in Danimarca nel 1779, in Francia nel 1789, con la Rivoluzione), spesso l'attenuazione.
Due fenomeni quasi coevi rivelano le profonde modificazioni che il mercato librario subì nel corso del Settecento: da una parte i ripetuti tentativi dei letterati più intraprendenti e consapevoli di creare società editrici per la pubblicazione delle loro opere, che si risolsero spesso in fallimenti, ma che sottolinearono il ruolo sempre più attivo degli autori nella produzione editoriale, e dall'altra il fenomeno della prevendita di opere costose a un pubblico di sottoscrittori, che continuò anche nel secolo seguente e che spesso degenerò in abusi e in truffe, ma che dà il senso di un'editoria sempre più vivace e internazionalizzata. L'interesse per la stampa era, soprattutto nei paesi più attivi (Francia, Inghilterra, Germania), generalizzato; accanto ai libri anche i giornali e le riviste furono sempre più largamente diffusi. L'allargamento del pubblico, le molteplici esigenze dei committenti pubblici e privati, le modificazioni del gusto portarono anche a forti cambiamenti nell'organizzazione dello scritto, nelle tipologie grafiche e nelle caratteristiche delle illustrazioni dei libri. Soprattutto evidenti appaiono due tendenze, affermatesi decisamente, dopo decenni di tentativi, verso la fine del secolo: il prevalere nella pagina del bianco sul nero e il ritorno all'antico nell'alfabeto delle maiuscole, con forme geometrizzate e fortemente contrastate. In questo campo il rinnovamento fu avviato in Inghilterra da due grandi artisti del carattere tipografico: W. Caslon (famoso il suo 'romano' del 1734) e il poliedrico John Baskerville, maestro di scrittura, lapicida, poi disegnatore di caratteri e infine editore; il suo Virgilio del 1757 fu e rimane un classico. Li seguirono prima P.L. Fournier e più tardi F.A. Didot a Parigi e quindi G.B. Bodoni a Parma, che dettarono le norme del libro neoclassico, severamente costruito da forme grafiche ispirate a modelli epigrafici classici, privo di illustrazioni, solenne nell'aspetto e arioso nell'impaginazione. Nel medesimo tempo la collaborazione di artisti di grido e l'impiego di novità tecniche nell'incisione (acquatinta, 'maniera nera', stampa a colori) fecero dell'illustrazione del libro francese la migliore e la più imitata del secolo; l'edizione delle opere di Molière illustrata su disegni di F. Boucher (1734) resta un capolavoro del libro rococò. Anche nell'arte della legatura continuò, pur se insidiato dai legatori inglesi, il primato degli operatori parigini che si risolse dapprima in una tendenza centrifuga dell'ornamentazione (la quale tendeva a concentrarsi lungo i bordi) e nella rinascita della tecnica del mosaico, e in seguito, nella seconda metà del secolo, nell'adozione di motivi neoclassici (greche, vasi, ecc.), che caratterizzano anche l'ornamentazione interna del libro.
L'estensione geografica e l'articolazione della produzione del libro a stampa si precisano ulteriormente nel corso del Settecento. I maggiori centri europei, oltre che in Inghilterra e in Francia, si trovano ancora in Olanda, ove si afferma ad Haarlem la dinastia degli Enschedé, destinata a durare a lungo, in Germania, a Lipsia, con i grandi editori J.G.I. Breitkopf, G.F. Göschen, J.F. Unger e a Stoccarda con i Cotta, ma anche in Spagna, ove nella seconda metà del secolo si impone a Madrid J. Ibarra, divenuto anche direttore della Imprenta Real promossa da Carlo III, e dove si producono splendidi libri di gusto neoclassico con caratteri disegnati e realizzati localmente e su carta spagnola, e in Italia che torna ad alti livelli esecutivi a Venezia (Albrizzi, Zatta), a Bologna (L. Della Volpe), a Padova, a Roma e a Parma con G.B. Bodoni. Nel medesimo secolo la stampa si diffonde a macchia d'olio nelle colonie nordamericane (ove a Boston e a Philadelphia opera B. Franklin), raggiunge la Groenlandia, il Canada (1752) e persino l'isola Maurizio, nell'Oceano Indiano. A Istanbul la stampa, superando le resistenze religiose, è introdotta nel 1726-1729, e quindi di nuovo nel 1784, ma non ha fortuna; complessivamente nel mondo orientale e in quello musulmano la stampa a caratteri mobili non riesce ancora a imporsi sulla stampa xilografica, vecchia di secoli e pur sempre largamente diffusa.
Nel corso del XVIII secolo i mutamenti più forti avvennero comunque nell'ambito del repertorio, con la caduta nell'uso del latino e l'affermarsi sempre più deciso di autori contemporanei e in particolare, a partire dalla Francia, dei nuovi filosofi dell'illuminismo, la cui produzione ottenne i maggiori successi fra il 1740 e il 1770. La crescita impetuosa dell'alfabetizzazione di massa in tutta l'Europa, la diffusione sempre più capillare di opuscoli e di giornali di natura informativa o francamente politica, l'organizzazione degli intellettuali e del pubblico colto nelle accademie costituirono il supporto di una straordinaria produzione libraria in termini numerici (con alte tirature) e qualitativi. Singolare appare il caso della società tipografica nata a Neuchâtel (Svizzera) nel 1769, famosa per aver pubblicato in venti anni circa cinquecento edizioni di opere moderne di carattere filosofico, politico, di attualità. Uno dei prodotti più caratteristici della stampa europea del periodo furono le enciclopedie, dalla Cyclopaedia inglese di E. Chambers (1728) allo Zedlers Lexicon tedesco in 68 volumi (1732-1754), fino alla grande Encyclopédie parigina di D. Diderot e J.B. d'Alembert pubblicata in 21 volumi di testo, dodici di tavole e due di indici fra il 1751 e il 1780, con sospensioni e contrasti provocati dalla censura regia, ammorbidita dall'intervento di Malesherbes, autore fra l'altro di un Memoire sur la liberté de presse (1788). L'Encyclopédie esercitò un'influenza decisiva sulla cultura politica, economica e filosofica dell'epoca, ebbe più edizioni e fu tradotta assai presto anche in italiano. Di essa costituì un seguito colossale e sfortunato l'Encyclopédie méthodique promossa dall'editore parigino C. J. Panckoucke nel 1780 e pubblicata in 166 volumi fra il 1787 e il 1832.
Nel complesso, malgrado gli innegabili successi, la stampa europea verso la fine del secolo entrò in crisi sia per la sempre più pronunciata penuria di carta di stracci, sia per le insufficienze e la macchinosità dei procedimenti tecnici rimasti quasi immutati dai tempi di Gutenberg, sia infine per i sempre più vivaci contrasti corporativi tra le varie categorie di operatori. Ne risultarono aggravati fenomeni già esistenti, come quello della sottoutilizzazione del mezzo e quello di una insufficiente risposta alla domanda, anche a causa dei freni ancora imposti dappertutto, ove più ove meno, alla libera produzione e circolazione di testi, di libri, di giornali.
