Abstract
Delineato il quadro normativo di riferimento, sono considerate le ragioni dell’esclusione dei dirigenti dall’applicazione della disciplina legale del licenziamento, sia individuale sia collettivo, ed è ricostruito l’approdo giurisprudenziale che preserva l’unitarietà della categoria, pur nella sua eterogeneità, anche sul piano della applicazione della disciplina di matrice convenzionale. Vengono infine esaminate la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 13.2.2014 in causa C-596/12 e la normativa di ottemperanza introdotta dall’art. 16 l. 30.10.2014, n. 161.
La l. 15.7.1966, n. 604 (che, con le successive modificazioni ed integrazioni, continua ad essere il baricentro della disciplina legale del licenziamento individuale) esclude testualmente, seppure indirettamente, i dirigenti dalla propria applicazione (art. 10: «le norme della presente legge si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio» e di quadro per effetto dell’estensione stabilita dall’art. 2, l. 13.5.1985, n. 190).
La disciplina legale tipica del licenziamento individuale si applica però anche al dirigente nella sua integralità, compresa quindi la reintegra, per espressa statuizione dell’art. 18, co. 1, l. 20.5.1970, n. 300, nei riguardi del licenziamento privo di forma scritta e del licenziamento nullo per i motivi ivi indicati.
La l. 23.7.1991, n. 223 fino alla legge di adeguamento comunitario del 30.10.2014, n. 161, escludeva i dirigenti dalla propria applicazione sempre con formulazione indiretta pur se testuale (art. 4, co. 9: «raggiunto l’accordo sindacale ovvero esaurita la procedura di cui ai commi 6, 7 e 8, l’impresa ha facoltà di licenziare gli impiegati, gli operai e i quadri eccedenti comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso, nel rispetto dei termini di preavviso»; v. infra, § 6). Ed era poi con riguardo a questo recesso, intimato a tali soggetti, che l’art. 5, co. 3, collegava uno specifico regime sanzionatorio (ora diversamente modulato a seguito del nuovo testo del co. 3 introdotto dall’art. 1, co. 46, l. 28.6.2012, n. 92) alla violazione delle disposizioni regolatrici della procedura e della selezione dei lavoratori da licenziare.
L’esclusione dunque, pur se testualmente statuita con riferimento al recesso, non poteva non riguardare anche la disciplina della procedura e dei criteri di scelta in quanto dettata in funzione appunto del recesso medesimo e con esso quindi inscindibilmente collegata (cfr. Tosi, P., Il licenziamento collettivo del dirigente, in Giur. it., 2014, 1154).
Sul piano dei cd. ammortizzatori sociali l’art. 7, d.m. 28.4.2000, n. 158 contenente il Regolamento del Fondo di solidarietà per il personale del credito stabilisce che alle prestazioni del Fondo, nell’ambito delle procedure e a seguito degli accordi previsti dal Regolamento stesso, «possono accedere anche i dirigenti, ferme restando le norme di legge e di contratto applicabili alla categoria». I dirigenti, chiamati prima dalla l. n. 92/2012 a beneficiare della indennità generalizzata di disoccupazione (mediante l’istituzione della “Assicurazione Sociale per l’Impiego”), fruiscono ora della nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego (“Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego”) disciplinata dal Titolo I del d.lgs. 4.3.2015, n. 22, i cui tetti e limiti di durata continuano però ad offrire loro una copertura assai modesta. Fuiscono altresì della estensione delle misure previste per agevolare l’esodo dei lavoratori anziani a fronte di accordi sindacali stipulati nel corso di procedure di riduzione del personale (grazie alla modifica apportata all’art. 4, co. 1, l. n. 92/2012 dall’art. 34, co. 54, lett. b, d.l. 18.10.2012 conv. dall’art. 1, co. 1, l. 17.12.2012, n. 221).
Il licenziamento (almeno quello individuale) del dirigente d’azienda privato è dunque tuttora essenzialmente regolato dagli artt. 2118 e 2119 c.c. La giurisprudenza ritiene tuttavia applicabili al dirigente le norme che riconoscono ai lavoratori iscritti all’Inps il diritto di opzione per la continuazione del rapporto oltre la maturazione dei requisiti pensionistici (art. 6, d.l. 22.12.1981, n. 791 conv. dalla l. 26.2.1982, n. 54; art. 6, l. 29.12.1990, n. 407) senza che però divengano applicabili le garanzie che non assistono il suo rapporto di lavoro (rinvio a Tosi, P., Il dirigente d’azienda, in Trattato di diritto del lavoro, Persiani, M.-Carinci, F., diretto da, vol. IV, Padova, 2012, 464 ss.).
A fronte della esclusione dalla applicazione della disciplina legale del licenziamento individuale, come era avvenuto per gli impiegati ed operai dell’industria negli anni cinquanta, i contratti collettivi di settore hanno iniziato a prevedere una tutela economica in sede arbitrale avverso il licenziamento «ingiustificato» del dirigente (v. infra, § 4).
