lingua d’oggi
L’espressione lingua (o italiano) d’oggi, così come quella, equivalente, di italiano contemporaneo (entrambe usate negli studi: per l’una Cortelazzo 2000, LId’O 2004, Dardano & Frenguelli 2008; per l’altra Lorenzetti 2002, D’Achille 2003, Cardinaletti & Frasnedi 2004), contiene un riferimento temporale che potrebbe risultare poco perspicuo. Tuttavia, non sono state finora adottate etichette alternative modellate su quelle già in uso per altre periodizzazioni, come lingua del Duemila o del primo decennio del secolo XXI e sim. Infatti, la scelta come terminus a quo dell’anno di passaggio al nuovo secolo (anzi al nuovo millennio), al di là delle suggestioni e dei significati di cui è stato rivestito (anche sul piano linguistico: Maraschio & Poggi Salani 2003), rischierebbe di introdurre un ingiustificato elemento di frattura rispetto al periodo precedente.
Nella storia (sia interna che esterna, sia strutturale che variazionale) di una lingua tradizionalmente stabile come l’italiano (per secoli, fuori della Toscana, d’uso prevalentemente letterario e comunque scritto) restano fondamentali l’epoca postunitaria (De Mauro 1963) e il Novecento (Migliorini 1990; Mengaldo 1994; ➔ Novecento, lingua del); inoltre, già negli anni Settanta del Novecento e poi soprattutto nel corso degli anni Ottanta, i linguisti più avvertiti avevano colto, almeno dal punto di vista normativo, un ‘movimento’ in atto (Accademia della Crusca 1982; cfr. anche gli interventi in Jacobelli 1987), individuando, accanto e spesso in alternativa allo standard tradizionale, la nascita di nuove varietà di riferimento (l’italiano dell’uso medio: Sabatini 1985; il neostandard: Berruto 1987; anche la lingua selvaggia: Beccaria 1985).
Rispetto alla situazione di fine Novecento – momento in cui, inoltre, l’italiano contemporaneo trovava descrizione in alcune fondamentali opere di riferimento (fra queste: Serianni 1988; Renzi, Salvi & Cardinaletti 1988-1995; Holtus, Metzeltin & Schmitt 1988; Sobrero 1993; LIP 1993; Serianni & Trifone 1993-1994) – è possibile oggi individuare ulteriori sviluppi, legati soprattutto a fattori esterni (il diverso quadro storico-politico, nazionale e internazionale; alcune importanti trasformazioni sociali, tra cui l’immigrazione inizialmente detta extracomunitaria; la crescita di peso di vecchi e nuovi media e la nascita di nuove forme di comunicazione, in partic. quelle legate al computer, alla rete e alla telefonia cellulare: cfr. Bonomi, Masini & Morgana 2003; Pistolesi 2004; Antonelli 2007), che hanno avuto importanti effetti anche sul piano sociolinguistico. Meno facile (ma cfr. Renzi 2000; 2003; 2007; D’Achille in Marcato 2003: 23-35) è individuare le effettive novità sul piano strutturale (a parte l’afflusso di ➔ neologismi), anche perché il mutamento linguistico si coglie solo o soprattutto sul medio e lungo periodo.
Il primo elemento da sottolineare – che emerge chiaramente dal confronto tra le rilevazioni compiute dall’ISTAT nel 2000 e nel 2006 e quelle degli anni precedenti, svolte anche dalla Doxa – è la costante crescita di coloro che parlano (o meglio, dichiarano di parlare) in italiano in tutti i contesti (in famiglia, con amici, con estranei), senza peraltro che a questo incremento corrisponda un abbandono definitivo del dialetto, che mostra anzi qualche segnale di ripresa, nel senso che l’uso alternato o misto di italiano e dialetto non risulta in calo, ma in lieve aumento (Trifone & Picchiorri 2008).