Nuovi libri non generano soltanto nuovi lettori, ma anche nuove biblioteche. In effetti nel corso del Settecento l'Europa colta si volgeva a studi rigorosi di filologia testuale, di erudizione storica, di paleografia e diplomatica, di scienze naturali sperimentali, di scienze della politica e del diritto di impostazione assai diversa rispetto a quella di un secolo prima, cosicché le biblioteche generiche e spettacolari del primo Seicento si rivelarono non più adatte a soddisfare i nuovi e diffusi bisogni intellettuali. Già nel 1689 il grande G.W. Leibniz, bibliotecario ad Hannover, disegnava il modello di una biblioteca ideale, universale come repertorio, in cui apparivano centrali gli interessi politico-giuridici e storici; queste biblioteche erano ancora biblioteche del principe e per il principe, non più però in quanto teatro del potere, bensì come reale strumento di formazione e di informazione dello Stato assoluto; non a caso in esse non v'era più posto per la congerie di oggetti singolari, prodotti artistici, rarità scientifiche, che caratterizzavano la biblioteca-museo dell'Europa barocca. La selezione e il controllo del pubblico ammesso alla visione o alla consultazione del patrimonio librario restarono a ogni modo, per tutto il secolo, rigidissimi. In questa prospettiva appare esemplare la trasformazione della Bibliothèque Royale di Parigi nella più grande e più avanzata biblioteca del mondo, avvenuta dapprima nella prima metà del secolo per merito della riorganizzazione nella nuova (e ancora esistente) sede del palazzo Mazzarino per cura del bibliotecario J.P. Bignon, poi con la confisca dei beni del clero e con le ulteriori acquisizioni promosse dal governo rivoluzionario a partire dal 1789. Sempre a Parigi, nella seconda metà del Settecento A.-R. de Voyer d'Argenson marchese di Paulmy raccolse una imponente biblioteca privata nel palazzo dell'Arsenal, che, con acquisti massicci di altre biblioteche e continui accrescimenti, arrivò ad avere 160.000 volumi di ogni genere, ma soprattutto letterari, artistici, storici. Roma, altro grande centro bibliotecario dell'epoca, assisteva contemporaneamente alla nascita di moderne biblioteche cardinalizie (Chigiana, Ottoboniana, Corsiniana) e allo sviluppo funzionale della grande Biblioteca Vaticana, sempre più meta di pellegrinaggi dei maggiori eruditi d'Europa.Casi particolarmente degni di nota di grandi biblioteche pubbliche create nel corso del secolo sono la biblioteca imperiale (oggi nazionale) di Vienna, dovuta alla volontà dell'imperatore Carlo VI e costruita nel centro della capitale fra il 1722 e il 1726, il British Museum, fondato nel 1753 e aperto nel 1759 all'uso libero di studiosi inglesi e stranieri, e, in Italia, la Braidense di Milano, costituita nel palazzo di Brera nel 1773, con la riunione di numerose raccolte private ed ecclesiastiche e arricchita nel 1788 del diritto di stampa per lo Stato di Milano, quella Palatina di Parma (1769) e quella reale di Napoli, aperta dopo lunghissimi lavori soltanto nel 1804.
Alla base della costituzione di queste grandi e funzionali raccolte librarie non vi è soltanto l'impulso dei maggiori rappresentanti europei dell'assolutismo illuminato, ma anche, se non soprattutto, la pressione della categoria, sempre più numerosa e ramificata, dei bibliotecari eruditi, degli storici, dei filosofi (si pensi in Italia a L.A. Muratori), che mantenevano fra loro fitti rapporti, si informavano e informavano gli studiosi delle novità letterarie e scientifiche, rappresentando un sicuro punto di riferimento in campo scientifico ed editoriale e sviluppando le istituzioni loro affidate secondo programmi culturali sostanzialmente omogenei, al di là delle frontiere dei singoli Stati. Alla loro attività si devono anche alcune grandi operazioni di catalogazione a stampa dei libri posseduti dalle singole biblioteche, tra cui basterà ricordare l'iniziativa di p. G.B. Audiffredi nella Casanatense di Roma (1761-1790).Se l'Europa continentale creava così un modello moderno di biblioteca di Stato assoluto, mediatrice di cultura fra sovrano e classe di colti, il mondo anglosassone, di qua e di là dall'Atlantico, sotto la pressione di una forte crescita dell'alfabetismo non solo nelle grandi città, ma anche nei centri minori e nelle campagne, scopriva la formula della biblioteca circolante, proposta a Edimburgo nel 1726 e introdotta in America, a Filadelfia, nel 1731 da Benjamin Franklin.
Se il libro a stampa 'moderno' nasce fra il 1530 e il 1560, quello contemporaneo si forma e si impone sul mercato nei primi decenni del XIX secolo, in parallelo con una serie di sconvolgenti innovazioni tecniche che trasformarono radicalmente il processo della stampa a caratteri mobili e lo resero in ogni sua fase assai più rapido ed efficiente, tanto da meritare al periodo e al fenomeno la definizione di seconda rivoluzione del libro, dopo la prima gutenberghiana. Tali novità furono indotte sia dallo sviluppo tecnologico, promosso dalla rivoluzione industriale, sia dal generale aumento della scolarizzazione e dell'alfabetismo di massa, che creò in Europa e negli Stati Uniti un gran numero di potenziali lettori. Ciò significò ovunque, sia per i libri, sia soprattutto per i giornali, necessità di carta a buon mercato, di tempi di stampa più rapidi, di più alte tirature.
Uno dei problemi più urgenti era costituito dalla penuria di materia prima e dalla lentezza del processo di fabbricazione della carta, che fu risolto in due diversi momenti; dapprima, nel 1803, in Inghilterra N.L. Robert mise a punto un procedimento di meccanizzazione della fabbricazione della carta di stracci, che riduceva notevolmente i tempi di fabbricazione; e poi, nel 1840, F.G. Keller riuscì a creare una carta ricavata non più dagli stracci ma dalla pasta di legno. Il torchio, dai tempi di Gutenberg, era rimasto di legno e aveva subito poche modifiche; nel 1804 lord Stanhope propose un torchio di stampa in metallo e nel 1811 F. Koenig lo meccanizzò con l'uso del vapore. Intanto per quanto riguarda l'illustrazione si ebbero due notevoli cambiamenti: l'invenzione del procedimento della litografia (A. Senfelder, 1796-1800) e l'uso per la xilografia del durissimo legno 'di testa' (e non più di quello 'di filo' tagliato nel senso delle venature), che permetteva incisioni molto fini e una grande resistenza all'usura. Solo nella seconda metà del secolo, quando all'avanguardia del movimento di rinnovamento della stampa si posero due nuovi colossi dell'industria, la Germania e gli Stati Uniti, si giunse all'invenzione di macchine che sostituirono il processo di composizione a mano: prima la linotype, usata per il "New York Tribune" nel 1886, e poi la monotype (1889). Praticamente in un secolo, a partire dalla Rivoluzione francese, la stampa si era completamente rinnovata rispetto a quella post-gutenberghiana, per materie prime, processi esecutivi, rapidità di produzione, illustrazione e legatura (ormai quasi del tutto meccanizzate anch'esse), aumento vertiginoso delle tirature. Tali cambiamenti, che liquidarono brutalmente le sopravvivenze settecentesche, come Didot o Bodoni, e resero abissalmente diversi un libro del 1770 rispetto a uno del 1870, furono governati da una vera e propria industria editoriale, che si affermò in modo netto nei maggiori paesi europei e negli Stati Uniti tra la prima e la seconda metà del secolo, sia nel campo dei giornali quotidiani che in quello del libro.