Solo in alcuni settori dopo il 1991 è stata introdotta una speciale indennità per determinati casi di licenziamento collettivo. In particolare, per i dirigenti dell’industria (accordo Confindustria e Intersind con FNDAI 27.4.1995) è previsto che, qualora il datore di lavoro motivi il licenziamento con riferimento a «specifiche fattispecie di ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione ovvero crisi aziendale» riconosciute con decreto ministeriale, il dirigente rinunciando ad impugnare il licenziamento secondo il CCNL abbia diritto ad una speciale indennità (Tosi, P., Il dirigente d’azienda, cit., 466 ss.).
La ratio dell’art. 10 è stata da subito individuata nella natura spiccatamente fiduciaria del rapporto di lavoro del dirigente quale alter ego dell’imprenditore risultante dalla configurazione della categoria elaborata dalla giurisprudenza nelle cause in cui era rivendicata l’appartenenza ad essa.
La fondamentale sentenza della Corte costituzionale del 1972 è stata così letta come operazione di sutura tra il piano della qualificazione del rapporto ed il piano dell’applicazione dell’art. 10 laddove fonda la legittimità del trattamento differenziato rispetto agli altri lavoratori sulla posizione particolare del dirigente riguardata dall’angolazione del diritto vivente (C. cost., 6.7.1972, n. 121: «al dirigente che occupa il posto più elevato nella scala gerarchica dei prestatori di lavoro subordinato è assicurata nell’impresa una posizione che trova nel potere direttivo la sua vera qualificazione … appare perciò essenziale che tra l’imprenditore ed il dirigente si instauri un rapporto di reciproca fiducia e di positiva valutazione ed è in armonia con codesta esigenza che il rapporto possa venir meno per determinazione unilaterale solo che soggettivamente vengano a cessare le condizioni idonee a soddisfare tale esigenza»; v. anche C. cost., ord., 26.19.1992, n. 404. Cfr., anche per i riferimenti, Tosi, P., Il dirigente d’azienda. Tipologia e disciplina del rapporto, Milano, 1974, spec. 132 ss.).
In realtà la sentenza del 1972 è più complessa e articolata di quanto comunemente si ritenga. C’è sicuramente il richiamo al soggetto che svolge un ruolo preminente nell’organizzazione aziendale a stregua di alter ego del datore di lavoro. Ma c’è anche la considerazione della specialità del rapporto di lavoro del dirigente per il peculiare trattamento economico e normativo di cui fruisce grazie all’inquadramento sindacale autonomo e alla contrattazione collettiva separata.
La Corte costituzionale in altre parole richiama la definizione giurisprudenziale corrente nelle decisioni della Suprema Corte nei giudizi aventi ad oggetto il riconoscimento della qualifica e sottolinea l’impronta marcatamente fiduciaria che caratterizza il rapporto di lavoro del dirigente ma assurge poi ad una prospettiva più ampia laddove registra che tale rapporto può ben essere considerato speciale anche in ragione della peculiare collocazione del dirigente nella struttura aziendale e del complessivo trattamento di cui gode. Ed è una prospettiva che si rivelerà preziosa.
Malgrado le sollecitazioni provenienti da una parte della dottrina al contenimento dell’esclusione dalla disciplina legale alla sola area del dirigente corrispondente alla sua figura-archetipo (cfr. per i riferimenti Tosi, P., Il dirigente d’azienda, in Trattato, cit., 440 ss.), la giurisprudenza per lungo tempo ha con larga prevalenza riferito l’esclusione ad ogni dirigente come tale qualificato dal contratto individuale.
Le questioni dell’applicabilità ai dirigenti ovvero a parte di essi della disciplina generale del licenziamento e delle conseguenze di tale applicabilità cominciano a porsi in misura significativa sul piano dell’applicabilità dell’art. 7 l. n. 300/1970 al licenziamento per motivi disciplinari a valle delle sentenze della C. cost., 30.11.1982, n. 204, della Cass., S.U., 1.6.1987, n. 482 e soprattutto della C. cost., 25.7.1989, n. 427, che dichiara l’illegittimità dei primi commi dell’art 7 l. 300/1970 «nella parte in cui è esclusa la loro applicabilità al licenziamento per motivi disciplinari irrogato da imprenditore che abbia meno di sedici dipendenti».
La Suprema Corte con riguardo alle aziende minori si adegua prontamente a questa statuizione ma per molti anni offre orientamenti disparati circa gli effetti della violazione dell’art. 7 fin quando le Sezioni Unite nel 1994, premettendo di considerare irragionevole, anzi «aberrante», che «una violazione di una norma dettata per fini che attengono ai comportamenti delle parti risulti in effetti sanzionata più gravemente della violazione di una norma che attiene all’essenza del rapporto», perviene alla conclusione che le prescrizioni di tale articolo non sono requisiti costitutivi del potere di determinare l’estinzione del rapporto ma presupposti procedurali della imputabilità del fatto disciplinare e, quindi, della sua idoneità ad integrare quella giusta causa o quel giustificato motivo che, fuori dell’area della tutela reale, valgono solo ad esonerare dalla corresponsione delle indennità previste dalla legge (Cass., S.U., 18.5.1994, n. 4844; per un approfondimento e riferimenti rinvio a Tosi, P., ult. cit., 443).
