Limiti di pena irrogata e misura alternativa
Una recente decisione costituzionale (C. cost., 23.7.2018, n. 174) ha ribadito che il preminente interesse del minore non possa essere sacrificato alle esigenze di protezione della società dal crimine, sulla base di automatismi che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle vicende concrete.
Ricorrente problema, strettamente correlato alle dinamiche applicative dell’art. 4 bis ord. penit.1 è quello del surplus sanzionatorio correlato alle svariate “declinazioni”2 della collaborazione con la giustizia. Se, infatti, il comma 1 della disposizione penitenziaria subordina alla collaborazione “piena” la concessione dei benefici e delle alternative penitenziarie, diverso è il discorso per ciò che riguarda i casi di collaborazione “oggettivamente irrilevante”, “impossibile” o “inesigibile”, disciplinati dal comma 1-bis dell’art. 4 bis ord. penit.3 In tali eventualità, oltre alla verifica della sussistenza del “surrogato” collaborativo e della insussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, il detenuto dovrà comunque scontare una frazione di pena “maggiorata” prima di poter accedere al benefici o richiesto. Nella storia travagliata della disposizione penitenziaria, la Consulta si è più volte pronunciata per bilanciare la vocazione securitaria palesata dalla norma con le esigenze di progressione trattamentale serventi al soddisfacimento del finalismo rieducativo della pena. Il primo intervento è rappresentato da C. cost., 14.12.1995, n. 504, attraverso il quale la Consulta dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, co. 1, ord. penit., nella parte in cui prevede che la concessione di ulteriori permessi premio sia negata nei confronti dei condannati non collaboranti, anche quando essi ne abbiano già fruito in precedenza e non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Nel condividere le argomentazioni del giudice a quo, secondo il quale tale diniego si sarebbe concretizzato in una vera e propria revoca del trattamento praticato al detenuto, così da impedirgli di progredire nell’opera di risocializzazione, la Corte costituzionale ha ritenuto che la posizione del condannato non ammesso al beneficio per mancata attività collaborativa non fosse dissimile da quella del condannato non collaborante al quale venga revocata una misura alternativa alla detenzione: fattispecie, quest’ultima, ritenuta non conforme alla Costituzione dalla stessa Corte con la sentenza 7.8.1993, n. 306, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, co. 2, del d.l. 8.6.1992, n. 306, conv. dalla l. 7.8.1992, n. 356, nella parte in cui, appunto, prevede che la revoca delle misure alternative alla detenzione sia disposta, per i condannati per i delitti indicati nel primo periodo del comma 1 che non si trovano nelle condizioni per l’applicazione dell’art. 58 ter ord. penit., anche quando non sia stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali dei medesimi con la criminalità organizzata. L’elaborazione della Consulta si è successivamente arricchita di ulteriori punti fermi: sempre sulla scorta della sentenza n. 306/1993, l’art. 4 bis, co. 1, ord. penit. è stato, infatti, dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui precludeva la concessione dei benefici della semilibertà (C. cost., 30.12.1997, n. 445) e del permesso premio (C. cost., 22.4.1999, n. 137) ai condannati che, quantunque prima dell’entrata in vigore dell’art. 15, co. 1, d.l. n. 306/1992, conv. dalla l. n. 356/1992 non ne avessero già fruito, avessero comunque raggiunto, prima di quella data, un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non fosse accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. In tali casi, la Corte costituzionale ha proseguito il percorso iniziato con la sentenza n. 306/1993, affermando che non si può ostacolare il raggiungimento della finalità rieducativa, prescritta dalla Costituzione nell’art. 27, «con il precludere l’accesso a determinati benefici o a determinate misure alternative in favore di chi, al momento in cui è entrata in vigore una legge restrittiva, abbia già realizzato tutte le condizioni per usufruire di quei benefici o di quelle misure».