Per la prima volta nella storia la figura professionale dell'editore, peraltro già esistente, si precisò come quella di un capitalista che agiva con sue proprie strategie di profitto nel campo della produzione della cultura scritta e che tendeva a possedere anche le strutture tipografiche, le cartiere, le legatorie, la modellizzazione grafica e uno specifico programma editoriale (garantito da uno o più gruppi di intellettuali alle sue dipendenze), che gli permettevano di sostenersi nel mercato e a volte persino di dominarlo. L'affermazione decisiva della figura dell'editore ridusse notevolmente l'importanza e l'indipendenza di quelle, fino alla fine del Settecento con esso confuse, del libraio e del tipografo e accrebbe enormemente l'influenza politica e culturale della produzione a stampa nella società contemporanea. All'interno dell'industria editoriale vanno distinte le strutture maggiori - con produzione generale e generica (da quella scolastica alla narrativa, dal libro di qualità a quello popolare) e larghe connessioni internazionali - da quelle medie, in genere specializzate, a quelle minori. Alcune di esse furono di lunga durata e sono in attività ancora oggi; fra i casi più clamorosi si possono ricordare per la Francia L. Hachette (dal 1827), P. Larousse, A. Fayard; per la Germania la dinastia dei Cotta, J. Mayer, A. Brockhaus, C.B. von Tauchnitz, Herder e Beadeker, nonché l'Associazione nazionale di editori e librai con sede a Lipsia, costituita già nel 1825; per l'Inghilterra C. E. Mudie, W. Pickering, i Whittingham; per l'Italia G. Pomba a Torino, A.F. Stella, la dinastia dei Sonzogno e quella dei Treves a Milano, i Barbera, i Le Monnier, i Vallecchi a Firenze.Praticamente dovunque, in Europa e negli Stati Uniti, la corsa al ribasso progressivo dei prezzi, alla riduzione dei formati e il ricorso a tirature sempre più alte, rese il prodotto librario medio, che era anche il più diffuso, di pessima qualità e di sgradevole aspetto, sia sul piano grafico, sia su quello illustrativo, con copertine e frontespizi, illustrazioni e ornati di gusto pesantemente neogotico o romanticheggiante. D'altro canto, l'Ottocento fu anche il secolo dei grandi successi editoriali, soprattutto, ma non soltanto, nel campo della narrativa. In Francia V. Hugo e H. de Balzac, in Inghilterra W. Scott e C. Dickens, ma anche la History of England di T.B. Macaulay, arrivano a tirature di centinaia di migliaia di copie. Parallelamente aumentò in modo progressivo il numero di copie pubblicate ogni anno nei tre paesi industrialmente più importanti: Inghilterra, Germania (8.000 titoli nel 1851, 20.000 nel 1890), Francia (14.000 titoli nel 1875, 18.000 nel 1890).
Verso la fine dell'Ottocento nacque in Inghilterra e si diffuse poi gradatamente in Europa e negli Stati Uniti un movimento di reazione alla standardizzazione commerciale della stampa che ispirò il ritorno a prodotti di alta qualità, basati su modelli rinascimentali; ne fu iniziatore W. Morris con la sua Kelmscott Press, che produsse cinquantatré libri fra il 1890 e il 1898 e diede il via alla proliferazione di numerose, piccole case editrici di avanguardia (private Presses).
Fra i due secoli, inoltre, la grafica pubblicitaria fece irruzione nel mondo della stampa, modificando fortemente il rapporto fra scrittura e immagine e proponendo nuovi modelli grafici; ne seguì un periodo di vivacissimo caos nei modelli scrittori proposti sul mercato, in concomitanza con nuovi orientamenti artistici, quali il liberty, il futurismo russo e quello italiano, l'espressionismo, nonché, dopo la prima guerra mondiale, il Bauhaus di Weimar, Dessau, Berlino. Ma già nel 1897 S. Mallarmé aveva rotto l'impaginazione lineare del testo poetico, offrendo alle avanguardie tipografiche il rovesciamento di un tabù millenario. Con gli anni venti alle sperimentazioni grafiche delle avanguardie si oppose un movimento di ritorno alle norme classiche, che vide fra i suoi rappresentanti S. Morison in Inghilterra e R. Bertieri (nazionalista e fascista) in Italia. Nel 1927 venne prodotto in Germania il nuovo, squadrato carattere 'futura'; nel 1928 J. Tschichold lanciava il manifesto della nuova tipografia 'razionale'. Nell'ambito dell'illustrazione tornò in uso, a livello d'avanguardia, la xilografia artistica, della quale in Italia fu rappresentante E. Cozzani con la rivista "L'eroica" (dal 1911).
È difficile individuare tendenze unitarie nello sviluppo della stampa nel Novecento, non solo per il caos di modelli che l'ha caratterizzata, ma anche per la sua veramente capillare diffusione nell'intero pianeta, che ha coinvolto anche le aree rimaste precedentemente estranee al fenomeno e suscitato conflitti fra diversi sistemi di scrittura rimasti latenti per secoli. La marcia della scrittura latina verso un'adozione totale, che sembrava - anche sulle ali del colonialismo europeo - inarrestabile, è stata invece contrastata fortemente, soprattutto nella seconda metà del Novecento, dalla concorrenza dell'alfabeto cirillico, imposto dall'URSS nel suo territorio e, insieme con la lingua russa, anche al di fuori di esso, e dall'espansione di quello arabo, sostenuto da integralismo religioso e da moti nazionalistici. In Oriente hanno resistito incredibilmente i sistemi di scrittura cinese e giapponese (oggi uno dei più grandi mercati di stampa del mondo), mentre nel Mediterraneo due altri antichissimi sistemi di scrittura sono saldamente rimasti in uso: quello greco e quello ebraico. Nel cuore stesso dell'Europa un'importante varietà dell'alfabeto latino - quella cosiddetta 'gotica' -, rimasta per secoli in uso nei paesi di lingua tedesca ed oggi praticamente scomparsa dall'uso, fu abolita da A. Hitler nel 1941 con oscure motivazioni razziali, ma in realtà per rendere più agevole la diffusione della propaganda nazista nei paesi occupati.