Anche dopo la sentenza della Corte costituzionale del 1989 resta invece dominante l’orientamento che vuole l’inapplicabilità dell’art. 7 alla categoria del dirigente pur se non mancano sentenze allineate a quelle riguardanti le aziende minori. A ribadire l’orientamento negativo intervengono però nel 1995 le Sezioni Unite (Cass., S.U., 29.4.1995, n. 6041 su cui cfr. D’Avossa, E., La soluzione accolta dalle Sezioni Unite, in Lav. giur., 1996, 5 ss.; De Angelis, L., Il licenziamento disciplinare del dirigente. Essere dell’ontologia o non essere del potere disciplinare?, in Riv. giur. lav., 1997, I, 17 ss.; Montuschi, L., Il licenziamento disciplinare secondo il “diritto vivente”, in Riv. it. dir. lav., 1996, I, 13 ss.).
Alle indicazioni delle Sezioni Unite le successive sentenze della Sezione Lavoro dichiarano di uniformarsi ma molte di esse, rifiutando di escludere l’intera categoria dirigenziale da garanzie procedimentali riconosciute come espressione di un principio generale di civiltà giuridica, limitano la portata di quelle indicazioni all’area della cd. alta dirigenza ed applicano l’art. 7 al licenziamento disciplinare dei dirigenti di rango inferiore, perlopiù con effetti in ordine alla validità dell’atto.
Siffatta rottura dell’unità della categoria favorisce il formarsi di un orientamento, robusto seppur minoritario, che, riallacciandosi alle menzionate sollecitazioni, risalenti e ricorrenti, della dottrina, trasferisce la dicotomia alto dirigente/dirigente minore sul più generale piano dell’esclusione dalla disciplina limitativa del licenziamento, compreso l’art. 18 l. n. 300/1970 (preceduta da Cass., 15.11. 2001, n. 14230, in Lav. giur., 2002, 524 ss., con nt. critica di Mannacio, G.; è paradigmatica Cass., 9.4.2003, n. 5526, seguita da altre: Cass., 9.8.2004, n. 15351 e Cass., 13.5.2005, n. 10058 con il medesimo redattore della n. 5526; Cass., 28.10.2005, n. 21010 e Cass., 22.12.2006, n. 27464).
Contemporaneamente tuttavia matura nella giurisprudenza della Suprema Corte la riflessione critica su una siffatta rottura dell’unità della categoria dirigenziale e sulla conseguente diversificazione, al suo interno, dei regimi del licenziamento.
Prende così avvio un percorso riunificante anzitutto sul terreno del licenziamento disciplinare con una sentenza del 2003 che muove dal ripensamento dell’intera questione della categoria del dirigente e della disciplina applicabile al suo rapporto per registrare come l’incardinamento del dirigente sulla figura dell’alter ego non tenga adeguato conto delle indicazioni offerte dalla contrattazione collettiva malgrado il rinvio ad essa operato dall’art. 2095 c.c. Mentre alla stregua di tali indicazioni la dicotomia alto dirigente/dirigente minore si rivela arbitraria e quindi insuscettibile di fondare una diversità di disciplina, qui con specifico riguardo all’applicabilità dell’art. 7 st. lav. al licenziamento disciplinare (Cass., 3.4.2003, n. 5213: isolando i dirigenti di vertice «si è intaccata l’unitarietà della categoria dei dirigenti, perché tratti caratterizzanti della stessa … non appaiono esaurientemente delineati se non si tiene presente che nelle organizzazioni aziendali complesse può sussistere una pluralità di dirigenti di diversi livelli, con graduazione dei loro compiti»).
Giunta a questa conclusione, la Corte deve misurarsi con la questione degli effetti dell’eventuale contrarietà all’art. 7 st. lav. del licenziamento disciplinare del dirigente (che potrebbe anche essere un dirigente di vertice). Si ricollega allora testualmente all’insegnamento della sentenza delle Sezioni Unite del 1994 in materia di aziende minori e delle successive sentenze uniformi della Sezione lavoro «secondo cui la violazione delle regole procedimentali sull’addebito determinano non la nullità del licenziamento ma un tipo di illegittimità dell’atto comportante conseguenze correlate al grado di stabilità del rapporto di lavoro e inerenti alla non rilevanza, quanto agli effetti dell’atto risolutivo, degli eventuali inadempimenti del lavoratore non debitamente contestati»; in particolare, nel caso del dirigente, comportante «la non valutabilità dei comportamenti irritualmente posti a base del licenziamento ai fini dell’esclusione del diritto al preavviso e all’indennità supplementare».
