Limiti della vita in condizioni estreme
La vita può esistere in condizioni che fino a pochi anni fa sembravano proibitive. Un quinto delle terre emerse del pianeta è deserto, un decimo è coperto da tundra e deserto polare, più del 60% si trova a temperature sotto lo zero, il 75% è costituito da oceani, con le acque profonde permanentemente a temperature intorno o inferiori ai 4 °C; inoltre, sulla Terra vi sono circa 1000 vulcani. Ma la vita è ovunque: dalla cima delle montagne alle sorgenti termali nelle profondità oceaniche, tra i ghiacci dell’Antartide, sulle nude rocce dei deserti, chilometri sotto la superficie della terra, nei suoli costantemente congelati, sono sempre presenti microrganismi che vivono e si riproducono.
Organismi microscopici, di solito unicellulari, prosperano in ambienti o microambienti che per l’uomo risultano assolutamente impossibili. Questi ambienti sono definiti estremi. Spesso si dice che sono considerati estremi solo dal punto di vista umano, mentre per quegli organismi che a tali habitat si sono adattati risultano essere assolutamente normali. Ciò è solo parzialmente vero, in quanto questi ambienti sono caratterizzati da una o più condizioni stressanti vicine ai limiti della vita, e possono essere colonizzati solo da un esiguo numero di specie appartenenti a un ridotto numero di gruppi tassonomici; possono quindi essere considerati oggettivamente estremi per la vita.
Gli organismi che vivono solamente in condizioni estreme sono definiti estremofili; gli organismi che vivono preferibilmente in condizioni ambientali di normalità, ma resistono alle condizioni estreme, devono essere considerati estremotolleranti.
Gli stress che caratterizzano gli ambienti estremi sono di tipo fisico-chimico e includono le alte e basse temperature, le radiazioni, l’elevata salinità, acidità o alcalinità, le alte pressioni. In effetti, nonostante l’esistenza degli organismi estremofili, i limiti fisico-chimici all’interno dei quali è possibile la vita che noi conosciamo sono piuttosto stretti se confrontati con le condizioni che esistono nell’universo. La principale ragione è la necessità di acqua liquida, indispensabile alla vita: in condizioni di pressione normale l’acqua è liquida fra 0 e 100 °C. Indispensabile è la stabilità dei legami chimici nelle molecole biologiche, soprattutto per quanto riguarda la chimica del carbonio in acqua, su cui si basa la vita sulla Terra. I legami chimici covalenti devono essere abbastanza stabili da consentire la formazione di macromolecole, mentre i legami non covalenti (legami ionici e idrogeno, forze di van der Waals) devono essere abbastanza labili da permettere le interazioni tra molecole, come, per es., le interazioni enzima-substrato.
Nonostante queste limitazioni, esistono microrganismi in grado di crescere ad alte (termofili e termotolleranti) e basse temperature (psicrofili e psicrotolleranti), in presenza di elevate radiazioni (radiotolleranti) e in condizioni di elevata salinità (alofili e alotolleranti), elevata acidità (acidofili e acidotolleranti), elevata alcalinità (alcalofili e alcalotolleranti), alta pressione (barofili e barotolleranti) alta aridità (xerofili e xerotolleranti).
I microrganismi estremofili ed estremotolleranti a oggi noti sono soprattutto procarioti, cioè organismi che hanno cellule prive di nucleo e di organuli cellulari. Molti sono archeobatteri, procarioti con caratteristiche (tra cui parete e membrana cellulare di differente composizione) e origini diverse da quelle degli eubatteri, anch’essi in numerosi casi adattati agli stress ambientali. Pure i cianobatteri, procarioti che effettuano fotosintesi ossigenica, possono presentare caratteristiche di estremofilia.
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le prove che anche gli eucarioti, che hanno cellule dotate di nuclei e organuli, soprattutto alghe, protozoi e funghi, possono avere caratteristiche di estremofilia non minori di quelle dei procarioti (Amaral Zettler, Gómez, Zettler et al. 2002).
Resistenza alle alte temperature
Molti organismi possono resistere a temperature ben al di sopra dei 100 °C, in stato di vita latente, meglio se in forma essiccata. Nel 1969 il microbiologo Thomas Brock ha isolato, da una sorgente termale (Mushroom Spring) nello Yellowstone National Park (Stati Uniti), un batterio da lui nominato Thermus aquaticus, in grado di crescere intorno ai 100 °C, dimostrando l’esistenza di organismi ipertermofili. Per inciso, da questo batterio è stata ottenuta la Taq polimerasi, enzima in grado di sintetizzare acidi nucleici ad alta temperatura, che ha aperto l’era dell’amplificazione e del sequenziamento del DNA (DeoxyriboNucleic Acid). La più alta temperatura conosciuta alla quale una cellula è metabolicamente attiva e si moltiplica è di 121 °C; a questa temperatura un archeobatterio isolato da una sorgente idrotermale a 300 °C nel Pacifico nordorientale, chiamato ceppo 121, cresce e raddoppia il numero di cellule in 24 ore. Questo microrganismo può crescere ancora a 130 °C (Kashefi, Lovley 2003). È interessante notare che la procedura di sterilizzazione in autoclave, che dovrebbe uccidere tutti i microrganismi, prevede il trattamento per 15 min a 121 °C. Fino a 113 °C cresce Pyrolobus fumarii, un altro archeobatterio isolato da sorgenti idrotermali nelle profondità oceaniche, che ha una temperatura ottimale di crescita a 106 °C. Il record precedente di 110 °C è appartenuto per molti anni, dal 1982, all’archeobatterio Pyrodictium occultum, isolato in acque basse nell’isola di Vulcano in Italia. Vi sono altri archeobatteri termofili dei generi Pyrococcus, Thermococcus, Thermoplasma, Sulfolobus e tra i metanogeni. Gli enzimi prodotti da questi eccezionali microrganismi possono essere molto più termofili delle cellule che li producono: per es., un enzima amilolitico (ossia che scinde l’amido) di un archeobatterio ha un optimum di attività a 142 °C.
Gli organismi termofili sono tradizionalmente divisi in tre gruppi distinti: moderatamente termofili, con optimum di crescita tra 50 e 60 °C, termofili, con optimum sopra i 70 °C, e ipertermofili, con optimum sopra gli 80 °C. Tra gli ipertermofili molti sono archeobatteri. I batteri (eubatteri) sono relativamente meno adattati alle alte temperature, essendo 95 °C la massima temperatura di crescita nota per questi procarioti; ci sono batteri termofili dei generi Bacillus, Clostridium, Thiobacillus e Thermus e tra i batteri fototrofici (come cianobatteri, batteri porpora o verdi).