Nel corso del Novecento è stato riesumato dall'industria editoriale di massa il libretto di piccolo formato (di antica origine rinascimentale), non rilegato e venduto a prezzi assai bassi: il paperback, nato in Inghilterra nel 1935 con la fortunata serie dei Penguin Books, stampati assai elegantemente; adottato poi in tutto il mondo, in Italia fu introdotto nel secondo dopoguerra con la BUR dell'editore Rizzoli (1949). Un altro fenomeno che ha condizionato largamente e che un po' dappertutto, in forme esplicite o indirette, continua a condizionare la libertà di stampa in questo secolo che sta per finire, è la censura, ancora largamente presente sotto forma di controllo preventivo, tipico dei regimi totalitari, o di controllo successivo alla stampa, accompagnato e rafforzato da sequestri, multe, condanne.Occorre infine ricordare che con il secondo Novecento gli Stati dell'Europa occidentale hanno perduto il tradizionale primato quantitativo nella produzione dei libri: nel 1965 l'Unione Sovietica (con 76.000 titoli annui), gli Stati Uniti (con 54.000) e la Cina (con 50.000) superavano largamente la Gran Bretagna, la Germania e la Francia; per questo aspetto l'Italia era (e rimane) una delle ultime nazioni europee.
Il XIX e il XX secolo rappresentano il periodo storico, dopo il Quattrocento, in cui si sono verificati i maggiori mutamenti nei sistemi di conservazione e di uso del patrimonio librario e di organizzazione delle biblioteche. L'aumento esponenziale dell'alfabetismo nei paesi europei, dovuto all'adozione di sistemi generalizzati di insegnamento pubblico e obbligatorio, ha fatto sì che a livello statale si ponessero le basi per una politica bibliotecaria del tutto nuova, fondata su due diversi modelli costituiti, da una parte, dalla biblioteca pubblica (la public library anglosassone), erede diretta dei gabinetti di lettura sette-ottocenteschi (si ricordi per l'Italia quello fiorentino di G. P. Viesseux, ancora esistente), e dall'altra parte, dalle grandi biblioteche nazionali e universitarie; il primo presente ovunque sul territorio e volto a garantire a tutti i cittadini l'accesso al libro e alla lettura, l'altro presente come indispensabile sussidio alla ricerca e allo studio nelle città sedi di istituzioni universitarie e come simbolo e 'tesoro' della cultura nazionale nella capitale stessa dello Stato. Vengono così costituiti o riorganizzati su basi nuove il British Museum di Londra, nel 1857, fornito da A. Panizzi di una enorme sala di lettura rotonda, la Bibliothèque imperiale (poi nazionale) di Parigi con la nuova, grandiosa sala di lettura costruita da H. Labrouste nel 1866; la Library of Congress di Washington, nel 1888-1897, presto divenuta la più grande biblioteca del mondo, a segnare il crescente prestigio della cultura biblioteconomica americana. Nell'America Latina la conquista dell'indipendenza di alcuni Stati è stata caratterizzata dalla costituzione di una Biblioteca Nacional: così a Buenos Aires nel 1810 per l'Argentina, così nel 1838 a Città del Messico per il Messico. D'altro canto le grandi biblioteche universitarie (e in particolare quelle americane, legate a istituzioni spesso dotate di grandi mezzi finanziari, libere da controlli pubblici e isolate) costituiscono enormi patrimoni librari ordinati per materie, di consultazione diretta e aperte quasi senza interruzione al pubblico specializzato costituito da professori e studenti. Dalla biblioteca del principe e per il principe si è così passati alla biblioteca della scienza e per la scienza. Tali nuovi modelli sono stati adottati anche altrove. Nel 1872 è stata costituita a Tokyo la grande biblioteca imperiale, seguita da quella universitaria; così è avvenuto in Cina con la biblioteca imperiale (poi nazionale) di Pechino e quella nazionale di Nanchino, e nella Russia sovietica con la biblioteca Lenin di Mosca (la seconda del mondo per numero di volumi). Oggi questi modelli, strettamente funzionali alla civiltà occidentale e alla sua cultura millenaria, sono entrati in crisi, sia per la concorrenza dei mezzi di comunicazione audiovisivi che, imponendo nuove tecniche e nuove pratiche di lettura, prescindono dal libro così come lo conosciamo, sia per la messa in discussione, da parte delle minoranze razziali negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia, dei movimenti giovanili e femministi un po' dappertutto, del canone culturale e letterario tradizionale (da Omero a Foucault); a ciò deve aggiungersi il profondo cambiamento di produzione, distribuzione e uso del patrimonio librario nei paesi dell'Est europeo dopo il crollo (1989) dei regimi comunisti, che ha provocato una crisi radicale di quel sistema culturale. Sul piano editoriale la tendenza prevalente sembra oggi essere dappertutto quella delle grandi concentrazioni di capitali impegnati in attività comunicative a vasto raggio, comprendenti media audiovisivi, giornalistici, librari, in disco e così via; il che comporta anche una serie di contrasti tra i diversi settori, la trasformazione dei sistemi distributivi e la conseguente entrata in crisi (con violente lotte fra 'catene' diverse) della libreria tradizionale. In tale prospettiva il testo stampato e letto dovrebbe, o potrebbe, essere sostituito dal testo visto, scomposto, creato, trasmesso e ricevuto; con tutte le conseguenze per la cultura scritta che è possibile (e non) immaginare.
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di Giuliano Vigini
1. L'editoria internazionale dalla fine dell'Ottocento ai nostri giorni
Gli anni che vanno dal 1870 alla fine del secolo scorso costituiscono uno dei periodi più complessi e ricchi di eventi della storia contemporanea: anni di trasformazione e sviluppo anche per l'editoria e il mercato librario in Europa, nonostante la forte depressione che proprio in questo periodo (1873-1895) aveva investito vari settori e attività produttive, determinando fasi di relativa stabilità alternate a periodi (diversi peraltro da un paese all'altro, e con differenze anche significative) di parziali avanzamenti e di brusche retrocessioni. La trasformazione riguardava in particolare l'ammodernamento delle aziende, l'utilizzo di nuovi sistemi di composizione e di stampa, il miglioramento e l'accelerazione del processo produttivo. Lo sviluppo trovava invece le sue premesse nel rapido diffondersi dell'alfabetizzazione e della scolarizzazione, che portava alla lettura nuove fasce di pubblico.