Questo orientamento è consacrato qualche anno dopo, con riguardo al licenziamento disciplinare, dalle Sezioni Unite (Cass., S.U., 30.3.2007, n. 7880) nel contesto di una accurata motivazione ove sono condivise preoccupazioni, esegesi e scelte della sentenza della Sezione Lavoro n. 5213/2003 ed ove in particolare è preso atto che «la proliferazione della categoria dirigenziale, correlata alla ramificazione dell’organizzazione imprenditoriale ed al progresso tecnologico, si configura come l’esito finale dell’evoluzione della figura del dirigente indotta, come è stato perspicuamente evidenziato, proprio dalla contrattazione collettiva e dalla prassi sindacale, che hanno portato al riconoscimento della qualifica dirigenziale a lavoratori in possesso di elevate conoscenze scientifiche e tecniche o, comunque dotati di tale professionalità da collocarsi nel mercato del lavoro in condizioni di particolare forza pur non essendo investiti di quei poteri di direzione in mancanza dei quali non appare appropriato il richiamo alla nozione di alter ego dell’imprenditore».
Su questa premessa la Corte ritiene irrilevante, ai fini dell’applicabilità o meno dell’art. 7 al licenziamento disciplinare, la distinzione tra pseudo-dirigenti e «cd. dirigenti convenzionali (apicali,medi o minori)», quelli cioè «classificabili come tali dalla contrattazione collettiva».
Con riguardo poi agli effetti della violazione della norma la Corte registra (pur attribuendole paternità dottrinale) la duplicazione funzionale dell’atto, giacché, quando contiene addebiti, «il recesso, accanto alla tipica funzione risolutoria del rapporto, contiene anche una causa ulteriore costituita dalla funzione dell’atto di irrogare una pena privata». Anche secondo le Sezioni Unite siffatta duplicazione, con la conseguenza che la violazione dell’art. 7 pregiudica solo la funzione disciplinare (rendendo inutilizzabili ai fini delle indennità di preavviso e supplementari addebiti non ritualmente contestati) e non quella estintiva, è postulata dal criterio di ragionevolezza. Donde l’affermazione del «principio di diritto» secondo cui dalla violazione delle garanzie prescritte dall’art. 7, «che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all’inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall’accertamento della insussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso».
È appena il caso di sottolineare, per inciso, che alla violazione dell’art. 7 non si applica la disposizione dell’art. 18, co. 6, l. 20.5.1970, n. 300, giacché di questo articolo al licenziamento del dirigente si applica solo la disciplina stabilita per le fattispecie considerate nel co. 1.
La sentenza n. 7880/2007 delle Sezioni Unite, espressione di una meditata opzione di politica del diritto in funzione nomofilattica e redatta da uno dei più autorevoli componenti della Sezione Lavoro, favorisce non solo il consolidamento della riunificazione della categoria sul versante del licenziamento disciplinare (Cfr. Cass., 16.5.2008, n. 12403; Cass., 13.10.2008, n. 25041; Cass., 11.3.2010, n. 5864; Cass., 2.9.2010, n. 18998, da ult. Cass., 10.2.2015, n. 2553 che ribadisce, altresì l’applicabilità dell’art. 7 anche al rapporto dirigenziale a tempo determinato) ma anche il trasferimento di tale riunificazione sul versante dell’esclusione dalla disciplina legale del licenziamento. In entrambi i casi punto di approdo è l’applicazione generalizzata della tutela economica stabilita dalla contrattazione collettiva.
Le successive sentenze della Sezione Lavoro sul secondo versante si ricollegano all’insegnamento delle Sezioni Unite adottando quale referente per l’esclusione della disciplina legale la distinzione offerta dalla sentenza n. 7880/2007. Lungo questa sequenza di sentenze appare sempre più chiaro (e consapevole) che i dirigenti convenzionali sono ben diversi dai dirigenti “per convenzione” del vecchio orientamento (dottrinale e giurisprudenziale) dicotomico, che li intendeva come mini o pseudo- dirigenti, privi dei caratteri di appartenenza pleno iure alla categoria di cui all’art. 2095. Ora dirigenti convenzionali sono tutti i dirigenti (apicali, medi e minori) che rispondono alla più elastica concezione della categoria risultante dalle indicazioni della contrattazione collettiva e della prassi. Mentre pseudo-dirigenti sono quelli il cui inquadramento nella categoria ad opera del contratto individuale appare irragionevole e strumentale (cfr. Cass., 21.11.2007, n. 24246; Cass., 24.6.2009, n. 14835; Cass., 13.12.2010, n. 25145).
Difficile disconoscere la ragionevolezza di questo orientamento. La rottura dell’unità della categoria non è nella tradizione dei contratti di settore ed è quindi estranea alla sensibilità degli attori sociali. Soprattutto, si traduce in una illogica commistione di disciplina contrattuale e disciplina legale tipica con potenziali cumuli di garanzie.
A fronte della permanenza del licenziamento ad nutum con preavviso i contratti collettivi di settore, come anticipato, hanno introdotto sin dagli anni ottanta una tutela economica prevedendo che il datore di lavoro fornisca, su richiesta o contestualmente, come nel caso del CCNL dirigenti industria, i motivi del licenziamento (ma Cass., 11.2.2013, n. 3175 ritiene che anche in questo caso i motivi oggettivi possano essere dedotti in giudizio) e che il dirigente (privo dei requisiti minimi per l’ accesso alla pensione di vecchiaia) possa impugnarlo entro un determinato (breve) termineinnanzi ad un collegio arbitrale designato dalle parti sociali.