La massima temperatura nota per gli eucarioti (organismi con cellule dotate di nucleo) è 60 °C, massima temperatura di crescita di alcuni funghi, alghe e protozoi. Per es., l’alga acidofila (considerata un’alga rossa) eucariotica Cyanidium caldarium ha un optimum di crescita a 45 °C e un massimo a 57 °C. Tra gli animali è degno di nota il verme polichete Alvinella pompeiana che vive in vicinanza di sorgenti idrotermali in acque oceaniche profonde con temperature medie di 68 °C e picchi di 81 °C. I muschi possono crescere fino a 50 °C, la piante vascolari fino a 48 °C, i pesci fino a 40 °C (Rothschild, Mancinelli 2001).
A pressione normale l’acqua bolle e non esiste allo stato liquido sopra i 100 °C. È evidente che vita attiva a temperature superiori è possibile solo ad alta pressione. Nelle profondità oceaniche l’acqua si mantiene liquida anche a 400 °C, ma il limite di 121 °C non sembra facilmente superabile, malgrado le numerose ricerche effettuate ad alta profondità lungo le dorsali medio-oceaniche. È possibile che le condizioni dei legami chimici a temperature troppo alte siano incompatibili con la stabilità delle molecole biologiche.
Gli organismi termofili devono affrontare una serie di problemi legati alle alte temperature. La solubilità dell’ossigeno decresce con la temperatura e per tale ragione gli ipertermofili sono generalmente anaerobi. Le membrane cellulari aumentano la fluidità e la loro composizione deve essere aggiustata ampliando la percentuale degli acidi grassi saturi. Anche le proteine intensificano la stabilità aumentando le coppie ioniche. La stabilità del DNA è incrementata con la presenza di sali monovalenti e bivalenti.
Resistenza alle basse temperature
Gli ambienti a bassa temperatura sono molto comuni sulla Terra, basti pensare che le acque oceaniche al di sotto dei 1000 m di profondità sono alla temperatura costante di 4 °C o anche meno e quindi tutte le specie abissali vivono a questa temperatura. Oltre i 3000 m le temperature sono molto spesso al di sotto dei 5 °C e diminuiscono con l’aumento della quota fino a −40 °C. Le acque dell’oceano e dei mari antartici sono permanentemente a circa −2 °C. Un intero continente, l’Antartide, è coperto da una massa di ghiaccio dello spessore medio di 2500 m, ha un’altitudine media di 2200 m e temperature medie invernali di −50 °C e minima assoluta di circa −90 °C; le zone deglaciate ai margini del continente, come McMurdo Dry Valleys, che hanno temperature invernali tra −20 e −50 °C ed estive in media intorno ai −15 °C, ospitano una ricca biodiversità.
A pressione normale l’acqua solidifica a 0 °C, divenendo ghiaccio. Il congelamento è incompatibile con la vita, dato che la maggior parte delle reazioni biologiche avviene in soluzione acquosa e il congelamento le blocca. La formazione di cristalli di ghiaccio intracellulare è quasi sempre letale per la cellula, dato che distrugge le membrane cellulari, con la notevole eccezione di un nematode che sopporta il congelamento dell’intero corpo. Però la questione non è così semplice come sembra. Molti organismi sopportano la criopreservazione in azoto liquido a −196 °C, ma alcuni anche a temperature superiori, come −80 °C. In questo caso il congelamento veloce non consente la formazione di cristalli di ghiaccio dannosi o letali per le cellule che una volta scongelate riprendono intatte le proprie funzioni.
Alcuni organismi vivono permanentemente a temperature inferiori a 0 °C. A sud della convergenza antartica le acque marine si trovano poco sopra i −2 °C e solidificano in superficie appena toccano questa temperatura. La flora e la fauna sono molto ricche e diversificate e comprendono tutti i gruppi tassonomici che vivono negli altri mari. Gli organismi che le compongono hanno sviluppato specifici adattamenti che consentono di mantenere la fluidità dei liquidi biologici, nonostante la loro temperatura interna sia uguale a quella esterna. Particolarmente interessanti sono gli ice fishes, singolari pesci con il sangue trasparente privo di emoglobina, ma che contiene sostanze che prevengono il congelamento. Diversamente mammiferi e uccelli adattati al freddo, come foche e pinguini, sono protetti dall’ambiente esterno e mantengono il loro corpo ad alta temperatura.
Gli organismi che vivono solo a temperature prossime a 0 °C sono detti psicrofili. Attualmente si definiscono psicrofili i microrganismi che sono in grado di crescere a bassa temperatura, talvolta inferiore a 0 °C, e che non crescono sopra i 15 °C; si definiscono psicrotolleranti quelli che hanno temperatura ottimale di crescita sopra i 15 °C, ma crescono anche a bassa temperatura. Gli organismi psicrofili si sono evoluti in habitat stabilmente freddi, mentre negli ambienti freddi ma con rilevanti escursioni termiche prevalgono gli psicrotolleranti; la strategia di questi ultimi consente un migliore sfruttamento dei periodi più favorevoli, solitamente brevi, che sono inoltre quelli in cui il metabolismo può essere più attivo e la crescita più abbondante.
La prima osservazione di alghe viventi nel ghiaccio si deve al botanico Sir Joseph D. Hooker nel 1840. L’esempio più noto sono le alghe che crescono a 0 °C sulla superficie di ghiacciai e nevai perenni; tra queste, l’alga verde unicellulare Chlamydomonas nivalis che produce abbondanti spore di colore rosso sangue e arrossa le nevi perenni con le sue abbondanti colonizzazioni; altre alghe, come Chloromonas brevispina, rendono le nevi verdi o gialle. Molti altri organismi eucariotici, come lieviti, diatomee, licheni, muschi e insetti, hanno dimostrato di essere psicrofili.
I funghi in generale comprendono molti tra gli organismi più adattati al freddo. Possono resistere per periodi molto lunghi nelle profondità dei ghiacci perenni dell’Antartide a temperature di circa −50 °C. Il ceppo fungino più vecchio isolato da uno strato di ghiaccio alla profondità di 651 m, dall’età approssimativa di 38.600 anni, appartiene al genere Penicillium, come le più comuni muffe, per es. quelle della frutta.