Con la recente sentenza n. 174/2018, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 21 bis ord. penit., «nella parte in cui, attraverso il rinvio al precedente art. 21, con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4 bis, co. 1, 1-ter e 1-quater, ord. penit., non consente l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci oppure lo subordina alla previa espiazione di una frazione di pena, salvo che sia stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58-ter della medesima legge». Il giudice a quo, dopo aver rilevato come la detenuta – a seguito di C. cost., 12.4.2017, n. 764 – avrebbe potuto chiedere un beneficio “maggiore” (la detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47 quinquies ord. penit.), in quanto «complementare e progressivo» rispetto ad un petitum (l’assistenza all’esterno dei figli minori), «che conserva carattere inframurario», rimarcava la disarmonia di un sistema che consente alle madri condannate per delitti ostativi di poter immediatamente accedere – a prescindere dall’entità della pena espianda – anche alla detenzione domiciliare “surrogatoria” del rinvio dell’esecuzione della pena (artt. 146 e 147 c.p.). Il medesimo giudice, inoltre, stigmatizzava il rigido «automatismo di preclusione assoluta» all’accesso al beneficio, che impedisce al giudice, laddove non sia stata ancora espiata una parte di pena, di bilanciare le esigenze di difesa sociale con l’interesse del minore, «pregiudicando il diritto di quest’ultimo a mantenere un rapporto con la madre all’esterno del carcere»5. Il Giudice delle leggi ha accolto la quaestio, rilevando il contrasto della disposizione censurata con l’art. 31, co. 2, Cost., mentre ha ritenuto la stessa assorbita con riferimento agli altri parametri di costituzionalità indicati dal rimettente6. Nello specifico, sulla scorta di un proprio precedente7, in forza del quale la mancata collaborazione con la giustizia non può pregiudicare la concessione di un beneficio primariamente finalizzato a tutelare il rapporto tra la madre e il figlio minore, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’art. 21 bis ord. penit. si pone in contrasto con l’art. 31, co. 2, Cost., nella parte in cui subordina alla collaborazione con la giustizia ex art. 58 ter, ord. penit. In quella decisione, se la Corte costituzionale aveva avallato le opzioni di politica legislativa volte ad incentivare la collaborazione con la giustizia attraverso una fitta rete di preclusioni penitenziarie, essa, tuttavia, aveva chiarito che la «conclusione deve essere ben diversa quando una simile strategia non si limiti a produrre effetti sulla condizione individuale del detenuto, ma … finisca per incidere su terzi, e, in particolare [sui] minori in tenera età, ai quali la Costituzione esige siano garantite le condizioni per il migliore e più equilibrato sviluppo psicofisico». Da tali premesse, in riferimento alla regiudicanda più recente, la Consulta ha ritenuto che subordinare la concessione del beneficio “genitoriale” alla collaborazione con la giustizia significhi «condizionare in via assoluta e presuntiva la tutela del rapporto tra madre e figlio in tenera età ad un indice legale del ‘ravvedimento’ della condannata», scelta, questa, da escludere quando al centro della tutela si trovi il preminente interesse del figlio minore. In altri termini, precisa la Corte, «affinché l’interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata, per l’appunto, in concreto ... e non già collegata ad indici presuntivi – quali quelli prefigurati dalla norma censurata – che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni». La più recente sentenza n. 174/2018 procede sulla medesima linea interpretativa, affermando che l’art. 31, co. 2, Cost. è violato anche in riferimento alle ipotesi di collaborazione “oggettivamente irrilevante”, “impossibile” o “inesigibile”, dal momento che il surplus sanzionatorio in tali casi imposto, si atteggia quale presunzione assoluta ed insuperabile, che impedisce sia al giudice che all’amministrazione penitenziaria di bilanciare in concreto «le esigenze di difesa sociale rispetto al migliore interesse del minore».