È evidente che l’italiano (pur diatopicamente differenziato; ➔ italiano regionale; ➔ variazione diatopica) è ormai quasi per tutti la madrelingua appresa naturalmente durante la socializzazione primaria e non imparata sui banchi di scuola, come spesso in passato. L’uso del dialetto, però, se pure non esclusivo, risulta ancora vitale, sia presso strati popolari in aree linguisticamente e culturalmente degradate, sia, in diverse realtà territoriali, anche presso fasce sociali di livello medio e medio-alto, comprese le generazioni più giovani, che non sempre lo hanno appreso in famiglia. In questo contesto, ben si spiega la presenza del dialetto, con varie connotazioni, non solo nei campi tradizionali della poesia e del teatro (➔ dialetto, usi letterari del) ma anche nella narrativa, nella cinematografia, nella canzone, ecc. Invece, appare evidente la finalità soltanto politica, in chiave secessionistica, della campagna leghista dell’estate 2009, che ebbe larga eco sulla stampa (cfr. gli interventi di vari linguisti raccolti da Pinello 2009), a favore di un riconoscimento pubblico del dialetto e del suo inserimento nella formazione scolastica. Altra questione è quella delle minoranze alloglotte. Per quanto riguarda quelle storiche (➔ minoranze linguistiche; ➔ legislazione linguistica), il Novecento si è chiuso con la legge di tutela n. 482 del 15 dicembre 1999 (pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 297 del 20 dicembre 1999), che pure presenta aspetti discutibili, specie per l’inclusione (o l’esclusione) di questo o quell’idioma tra le lingue minoritarie (Bonamore 2004); mancano invece, al momento, indicazioni legislative sulle nuove minoranze, prodotte dalle immigrazioni degli ultimi decenni, che peraltro sembrano prevalentemente orientate all’apprendimento e all’uso dell’italiano (Giacalone Ramat 2003; D’Agostino in Lo Piparo & Ruffino 2005: 70-92).
Caratterizza l’inizio del terzo millennio il tentativo, peraltro abortito, di politica linguistica, rappresentato dal progetto di istituire un Consiglio superiore della lingua italiana, con intenti normativi di tutela dell’italiano, culminanti nella discutibile proposta di compilare una ‘grammatica di Stato’ (sull’argomento si vedano gli interventi dei proponenti, Andrea Pastore e Lucio D’Arcangelo, e quelli, diversamente orientati, dei linguisti Arcangeli, Savoia e Serianni in LId’O 2004 e 2005, nonché Sgroi 2002, Orioles e Vallini in Lo Piparo & Ruffino 2005: 155-164 e 273-297). Non si può non rilevare come a questo progetto, e ad altre prese di posizione di analogo tenore contro lo ‘scadimento’ e l’‘imbarbarimento’ dell’italiano, abbia corrisposto, da parte della politica, una scarsa attenzione nei confronti sia dell’insegnamento dell’italiano, sia della sua posizione, spesso subalterna rispetto al francese e al tedesco, all’interno dell’Unione Europea. È stata piuttosto un’istituzione prestigiosa, ma non politica, come l’Accademia della Crusca (➔ accademie nella storia della lingua) a lanciare proposte in merito (cfr. Sabatini 2005a; 2005b), dall’adesione alle Raccomandazioni di Bad Homburg per la promozione delle lingue europee di uso colto (su cui cfr. anche Stammerjohann 2003) alla richiesta di inserimento nella nostra Costituzione della frase «La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano», con cui si apre la citata legge sulle minoranze (Sabatini, Coletti & Maraschio 2006).
Infine, mentre l’apprendimento dell’italiano all’estero appare in crescita, grazie a campi di eccellenza vecchi e nuovi (musica, arte, moda, cucina), alcuni dei quali assumono, anche all’interno del paese, un forte valore identitario (Trifone 20092), l’inglese, ormai divenuto lingua veicolare internazionale, insidia l’italiano nella comunicazione scientifica anche a livello intranazionale, e non solo nelle scienze ‘dure’. L’attenzione della scuola per l’apprendimento dell’inglese (la terza i, accanto a quelle di informatica e imprese, della riforma Moratti del 2003) è dunque legittima; ma a questa ha corrisposto, come si è detto, un sostanziale disinteresse (non solo dei politici, invero) per l’insegnamento dell’italiano: i periodici rapporti nazionali (come quello della commissione INVALSI sui risultati delle prime prove degli esami di maturità del 2009) e internazionali (il progetto PISA 2006 sulle competenze linguistiche dei quindicenni), che denunciano la scarsa dimestichezza degli studenti italiani anche nella comprensione, e non solo nella produzione, della lingua scritta (lacuna avvertita anche all’università, dove a partire dagli anni Novanta furono istituiti numerosi ‘laboratori’ e corsi di scrittura) trovano sempre una certa eco nella stampa e negli altri media, ma non destano alcun serio allarme.