Il collegio è investito del potere, «ove, con motivato giudizio, riconosca che il licenziamento è ingiustificato», di disporre «contestualmente, a carico dell'azienda, una indennità supplementare delle spettanze contrattuali di fine lavoro». La formulazione, sostanzialmente comune, qui è tratta dall’art. 22 del CCNL dirigenti industria 15.11.2009 rimasto invariato con l’Accordo di rinnovo 30.12.2014; il quale peraltro ha riduttivamente modificato articolazione e ammontare dell’indennità. Questa è talora qualificata come risarcitoria ma è comunque assoggettata al prelievo fiscale (da ult., Cass., ord, 2.2.2015, n. 1890).
L’utilizzo di una formula generica («licenziamento ingiustificato») ben si coniuga, nella disciplina contrattuale, con la volontà di affidarne l’applicazione ad un organo per composizione “socialmente” sensibile, propenso quindi a considerare la decisione espulsiva in relazione all’assetto di interessi di ogni specifico caso; un organo prevedibilmente portato all’equilibrato apprezzamento di tali interessi e alla prudente mediazione tra di essi.
La giustizia ordinaria si è tuttavia appropriata della disciplina convenzionale invocando la statuizione dell’art. 5, co. 1, l. 11.8.1973, n. 533 secondo cui il ricorso all’arbitrato irrituale, nei casi previsti dai contratti collettivi, «deve avvenire senza pregiudizio della facoltà di adire l’autorità giudiziaria» (l’orientamento è stato “consacrato” da Cass., S.U., 11.2.1987, n. 1463 seguita da Cass., 11.2.1989, n. 849).
Si tratta ormai di consolidato diritto vivente pur se resta assai dubbio che il principio di alternatività impedisca al contratto collettivo di riservare alla giustizia arbitrale l’amministrazione di diritti che non solo nel medesimo trovano la loro esclusiva fonte regolatrice ma il cui stesso contenuto è rimesso alla individuazione da parte degli arbitri (cfr. anche per i riferimenti Tosi, P., op. ult. cit., 456).
Nel ritenersi investita del potere di applicare la disciplina contrattuale sostituendosi al collegio arbitrale, la giurisprudenza considera correntemente il ricorso giudiziale affrancato dal termine stabilito da tale disciplina, in quanto specificamente riferito al ricorso al collegio, ed altresì da quello stabilito dall’art. 6 l. n. 604/1966 attesa l’inapplicabilità al dirigente della legge stessa.
Viene così obliterata la circostanza che l’azione giudiziale è diretta al conseguimento di un diritto per il quale la disciplina convenzionale prima del presupposto sostanziale (la “ingiustificatezza” del licenziamento) pone un presupposto formale/procedurale (la tempestività della reazione). Mentre l’alternatività a rigore dovrebbe comportare solo la sostituzione del giudice ordinario a quello arbitrale nel contesto di quella disciplina.
La collocazione nell’ambito della giurisdizione ordinaria della disciplina dei contratti collettivi di settore ha favorito, in una prima fase, la tendenziale omologazione della fattispecie della “giustificatezza” alla fattispecie legale del giustificato motivo (soggettivo ed oggettivo), sia pure con più o meno ampi adattamenti. Ad esempio, con riguardo al giustificato motivo oggettivo è sempre stato ritenuto inapplicabile al licenziamento del dirigente, in ragione della natura spiccatamente fiduciaria del rapporto, il cd. repêchage (cfr. Pret. Milano, 18.2.1987, in Or. giur. lav., 1988, 1127; Pret. Milano, 23.11.1993, in Lav. giur., 1994, 705; più recentemente, la giurisprudenza citata nella rassegna in Dir. prat. lav., 2010, n. 1, 44-45 e Cass., 11.2.2013, n. 3175).
La svolta può essere ravvisata in una sentenza delle Sezioni Unite del 1986 (Cass., S.U., 9.12.1986, n. 7296) che considera le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo referente naturale, ma non unico ed obbligato, per l’individuazione della nozione contrattuale del licenziamento giustificato.
Da quel momento l’orientamento che possiamo definire “non omologativo” si è perfezionato ed è divenuto dominante. Può essere assunto come paradigmatico il principio di diritto formulato da una sentenza della Suprema Corte del 2005: «la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, prevista da alcuni contratti collettivi ai fini del riconoscimento di un’indennità supplementare, non coincide con quelle di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento del lavoratore subordinato, ma è molto più ampia, e si estende a comprendere qualsiasi motivo di recesso che ne escluda l’arbitrarietà, con i limiti del rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, e del divieto di licenziamento discriminatorio. Di conseguenza fatti o condotte, che con riguardo al rapporto di lavoro in genere non integrano giusta causa o giustificato motivo, possono giustificare il licenziamento del dirigente» (Cass., 17.1.2005, n. 775; tra le più recenti Cass.,19.9.2011, n. 19074; Cass., 7.3.2012, n. 3547; Cass., 3.6.2013, n. 13918).
