lieto
L'aggettivo ha un notevole numero di occorrenze, in grande maggioranza nella Commedia (42 su 51; e si noti che solo sette appartengono all'Inferno). Nel suo uso proprio il termine è generalmente riferito a persone e ha il senso oggi vulgato, variando dal valore di " felice ", " beato ", " contento ", in senso spirituale, a quello più materiale di " soddisfatto ", " compiaciuto ".
La letizia nella maggior parte dei casi si esprime soprattutto nel volto, negli occhi, o con cenni e gesti. Si veda ad esempio Rime LXVII 48 L'imagine di questa donna... / vie più lieta par che rida. In Paradiso Beatrice, gli angeli e i beati non solo sono l. per la gioia della loro condizione, ma anche godono di mostrarsi tali a D., rallegrandolo con la loro gioia. Questa letizia si manifesta di volta in volta in lampeggiare di sorrisi, in parole affettuose, ma soprattutto in una luce fulgida che è sensibile testimonianza della loro ineffabile felicità.
Beatrice rideva tanto lieta, / che Dio parea nel suo volto gioire (Pd XXVII 104); ella è sì lieta come bella (II 28; cfr. V 94). L'angelo del Purgatorio appare lieto ai pellegrini che debbono vincere l'ostacolo del fuoco (Pg XXVII 6); Piccarda Donati, afferma Forese, trïonfa lieta / ne l'alto Olimpo (Pg XXIV 14: " già della sua vittoria che ebbe contra al mondo trionfa nel cielo ", Ottimo); la letizia della sorella è vista da Forese non certo con invidia, ma con la gioia di chi ama ed è contento della felicità capitata ad altri, e destinata anche a sé. L'anima di D. piena di stupore e lieta / ... gustava di quel cibo / che, saziando di sé, di sé asseta (Pg XXXI 127): " vera e bella ragione è nel primo verso, della maraviglia congiunta colla letizia: che que' due affetti porta il gaudio di bellezza sopra natura " (Cesari). Altri casi in cui l'aggettivo è usato in questo senso: Pd XIX 3 (la bella image che... / liete facevan l'anime conserte), XXII 132 (la turba trïunfante / che lieta vien per questo etera tondo), XXIV 10 (quelle anime liete / si fero spere); ma indubbiamente uno degli usi più poetici è in Pd III 68: Piccarda pria sorrise un poco; / da indi mi rispuose tanto lieta, / ch'arder parea d'amor nel primo foco, " non sicut mundana mulier, quae naturaliter invidet pulchritudini alterius, et alterius ornamenta meliora et cariora appetit " (Benvenuto).
L'aggettivo si può riferire a cose oltre che a persone, ma sempre ai volti, agli occhi, alla voce, alle ‛ sembianze ' di persone l., ai loro atteggiamenti, ai cenni, ai sorrisi che rendono evidente l'interna letizia dell'anima: così in If III 20 (la sua mano a la mia puose / con lieto volto, ond'io mi confortai), IV 84 (sembianz'avean né trista né lieta; per le diverse interpretazioni della dittologia v. F. MAZZONI, Il c. IV dell'Inferno, in " Studi d. " XLII [1965] 130-136), Pg XIX 86 (lieto cenno), XXVII 136 (Mentre che vegnan lieti li occhi belli), Pd XI 76 (lieti sembianti), XV 67 la voce tua sicura, balda e lieta / suoni la volontà, suoni il disio: " sicura, dice libertà da timore; balda, la maggiore franchezza nel fare il bene; lieta aggiunge di più " (Tommaseo; ciò che aggiunge è evidentemente l'idea della gioia, che la voce deve avere, della sua sicurezza e baldanza).
Naturalmente l'idea della ‛ visibile ' letizia può essere secondaria o mancare del tutto e l'aggettivo può avere valore più generico, indicando semplicemente la gioia, anche solo interiore, di una persona (Vn XXII 5, Cv I IV 5, VIII 8, Pg V 46, Pd X 24, XVI 142) o la condizione spirituale di una facoltà dell'uomo: Vn XXIV 2 me parea avere lo cuore sì lieto..., e Rime CVI 34, in cui la virtù lieta va e soggiorna nell'anima dell'uomo; questo interessante passo sembra trovare una spiegazione in Cv I VIII 7, dove D. afferma che la vertù dee essere lieta, e non trista in alcuna sua operazione.
In quest'ultimo luogo, e forse già in qualche altro citato, si può osservare il passaggio dal valore di " felice ", " beato ", a quello di " benevolo ", " affettuoso ", " cortese ", " affabile ". Ad esempio in Pg VII 1 l'accoglienze oneste e liete sono " cortesi e affettuose ", benevole, " non lascivae vel vanae " (Benvenuto). Similmente l'angel benedetto parla con lieta voce (Pg XV 35) non solo perché " quanto più procede nella purgazione l'anima nostra, tanto più letizia gli mostra " (Landino), ma perché l'apostrofe è " piena di cortesia e di affetto ", per incoraggiare D. e Virgilio a entrare nello scaleo della terza cornice; così pure la vergine lieta di Pd XXV 104 surge e va ed entra in ballo: l'idea che predomina non è quella della letizia della vergine ma quella del suo affetto e cortesia verso la novizia, la sposa che ella vuole onorare. Per il testo cfr. Petrocchi, ad locum.