Tracciare un profilo complessivo della lingua di oggi, ai vari livelli di analisi, non si presenta facile, data la complessità degli assi di variazione in gioco (dalla diatopia alla diamesia, dalla diafasia alla diastratia) che determinano la coesistenza, in sincronia, di tratti anche molto diversi (come risulta, per es., dalle analisi raccolte in Frasnedi et al. 2003; Della Corte et al. 2004), valutabili solo in una prospettiva sociolinguistica. Da questo punto di vista, c’è da rilevare che al quadro delle varietà del repertorio tracciato da Berruto (1987; 1993) sono state apportate negli ultimi anni alcune precisazioni (Cortelazzo 2001; Wunderli 2005; vari interventi in Lo Piparo & Ruffino 2005), ma non modifiche sostanziali, e la sua ‘tenuta’ nel tempo ne dimostra la validità.
L’attenzione per la varietà degli usi non deve portare a negare l’esistenza (soprattutto, ma non solo, nello scritto) di uno standard (Giovanardi 2010), sia pure meno rigido e monolitico rispetto al modello tradizionale in conseguenza di certi indubbi spostamenti che si sono registrati sul piano della norma linguistica, che è venuta accettando vari tratti in passato giudicati scorretti. Di certo la norma non ha più come modello di riferimento la lingua letteraria – che ha perso la sua tradizionale centralità già nella seconda metà del Novecento e che compie scelte linguistiche anche molto diverse, a seconda degli orientamenti dei vari autori (cfr. Antonelli 2006 per la prosa e l’antologia di Afribo 2007 per la poesia) – ma una serie di altre fonti, dalla lingua della divulgazione scientifica a quella burocratico-amministrativa, a quella dei media (i travasi tra linguaggi settoriali e lingua comune si fanno del resto sempre più frequenti).
In ogni caso, anche all’interno di quello che può considerarsi come lo standard attuale è possibile registrare, ai vari livelli di analisi, alcuni fatti innovativi che consentono di cogliere certe linee di tendenza del sistema. Renzi (2000; 2003; 2007) ha tentato di distinguere non solo le trasformazioni autentiche dai passeggeri fenomeni di moda, ma anche le innovazioni ‘interne’ del sistema da quelle ‘esterne’, non limitate al lessico; e ancora: tra le prime, le novità che provengono ‘dal basso’, dall’uso spontaneo, popolare o comunque parlato, e quelle che muovono ‘dall’alto’, da usi colti e testi scritti; tra le seconde, gli apporti delle diverse varietà regionali (in primo luogo quella romana; ➔ Roma, italiano di) rispetto a quelli che si possono attribuire ai contatti con l’inglese. L’inglese, infatti, determina (anche attraverso il doppiaggio di film e telefilm americani; ➔ doppiaggio e lingua) calchi a vari livelli di analisi, dalla fraseologia (si pensi al successo dell’espressione avere uno scheletro nell’armadio) alla formazione delle parole, a certe scelte sintattiche e testuali. A spiccare è però soprattutto la massiccia introduzione di ➔ anglicismi (e pseudo-anglicismi) non adattati, la cui ondata è ben lungi dall’esaurirsi (➔ itangliano) e che si insinuano anche in campi tradizionalmente impermeabili ai forestierismi come la lingua del diritto (che di recente ha accolto mobbing e stalking; ➔ giuridico-amministrativo, linguaggio) e lo stesso parlato (okay! è sulla bocca di tutti); le proposte di adattamento delle parole inglesi, anche quando sono ragionevoli (Giovanardi, Gualdo & Coco 2008), non sembrano trovare accoglimento, contrariamente alle iniziative in tal senso messe in atto da tempo in Francia e in Spagna, paesi che hanno una tradizione di ➔ politica linguistica e un mercato internazionale ben più solidi di quelli italiani.