In particolare, l’inerenza del licenziamento del dirigente ad una vicenda di riorganizzazione, ristrutturazione o crisi aziendale è valorizzata dalla giurisprudenza «in quanto funzionale all’indagine sulla giustificatezza del licenziamento individuale, rispetto alla quale gli esiti della procedura del licenziamento collettivo possono offrire criteri oggettivi di valutazione circa la debenza e la quantificazione dell’indennità supplementare» (Cass., 1.12.2010, n. 24340). Viene così frequentemente puntualizzato che «la giustificatezza del recesso non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale continuazione, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost., che verrebbe radicalmente negata ove si impedisse all’imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell’impresa» (Cass., 21.3.2011, n. 6367; così già Cass., 15.12.2009, n. 26232). Ancora, «poiché il licenziamento del dirigente non richiede necessariamente un giustificato motivo oggettivo, esso è consentito in tutti i casi in cui sia stato adottato in funzione di una ristrutturazione aziendale dettata da scelte imprenditoriali non arbitrarie, non pretestuose e non persecutorie» (Cass., 20.11.2012, n. 20856 che richiama Cass., 22.10.2010, n. 21748; Cass., 28.1.2013, n. 1811; Cass., n. 13918/2013 cit.; Cass., 23.10.2014, n. 22536 che sottolinea con diffusa argomentazione la differenza tra licenziamento pretestuoso e licenziamento ingiurioso, come tale produttivo di una autonoma voce risarcitoria; Cass., 17.2.2015, n. 3121).
Nel descritto orientamento giurisprudenziale, consolidato nelle sue coordinate fondamentali, tende a restare imprecisato da quale lato del crinale penda, nelle vicende processuali, la distribuzione tra le parti dell’onere della prova.
Ciò non può sorprendere. Scontata l’inapplicabilità dell’art. 5 l. n. 604/1966, la “giustificatezza” per un verso non può essere ricostruita (ai sensi dell’art. 2967 c.c.) come “fatto” costitutivo del potere di recesso, che resta regolato dall’art. 2118 c.c., e per altro verso non è neppure configurata come causa di esonero dall’obbligo di corrispondere l’indennità supplementare nella maggior parte dei contratti collettivi; i quali piuttosto configurano la “ingiustificatezza” come titolo in capo al dirigente per pretendere tale indennità: «Il dirigente, ove non ritenga giustificata la motivazione addotta dall'azienda, ovvero nel caso in cui detta motivazione non sia stata fornita contestualmente alla comunicazione del recesso, potrà ricorrere al Collegio arbitrale di cui all'art. 19» (così, ad es., i CCNL dirigenti dell’industria, delle imprese commerciali, del credito; isolato il CCNL dirigenti imprese assicurative nell’offrire indicazioni in direzione dell’accollo dell’onere probatorio al datore di lavoro imponendo a lui nella memoria costitutiva dinnanzi al Collegio arbitrale, e non al dirigente nel ricorso, di enunciare, a pena di decadenza, tutti gli eventuali mezzi di prova volti a comprovare la giustificazione del licenziamento»).
L’esclusione dei dirigenti dall’applicazione della l. n. 223/1991 (testo originario) ha indotto la Corte di giustizia dell’Unione europea, investita della questione dalla Commissione europea, a dichiarare che la Repubblica Italiana, avendo «escluso, mediante l’art. 4, paragrafo 9, della Legge del 23 luglio 1991, n. 223, … la categoria dei “dirigenti” dall’ambito di applicazione della procedura prevista dell’art. 2 della direttiva 98/59/CE del Consiglio…è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2 della direttiva n. 59 del 1998» (C. giust., sez. II,13.2.2014, C-596/12).
Lo Stato italiano nel corso della procedura di infrazione ha cercato di convincere la Commissione europea a desistere dalla presentazione del ricorso alla Corte di giustizia invocando l’incompatibilità della direttiva 98/59/CE con il rapporto di lavoro del dirigente in ragione della peculiarità della sua posizione di alter ego del datore di lavoro, come tale investito di un’autonomia decisionale talmente estesa da poter influenzare le scelte strategiche dell’impresa, compresa quella di licenziare i lavoratori. La Commissione ha però ribattuto che nella categoria dirigenziale esclusa non rientrano solo dirigenti apicali ma anche dirigenti preposti a settori limitati dell’impresa e gerarchicamente subordinati ai dirigenti apicali (v. Documentazione Parlamento, XVII legislatura – Disegni di legge e Relazioni – Documenti – Doc. LXXIII, n. 3, Scheda 9 – Lavoro e affari sociali relativa alla Procedura di infrazione n. 2007/4652 – ex art. 258 TFUE).
Di tutto ciò non v’è traccia nella sentenza mentre è preso in considerazione l’argomento difensivo dello Stato italiano secondo cui «la normativa e i contratti collettivi riguardanti specificamente i dirigenti, i quali garantiscono loro una tutela di carattere economico in caso di licenziamento, rappresentano norme più favorevoli ai sensi dell’articolo 5 della direttiva 98/59».
