Licenziamento disciplinare nel pubblico impiego
L’integrazione della disciplina legislativa del licenziamento disciplinare, con la accelerazione delle procedure in caso falsa attestazione della presenza in servizio, e l’inasprimento delle relative sanzioni, prosegue il percorso di progressiva divaricazione della disciplina dell’impiego pubblico rispetto a quella del lavoro privato. Il contributo dà conto delle logiche sottese a tale specifico intervento, collocandole sullo sfondo (problematico) di una più ampia vicenda che segna la rottura del progetto di convergenza delle tecniche di regolazione del lavoro pubblico con quelle del lavoro nella impresa privata, avviato all’inizio degli anni novanta del secolo scorso.
Il tema oggetto del presente contributo riguarda esclusivamente la (maggioritaria) frazione dell’impiego pubblico che è stata oggetto del cd. processo di “privatizzazione”, dal momento che la nozione stessa di licenziamento implica l’esistenza di un contratto di lavoro, e configura il recesso unilaterale dal rapporto costituito da tale contratto (con espulsione del lavoratore dall’unità produttiva), operato dal datore di lavoro con atto di natura negoziale, ai sensi degli artt. 2118 e 2119 c.c.
Diversamente, nella frazione di impiego pubblico tutt’ora retta dalla risalente disciplina pubblicistica tale nozione non ha cittadinanza, e l’equivalente del licenziamento disciplinare (la destituzione di cui all’art. 84, d.P.R. 10.1.1957, n. 3) si configura quale esercizio di un potere integralmente retto dalla disciplina pubblicistica, in cui si manifesta appieno la supremazia speciale della pubblica amministrazione.
Con riferimento ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il legislatore è nuovamente intervenuto, nel corso del 2016, ad integrare la disciplina legislativa del licenziamento disciplinare, già oggetto di corposa “rilegificazione” da parte del d.lgs. 27.10.2009, n. 1501. L’intervento – operato con il d.lgs. 20.6.2016, n. 116, sulla base della delega contenuta nell’art. 17, co. 1, lett. s) della l. 7.7.2015 n. 124 (l. delega in materia di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni, cd. “legge Madia”) – mira a rendere più celeri i tempi del procedimento disciplinare, e più certi gli esiti concreti. In particolare il Governo, nell’attuazione della delega, ha focalizzato l’attenzione sulla sola fattispecie della falsa attestazione della presenza in servizio, che già ai sensi della disciplina previgente costituiva uno dei casi individuati direttamente dal legislatore cui si applicava “comunque” la sanzione del licenziamento disciplinare (art. 55 quater, co. 1, lett. a del d.lgs. 30.3.2001, n. 165) senza preavviso (co. 3 del medesimo articolo). Di tale fattispecie è stata delineata una più ampia nozione, volta a ricomprendere «qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso», di cui risponde anche chi l’abbia agevolata (co. 1-bis, art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001, come introdotto dal d.lgs. n. 116/2016). La falsa attestazione (qualora accertata in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione delle presenze) determina ora l’immediata sospensione dal servizio (fatto salvo l’assegno alimentare), va disposta comunque entro quarantotto ore dalla conoscenza del fatto (co. 3-bis), ed attiva un procedimento destinato a concludersi entro 30 giorni (co. 3-ter). In assenza di un giustificato motivo, la mancata attivazione del procedimento disciplinare, nonché l’omessa sospensione cautelare, rendono passibili di licenziamento anche i dirigenti (ovvero i responsabili di servizio competenti, negli enti privi di qualifiche dirigenziali) che abbiano avuto conoscenza della falsa attestazione, e di tali omissioni è data notizia all’autorità giudiziaria, ai fini dell’accertamento di eventuali reati (co. 3-quinquies). Infine, la condotta fraudolenta de qua va denunciata al pubblico ministero entro 15 giorni dall’avvio del procedimento disciplinare, e segnalata entro il medesimo termine alla C. dei Conti che – qualora ne ricorrano i presupposti – dovrà procedere, entro tre mesi dalla conclusione del procedimento disciplinare, per danno all’immagine della p.a. (co. 3-quater; sospetta di incostituzionalità, per eccesso di delega2).
L’intervento in materia di licenziamento disciplinare, operato con il d.lgs. n. 116/2016, conferma e ribadisce una linea di politica del diritto – inaugurata con il d.lgs. n. 150/2009 – che muove in direzione opposta rispetto a quella inaugurata nel 19921993 (e poi consolidata con il d.lgs. 31.3.1998, n. 80, poi trasfuso nel d.lgs. 165/2001), che puntava alla convergenza delle tecniche di regolazione del lavoro pubblico rispetto a quelle del lavoro nella impresa privata, e dunque sulla centralità del contratto collettivo quale fonte di disciplina del rapporto di lavoro.
