LICOFRONE il tragico
Tragico ed erudito greco dell'eta alessandrina (un retore omonimo fu di poco anteriore), ci ha lasciato nell'Alessandra il capolavoro dei vizî letterarî del suo e della poesia astrusa d'ogni tempo, ma insieme un prezioso testo mitogeografico sull'Italia antica e il primo documento della riconosciuta egemonia occidentale romana - anteriore alla letteratura latina e alle stesse guerre puniche -, anzi il primo encomio di Roma. Nato sul cadere del sec. IV, a Calcide, L. dové risiedere a lungo nella Magna Grecia, a Reggio, patria dello storiografo Lico: Lico stesso vien detto padre o padre adottivo di L., filiazione, se non altro, letteraria; ma padre è detto anche Socle, nome di un poeta galante che s'incontra poi con Asclepiade in Samo.
Dal terzo decennio del sec. III possiamo datare la dimora di L. nel Museo di Alessandria, dov'ebbe ospitalità e incarico accademico dal favore del secondo Tolomeo e di Arsinoe Filadelfo; fu anzi, con Callimaco, vero poeta aulico. All'ordinamento della biblioteca alessandrina collaborò raccogliendo, catalogando, studiando (emendando?) l'anteriore produzione comica. Forse avanti la sua chiamata ad Alessandria L. fu intimo di Menedemo, morto poco dopo il 278. Probabilmente L. trascorse l'ultima parte della vita (prima metà del sec. III) in Occidente e ivi s'interessò ai miti ispiratori dell'Alessandra e al sorgere del nuovo astro di Roma. Un accenno callimacheo nell'Ibis di Ovidio (v. 531 seg.) fa finire L. di morte violenta, ma è motivo tradizionale nella biografia dei poeti "coturnati".
Opere. - In un dramma satiresco, intitolato a Menedemo e certo d'intento laudativo ma non senza sali aristofaneschi, mescolò alla realtà di un intellettuale banchetto notturno, nella casa del Socrate eretriese, il mito di Sileno; ne restano pochi versi. Frutto dei suoi studî nella biblioteca di Alessandria l'opera, in almeno una decina di libri, Περὶ κωμῳδίας che sappiamo letta e discussa gran tempo dopo. Ma L., quantunque critico ufficiale del teatro comico, coltivò prevalentemente la tragedia. Il numero dei suoi drammi era incerto più tardi (64 oppure 46) ai commentatori dell'Alessandra. L'unico frammento citato (4 versi), dai Pelopidi, è d'imitazione euripidea. Suida ci dà un elenco alfabetico di venti tragedie: sedici almeno di contenuto mitologico, e dai titoli traspare evidente la predilezione per Euripide e per i miti meno noti. Se i tardi posteri così poco leggevano i drammi licofronei, come tutta la produzione tragica alessandrina, da essere incerti del numero loro, i contemporanei avevano annoverato L. fra i sette della pleiade tragica, fiorita intorno al 285-80: e fu questo probabilmente il titolo per la sua chiamata alla corte egizia.
L'Alessandra ('Αλεξάνδρα). - Già nota ad Aristofane di Bisanzio (seconda mietà del sec. III), consta di 1474 impeccabili trimetri giambici. Tragedia o scena di tragedia per gli uni, poemetto epico, nomo lirico, gíambo o addirittura silloge cresmologica o manuale mitografico per gli altri; opera giovanile o della tarda vecchiaia; del nostro o di un altro L., e così via. L'incidentale deplorazione del proditorio assassinio di Eracle, figlio di Alessandro Magno, nei vv. 801-4, ci prova soltanto che il poemetto è posteriore al 309 e forse fu scritto lontano dal teatro di quelle vicende. Alla lettura esso si presenta come un lungo monologo scritto per un declamatore (il "nunzio" della tragedia classica) il quale, in veste di servo e custode della vergine Cassandra, incarcerata sulla vetta del monte Ate, riferisce a Priamo, salpato Paride, i deliranti presagi della profetessa e li chiude con un vano augurio per il regno troiano.
Tolta la cornice, si tratta dunque di un vaticinio (vv. 32-1460) nello stile enigmatico della Sibilla cumana (1279, 1464) e secondo la moda alessandrina, vaga del prezioso, del difficile: mescolanza di dialetti, arcaismi, glosse uniche o rare (metà dei vocaboli!), epiteti ed etnici inauditi, perifrasi, rompicapi, tropica strana, promiscuità di passato, presente e futuro. Il poeta si guarda bene dal designare numi, eroi, luoghi con i nomi loro comuni, a cominciare dalla protagonista; dei miti preferisce le versioni meno note; contemporaneo (forse corregionale) di Evemero, le più romanzesche. La materia, in un disordine piuttosto apparente - per deliberato artificio - che reale, abbraccia tutti i miti omerici e postomerici. A un terzo del poemetto cominciano le notizie mitiche sul mondo occidentale, e acquistano una preponderanza crescente; nei versi 1126 e seguenti Cassandra predice l'imperituro culto e il tempio che a lei stessa consacreranno i Dauni del Gargano. Dunque il pretesto, se non il motivo, può essere venuto al poemetto da qualche festa italiota, forse cumana, in onore di Cassandra; ad ogni modo è certo che, accennando a usanze, riti, luoghi d'Italia e di Sicilia, L. lo fa con precisa ampiezza.