Si tratta di livelli di analisi che, per secoli, hanno mantenuto una grande stabilità, grazie all’adozione, con pochi adattamenti, del sistema fonologico del fiorentino e alla sostanziale corrispondenza tra ➔ grafia (➔ ortografia) e ➔ pronuncia, che caratterizza l’italiano anche rispetto alle altre lingue romanze (➔ lingue romanze e italiano), che oggi peraltro registra una certa attenuazione, dovuta al mancato adattamento dei prestiti e, soprattutto, al formarsi di derivati ‘ibridi’ (da newyorkese a sbudgettare a inputare, distinto solo graficamente da imputare). A livello fonetico, come è noto, non tutti i tratti del fiorentino sono passati nello standard tradizionale (il cosiddetto fiorentino emendato), che ha per es. rifiutato la ➔ gorgia toscana e la resa come fricative delle affricate sia in bacio e pigione (dove le fricative rappresentavano l’esito originario; ➔ fonetica storica; ➔ affricate), sia in pace e cugino.
Il modello tradizionale, insegnato nelle scuole di dizione e adottato a teatro, nel doppiaggio (dove vige tuttora) e, almeno fino al 1976, anche dalla RAI, ha trovato la sua consacrazione nel DOP (1969), la cui terza edizione apparve nel 2008, promossa ancora dalla RAI. Ma ormai nel variegato panorama radiotelevisivo attuale, pubblico e privato (➔ radio e lingua; ➔ televisione e lingua), neppure nei notiziari e nelle trasmissioni culturali si segue costantemente la fonetica (e la fonologia) toscana nell’apertura delle vocali medie toniche o nella sonorizzazione delle /s/ intervocaliche e delle /z/ iniziali e intervocaliche; emergono piuttosto tratti propri della varietà romana e anche di quella settentrionale, in particolare milanese (➔ Milano, italiano di), varietà che, del resto, già nella metà degli anni Ottanta del Novecento sembrava aver conquistato il primato sul piano del prestigio e poteva essere considerata come quella più prossima allo standard (Galli de’ Paratesi 1984).
Si stenta a trovare un modello di riferimento radiotelevisivo anche per quanto riguarda la posizione dell’accento in parole di più di due sillabe: qui alla tendenza tradizionale a collocarlo sulla penultima (che può tuttora determinare errori come isotòpi o arìsta) si è contrapposta quella – forse ipercorrettistica o forse di matrice settentrionale – a ritrarlo sulla terzultima, in nomi e aggettivi come amaca, cosmopolita, edile, perone (osso della gamba), rubrica, zaffiro, in forme verbali come persuadere, constato e valuto (almeno in quest’ultima l’accento ritratto è ormai da considerarsi standard), in toponimi come Friuli e Belice, in cognomi come Salgari, in latinismi come libertas, persino nell’anglicismo performance, spesso pronunciato [ˈpɛrformans]. La tendenza a ritrarre l’accento si rileva anche in parole ossitone dove non è segnato graficamente, come cognomi di base dialettale come Benetton, toponimi stranieri come Bagdad, tedeschismi come diktat, francesismi come cognac, dépliant, ecc.
Il massiccio ingresso di parole straniere non integrate, che coinvolge anche i toponimi e i nomi di persona (tra i quali le italianizzazioni riguardano ormai solo i nomi di membri di famiglie reali, come Carlo d’Inghilterra), non ha comportato l’introduzione di nuovi fonemi né foni (la pronuncia dei forestierismi è comunque almeno parzialmente adattata), bensì una serie di particolarità che riguardano la loro posizione nella struttura sillabica. Le parole con finale consonantica (si tratti di forestierismi o di acronimi, come GIP o TAC) sono ormai accettate (e quasi tutte le consonanti possono comparire in tale posizione) e sono ammissibili sia sequenze consonantiche in precedenza impossibili, come quella di sibilante sorda + affricata palatale sorda in discentrare, sia code sillabiche ramificate, presenti in parole come film e sport. Questo fatto (in cui hanno avuto un peso anche i ➔ latinismi e i ➔ grecismi di introduzione più recente, spesso mediati da altre lingue europee) è notevole dal punto di vista strutturale e sembra avvantaggiare i parlanti del Nord (i cui dialetti presentano fenomeni simili) rispetto a quelli del Centro-Sud: pronunce come [ˈgasːe] per gas e a[tːi]mosfera o a[mː]osfera (➔ epentesi; ➔ vocale di appoggio) appaiono ormai semicolte o comunque decisamente antiquate.