Proprio il “campo” della responsabilità disciplinare era uno di quelli maggiormente interessati da questo moto di convergenza. Si era trattato, infatti, di trasmodare un potere tipicamente pubblicistico (nelle forme e nei contenuti) in un potere tipico dei rapporti tra privati (quello connesso alla gestione dell’impresa e dei relativi addetti da parte del “datore di lavoro”)3, assoggettandolo alla medesima disciplina legislativa (le leggi sul lavoro, a cominciare dallo Statuto dei lavoratori), e rimettendone la concreta regolamentazione alle fonti contrattuali collettive. Operazione che, con specifico riferimento alla responsabilità disciplinare del pubblico dipendente, doveva fare i conti con la difficoltà di individuare il soggetto idoneo a farla valere, e con la impossibilità (assiologica) di rimettere integralmente la individuazione delle fattispecie disciplinari alla sola fonte bilaterale4. A tali difficoltà si era risposto, da una parte, con il forte investimento sulla figura del dirigente pubblico (art. 5, co. 2, d.lgs. n. 165/2001)5; dall’altra, mediante l’individuazione (di una parte almeno) dei doveri del dipendente pubblico ad opera di un atto pubblicistico (nella forma) ed unilaterale (nella fattura): il codice di comportamento6. Con il d.lgs. n. 150/2009 ha preso avvio il moto divergente: si è introdotta una nutrita e dettagliata disciplina della responsabilità disciplinare del dipendente pubblico (sia sotto il profilo procedimentale che organizzativo), cui si è conferito il carattere imperativo (così erodendo gli spazi rimessi alla contrattazione collettiva). Nello stesso senso si è mossa la modifica operata dalla l. 6.11.2012, n. 190, che ha reso i codici di comportamento fonte diretta di responsabilità disciplinare (eliminando la previa, necessaria intermediazione della contrattazione collettiva).
Anche il d.lgs. n. 116/2016 si muove nella stessa logica divergente, allo scopo di offrire un rimedio differenziale (e quindi, speciale) all’assenteismo, individuato quale emergenza specifica dell’impiego pubblico7, rimedio fondato sul binomio rapidità (di intervento) e certezza (delle conseguenze disciplinari). Il contingentamento dei tempi (48 ore per procedere alla sospensione cautelare e contestare l’illecito; 30 giorni per chiudere il procedimento) è presidiato dalla comminazione di autonome fattispecie di illecito disciplinare a chi si renda colpevole del loro “sforamento”, senza che ciò determini anche la decadenza del procedimento stesso o l’invalidità della sanzione (di cui, invece, si gioverebbe l’incolpato), con il rischio – pertanto – di una significativa “compressione” del diritto di difesa8. La certezza, invece, si collega (oltre che alla sospensione cautelare, contestuale alla contestazione del fatto) all’automatismo della conseguente sanzione, che il legislatore individua “comunque” nel licenziamento senza preavviso. Un approccio che, tuttavia, risulta stemperato dal principio costituzionale che invece esclude qualsiasi automatismo nell’irrogazione delle sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella sanzione espulsiva, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato, anche con riferimento alle fattispecie di cui all’art. 55 quater9.
Come noto, la costruzione del dirigente come centro di esercizio dei “poteri del privato datore di lavoro” si è fondata sul binomio autonomia (nella gestione dell’ufficio e dei suoi addetti) e responsabilità dei risultati conseguiti (tra cui, l’efficienza nell’uso delle risorse, a cominciare da quelle lavorative). Un binomio che comporta il riconoscimento di un (discreto) margine di discrezionalità nell’uso dei poteri di gestione del rapporto di lavoro, compreso quello disciplinare. Tuttavia, i margini di manovra riconosciuti al dirigente pubblico appaiono in partenza meno ampi di quelli del datore di lavoro privato, in ragione dello statuto costituzionale conferito «all’interesse all’efficienza dell’organizzazione amministrativa»10, e finiscono per essere ridotti anche sul piano positivo dalla più recente configurazione dell’esercizio dell’azione disciplinare alla stregua di un dovere (piuttosto che una facoltà), a sua volta assistito da sanzioni di carattere disciplinare (cfr. art. 55 sexies, co. 3, d.lgs. n. 165/2001). Nel d.lgs. n. 116/2016 tale approccio si spinge al punto di mettere il dirigente “omissivo” o “inerte” sul medesimo piano dell’autore della falsa attestazione, e dunque meritevole della medesima sanzione (quella del licenziamento: cfr. art. 55 quater, co. 3-quinquies). Già il Consiglio di Stato aveva giudicato inopportuna tale equiparazione, sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità11. V’è da chiedersi, in aggiunta, quale idea emerga del dirigente pubblico, riguardato alla stregua di un potenziale “complice” dei fenomeni di assenteismo, e – quindi – egualmente colpevole. Per altro, è la medesima disciplina ad “avvicinare” eccessivamente il dirigente all’incolpato, dal momento che elimina la distinzione (fatta propria nel procedimento ordinario disciplinato dall’art. 55 bis) tra acquisizione e contestazione del fatto (articolate tra dirigente e Ufficio per la disciplina), che risultano invece concentrate (unitamente alla comminazione della sospensione cautelare) in capo al dirigente.