Mentre in Francia la scena letteraria era dominata dal romanzo naturalista - che toccava l'apice della sua fortuna editoriale con L'assommoir (1877) di Zola, uno dei maggiori successi del secondo Ottocento (150.000 copie vendute nel primo anno di uscita) -, a trainare la produzione e il mercato in Europa era soprattutto la letteratura popolare romantica. Nella sola Germania, nell'arco di un decennio (1870-1880), l'incremento di questo tipo di letteratura si aggirava intorno al 700%. Anche senza registrare le punte toccate sia negli Stati Uniti che in Inghilterra da Uncle Tom's cabin di Harriet Beecher Stowe (300.000 copie nel solo primo anno di pubblicazione, diversi milioni nei seguenti) è un fatto che gran parte dei romanzi popolari immessi nel mercato otteneva consensi sempre maggiori.In parallelo, nascevano collezioni letterarie di vasto respiro, come i Grands écrivains de la France (1867) della Librairie Hachette, ma soprattutto si diffondevano a macchia d'olio le collane tascabili-economiche. A percorrere questa strada innovativa - che poneva di fatto le basi dell'editoria tascabile moderna - era stato in quegli anni un editore di Lipsia, Anton Philipp Reclam, che nel 1867 aveva inaugurato con il Faust di Goethe la Universal-Bibliothek: una collana che proponeva i maggiori autori di tutti i tempi, ormai fuori diritti, al prezzo di 20 Pfennige (prezzo rimasto invariato fino al 1917). L'impatto di questa collana era stato enorme, tanto che essa aveva raggiunto in pochi decenni cifre di vendita impensate e un catalogo di tutto rispetto. A una rilevazione del 1942 risultavano ancora attivi circa 8.000 titoli, molti dei quali erano ormai diventati autentici best-sellers (in prima linea Shakespeare, Dickens e Mark Twain, Kant e Schopenhauer, Cicerone e Tacito), con un volume complessivo di vendite intorno ai 275 milioni di copie.
Importanti gli sviluppi anche su altri fronti. Sul versante del lavoro tipografico e della tecnica artigianale si segnalava l'attività di William Morris (1834-1896) che, prima con la Morris and Co. (1861) e poi con la Kelmscott Press (1890), eserciterà una notevole influenza sul rinnovamento estetico del libro inglese (disegno dei caratteri, armonia delle pagine, ecc.), sollecitando altre case editrici - come la Doves Press e la Ashendene Press - a seguire il suo esempio nella produzione di raffinate e preziose edizioni d'arte. Sul fronte editoriale andavano prendendo un forte slancio, negli Stati Uniti, le case editrici universitarie come la Cornell (1869), la Johns Hopkins (1878), la Chicago (1891), la California (1893) e la Columbia (1893) University Press, che venivano ad affiancare quella che da secoli era diventata in Inghilterra la grande tradizione della Cambridge (1584) - il primo stampatore ed editore di lingua inglese del mondo - e della Oxford (1584) University Press. Anche sul fronte associativo e dell'organizzazione del commercio librario si intensificavano in tutta Europa gli accordi di categoria (editori, tipografi, librai), mentre si sviluppava una sensibilità nuova anche in tema di diritti d'autore. Nel 1869 veniva fondata a Milano l'Associazione libraria italiana; nel 1878 si teneva a Parigi, sotto la presidenza di Victor Hugo, il Congrès de la propriété littéraire; nel 1881 nasceva la Fédération typographique française (trasformatasi nel 1885 in Fédération française des travailleurs du livre); nel 1884 in Inghilterra iniziava la sua attività la Society of authors. Una tappa fondamentale in questo cammino sarà, due anni dopo (1886), la Convenzione di Berna sulla proprietà letteraria e artistica, firmata da dieci paesi e aperta all'adesione di tutti gli Stati. Veniva infatti siglato l'accordo multilaterale sul diritto d'autore più antico e importante, sia per l'ampiezza della sua sfera applicativa, sia per l'efficacia della protezione assicurata alle opere dell'ingegno (sino a 50 anni dopo la morte dell'autore). Più tardi, l'Association of booksellers of Great Britain and Ireland (1895) e la Publishers' Association (1896) stabilivano un'intesa normativa per il commercio dei libri a prezzo fisso - principio adottato già in Germania nel 1897 tramite il Börsenverein - culminata nel Net book agreement (1901).
Sul finire dell'Ottocento e nei primi anni del Novecento l'editoria era un campo aperto, dove sia le case editrici già operanti, riorganizzate e rafforzate, sia le numerose sigle editoriali che si affacciavano alla ribalta potevano dilatare gli spazi di mercato tradizionali e inaugurarne con successo altri, come avveniva per i testi scolastici e universitari, per i libri per ragazzi, per i romanzi moderni illustrati (lanciati da Fayard nel 1904 a 95 centesimi). Erano comunque sempre le collane universali ed economiche a dominare il campo, anche perché la Reclam aveva stimolato nuovi interessi del pubblico, sollecitando di riflesso vari editori a intervenire o a intensificare gli sforzi in quella direzione. I risultati immediati e durevoli ottenuti da collane come la New century library (1900) di Nelson, i World's classics (1901) di Grant Richards (passati nel 1905 alla Oxford University Press), i Pocket classics (1903) di Collins, la Everyman's library (1906) di Dent testimoniano la crescita del settore. Incontravano però notevole favore anche collane di livello più alto per un pubblico più raffinato, come la Insel-Bücherei (1912) edita dalla Insel-Verlag, destinata anch'essa a raggiungere cifre di vendita elevate: nel 1937, infatti, il suo catalogo contava 500 titoli e 25 milioni di copie vendute, con punte altissime per Binding e Rilke (900.000 copie a testa) e Zweig (500.000 copie).