Si è visto che le provvidenze previste per i dirigenti nelle vicende di riduzione del personale sono settoriali o dipendono dalla stipulazione di specifici accordi sindacali. La Corte di giustizia in ogni caso a detto argomento ha opposto un fin de non recevoir osservando che l’obiettivo primario della direttiva è quello di consultazioni le quali «devono vertere, in particolare, sulla possibilità di evitare o di ridurre i licenziamenti collettivi previsti», con la conseguenza che la direttiva stessa «sarebbe parzialmente privata del suo effetto utile in caso di mancata attuazione della procedura di consultazione nei confronti di taluni lavoratori, a prescindere, peraltro, dalle misure sociali di accompagnamento che siano previste in loro favore per attenuare le conseguenze di un licenziamento collettivo».
La sentenza (v. Tosi, P., Il licenziamento collettivo del dirigente, cit.) non era suscettibile di produrre effetti diretti nel nostro ordinamento giuridico, quindi rispetto al diritto vivente sopra descritto, se non altro perché non affermava (né avrebbe potuto affermare) la illegittimità in sé dell’art. 4, co. 9, della l. n. 223/1991: lo Stato avrebbe potuto adottare, in via di ottemperanza, per questa categoria di lavoratori una disciplina particolare ma pur sempre rispettosa degli obblighi dalla direttiva stessa stabiliti.
Il giudice ordinario, quindi, non avrebbe potuto sostituirsi al legislatore facendo discendere dalla (direttiva 98/59/CE tramite la) sentenza della Corte l’applicazione ai dirigenti dei co. 2-12 e 15-bis dell’art. 4 e dei co. 1-5, segnatamente del co. 3, stante il testuale collegamento che la norma instaura tra il proprio regime sanzionatorio e il recesso nei confronti dei lavoratori specificamente individuati dall’art. 4, co. 9.
Ho tuttavia rilevato, al tempo stesso, non potersi escludere che la sentenza favorisse il recupero, prima sul terreno del licenziamento collettivo e poi, eventualmente, anche su quello del licenziamento individuale, del minoritario orientamento dicotomico – dirigente alter ego e dirigente minore – seppure, come sopra s’è visto, ormai superato da una giurisprudenza consolidata.
Pur potendosi allora confidare, attesa la ragionevolezza e robustezza di questa giurisprudenza, sulla “tenuta” del diritto vivente, occorreva altresì confidare sulla resistenza, rispetto alla tentazione di detto recupero, anche da parte della Corte costituzionale ove investita della questione di costituzionalità in relazione all’art. 117 Cost. (ed eventualmente ancora in relazione all’art. 3 Cost.; questione di cui è già stata investita e di cui si è liberata giacché, in un giudizio promosso da un funzionario di banca, l’ordinanza di rimessione non aveva operato «la necessaria previa qualificazione dei destinatari di questa, anche alla stregua delle norme del contratto collettivo che regolano l’inquadramento nelle varie categorie dei lavoratori», C. cost., ord. 18.7.1997, n. 258).
Vero che una sentenza additiva (o anche interpretativa di rigetto) giocata sulla dicotomia dirigente alter ego/mini-dirigente non sarebbe peraltro valsa a sanare la lacuna lamentata dalla Corte di giustizia giacché né la motivazione né soprattutto la statuizione della sentenza offrono indicazioni nel senso di una disarticolazione della categoria dirigenziale.
Tuttavia, non si può disconoscere che l’invocazione dell’art. 117 Cost. (assai più che dell’art. 3 Cost.) avrebbe posto la Corte costituzionale dinnanzi ad una alternativa comunque imbarazzante: da un lato, sentenza di accoglimento cd. additiva, contenente l’inserimento dei dirigenti nell’eleco dell’art. 4, co. 9, l. n. 223/1991, con conseguente applicazione a tutti di una disciplina incongrua attesa la rigidità del suo specifico contenuto, specie dal profilo sanzionatorio; dal lato opposto, sentenza di rigetto non agevolmente argomentabile, anche se accompagnata dalla sollecitazione di un intervento legislativo, a fronte dell’interpretazione della direttiva 98/59/CE offerta dall’Organo ad essa deputato. Ciò, pur non essendo dichiarata, come già detto, l’illegittimità in sé della norma che esclude il licenziamento collettivo dei dirigenti dall’applicazione della disciplina della l. n. 223/1991 e non essendo imposta quindi l’inclusione tout court nel suo ambito di tale licenziamento.
In considerazione del descritto scenario di potenziali effetti indiretti della sentenza della Corte di giustizia, un intervento legislativo ad hoc (con riferimento “secco” alla categoria di cui all’art. 2095 c.c.) appariva opportuno anche indipendentemente dall’esigenza di scongiurare la collisione con l’ordinamento comunitario e le sanzioni pecuniarie dell’inottemperanza (per questi complessi profili cfr. Amalfitano, C., La procedura di “condanna” degli stati membri dell’Unione Europea, Milano, 2012).