I funghi, per la maggior parte microfunghi, che crescono nelle zone deglaciate dell’Antartide, sono in maggioranza psicrotolleranti. Cladosporium cladosporioides, uno dei microfunghi più comuni, che si sviluppa su materiale vegetale e nel suolo, cresce tra 0 e 32 °C, ma ha dimostrato di poter crescere, seppure lentamente, anche a −10 °C. Cladosporium herbarum cresce fino a −6 °C. Cadophora malorum, che produce la marcescenza delle pere, cresce in un arco sorprendentemente largo di temperature, tra −3 °C e 45 °C. Anche i lieviti, che sono funghi unicellulari, sono spesso psicrofili, tanto da essere dominanti nei suoli antartici. I licheni (funghi in simbiosi con alghe) sembrano essere molto resistenti al freddo. In esperimenti di campo il lichene antartico Umbilicaria aprina ha dimostrato attività fotosintetica misurabile ancora a −17 °C e respirazione a −10 °C (L. Kappen, B. Schroeter, C. Scheidegger et al., Cold resistance and metabolic activity of lichens below 0 °C, «Advances in space research», 1996, 18, 12, pp. 119-28).
La minima temperatura a cui sia stata rilevata attività metabolica cellulare si riferisce a popolazioni batteriche del permafrost (terreno permanentemente congelato) siberiano, le quali hanno dimostrato di essere metabolicamente attive fino a −20 °C; per estrapolazione, queste comunità potrebbero mantenere attività fino a −25 °C (Rivkina, Friedmann, McKay, Gilichinsky 2000).
Dato che la fluidità delle membrane cellulari diminuisce con la temperatura, gli organismi adattati al freddo hanno una più alta percentuale di acidi grassi insaturi che rendono le membrane fosfolipidiche più fluide a bassa temperatura. Inoltre, le temperature inferiori a 0 °C inducono la formazione di ghiaccio all’interno delle cellule. Per evitare questo fenomeno esistono sostanze dette comunemente antigelo; in effetti, le proteine antigelo consentono l’isteresi, che può abbassare la temperatura di congelamento di almeno 18 °C, come avviene in alcuni collemboli, che resistono in stato di vita latente a temperature molto basse senza subire congelamenti. In alcuni animali, come rettili e anfibi, la formazione di ghiaccio all’esterno delle cellule protegge le cellule stesse dal congelamento della parte interna.
Anche gli enzimi attivi a bassa temperatura possiedono caratteristiche straordinarie, dato che è necessaria un’aumentata complementarità con il substrato per compensare la diminuzione dell’energia di attivazione. Alle basse temperature le proteine divengono più rigide e la maggiore flessibilità richiesta è ottenuta con un numero minore di interazioni nelle strutture molecolari; lo stesso sembra avvenire nella tubulina, molecola fondamentale nei movimenti degli organuli cellulari (Rothschild, Mancinelli 2001). Recentemente sono stati anche individuati particolari geni essenziali per la sopravvivenza a basse temperature e nei funghi sono noti zuccheri, come il trealosio, legati alla resistenza al freddo. La produzione di esopolisaccaridi (macromolecole emesse all’esterno dalle ife del micelio) protegge il microfungo Phoma herbarum dai danni legati ai cicli di congelamento e scongelamento che esso subisce nel suolo dell’Antartide.
La produzione, al di fuori delle cellule, di sostanze che abbassano notevolmente il punto di fusione del ghiaccio sembra essere l’adattamento su cui si basa la possibilità di assorbire sostanze nutritive in habitat costantemente congelati, come il permafrost; di fatto, i microbi che vivono nel suolo congelato mantengono intorno a loro un ambiente liquido, seppure per uno strato di pochi nanometri.
Effetti delle elevate radiazioni
Nel 1956, durante un processo di sterilizzazione di alimenti mediante raggi X, è stato isolato Deinococcus radiodurans, un batterio radiotollerante in grado di resistere a dosi estremamente elevate di radiazioni, pari a 1500 krad, e di crescere sotto una radiazione continua di 60 krad/h. Le radiazioni sono energia in movimento e possono essere costituite da onde elettromagnetiche (come onde radio, microonde, infrarosso, luce visibile, ultravioletto, raggi X, raggi γ) o da particelle (come ioni pesanti, particelle α, protoni, elettroni e neutroni). Elevati livelli di radiazioni sono nocivi per la vita. Soprattutto le radiazioni a piccola lunghezza d’onda, come i raggi UVC, i raggi X e γ e le particelle, sono considerate letali. In effetti, oltre Deinococcus radiodurans, molti organismi sono in grado di resistere a elevati livelli di radiazione. L’archeobatterio ipertermofilo Thermococcus gammatolerans, scoperto nel 2003 in sorgenti termali ad alta profondità, cresce alle stesse dosi di radiazioni di Deinococcus radiodurans, ma anche fino a 90 °C. Il cianobatterio Chroococcidiopsis, probabilmente il microrganismo più resistente al disseccamento, resiste essiccato a 1500 krad. La resistenza alle radiazioni è messa in relazione da molti studiosi con la ridondanza del genoma, cioè con la caratteristica di alcuni organismi di possedere molte ripetizioni degli stessi geni; in questo modo il danno viene neutralizzato, in quanto risulta limitato ad alcune delle ripetizioni. La resistenza alle radiazioni degli eucarioti non è inferiore. Recentemente sono stati isolati, dal sarcofago di cemento del reattore nucleare danneggiato dall’esplosione a Černobyl′, alcuni microfunghi che crescono a dosi di contaminazione radioattiva molto elevate e che, inoltre, producono danni al sarcofago stesso. Tra questi, Aspergillus niger e Cladosporium cladosporioides crescono fino a dosi di 220 mrad/h. Quest’ultimo fungo mostra in laboratorio una crescita maggiore, a parità di condizioni di coltura, se sottoposto a radiazioni. In totale, dal sarcofago in questione sono state isolate almeno 13 specie diverse di microfunghi.
I funghi microcoloniali (lieviti neri) Cryomyces minteri e Cryomyces antarcticus, che vivono all’interno delle porosità delle rocce (criptoendolitici) antartiche, sono in grado di resistere, in stato di disseccamento, a radiazione UVC a dosi di 1000 J/m2. Anche i licheni resistono molto bene a elevate radiazioni ultraviolette, grazie alla presenza di pigmenti protettivi prodotti dal fungo lichenizzato e capaci di schermare anche l’alga unicellulare che vive all’interno del fungo.