L’integrazione della normativa sul licenziamento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato giunge a valle di anni intensi sul (connesso) fronte della tutela a fronte dei licenziamenti illegittimi.
Visti in questa prospettiva, i caratteri “speciali” del licenziamento disciplinare pubblico rappresentano solo uno dei due movimenti che segnano la progressiva divergenza che va separando il lavoro pubblico da quello privato. Come noto, all’indomani del varo (prima) della riforma “Fornero” in materia di licenziamenti individuali (l. 28.6.2012. n. 92) e (dopo) del cd. “Jobs Act” (d.lgs. 4.4.2015, n. 23) si è sviluppato un acceso confronto in dottrina circa l’applicabilità o meno di tali discipline (che hanno dapprima limitato, quindi sostanzialmente espunto la tutela reale a fronte del licenziamento individuale illegittimo o ingiustificato) al settore pubblico12. La giurisprudenza – pur con qualche iniziale incertezza13 – pare aver chiarito che la legge Fornero non trova applicazione ai dipendenti pubblici, sulla base di una lettura che ha accolto la tesi della “doppia vigenza” dell’art. 18 st. lav. (il cui testo premodifica si applica ai dipendenti pubblici, mentre quello modificato dalla l. n. 92/2012 si applica ai dipendenti privati)14; e – pur nel silenzio del legislatore – ad analoga conclusione conducono plurimi e concordanti elementi (testuali e sistematici), con riferimento al Jobs act15. Ma al di là del dato testuale, occorre riflettere sulla (anch’essa, divergente) direzione assunta dalla legislazione sul lavoro, che ha progressivamente marginalizzato la tutela reale, così alterando profondamente i caratteri che avevano reso possibile progettare la convergenza tra lavoro pubblico e lavoro privato. Infatti, tra gli immanenti «limiti invalicabili dello statuto costituzionale del dipendente pubblico»16, trova posto anche la reintegrazione17, ciò che rende l’attuale configurazione positiva della tutela a fronte del licenziamento individuale (tutta centrata, invece, sulla tutela indennitaria) inappropriata all’ambiente del impiego pubblico.
Note
1 Ex multis, cfr. Carinci, F., Filosofia e tecnica di una riforma, in Riv. giur. lav., 4, 2010, 451 ss.
2 Cons. St., par., 5.4.2016, n. 864, § 4.4.
3 Pioggia, A., Giudice e funzione amministrativa. Giudice ordinario e potere privato dell’amministrazione datore di lavoro, Milano, 2004.
4 Mattarella, B.G., I codici di comportamento, in Riv. giur. lav., 1996, 1, 275 ss.
5 Bellavista, A., La figura del datore di lavoro pubblico, in Giorn, dir. lav. rel. ind., 2010. 1 ss.
6 Carloni, E., Ruolo e natura dei c.d. “codici etici” delle amministrazioni pubbliche, in Dir. pubbl., 2002, 1, 319 ss.
7 Va segnalato che la focalizzazione del Governo sulla falsa attestazione della presenza in servizio costituisce anche la risposta ad alcuni gravi casi di assenteismo documentati da indagini della magistratura, che hanno trovato ampio risalto nei media e nell’opinione pubblica, nei mesi immediatamente precedenti al varo del d.lgs. n. 116/2016.
8 Infatti, la violazione del termine di 15 giorni di preavviso per il contraddittorio determina l’invalidità della sanzione irrogata solo se risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa.
9 Cfr. Cass., sez. lav., 26.1.2016, n. 1351 e Cass., 25.8.2016, n. 17335.
10 Alessi, C., Il potere disciplinare nel pubblico impiego riformato, in Riv. giur. lav., 1994, I, 493 ss.
11 Cons. St., par., 16.3.2016, n. 864, § 4.5.
12 Per una sintesi dei termini del dibattito, si v. Giubboni, S.Colavita, A., La nuova disciplina dei licenziamenti e i rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.it – 304/2016.
13 Cass., sez. lav., 26.11.2015, n. 24157
14 Cass., sez. lav., 9.6.2016, n. 11868.
15 Giubboni, S.Colavita, A., La nuova disciplina dei licenziamenti e i rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, cit., 10 ss.
16 Zoppoli, L., Legge, contratto collettivo e autonomia individuale: linee per una riflessione sistematica vent‘anni dopo la privatizzazione, in Lav. pubbl. amm., 2013, 5, 713 ss.
17 C. cost., 24.10.2008, n. 351.