Il poema culmina in due profezie: delle quali la seconda (v. 1435 segg.) altrettanto oscura (sembra vi si accenni ad Alessandro Magno e con lui, sei generazioni dopo Salamina, all'invitto popolo romano, i quali porranno un termine alle guerre funeste) quanto il carmen Cumaeum di Virgilio (Buc., IV); la prima troppo chiara per non tradire l'intenzione preconcetta dello scrittore: versi 1126-80. Ivi si celebrano l'egemonia di Roma come discendente di Troia, Romolo e Remo, Enea in Etruria e nel Lazio, Tarconte e Tirreno, la terra degli Aborigeni, il portento delle mense divorate e della troia sus e ancora il pio Enea (1270). Lo squarcio conclude con gli esatti confini dell'Italia soggetta o confederata a Roma, sugl'inizî del terzo secolo, e con l'antro cumano. Ora, non basta citare come fonte remota, meglio che il ciclo epico, Stesicoro e Ibico reggino o, come fonti prossime, Lico e Timeo. Gl'italismi, il predominio dei miti italioti, il tono e il luogo del presagio, tutto induce a vedervi - anziché un'interpolazione - il fulcro stesso dell'opera. Tanto meno sembra che si possano seguire coloro (S. Sudhaus, F. Skutsch, K. Ziegler) che, pur riconoscendo l'Alessandra per un encomio di Roma, com'essa è, sdoppiano, invece del poema, il poeta addirittura e favoleggiano di un secondo immaginario L. calcidese, contemporaneo di T. Quinzio Flaminino e di Cinoscefale, nel 197. Secondo altri, l'Alessandra s'inquadra benissimo - e assurge pertanto a documenro del giudizio che i Greci tutti e non gl'Italioti soltanto davano già allora di Roma - nella prima metà del seeolo III, dopo Sentino (295), quando due potenze occidentali si delineavano nettamente all'orizzonte mediterraneo: quella greco-italica di Roma (città "ellenica" per i contemporanei di Aristotele) e quella barbara di Cartagine. I voti di L. non potevano essere che per la prima, in accordo con la stessa politica tolemaica, tendente a bilanciare il predominio macedone col romano. Se si aggiunga che il carmen Cumaeum del calcidese L. poté nascere in Italia quando Roma, padrona d'una flotta, padrona o quasi della Magna Grecia, apriva le porte alla civiltà ellenica e anzitutto ai suoi araldi calcidesi della Campania, allora si dovrà ammettere che l'espressione "scettro e supremazia di terra e di mare" (v. 1229), suonava non ingiustificata nella Magna Grecia, se non proprio come un vaticinio post eventum. Tanto più volentieri gli eruditi, sotto l'influsso di Callimaco, emulo d'Euforione concittadino e seguace di L., studiarono e tramandarono l'Alessandra modello di alessandrinismo. Al dotto Teone l'alessandrinista del tempo di Tiberio, e ai suoi commentarî (ὑπομνήματα) risalirà forse il meglio degli scolî; citazioni, edizioni, parafrasi non mancarono al nostro in nessuno dei secoli posteriori, fino alla completa esegesi bizantina dei due Tzetze o piuttosto di Giovanni Tzetze.
Ediz.: Ed. principe dell'Alessandra un'aldina del 1513 (con Pindaro, Callimaco e Dionisio Periegeta). Ediz. moderne di G. Kinkel, Lipsia 1880; di E. Scheer, Berlino 1881, 1908; di C. v. Holzinger, Lipsia 1895; di Mair (con Callimaco) Londra 1921; in Ciaceri, La Al. di L., con testo e commento, Catania 1901. I fr. dei drammi nei Tragic. Graec. Fragm. di A. Nauck, 2ª ed., p. 817-8; la loro trad. poetica in M. Untersteiner, I frammenti dei tragici greci, Milano 1925, p. 261.
Bibl.: Delle opere storico-esegetiche v. A. Bouché-Leclerq, Hist. des Lagides, I, Parigi 1903 segg., pp. 224-231; Fr. Susemihl, Gesch. a. gr. Litt. in der Alexandrinerzeit, Lipsia 1891, I, p. 272 segg.; U. von Wilamowitz, Antigonos von Karystos, in Philol. Unters., IV, Berlino 1881, e De Lycophr. Alex., Greifswald 1884 (che nella questione si è affermato sempre più conservatore: Griech. Lit., Berlino 1905, p. 131 seg., e spec. Hellenist. Dicht. in der Z. des Kallimachos, II, Berlino 1924, p. 143 segg.); J. Geffcken, Timaios Geographie des Westens, in Philol. Unters., XIII (1882), e altrove; C. Cessi, De Lycophr. ecc., in Atti e mem. della R. Accad. di scienze, ecc., Padova, XXII (1906), p. 161 segg.; S. Sudhaus, Die Abfassungsz. der Al., in Rhein. Mus., LXIII (1908), p. 481 segg.; F. Skutsch, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VI, col. 1184 segg. (fa dell'imitatore la fonte); Corssen, Ist die Al. dem Trag. L. abzusprechen?, in Rhein. Mus., LXVIII (1913), p. 321 segg.; Griset, Lic. e Tolomeo, Pinerolo 1927; infine K. Ziegler, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIII, coll. 2316-81.