Adattamento all’elevata acidità
La vita solitamente si sviluppa in condizioni prossime alla neutralità: intorno a pH 7, per es., l’acqua degli oceani è a pH 8,2. In condizioni di elevata acidità, le proteine si denaturano, come ben dimostra la ‘cottura’ degli alimenti con il limone o l’aceto. Ma alcuni organismi riescono a crescere in ambiente acido; quelli che crescono solo in condizioni di elevata acidità, a pH inferiore a 4, sono detti acidofili, mentre gli acidotolleranti sono gli organismi che crescono anche, ma non solo, in tali condizioni.
Alcuni microrganismi sono in grado di crescere in ambiente estremamente acido, a pH 0, altri in ambiente estremamente alcalino, a pH 12,5. Il primo organismo riconosciuto come acidofilo, l’alga rossa già citata tra i termofili, Cyanidium caldarium, è eucariotico, può crescere a pH 0,5 e ha un optimum di crescita a pH compreso tra 2 e 3 ed è cosmopolita, ovunque ci siano acque o fanghi acidi. Anche l’alga verde Dunaliella acidophila può sopravvivere a pH 0 e possiede un optimum a pH 1. Alcuni microfunghi, come Acontium cylatium, Cephalosporium sp., Trichosporon cerebriae, Hortea acidophila e Acidomyces acidophilum, sono a loro volta eucarioti estremamente acidofili. Hortea acidophila, specie anche alofila, vive in estratti di lignite a pH 0,6 e Acidomyces acidophilum vive in suoli contenenti zolfo a pH 1,1, mentre in laboratorio riesce a crescere in substrati con acido cloridrico a pH 0,5. Le piante e gli insetti possono vivere fino a pH 2-3, i pesci a pH 4 (Rothschild, Mancinelli 2001). Tra i batteri, Ferroplasma acidarmanus cresce a pH 0 in acido solforico concentrato, nel liquido di drenaggio delle miniere di ferro nelle Iron Mountains in California; questo batterio è privo di parete cellulare, fatto assolutamente inusuale. Anche nel caso degli ambienti estremamente acidi, i microrganismi noti più acidofili sono tra gli archeobatteri: Picrophilus oshimae e Picrophilus torridus, che vivono in sorgenti termali a temperatura moderata in Giappone, sono in grado di crescere a un pH minimo di −0,2 (Pikuta, Hoover, Tang 2007).
I microrganismi termofili sono solitamente anche acidofili, ma si deve considerare che solo a una temperatura di 25 °C e a una pressione normale la neutralità è a pH 7; a 100 °C invece il pH dell’acqua pura è 6,13 e scende ulteriormente con l’aumentare della temperatura. Per mantenere il pH cellulare vicino alla neutralità sono necessari sofisticati meccanismi di espulsione dei protoni verso l’esterno, che permettono di mantenere il pH interno al di sopra di 4.
Adattamento all’elevata alcalinità
Gli organismi che crescono soltanto a pH elevato (cioè al di sopra di 9) sono detti alcalofili, invece gli alcalotolleranti vivono anche, ma non solo, in ambienti fortemente alcalini.
Le acque dei due laghi africani Nakuru e Simbi contengono soda in quantità tali da portare il pH a 10. Nell’acqua di questi laghi cresce una ricca comunità di cianobatteri, dominata da Spirulina. In particolare, nel lago Nakuru la produttività dei cianobatteri fornisce nutrimento a milioni di fenicotteri, che rilasciano nel lago circa 15 t di materiale organico ogni giorno in forma di deiezioni. Queste acque, così ricche di sostanze organiche, ospitano almeno 20 specie di eucarioti unicellulari eterotrofi e tre specie di rotiferi. Alcuni batteri dei generi Clostridium, Themoanaerobacter e Thermopallidum sono alcalotermofili anaerobi che vivono nei sedimenti lacustri.
I microrganismi alcalofili mantengono il citoplasma a un pH neutro o leggermente basico, grazie a un contenuto intracellulare di ioni sodio che vengono scambiati con ioni idrogeno, i quali sono trasferiti all’interno della cellula per abbassare il pH.
Adattamento all’elevata salinità
I sali minerali sono essenziali per la vita. Ioni monovalenti (come Na+, K+ e Cl−) e bivalenti (come Mg++, Zn++, Mn++, Fe++) regolano l’osmosi cellulare, partecipano come cocatalizzatori a reazioni enzimatiche e regolano la conformazione delle macromolecole biologiche con i loro legami ionici. Le concentrazioni saline solitamente tollerate dalle cellule sono abbastanza basse, inferiori allo 0,5% (5 g/l), dato che alte concentrazioni saline alterano la pressione osmotica delle cellule, la conformazione delle macromolecole e la formazione dei complessi macromolecolari.
Molti organismi richiedono alte concentrazioni di sali (1-20%) per la loro crescita e sono definiti alofili, altri tollerano tali concentrazioni e sono chiamati alotolleranti. Possiamo trovare organismi alofili tra gli eucarioti, i batteri e gli archeobatteri, con un’ampia diversità di tipi metabolici (Oren 2002). Nelle acque ipersaline si possono trovare diatomee e molti eucarioti flagellati. Le alghe verdi del genere Dunaliella (Dunaliella salina, Dunaliella parva e Dunaliella viridis) vivono ovunque il contenuto di cloruro di sodio si trovi tra il 6 e il 20%.
Dopo essere stati a lungo considerati solo alotolleranti, i microfunghi sembrano essere anche alofili. Dalle acque delle saline che cristallizzano al sole sono stati isolati microfunghi quali Hortaea werneckii¸ Phaeotheca triangularis, Trimmatostroma salinum, Aureobasidium pullulans e Cladosporium. Hortaea werneckii è anche noto come agente patogeno della tinea nigra, una dermatomicosi superficiale che colpisce soprattutto le mani, dove questo fungo lipofilo si nutre dei grassi della pelle senza attaccare i tessuti. Tra i lieviti, Debaryomyces hansenii è un noto alotollerante che vive anche in mare.
Numerosissime specie di protozoi vivono in ambienti ipersalini: tra questi, il ciliato Rhopalophrya salina vive al 34,8% di salinità. Salinibacter rubrum è stato trovato per la prima volta nelle saline di Alicante e Maiorca, in Spagna. Questo batterio cresce in condizioni di salinità che va dal 25% alla saturazione ed è diffuso in tutto il mondo. Un intero gruppo di archeobatteri alofili, gli alobatteri come Haloferax e Haloarcula, cresce ovunque nel mondo ci siano acque a elevata salinità, di solito a pH neutro.