Per quanto riguarda l’inventario dei fonemi, è stato giustamente rilevato (Mioni 1993) che alcune tradizionali distinzioni fonologiche proprie del modello di base fiorentina, non supportate dalla grafia e di limitata, scarsa o scarsissima funzionalità, tendono a neutralizzarsi fuori della Toscana: si tratta, nel vocalismo tonico, delle opposizioni /e/ ~ /ɛ/ (pésca / pèsca) e /o/ ~ /ɔ/ (bótte / bòtte) e, nel consonantismo, delle distinzioni /s/ ~ /z/ (chiese, con la sorda, passato remoto di chiedere, e chiese con la sonora, plurale di chiesa; ➔ coppia minima) e /ʦ/ ~ /ʣ/ (un cane di razza, con la sorda, e il pesce chiamato razza, con la sonora). Ora, alla perdita dell’opposizione tra vocali medioalte e mediobasse fa da corrispettivo una loro distribuzione assai differenziata a seconda delle varietà regionali, che non è sempre conforme al modello fiorentino, ma non lascia neppure intravedere sviluppi uniformi, se non forse la tendenza alla chiusura della vocale nel ➔ dittongo /jɛ/, reso prevalentemente con /je/. Invece, nel caso della sibilante intervocalica è stata rilevata la tendenza a realizzarla come sonora (se pure variamente articolata), sia al Nord sia anche in area centromeridionale, dove il sostrato dialettale farebbe optare per la sorda (tuttora frequente); in quest’area la sonorizzazione può verificarsi anche in presenza di un confine morfologico e in fonosintassi, come in [ˌbuɔnaˈzera], pronuncia non registrata al Nord (ma in /rizalˈtare/ la sonorizzazione è ormai generalizzata). In prospettiva, si potrebbe arrivare a un’opposizione fonologica tra /z/ sonora tenue e /sː/ sorda intensa (con nuove coppie minime come /ˈkaza/ ~ /ˈkasːa/, /ˈspezo/ ~ /ˈspesːo/). Quanto all’affricata dentale, è per lo più sonora in posizione iniziale (anche in voci dove lo standard tradizionale avrebbe prescritto la sorda: zio, zucchero; ➔ affricate) e per lo più sorda all’interno di parola (almeno quando è scritta con la doppia, o prima di /i/ o /j/), sebbene si sentano anche pronunce, forse reattive, di razzismo e nazista come [raˈdːzizmo] e [naˈʣista], nonostante l’evidente derivazione delle voci da razza «etnia» e nazione, pronunciate normalmente con la sorda.
Sempre all’interno di parola, la resa come intensa (che nello standard di base tosco-romana sarebbe generalizzata, a prescindere dalla grafia) tende a limitarsi ai casi di grafie con la doppia, sicché si hanno realizzazioni con la tenue, sorda o più spesso sonora, in polizia, azoto, ozono, ecc., col possibile sviluppo di una nuova opposizione fonologica in casi come vizi opposto a vizzi (Mioni 1993).
A proposito delle consonanti intense, c’è anche da segnalare che il ➔ raddoppiamento sintattico ha subito un certo declino (ormai perfino nei modelli forniti dalle scuole di dizione), per es. dopo ma, se, che, e si caratterizza come tratto regionale toscano dopo da, dove, come interrogativo. Il venir meno del fenomeno spiega la sua assenza in grafie come intravedere, tivù, senonché, sopratitoli.