Il legislatore avrebbe potuto preferibilmente adottare una disciplina speciale prevedendo obblighi procedimentali semplificati (sulla linea lungo cui in generale già si era collocato, sia pure confusamente e senza trovare riscontro in giurisprudenza, con il d.P.R. 10.6.2000, n. 218), rimettere al datore di lavoro l’indicazione dei criteri per la selezione dei dirigenti esuberanti (come la Direttiva consente), limitandosi ad imporgli la trasparenza delle scelte, stabilire sanzioni economiche per l’eventuale inadempimento.
Nell’ottobre dello scorso anno (art. 16 l. 30.10.2014 di adempimento comunitario) il legislatore, disponendo in via di ottemperanza alla sentenza della Corte di giustizia, ha scelto invece di operare, mediante modifiche all’art. 24 l. n. 223/1991 (integrando la previsione del co. 1 e aggiungendo un co. 1-quinquies), una parziale estensione ai «dirigenti» della disciplina contenuta negli artt. 4 e 5 della medesima legge. Deve quindi ritenersi implicito il riferimento alla unitaria categoria di cui all’art. 2095 c.c.
La previsione del co. 1 dell’art. 4 è integrata con l’inserimento dei dirigenti nel numero minimo di dipendenti dell’impresa (almeno 16) che condiziona l’applicazione della specifica disciplina del licenziamento collettivo. Analogo inserimento non è però operato con riguardo all’ulteriore condizione del numero minimo di licenziamenti (almeno cinque nell’arco di centoventi giorni). L’interprete è così costretto ad una operazione ermeneutica estensiva fondata sul criterio della ragionevolezza sistematica.
Sul piano procedurale è disposta l’estensione ai dirigenti dei co. 2-15-bis dell’art. 14 tranne i co. 10 (correlato al successivo co. 4 dell’art. 5, non esteso) e 13 (che presuppone il godimento dell’integrazione salarale) con l’aggiunta che «all’esame di cui all’art. 4, commi 5 e 7, relativo ai dirigenti eccedenti, si procede in appositi incontri). Non è però chiarito né se destinatari della «comunicazione preventiva» siano RSA ed associazioni di dirigenti né se gli «appositi incontri» siano ad esse riservate trovandosi così l’interprete ancora costretto ad una interpretazione a stregua di ragionevolezza.
Sul piano della scelta dei dirigenti da licenziare è estesa ai dirigenti la previsione del co. 1 dell’art. 5 relativa ai criteri. Siffatta meccanica estensione ritengo imponga all’interprete di attribuire una particolare rilevanza al criterio delle «esigenze tenico-produttive ed organizzative» alla stregua del sopra descritto orientamento giurisprudenziale formatosi con riguardo alla “giustificatezza” del licenziamento individuale.
Sul piano sanzionatorio infine è previsto esclusivamente un risarcimento indennitario «in misura compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alla natura e alla gravità della violazione», fatte salve eventuali diverse previsioni di contratto collettivo applicato al rapporto.
Il citato Accordo 2014 di rinnovo del CCNL dirigenti industria ha voluto precisare (quanto del resto sempre comunemente ritenuto, cioè) che l’art. 22 non si applica al licenziamento collettivo ma nulla ha previsto con riguardo ad esso. Pare allora di poter rilevare una disarmonia nella articolazione ed ammontare dell’indennità tra la disciplina contrattuale del licenziamento individuale (art. 22 CCNL) e collettivo (Accordo del 1995 prima menzionato) e la disciplina legale di quest’ultimo.
Artt. 2095, 2118 e 2119 c.c.; artt. 2, co.1 e 2, 9, 10, l. 15.7.1966, n. 604; art. 18, co. 1, l. 20.5.1970, n. 300; art. 6, d.l. 22.12.1981, n. 791 conv. dalla l. 26.2.1982, n. 54; art. 6, l. 29.12.1990, n. 407; art. 9, co. 4 e art. 24, co. 1 e 1-quinquies l. 23.7.1991, n. 223; art. 7, d.m. 28.4.2000, n. 158; artt. 2 e 4, co. 1, l. 28.6.2012, n. 92; art. 16, l. 30.10.2014, n. 161; d.lgs. 4.3.2015, n. 22.
Tosi, P., Il licenziamento collettivo del dirigente, in Giur. it. 2014, fasc. 5; Id., Il dirigente d’azienda, in Trattato di diritto del lavoro, Persiani, M.-Carinci, F., diretto da, IV, Padova, 2012, 446 ss.; Id., Il dirigente d’azienda. Tipologia e disciplina del rapporto, Milano, 1974; Pellacani, G., Il licenziamento del dirigente. Riflessioni sulla coerenza ordinamentale di un microsistema etero topico e prospettive di rimodulazione del paradigma protettivo, in Argomenti dir. lav., 2009, 994 ss.; Persiani, M., Il licenziamento del dirigente tra perdita di fiducia e inadempimento, in Studi in onore di Edoardo Ghera, 2008, t. II, 779 ss.; Zoppoli, A., Dirigenza, contratto di lavoro e organizzazione, Napoli, 2000.