Molto interessanti sono gli archeobatteri ‘quadrati’. Nel 1980 il microbiologo Anthony Walsby raccolse campioni dalle pozze di acqua salata nel Sud del Sinai, dove i beduini raccolgono il sale asciugato al sole. L’analisi microscopica di questi campioni rivelò la presenza di strani microrganismi dalla forma quadrata, piuttosto che rotondeggiante, per i quali Walsby propose il nome Quadra fausta, ma che sono conosciuti tra gli specialisti come batteri quadrati di Walsby. Per molti anni sono stati considerati non coltivabili in laboratorio, ma ora alcuni ceppi crescono in coltura, il che permette di approfondirne la conoscenza.
Anche il Mar Morto ospita un’inaspettata biodiversità microbica procariotica ed eucariotica, con batteri, archeobatteri, alghe e funghi. La sua superficie si trova a 417 m al di sotto del livello del Mar Rosso e le sue acque hanno un’altissima salinità: 34,2%, pari a 342 g/l, essenzialmente dovuta a cloruro di magnesio, cloruro di sodio, bromuro di magnesio e bromuro di sodio. Nelle acque del Mar Morto sono state contate fino a 40.000 cellule per millilitro dell’alga verde unicellulare Dunaliella. Dalle sue acque sono state isolate 26 specie di microfunghi, alcune probabilmente endemiche, come Gymnascella marismortui, altre, come Stachybotrys chartarum, cosmopolite; sono stati isolati inoltre alcuni batteri e archeobatteri, come Haloarcula marismortui.
Negli eucarioti la forte salinità dell’habitat è contrastata dall’accumulo nella cellula dei cosiddetti soluti compatibili che bilanciano la pressione osmotica, impedendo l’assorbimento eccessivo di sali; per es., l’alga verde Dunaliella salina accumula glicerolo. Gli alobatteri accumulano direttamente ioni, di solito potassio, in quantità eccezionali. Inoltre, sono dotati di una membrana cellulare color porpora, contenente una cromoproteina, la rodopsina, capace di attivare mediante la luce un meccanismo a livello di membrana che permette di espellere gli ioni in eccesso; gli alobatteri, durante la concentrazione delle acque marine nelle saline, colorano di rosso intenso enormi distese di vasche in evaporazione.
Effetti della scarsa disponibilità o dell’assenza d’acqua
Gli organismi che vivono solo in condizioni di scarsa disponibilità d’acqua sono definiti xerofili, mentre quelli che vivono anche, ma non soltanto, in tali condizioni sono xerotolleranti. La disponibilità d’acqua o attività dell’acqua (aw=activity of water) si misura in centesimi e corrisponde al contenuto in acqua del substrato adatto alla crescita di microbi, in una situazione di equilibrio con l’umidità relativa percentuale dell’ambiente; per es., con un’umidità relativa del 70%, la disponibilità d’acqua di un substrato in equilibrio con l’ambiente è aw 0,70. Un’aw 0,85 può essere considerata il limite al di sotto del quale inizia la xerofilia.
I funghi sono notoriamente più xerofili o xerotolleranti dei batteri. Per es., Wallemia sebi cresce fino a un’aw 0,69, come Eurotium repens. Eurotium rubrum cresce ad aw 0,70 e Aspergillus ustus ad aw 0,75. Questi microfunghi, che comunemente sono inclusi nella categoria delle muffe, sono economicamente molto dannosi, perché riescono a rovinare gli alimenti conservati anche in condizioni di scarsa umidità, oppure deteriorare quelli conservati con l’aggiunta, per es., di sale o zucchero.
Alcuni organismi tollerano il disseccamento, ossia l’assenza pressoché totale d’acqua, e quindi possono sopravvivere in condizioni di anidrobiosi; questo stato è caratterizzato da attività metabolica assente e da bassissimo contenuto di acqua intracellulare. Il disseccamento è spesso letale per le cellule, poiché la mancanza d’acqua induce cambiamenti nelle molecole biologiche, come la denaturazione delle proteine e rotture strutturali. Queste ultime sono dovute alle reazioni di Maillard e all’accumulo di specie reattive dell’ossigeno durante il disseccamento, specialmente a seguito di radiazione solare (Rothschild, Mancinelli 2001). Il disseccamento causa, inoltre, forte stress osmotico. Nonostante queste limitazioni, la capacità di resistere all’anidrobiosi è nota in numerosi organismi tra batteri, cianobatteri, funghi (inclusi lieviti e licheni), piante, nematodi, tardigradi e artropodi. I cianobatteri come Chroococcidiopsis sono particolarmente resistenti al disseccamento (Billi, Potts 2002).
I funghi microcoloniali Cryomyces minteri e Cryomyces antarcticus, che vivono come criptoendolitici all’interno delle porosità delle rocce antartiche, resistono per anni al disseccamento, con una totale sopravvivenza delle cellule.
Nella resistenza al disseccamento sembrano avere un ruolo rilevante il glucosio e, soprattutto, il trealosio. Questi zuccheri impediscono la modificazione della conformazione delle macromolecole biologiche, quando l’acqua sfugge dalla cellula. Anche gli esopolisaccaridi (zuccheri ad alto peso molecolare prodotti all’esterno delle cellule) proteggono dai danni da disseccamento (M. Potts, Desiccation tolerance of prokaryotes, «Microbiology and molecular biology reviews», 1994, 58, 4, pp. 755-805).
Adattamento all’alta pressione
Per effetto della gravità terrestre pari volumi di gas, liquidi o solidi esercitano una pressione che dipende dalla loro densità. La pressione atmosferica normale a livello del mare equivale a 1 atmosfera (760 mm Hg, 1,013 bar o 101 kPa). La pressione idrostatica aumenta di circa 10 kPa/m di profondità (1 atm/10 m circa), mentre la pressione litostatica aumenta di 22,6 kPa/m. Malgrado ciò possiamo trovare vita alle massime profondità oceaniche, fino a quasi 11 km, e fino ad almeno 3,5 km nella profondità della Terra.
La profondità media degli oceani è di 3800 m, con una pressione media di 38 MPa; la profondità massima, nella Fossa delle Marianne nell’Oceano Pacifico, sfiora gli 11.000 m, con una pressione di circa 110 MPa. Eppure, il fondo degli oceani è ricco di forme di vita, tra cui molti microrganismi.