In Pg XXIII 74 si passa da quest'ultimo valore a quello di " ben disposto ", corrispondente non più a laetus ma a libens: Cristo lieto andò a dire ‛ Elì ', " volentieri " andò a morire in croce, " con serena rassegnazione ", per la salvezza dell'umanità, " conforme a quelle sue dolcissime e ardentissime parole: ‛ Baptismo habeo baptizari, et quomodo coarctor usque dum perficiatur '... non ostante il ‛ tristis est anima mea, ecc. ' " (Venturi).
In alcuni luoghi l'aggettivo ha valore causativo: " che è causa di letizia ", " fonte di gioia ", come si può riscontrare in If XIII 69 che' lieti onor tornaro in tristi lutti, gli onori che " avevano reso lieto " Pier della Vigna si rivelarono poi fonte di lutto e di sventura (per il concetto, cfr. If XXVI 136 Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto). Analogo uso in Pd I 126, dove l'istinto naturale è chiamato quella corda / che ciò che scocca drizza in segno lieto, ossia quell'arco che volge la freccia sempre verso la giusta meta, la quale meta " è causa di letizia " per chi l'ha raggiunta. Infine si veda Cv I VIII 7, dove si afferma che se 'l dono non è lieto nel dare e nel ricevere, non è in esso perfetta vertù, cioè " se il dono non provoca letizia sia in chi dà che in chi riceve, non vi è perfetta e pronta liberalità " (Cordati). Cfr. anche al § 8.
In senso teologico, con valore molto pregnante, riferito a Dio a o ad altra divinità, l. può significare " che è lieto per sua natura ", " che non può essere se non lieto ", e indica perciò la perfetta felicità di Dio (il lieto fattore di Pg XVI 89), della sua natura (Pd II 142), del suo aspetto (XXXII 64), della Fortuna, sua ministra, creatura che lieta / volve sua spera e beata si gode (If VII 95), di Apollo, la lieta / delfica deïtà che vive in un'olimpica ed eterna felicità ignota agli uomini (Pd I 31).
Valore più materiale e meno pregnante ha l'aggettivo quando equivale a " soddisfatto ", " compiaciuto ", " contento " di qualcosa, come in Pg XXV 70 (il motor primo... si volge lieto / sovra tant'arte di natura, " vagheggiando con letizia questa mirabile opera della natura ", Grabher). Costruzione grammaticale diversa, ma stesso significato, in Pg XX 94, dove a ‛ l. sovra ' qualcosa corrisponde ‛ l. a ' qualcosa: quando sarò io lieto / a veder la vendetta...?, " quando sarò soddisfatto ", " quando sarà appagato il mio desiderio " di assistere alla vendetta divina?
Meno comune l'uso che compare solo in If XIV 97: la montagna... lieta / d'acqua e di fronda è il monte Ida, " ricco ", " abbondante ", " fertile " di vegetazione e di sorgenti: " adorna e piena d'albori e di fontane: ora è non coltivata e disabitata e guasta " (Anonimo).
Tre volte l'aggettivo è unito a vita, viver (infinito sostantivato per " vita ", " condizione "); si noti che in If XIX 102 la vita lieta è la vita mortale (chi parla è un dannato, che rimpiange la felicità terrena); in Pd XXVII 43 esto viver lieto è, in bocca a s. Pietro, appunto la vita celeste, l'unica vera vita " beata "; in Pd XVI 138 invece il viver lieto è la " pacifica condizione politica " di Firenze, prima che la casa dei Buondelmonti desse origine alle lotte e alle discordie cittadine.
L'espressione ‛ far l. ' vale naturalmente " rallegrare ", " rendere lieto ", " allietare ", o anche " confortare ", " consolare "; si veda If XXVI 96, Pg III 142, Pd VIII 91 (mi hai reso l. in quanto mi hai soddisfatto) e Pg VI 136. Similmente ‛ farsi l. ' equivale a " rallegrarsi "; Guido del Duca dice di essere stato così invidioso che se avesse veduto uom farsi lieto, / visto m'avresti di livore sparso (Pg XIV 83); Sapia aveva confessato la sua invidia con parole non molto diverse: fui de li altrui danni / più lieta assai che di ventura mia (XIII 111), " mi rallegrai " più per le sventure altrui che per la mia buona ventura.
Infine l'aggettivo compare una sola volta, nell'espressione ‛ andar l. ', in Fiore XCII 9 Mastro Sighier non andò guari lieto, che va probabilmente interpretata come " non riuscì a cavarsela ".