Un freno allo sviluppo editoriale in Europa venne dalla prima guerra mondiale, proprio mentre il mercato cominciava a espandersi anche a livello di scambi internazionali, sia per l'intensificarsi dei rapporti diretti tra editori, sia per l'impulso derivante dalle agenzie letterarie, diffuse soprattutto in Inghilterra (dove erano attive sin dal 1875) e negli Stati Uniti. Gli sconvolgimenti provocati dal conflitto mondiale ebbero infatti pesanti ricadute sull'editoria libraria, tra l'altro sollecitata dagli stessi fronti di guerra a rispondere a una fortissima domanda di stampa e di libri 'leggeri', che solo in minima parte essa poteva soddisfare, anche per la scarsità o il razionamento della carta. Si ebbero dunque un rallentamento dell'attività editoriale e una contrazione dei consumi, dovuta alla diminuzione del potere d'acquisto delle famiglie conseguente alla depressione economica e all'inflazione. Gli anni del primo dopoguerra saranno infatti in Europa un periodo di difficoltà sul piano operativo e di scarsa redditività sul piano commerciale. Diversa, invece, la situazione negli Stati Uniti, dove le case editrici si stavano notevolmente sviluppando sul mercato interno - anche utilizzando tecniche pubblicitarie e canali di nuova diffusione, come la vendita per corrispondenza, resa possibile dal rapido estendersi delle reti ferroviarie - e insieme diventavano interlocutori importanti sul piano internazionale. Finita la guerra, la febbre editoriale tornava a salire. Autori di best-sellers come Bazin o Bourget rinverdivano le fortune dei loro editori, Calmann-Lévy e Plon. Sulla copertina di Les Oberlé (1901) di Bazin si poteva leggere, nel 1927, "trois cent cinquante-sixième édition".Mentre tutta la letteratura europea si alzava di livello, anche l'editoria cercava nuove strade. Le case editrici nate da pochi anni - come McGraw Hill (1909), Gallimard (1911), Mondadori (1911), Prentice-Hall (1913) - assieme a quelle che si costituiranno nel corso degli anni venti - da Blackwell (1922) a Simon & Schuster (1924) a Rizzoli (1924) a Random House (1925) a Peter Lang (1926) a Faber & Faber (1929) - allargheranno l'orizzonte della produzione e daranno una nuova spinta all'editoria.Importante in quegli anni fu il ruolo svolto dai 'clubs del libro' nella diffusione della cultura presso larghi strati di popolazione: dalla Büchergilde-Gutenberg (1924), nata in seno al sindacato degli stampatori tedeschi, al Book of the month club (1926) fondato da Harry Scherman, sino al Literary Guild (1927). Il successo della proposta e della formula (titoli selezionati, accessibili a un prezzo inferiore a quello praticato in libreria, spediti direttamente a casa degli associati) era destinato a consolidarsi. Nel giro di pochi anni i clubs si moltiplicarono e, se qualificati culturalmente e ben gestiti dal punto di vista organizzativo, ottenevano in genere un vasto seguito. Alla fine degli anni cinquanta esistevano nei soli Stati Uniti quasi 90 clubs, con volumi di vendite per centinaia di migliaia di copie.
Con la grande depressione del 1929 arrivava per l'editoria mondiale una nuova, brusca frenata, anche se le conseguenze più negative ricaddero soprattutto sull'editoria angloamericana. Nel giro di qualche anno, tuttavia, l'editoria risaliva la china e riprendeva la sua strada con rinnovato vigore. La moderna industria del best-seller (termine coniato per la prima volta nel 1933, allorché il "Publisher's weekly" iniziava la sua classifica dei 'current best-sellers') e la moderna industria del tascabile erano alle porte: la prima simboleggiata dall'enorme successo di Gone with the wind (1936) di Margaret Mitchell, la seconda dal non meno straordinario successo registrato dai Penguin books (1935) di Allen Lane. Sul fronte del tascabile, in particolare, i paperbacks di qualità (nei contenuti e nella veste), venduti a soli 6 pence e diffusi capillarmente anche in canali diversi dalle librerie, aprivano di fatto una nuova frontiera. Nei primi 25 anni di vita, la collana tascabile di Lane aveva in catalogo ben 3.250 titoli, con una vendita complessiva di oltre 250 milioni di copie. Qualche anno più tardi, Robert F. de Graat lanciava negli Stati Uniti i suoi Pocket books (1939), seguito di lì a poco da altri editori come Avon (1941), Dell (1942), Bantam Books (1945) e Signet & Mentor (1948).
La seconda metà degli anni trenta segnava una stasi o quantomeno un periodo infecondo per gran parte dell'editoria europea, specialmente in paesi come la Germania e l'Italia, dove l'oppressione politica e il grigiore culturale avevano progressivamente soffocato o bloccato anche la vita intellettuale. Lo scoppio della guerra, poi, non poteva che provocare una situazione generale di paralisi, quando proprio non arrivava a mettere in ginocchio l'editoria; i bombardamenti sulle grandi città editoriali come Londra, Lipsia e Milano ridurranno infatti a cumuli di rovine molte case editrici, archivi e magazzini editoriali: centinaia di milioni di volumi e di documenti preziosi andranno letteralmente in fumo. Tuttavia, non appena ristabilite le condizioni minime di operatività, l'editoria mostrò i segni di una grande volontà di ripresa.Dalla fine della guerra la produzione tornava a salire, con Gran Bretagna e Stati Uniti - forti del mercato di lingua inglese in rapidissima espansione - a far da traino e ad accelerare il ritorno alla normalità. Già nel 1950 la produzione mondiale era salita a 230.000 titoli; la domanda di libri era in crescita; le case editrici tentavano percorsi nuovi. Continuava la rivoluzione del tascabile, trovando ancora in vari paesi idee e formule idonee per una diffusione su larga scala, come in Italia con la BUR (1949) e gli Oscar Mondadori (1965), o come in Francia con Le livre de poche (1953) della Librairie générale française (Hachette) e con i Garnier-Flammarion (1964). Il mercato diventava sempre più di massa, la produzione libraria aumentava a dismisura, parallelamente al proliferare delle case editrici; si intensificavano il processo di internazionalizzazione del prodotto librario e l'interscambio editoriale tra nazioni, grazie anche al ruolo sempre più importante assunto nel frattempo dalla Buchmesse di Francoforte, diventata nel corso degli anni la sede privilegiata per gli incontri e le contrattazioni a livello internazionale.
Oggi il panorama complessivo - al di là delle situazioni molto variabili da paese a paese dovute alla diversa incidenza dei contesti culturali, economici ed istituzionali - sembra essere caratterizzato da alcuni fenomeni e tendenze comuni, destinati a segnare il cammino dell'editoria nei prossimi anni.Innanzitutto, vi è una crescita ma anche una specializzazione e diversificazione ulteriore dell'offerta editoriale come risposta a bisogni e consumi sempre più segmentati. Già oggi la produzione libraria europea è più che ragguardevole, avendo superato i 350.000 titoli l'anno, per un totale di circa 1 miliardo e mezzo di copie stampate. Guidano la classifica la Gran Bretagna, con più di 77.000 titoli, e la Germania, con oltre 67.000, mentre il numero di titoli pubblicati per 1.000 abitanti pone al primo posto la Danimarca, con un assorbimento di 2,28 titoli, seguita da Gran Bretagna (1,35) e Spagna (1,30). Questa massa già enorme di produzione libraria - specchio frammentato di come cambiano la cultura e la società, lo studio e il lavoro - è destinata a crescere, in un'epoca di brusche accelerazioni come quella attuale, in cui il mutare delle condizioni e degli stili di vita, la settorializzazione degli orizzonti del sapere, l'obsolescenza delle notizie e delle conoscenze rendono indispensabile l'incremento e la ricalibratura costante delle proposte editoriali, l'intensificazione dei ritmi di produzione, la ricerca frenetica di quei settori o filoni editoriali che sembrano consolidarsi o aprirsi a un'interessante prospettiva di mercato. Non a caso i gruppi e gli editori maggiori hanno anche creato in questi anni numerosi marchi e sottomarchi mirati a esigenze specifiche, o hanno acquistato sigle editoriali già affermate, per meglio sviluppare, articolare o completare la loro linea di offerta.