Il primo batterio certamente barofilo, uno spirillo, è stato isolato a una profondità di 5700 m nel 1979 ed era in grado di crescere in laboratorio a oltre 100 MPa di pressione e a una temperatura di 2 °C. Dai fanghi della Fossa delle Marianne sono stati isolati migliaia di microrganismi; alcuni di questi non sono in grado di crescere a pressioni inferiori ai 50 MPa. Molti ipertermofili, isolati da sorgenti termali nelle profondità oceaniche, come, per es., Thermococcus profundus e Pyrococcus horikoshii, sono anche barofili.
L’alta pressione modifica i volumi e rende difficile l’esistenza della vita. La pressione diminuisce la fluidità delle membrane e gli organismi adattati alle alte pressioni compensano aumentando la percentuale di acidi grassi insaturi, proprio come gli organismi che vivono a bassa temperatura. Paradossalmente l’alta pressione dei fondali oceanici favorisce la vita ad alta temperatura nelle sorgenti termali. Infatti, mentre l’aumento della temperatura aumenta l’instabilità delle molecole e la fluidità delle membrane cellulari, l’alta pressione ha un effetto opposto.
L’alta pressione può danneggiare il DNA e le proteine, quindi i microrganismi barofili posseggono enzimi stabili ad alta pressione, detti piezostabili, e dovrebbero possedere meccanismi di protezione e riparazione del DNA. Comunque, sembra che le macromolecole biologiche inizino a denaturarsi intorno ai 400÷500 MPa: a causa di questa incertezza i limiti di resistenza dei microrganismi barofili non sono ancora del tutto noti.
Vita nelle profondità della Terra
Penetrando nelle profondità del nostro pianeta troviamo un ambiente sorprendentemente ricco di microbi. A una profondità di mezzo chilometro troviamo ancora fino a 10 milioni di microrganismi per cm3. Tra questi ci sono molti batteri chemiolitotrofi, che si nutrono letteralmente di rocce, usando l’acqua che percola nel suolo e ferro o zolfo come alimenti. A un chilometro di profondità la Terra è ancora ricca di vita, grazie a batteri che usano l’idrogeno prodotto dall’acqua, la quale reagisce con le rocce, e l’anidride carbonica come fonte di carbonio. La temperatura a un chilometro di profondità è di circa 40 °C e cresce, scendendo, di 20-30 °C ogni chilometro. Bacillus infernus, un batterio anaerobio, è stato isolato per la prima volta a 2700 m di profondità in Virginia. Comunità microbiche sono state certamente individuate fino a 3500 m di profondità. Ovviamente, quando la temperatura si avvicina ai 110-120 °C la vita diventa problematica. Questo avviene a 5000-6000 m di profondità, dove gli ultimi batteri dovrebbero scomparire (Cockell 2003). Comunque, alcune stime indicano come la biomassa esistente ad alta profondità rappresenti circa un decimo della biomassa totale di superficie. Questo dà un’idea dell’enorme vitalità delle profondità della Terra. I microbi delle grandi profondità sono poco noti e certamente sorprendenti scoperte ci attendono in futuro.
Effetto degli stress multipli
Molti organismi sono in grado di resistere a più di un fattore di stress. Questo non sorprende, dato che la resistenza agli stress è spesso multifattoriale. Per es., l’archeobatterio ipertermofilo acidofilo Sulfolobus acidocaldarius prospera a pH 3 e 80 °C. Anche le resistenze al disseccamento, al freddo e alle radiazioni ultraviolette sono molto legate tra loro: per es., molti cianobatteri, microfunghi e lieviti accumulano nella loro parete cellulare melanina, efficace nello schermare le radiazioni, nel limitare la perdita d’acqua e nel facilitare l’accumulo di calore. Un archeobatterio metanogeno, che quindi produce metano come sottoprodotto metabolico in condizioni anossiche, psicrofilo e alofilo, Methanococcoides burtonii, è stato isolato dall’ipolimnio anossico dell’Ace Lake nell’Antartide continentale. L’alga rossa Cyanidium caldarium ha un optimum di pH tra 2 e 3 e di temperatura a 45 °C. Il cianobatterio Chroococcidiopsis è eccezionalmente resistente al disseccamento, ma dimostra anche di poter resistere all’irraggiamento con dosi di 15 kGy di raggi X (Billi, Friedmann, Hofer et al. 2000).
Anche i licheni sono in grado di resistere a stress multipli. I polisaccaridi li proteggono dai danni da disseccamento e da congelamento, i pigmenti lichenici dai danni da radiazioni.
Esperimenti di simulazione delle condizioni spaziali hanno dimostrato che i microfunghi delle rocce antartiche Cryomyces minteri e Cryomyces antarcticus resistono al vuoto spaziale, a ripetuti cicli di congelamento e scongelamento (−20/+20 °C), alla radiazione luminosa e ultravioletta A, B e C alla dose di 150.000 kJ/m2 e a temperature di 90 °C. La biologia di questi resistentissimi eucarioti non è ancora ben nota, ma certamente le spesse pareti cellulari contenenti melanina hanno un ruolo importante nella resistenza alle radiazioni e, forse, anche al disseccamento (Onofri, Barreca, Selbmann et al. 2008).
Le micosporine conferiscono agli organismi che le producono protezione dagli stress multipli. Si tratta di sostanze prodotte da un’ampia gamma di organismi (cianobatteri, microalghe, lieviti, funghi, macroalghe, coralli e altri) all’interno delle cellule, per proteggerle dal danno causato da eccessiva radiazione ultravioletta; sta però emergendo la consapevolezza di una loro funzione anche come soluti compatibili, antiossidanti, sostanze protettive nel disseccamento e nello stress termico.
Vita nelle evaporiti e vita criptoendolitica
Le evaporiti sono minerali costituiti da depositi salini e sono rappresentate da aliti (cloruro di sodio), gesso (solfato di calcio idrato) o anidrite (solfato di calcio anidro). Nelle evaporiti vivono comunità microbiche composte da alghe, cianobatteri, come Halothece, Spirulina e Phormidium, e batteri alofili, simili a Salinibacter. Comunità simili sono contenute anche in fossili diffusi in tutto il mondo. I batteri intrappolati nei cristalli di sale in formazione mantengono la loro attività metabolica per settimane e rimangono vivi per mesi. Alcuni ipotizzano che i batteri possano vivere per milioni di anni nelle inclusioni fluide di depositi salini come le evaporiti (Rothschild, Mancinelli 2001).