A fronte di una delega legislativa rimasta – purtroppo – lettera morta, che imponeva al Governo l’«eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari in relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato» (art. 1, co. 85, lett. e, l. n. 103/2017), si registra, nella più recente stagione della giurisprudenza costituzionale e di quella sovranazionale una rilevante discontinuità, che esprime una vocazione di tutela dei diritti del singolo rispetto alle pur doverose esigenze di difesa sociale. Con particolare riferimento alla tutela della maternità e dell’infanzia, la legge-delega n. 103/2017 imponeva altresì (lett. s) la «revisione delle norme vigenti in materia di misure alternative alla detenzione al fine di assicurare la tutela del rapporto tra detenute e figli minori e di garantire anche all’imputata sottoposta a misura cautelare la possibilità che la detenzione sia sospesa fino al momento in cui la prole abbia compiuto il primo anno di età»; nonché (lett. t) la «previsione di norme che considerino gli specifici bisogni e diritti delle donne detenute». Nonostante tali imperativi, i recentissimi decreti legislativi 2.10.2018, nn. 122, 123 e 124, pubblicati nella Gazzatta Ufficiale (S.O.) n. 250 del 26 ottobre 2018, non hanno assolutamente affrontato tali tematiche, a differenza di quanto previsto nello schema di decreto legislativo AG 501, presentato alle Camere nella passata legislatura, in cui gli aspetti delle alternative alla detenzione, del “quotidiano” carcerario e delle preclusioni avevano ricevuto un apprezzabile approfondimento, nella logica del rispetto dei soggetti deboli.
1 V. in prospettiva generale, Caraceni, L.Cesari, C., Art. 4-bis, in Ordinamento penitenziario commentato, a cura di F. Della Casa e G. Giostra, 5° ed., Padova, 2015, 44 ss.; Farinelli, E., Art. 4-bis ord. penit., in Comm. c.p.p. Giarda-Spangher, 5° ed., Milano, 2017, 2125.
2 Così Farinelli, E., Art. 4-bis ord. penit., cit., 2137.
3 V. per tutti, Ricci, A., Collaborazione impossibile e sistema penitenziario. L’ammissibilità di misure premiali ed alternative per i non collaboranti condannati per delitto ostativo, Padova, 2013, passim.
4 Con la sentenza 12.4.2017, n. 76 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 47 quinquies, co. 1-bis, ord. penit., limitatamente alle parole «Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis», così consentendo alle madri (o ai padri) di bambini di età pari o inferiore ai dieci anni, di fruire della detenzione domiciliare speciale anche nel caso di condanna per uno dei reati cdd. ostativi. A commento della decisione v. Farinelli, E., Verso il superamento delle presunzioni penitenziarie tra ragionevolezza in concreto e prevalenza dello “speciale interesse del minore”, in Proc. pen. e giust., 2017, n. 5, 872; Leo, G., Un nuovo passo della Consulta per la tutela dei minori con genitori condannati a pene detentive, e contro gli automatismi preclusivi nell’ordinamento penitenziario, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 5, 321; Menghini, A., Cade anche la preclusione di cui al comma 1 bis dell’art 47 “quinquies” ord. penit., in Dir. pen. e processo, 2017, 1047; Sechi, P., Nuovo intervento della Corte costituzionale in materia di automatismi legislativi e detenzione domiciliare speciale, in Giur. cost., 2017, 733; Tiberio, M., La detenzione domiciliare speciale nella lettura della Corte costituzionale, in Arch. nuova proc. pen., 2017, 593.
5 V. anche la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con l. 27.5.1991, n. 176, e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
6 Il Mag. Sorv. Di Lecce e Brindisi evidenziava, invero, un contrasto anche con gli artt. 3, 29 e 30 Cost.
7 Cfr. C. cost., 22.10.2014, n. 239, con cui la Consulta dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, co. 1, ord. penit., nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47 quinquies della medesima legge; nonché (in applicazione dell’art. 27 l. 11.3.1953, n. 87), nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47 ter, co. 1, lett. a) e b), della medesima legge, ferma restando la condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti. A margine della decisione v. Di Chiara, G., Tutela della maternità, detenzione domiciliare speciale e divieto di concessione dei benefici, in Dir. pen. e processo, 2014, 1277; Fiorentin, F., La Consulta dichiara incostituzionale l’art. 4 bis ord. penit. laddove non esclude dal divieto di concessione dei benefici la detenzione domiciliare speciale e ordinaria in favore delle detenute madri, in www.penalecontemporaneo.it, 27.10.2014; Pace, L., La “scure della flessibilità” colpisce un’altra ipotesi di automatismo legislativo. La Corte dichiara incostituzionale il divieto di concessione della detenzione domiciliare in favore delle detenute madri di cui all’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario, in Giur. cost., 2014, 3948; Schirò, D.M., La “carcerazione degli infanti” nella lettura della Corte costituzionale, in Cass. pen., 2015, 1067.