In secondo luogo, a una lievitazione significativa del fatturato fanno riscontro una radicalizzazione e uno squilibrio crescenti del mercato librario. I primi sette paesi editoriali del mondo - Stati Uniti, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna e Italia - realizzano da soli oltre 52 miliardi di dollari (di cui 22,5 gli Stati Uniti), ma di questi paesi solo la Germania riesce a mantenere una posizione di tutto rispetto anche nella classifica della spesa media pro capite (102 dollari). Questo significa, da un lato, che il mercato mondiale tende sempre più a concentrarsi, dall'altro che la situazione della lettura anche nei paesi editorialmente più avanzati dal punto di vista del fatturato librario (come Gran Bretagna, Francia e Italia, che non rientrano nei primi dieci paesi della classifica della spesa media pro capite) è non di rado precaria e comunque più problematica che altrove. Ma la radicalizzazione e lo squilibrio vanno intesi anche nel senso di uno sbilanciamento del mercato verso i libri-evento e i best-sellers, da produrre e consumare sempre più in fretta, in una sorta di corsa sfrenata e spasmodica al 'fast book' collettivo, in cui il peso delle novità rispetto alle opere di catalogo è naturalmente diventato preponderante, con il risultato finale di penalizzare e mettere in ombra un certo tipo di letteratura e saggistica culturale, di maggior qualità ma anche di più lenta e impegnativa assimilazione. Di qui la realtà di un mercato impulsivo, orientato all'attualità e alle mode, e quindi anche più fluttuante e instabile nei suoi imprevedibili umori.
Un terzo rilevante fenomeno a livello internazionale della storia editoriale di questi anni è la sorprendente accelerazione che hanno avuto in Europa e negli Stati Uniti i processi di integrazione globale e posizionamento strategico in tutta l'area editoriale e multimediale. Quasi tutti i paesi hanno visto infatti crescere notevolmente il numero di fusioni e acquisizioni di aziende: tendenza che si è via via estesa in ampiezza e portata, considerato che, a determinati livelli aziendali, il futuro delle società editoriali appare sempre più legato all'armonica congiunzione di vari progetti integrati e quindi anche alla gestione di complesse alchimie finanziarie e operative, attraverso le quali governare l'evoluzione del mercato, realizzare economie di scala, perseguire nuovi obiettivi di sviluppo. In vista di questi risultati, non si sono acquistate soltanto piccole e medie case editrici, ma si è puntato anche su aziende di notevoli dimensioni, addirittura su interi gruppi, con operazioni da centinaia di miliardi, in qualche caso da migliaia di miliardi. Tutto ciò ha concorso a movimentare il mercato ma, in una certa misura, anche a renderlo più instabile, per il mutamento dei rapporti di forza che si sono venuti a creare e per l'instaurarsi di politiche editoriali e commerciali che hanno finito con l'incidere sulla struttura complessiva dell'offerta e con l'influenzare inevitabilmente la stessa domanda. Agli inizi degli anni novanta, tuttavia, il panorama si è modificato a seguito della fase di recessione o di stallo che ha coinvolto l'editoria internazionale, costringendola a muoversi con maggior prudenza e ad astenersi da operazioni societarie che avrebbero potuto risultare eccessivamente rischiose, come già avevano dimostrato vari casi di concentrazioni troppo intense e rapide. Oltreché procedere con cautela, la politica di acquisizione nel frattempo è anche mutata, indirizzandosi verso uno sviluppo più mirato per settori o per mercati nazionali. Sotto questo aspetto, sono in corso operazioni di vasta portata destinate ad incidere profondamente sul mercato internazionale e in particolare su quello europeo.
Infine, lo scenario dell'editoria internazionale è suscettibile di radicali evoluzioni, sia sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche in vari campi, sia per l'influsso diretto o indiretto delle battaglie decisive che si stanno giocando sul fronte della comunicazione e dello spettacolo televisivo, attraverso megafusioni da miliardi di dollari. È certo che nei prossimi anni si svilupperanno tecniche e modalità nuove anche nel campo della produzione, della distribuzione e della vendita dei libri, in una catena molto stretta di rapporti e interdipendenze, all'interno di un sistema delle comunicazioni completamente trasformato. Tutto ciò non cambierà solo il lavoro editoriale, ma la figura stessa dell'editore, chiamato sempre più in futuro a far coesistere diverse vocazioni e competenze, a operare in una pluralità di ambiti e a gestire più livelli di interventi: a essere insieme intellettuale e manager, in un nuovo binomio di cultura e professionalità, per una competizione che si annuncia sempre più intensa e difficile.
2. Sviluppi e tendenze dell'editoria italiana
Gli ultimi trent'anni dell'Ottocento rappresentano per il mondo editoriale italiano un periodo di grande svolta e di decisivo sviluppo. Con la ripresa economica e soprattutto con l'estendersi dell'istruzione di massa (l'analfabetismo, che al momento dell'Unità toccava il 75%, all'inizio del nuovo secolo scendeva al 48,5% per arrivare al 27,4% nel 1921), si crearono infatti le condizioni di un cambiamento radicale nel rapporto del pubblico con la lettura.
Per la lungimiranza e l'intraprendenza di editori come Sonzogno, Treves, Hoepli, Zanichelli, ecc., si andò affermando un'editoria dinamica, attenta a interpretare le esigenze e i gusti del pubblico, e in particolare dei ceti medi emergenti.La produzione libraria aumentò notevolmente, e questo incremento andava in molteplici direzioni: si faceva largo tra le masse il romanzo storico e d'appendice, cresceva la saggistica formativa, si moltiplicava la manualistica scientifico-tecnica (si pensi ai celebri Manuali Hoepli, pubblicati a partire dal 1875). Erano soprattutto i classici e gli autori contemporanei stranieri a godere di larghe fortune presso i lettori, sollecitati da allettanti proposte come quelle della Biblioteca universale Sonzogno (1882). Anche la crescente diffusione delle biblioteche circolanti contribuiva in quegli anni a rendere familiari ai ceti popolari la letteratura romantica, la narrativa d'evasione, il feuilleton, il romanzo naturalista. A parte i due casi eccezionali rappresentati da Pinocchio (1883), che nel 1921 superava i due milioni di copie, e da Cuore (1886), che nel 1923 toccava quota un milione, esisteva una nutrita serie di romanzi e saggi che registravano successi rilevanti, seppure non così straordinari.
Coi primi anni del Novecento, però, l'editoria libraria cominciò a entrare in una fase stagnante per quanto riguarda la lettura, e la situazione peggiorò negli anni della guerra con il crollo della produzione. La crisi investì in particolare l'editoria colta, mentre i libri popolari, che conquistavano anche le donne e il pubblico di provincia, continuavano a godere di un certo seguito. Si trattava in realtà di una difficile fase di transizione, destinata ad assestarsi negli anni venti - con un periodo di relativa prosperità economica e il progressivo organizzarsi dell'industria editoriale, anche sotto il profilo distributivo e promozionale - e a consolidarsi negli anni trenta.