Diverso è il caso della vita criptoendolitica. La superficie delle rocce brulica di organismi che vivono in condizioni estreme, con fortissime escursioni termiche, prolungati periodi di aridità, scarsità di nutrienti. Esemplificativi in tal senso sono i licheni, che potrebbero essere stati i primi colonizzatori degli ambienti terrestri, circa 600 milioni di anni fa, e che vivono comunemente sulla superficie delle nude rocce come epilitici.
Dove le condizioni sono troppo proibitive per la vita epilitica, i microrganismi si rifugiano nelle porosità delle rocce, formando comunità criptoendolitiche (E.I. Friedmann, Endolithic microorganisms in the Antarctic cold desert, «Science», 1982, 215, 4536, pp. 1045-53). Per es., nelle McMurdo Dry Valleys dell’Antartide continentale, il deserto estremo sulla Terra, le precipitazioni, sempre nevose, sono estremamente rare e talvolta del tutto assenti. Le temperature invernali variano da −20 a −50 °C e non superano mai gli 0 °C durante tutto l’anno.
In questa regione le arenarie, che sono rocce porose e trasparenti, ospitano nell’ambiente interno protetto comunità microbiche criptoendolitiche. Le rocce colonizzate dalle comunità criptoendolitiche mostrano in sezione, fino alla profondità di circa un centimetro, tipiche bande colorate, indicatrici dei vari organismi che le compongono. Sulle rocce esposte a nord, la poca neve si scioglie al sole, penetra nella porosità e consente la vita di licheni endolitici, alghe, cianobatteri, microfunghi, batteri, costituendo un semplice ecosistema con organismi produttori fotosintetici e consumatori eterotrofi, dotato di autonomia nutrizionale. La comunità nel suo insieme ha un massimo di produttività a una temperatura vicina a 0 °C e resiste a lunghissimi periodi di disidratazione, a bassissime temperature. I microrganismi che la compongono sono tra i più adatti a resistere alle condizioni spaziali.
Vita nello spazio
Nello spazio, a un’altezza di pochissimi chilometri, la temperatura cade molto al di sotto di 0 °C, e i microrganismi presenti sono in stato di vita latente. Negli anni Settanta del 20° sec. sono state raccolte spore fungine fino all’altezza di oltre 70 km, mediante un particolare apparecchio raccoglitore posto su un razzo-sonda sovietico; queste spore sono state fatte germinare in laboratorio e le colonie da esse ottenute sono state poi coltivate.
La resistenza alle radiazioni e al disseccamento rende ipotizzabile il trasferimento della vita da un pianeta all’altro (secondo la teoria della panspermia, presentata dal chimico e fisico Svante Arrhenius nel 1903), magari mediante meteoriti (litopanspermia). La dimostrazione della sopravvivenza di spore batteriche di Bacillus subtilis per sei anni nello spazio (G. Hornek, H. Bücker, G. Reitz, Long-term survival of bacterial spores in space, «Advances in space research», 1994, 14, 10, pp. 41-45), in condizioni di vuoto quasi assoluto, temperature estreme e intense radiazioni di origine solare e galattica, ha aperto una nuova prospettiva alle ipotesi sull’origine della vita sulla Terra e alla possibilità di esistenza della vita su altri pianeti.
Al di fuori dell’atmosfera terrestre, nel vuoto quasi assoluto dello spazio, un essere umano esposto all’esterno si essiccherebbe tanto in fretta da non sentire le terribili ustioni prodotte dalle radiazioni. Attualmente, sulla superficie terrestre arrivano la luce visibile, l’infrarosso e poco ultravioletto, per la maggior parte UVA, scarsamente nocivo. Le radiazioni a lunghezza d’onda inferiore sono schermate dall’atmosfera e le particelle deviate dal campo magnetico terrestre. Tuttavia, non è stato sempre così e i primi microrganismi si sono evoluti in condizioni di radiazioni proibitive; per es., prima che i cianobatteri, come già detto procarioti capaci di fotosintesi ossigenica, arricchissero di ossigeno l’atmosfera e si formasse la fascia di ozono, la Terra era colpita da radiazioni ultraviolette letali. Alcuni organismi hanno mantenuto altissima resistenza alle radiazioni e sono quindi in grado di sopravvivere in ambiente spaziale o su Marte.
Negli ultimi anni sono stati effettuati numerosi esperimenti per verificare la capacità degli organismi terrestri di sopravvivere in ambiente spaziale, reale o simulato, o in condizioni marziane simulate. Gli esperimenti effettuati direttamente nello spazio sono necessari, perché fino a oggi non è possibile simulare completamente in laboratorio la radiazione spaziale. Nell’esperimento Biopan dell’Agenzia spaziale europea, spore batteriche, acheobatteri alofili, cianobatteri, semi di lattuga e interi licheni sono sopravvissuti per due settimane in orbita terrestre a circa 320 km di altezza. I licheni hanno mantenuto intatta la loro capacità fotosintetica dopo il volo, dimostrando che il micobionte (la parte fungina) è in grado di proteggere il delicato ficobionte (la parte algale) dalle radiazioni letali. Nel 2008, sulla Stazione spaziale internazionale, ha avuto inizio l’esperimento Expose-Life: licheni, microfunghi (Cryomyces minteri e Cryomyces antarcticus) e comunità criptoendolitiche delle rocce antartiche sono stati lasciati per 18 mesi in ambiente spaziale e in atmosfera e radiazione marziana simulata per verificarne il grado di sopravvivenza (Onofri, Barreca, Selbmann et al. 2008). Recuperati in seguito nell’estate del 2009, i campioni sono attualmente in fase di studio: è comunque già evidente una buona percentuale di sopravvivenza.
Nel sistema solare Marte è il pianeta più simile alla Terra. Al momento è freddo (−80 °C, +20 °C alle medie latitudini) e la sua sottile atmosfera, ricca di CO2, lascia arrivare al suolo radiazioni ultraviolette al di sopra dei 200 nm di lunghezza d’onda. La bassa pressione atmosferica (circa 600 Pa, pari a circa 6/1000 dell’atmosfera terrestre) non consente l’esistenza di acqua liquida in superficie, ma la possibilità che vi sia acqua nel sottosuolo consente molte ipotesi sull’esistenza di microrganismi (fossili o viventi) nel permafrost, ipotesi che le nostre attuali conoscenze non ci permettono di escludere. Inoltre, nel passato Marte è stato sicuramente differente, per es. è possibile che la sua atmosfera sia stata ben più densa, prima che la bassa gravità lasciasse sfuggire i gas nello spazio, e quindi l’acqua poteva scorrere abbondante sulla superficie.
Nel 1984 è stato trovato un meteorite, ALH 84001, caduto sui ghiacci perenni dell’Antartide 13.000 anni fa. Un’età presumibilmente stimata di 4,2 miliardi di anni, superiore a quella di qualsiasi roccia terrestre, e la sua composizione chimica ci indicano una possibile provenienza da Marte. Nel 1996 sono stati individuati all’interno di questo meteorite corpiccioli allungati definiti come batteroidi, la cui identificazione è però controversa. Tuttavia, la presenza di composti di possibile origine biologica e di catene di magnetite (Rivkina, Friedmann, McKay, Gilichinsky 2000), che conosciamo soltanto come prodotti di magnetobatteri, rendono possibile ipotizzare che quella roccia di Marte possa aver ospitato microbi viventi, non molto diversi da quelli del ceppo 121, ipertermofilo che ossida il ferro e produce magnetite.
Uso industriale e potenziale economico degli estremofili
Gli organismi estremofili hanno enormi potenzialità biotecnologiche, industriali ed economiche. Non è un caso che l’Unione Europea abbia finanziato il programma di ricerca Extremophiles as cell factories e stia sviluppando il progetto Investigating life in extreme environments. Gli estremofili e i loro prodotti cellulari trovano applicazione nell’agricoltura, nell’industria chimica e farmaceutica. Gli enzimi prodotti dagli estremofili, detti estremozimi, possono avere attività ottimale in condizioni molto lontane da quelle normali, per es. ad alta o bassa temperatura. Il caso più noto è quello della già citata Taq polimerasi, l’enzima che polimerizza il DNA del batterio ipertermofilo Thermus aquaticus, che ha permesso di sviluppare la tecnica di amplificazione del DNA per mezzo della reazione a catena dell’enzima polimerasi (PCR, Polymerase Chain Reaction), per la cui invenzione Kary Mullis ha ottenuto nel 1993 il premio Nobel per la chimica. Tale tecnica si basa sulla denaturazione del DNA ad alta temperatura, con separazione delle due catene e nuova sintesi mediante una polimerasi attiva ad alta temperatura. Le applicazioni sono innumerevoli, dallo studio della filogenesi degli organismi alle analisi per le indagini forensi.
Molte sostanze ottenute dai microrganismi estremofili sono attualmente utilizzate dall’industria. Le proteasi alcaline ottenute da microrganismi psicrofili hanno un mercato che si misura in miliardi di euro, essendo impiegate nei detersivi per il lavaggio a bassa temperatura. Per la saccarificazione dell’amido sono necessari enzimi termostabili ad alta temperatura: un Bacillus termofilo produce un enzima (amilasi) per l’idrolisi dell’amido in destrine e maltodestrine solubili, permettendo, per es., la produzione di sciroppo di mais. Gli acidi grassi polinsaturi ottenuti da microrganismi psicrofili sono utilizzati in piscicoltura e come farmaci. Batteri alcalofili producono antibiotici. Dalla coltivazione dell’alga verde alofila Dunaliella bardawii si ottiene β-carotene, utilizzato come vitamina e come antiossidante nella conservazione degli alimenti. Le xilanasi, enzimi prodotti da microrganismi termofili come Dictioglomus thermophilum, sono utilizzate nel pretrattamento sbiancante della pasta di cellulosa per la produzione della carta, riducendo drasticamente l’utilizzo del cloro. Marinobacter hydrocarbonoclasticus, un batterio marino alotollerante, possiede la capacità di degradare una varietà di idrocarburi alifatici e aromatici, caratteristica che lo rende utilizzabile in tecniche di biorisanamento di suoli e di acquiferi. Un ceppo ricombinante di Deinococcus ha dimostrato la capacità di degradare inquinanti organici in ambienti contaminati da composti radioattivi.
Questi sono solo alcuni esempi delle possibilità di uso industriale dei microrganismi estremofili, ma le potenzialità sembrano essere enormi. Le tecniche di ingegneria genetica aprono ulteriori prospettive, soprattutto dopo il completo sequenziamento del genoma dei microrganismi estremofili, già effettuato per alcune specie termofile (Satyanarayana, Raghukumar, Shivaji 2005).
Estinzione impossibile
Il Sistema solare si è formato circa 4,6 miliardi di anni fa e da allora si muove ciclicamente attorno al centro della Galassia con un periodo di circa 225 milioni di anni; durante questo viaggio la Terra ha attraversato e continua ad attraversare zone molto pericolose a causa della presenza di asteroidi che potrebbero colpirla (Cockell 2003). Si ipotizza che circa 4,4 miliardi di anni fa un pianeta delle dimensioni di Marte abbia avuto un impatto con la Terra, portando a fusione l’intero pianeta e generando il nostro satellite, la Luna. A parte eventi così catastrofici, che ne determinano l’estinzione totale, la vita sulla Terra esiste da oltre 3,5 miliardi di anni, ha resistito a catastrofi enormi e difficilmente si estinguerà in modo completo.
Circa 250 milioni di anni fa un grande asteroide potrebbe aver colpito la Terra, lasciando un cratere, attualmente sotto i ghiacci dell’Antartide, di circa 500 km di diametro; questo dovrebbe essere l’evento che ha portato all’estinzione delle trilobiti, del 70% delle specie allora esistenti e del 90-95% delle specie marine, evento per il quale si suppone che gli oceani arrivarono all’ebollizione. Un avvenimento simile, seppure meno catastrofico, potrebbe aver portato all’estinzione dei dinosauri circa 65 milioni di anni fa.
La vita ha comunque sempre riconquistato la Terra ed eventi catastrofici, anche di proporzioni superiori a quelli citati, difficilmente ne causeranno la scomparsa, almeno per quanto riguarda alcuni dei resistentissimi microrganismi estremofili, come quelli che vivono nelle sorgenti idrotermali nelle profondità oceaniche o chilometri sotto la superficie della Terra. Anche le attività umane, per quanto devastanti, non potranno estinguere la vita sulla Terra.
Certo il pianeta azzurro, in tutta la sua storia, non è mai stato, come ora, così ricco di biodiversità.
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