Negli anni venti e trenta l'editoria libraria italiana subì però anche il clima e lo spirito del regime fascista, risentendo dell'opera di controllo e bonifica che quest'ultimo intraprese con la 'rivoluzione culturale' nell'organizzazione generale del consenso. In generale si può dire che tutto il settore librario era fortemente condizionato dai programmi politico-culturali del regime. Negli anni trenta, tuttavia, questi condizionamenti e imposizioni non determinarono una battuta d'arresto o una regressione per la produzione libraria: oltre ad aumentare notevolmente, portandosi su una media annuale di quasi 11.000 titoli contro i 7.000 del decennio precedente, essa non si appiattì del tutto sull'ideologia e sulla cultura di regime dominante, mostrando anzi un'effervescenza e una varietà non comune su vari fronti: dai grandi romanzi stranieri tradotti (quasi tutte le collane Mondadori di letteratura straniera, tra cui la celebre Medusa, nacquero tra il 1929 e il 1933) ai libri gialli, ai saggi.
Gli anni della guerra furono, anche per l'editoria italiana, tra i più bui della sua storia recente. Le difficoltà economiche, il clima politico e morale, i provvedimenti restrittivi (sequestri, censure, ecc.), le distruzioni causate dai bombardamenti, determinarono, a partire dal 1942, un vistoso calo della produzione libraria, che subì un vero e proprio crollo nel 1944, con una riduzione di quasi l'80%.
Ma all'indomani stesso della liberazione l'editoria italiana viveva una stagione di entusiasmo e di fervore, animata da un grande impegno di rinnovamento culturale ed etico. Già nel 1945 la produzione praticamente raddoppiava, registrando poi, nel giro di quattro anni, un incremento del 132%. L'apporto numericamente più cospicuo veniva dalla letteratura, con la scoperta sia di autori stranieri che di giovani narratori e poeti italiani. Un ruolo fondamentale in questo contesto fu svolto dalle più importanti collane letterarie della Mondadori, della Longanesi e dell'Einaudi. Sul finire degli anni quaranta nasceva una nuova collana destinata a segnare una tappa fondamentale della storia dell'editoria e nella vita culturale degli italiani, la Biblioteca Universale Rizzoli, ideata e diretta da Paolo Lecaldano; nel giro di pochi anni, quei libretti grigi diventeranno per l'intera generazione del dopoguerra la fonte primaria di accesso al patrimonio letterario universale.
Anche gli anni cinquanta furono una stagione positiva per la diffusione del libro nella società italiana, di pari passo con lo sviluppo economico e con il risveglio culturale del paese. Per quanto la lettura restasse ancora un fenomeno d'élite e il mercato fosse ancora piuttosto ristretto, aumentava l'interesse per il libro. Quella degli anni cinquanta fu soprattutto la grande stagione della narrativa: il pubblico scopriva con entusiasmo gli scrittori stranieri contemporanei, in particolare inglesi e americani (Cronin, Hemingway, Steinbeck, Maugham, ecc.), mentre continuava a leggere con interesse la narrativa italiana (Moravia, Pratolini, Pasolini, ecc.). Grazie ai favori che la narrativa incontrava presso il pubblico, nella seconda metà degli anni cinquanta la produzione crebbe a dismisura, registrando tra il 1956 e il 1960 una percentuale d'incremento (+43,4%) che rimane la più alta del dopoguerra.
Uno degli eventi editoriali più rilevanti del decennio successivo - assieme alla diffusione in edicola delle dispense - fu la nascita di una grande collana di tascabili, gli Oscar Mondadori, che ebbe un effetto dirompente nell'editoria, nella cultura e nella società italiana. Il successo di vendite di Addio alle armi di Hemingway, il romanzo che aveva dato avvio agli Oscar settimanali (210.000 copie solo nella prima settimana di uscita), era il successo non tanto di una singola opera quanto di un'idea di fondo: quella di portare tra la gente, con cadenza fissa e a un prezzo conveniente attraverso un canale nuovo per il libro come l'edicola, opere più rappresentative della letteratura del Novecento. Sulla scia degli Oscar nacquero altre collane di tascabili periodici, tutte destinate ad avere, almeno nei primi tempi, riscontri commerciali molto lusinghieri. Tra il 1965 e il 1966 il tascabile determinava un formidabile balzo in avanti della comunicazione e della promozione della lettura in Italia, ponendosi come uno dei fatti culturalmente e socialmente più rilevanti di tutto il Novecento.
Gli anni sessanta e parte degli anni settanta videro anche lo sviluppo dell'editoria saggistica e d'impegno, fondata sull'attualità e sul dibattito, sulla contestazione e sulla 'cultura alternativa' come riflesso dei fermenti sociali e politici di quegli anni. Con l'esaurirsi delle spinte ideologiche e culturali, però, l'editoria di stampo politico e vari comparti del settore saggistico subirono duri contraccolpi; con una tendenza destinata a rafforzarsi negli anni ottanta, l'attenzione del pubblico si andò concentrando sempre più sulla produzione di consumo, sui romanzi di successo, sui libri d'evasione, che dopo anni di compressioni ideologiche e intellettualistiche venivano accolti con particolare favore. È in questo contesto che si spiega l'esplosione del romanzo 'rosa', il fenomeno editoriale e commerciale più importante della prima metà degli anni ottanta.
Negli ultimi due decenni l'area dei libri di successo si è ampliata ulteriormente, dilatandosi dalla narrativa, prevalentemente straniera, alla saggistica, specie di taglio narrativo. Un numero crescente di giornalisti e uomini di spettacolo, per la loro notorietà e l'impatto informativo-pubblicitario dei mezzi utilizzati (giornali, televisione, radio), sono stati sempre più ricercati dagli editori per alimentare il filone dei best-sellers.In generale, tuttavia, si può osservare che, nonostante gli anni ottanta si siano chiusi in maniera abbastanza favorevole per l'editoria italiana, non c'è stato un reale incremento di spesa negli acquisti di libri da parte degli italiani. La crescita dei consumi librari è stata lenta, inferiore in ogni caso a quanto ci si poteva attendere in rapporto allo sviluppo dei consumi medio-alti delle famiglie italiane.
Da ciò si comprende come il vero problema, allo stato attuale, sia quello della lettura: da un lato la vastità del bacino dei non lettori (oltre il 60% della popolazione italiana adulta non legge nemmeno un libro all'anno), dall'altro la frantumazione dell'area della lettura che si è verificata in questi anni. Si è creata una forte discontinuità del mercato, dovuta alle profonde modificazioni subite dal contesto culturale e alla graduale scomparsa delle fasce intermedie della lettura. La tradizionale distinzione tra lettori forti, abituali, deboli e occasionali non è più così netta, e si ha l'impressione che, perlomeno in Italia, si sia già passati direttamente dal lettore forte al lettore occasionale.
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