Anche questo settore, stabilizzatosi con l’insegnamento scolastico postunitario, non fa registrare grossi mutamenti, anche perché il correttore automatico dei computer (Palermo 1997; Renzi in Lo Piparo & Ruffino 2005: 199-208) contribuisce alla diffusione dello standard, tanto che sono tuttora soggetti a forte censura gli errori ortografici, che pure si direbbero tutt’altro che rari e, accanto ai refusi, compaiono, almeno saltuariamente, anche in forme di scrittura che sono o dovrebbero essere più sorvegliate. Questo può dipendere dalla rapidità della redazione dei testi, dalla frequente assenza di rilettura, che ha ricadute anche ad altri livelli di analisi (D’Achille 2001), e dalle nuove modalità di stampa, in cui la correzione delle bozze ha perso l’importanza che aveva in passato (➔ correzione di bozze).
Resta qualche incertezza ortografica (➔ ortografia), come quella che riguarda la ‹i› di valore puramente diacritico nei plurali di nomi (e aggettivi) femminili uscenti in -cia e -gia: la regola scolastica che la richiede solo se c’è una vocale prima della terminazione (camicie e grigie ma lance e frange) si è largamente diffusa, ma, per influsso del latino, capita ancora di incontrare la grafia provincie e camicie, e il libro postumo di Oriana Fallaci (2008) è intitolato Un cappello pieno di ciliege. In estensione – e ormai abbastanza accettate – sono grafie fonetiche come spegnamo, accompagnamo invece di spegniamo, accompagniamo, che mantengono la desinenza -iamo.
Incertezze perdurano anche nell’uso dell’➔accento grafico sui monosillabi, specie su do (a volte accentato per distinguerlo dal nome della nota), nonché sul riflessivo sé, generalmente non accentato prima di stesso o medesimo; grafie aberranti come stò e fà sono sanzionate, ma non rarissime. Si rileva invece frequentemente la trasgressione della regola che prescrive l’accento sulle parole ossitone nel caso dei composti con monosillabi che, da soli, non lo richiedono: grafie come doposci, rossoblu, ventitre (e anche Raitre, come Raiuno e Raidue) sono tutt’altro che rare e anzi vengono spesso considerate quelle corrette.
L’uso dell’accento circonflesso sulla ‹i› dei plurali dei nomi maschili uscenti in -ìo è limitato a testi particolarmente accurati o di tono desueto, con la stessa funzione disambiguante che ha la possibile segnalazione dell’accento grafico sulla terzultima sillaba in caso di omografie (principî contrapposto a prìncipi, come àmbito rispetto ad ambìto).
Non più di un cenno merita il recupero (certamente favorito dall’introduzione di grecismi e forestierismi non adattati, come xenofobo o whisky) dei grafemi ‘stranieri’ ‹j› (Jovanotti, junior, pronunciato all’inglese, così come inglese è ormai lo stesso nome della lettera, detta jay e non più i lunga), ‹k› (usato per es. nella sigla di Crotone, KR, e soprattutto nel trasmesso giovanile invece di ‹ch› davanti alle vocali palatali, anche per risparmiare uno spazio), ‹w› (la sigla WWF), ‹x› (extra, mix) e ‹y› (molto usata anche in ipocoristici come Geppy e Tony; ➔ alfabeto; ➔ grafemi).
Per il resto, come tratti grafici di diffusione generale si può segnalare la riduzione (nello scritto più estesa che non nel parlato) dell’➔elisione e dell’apocope; l’elisione, a parte i numerosi casi in cui si è cristallizzata, come in d’accordo, pare obbligatoria quasi solo prima di è (c’è, ce n’è, dov’è, com’è, queste ultime due sequenze frequentissime nelle domande) e con gli articoli determinativi lo e la (e le corrispondenti preposizioni articolate) e i dimostrativi quello e quella; ma mentre nelle forme maschili è costante prima di vocale e /w/ (l’utile, dell’uomo, quell’individuo), in quelle femminili può restringersi ai casi di parola iniziante ancora con a (l’attesa; quell’amica; è invece ammessa la sequenza della Enciclopedia), restrizione che vale anche nel caso dell’articolo indeterminativo una (un’azienda, ma una Università accanto a un’Università).
Questo quadro può contribuire a spiegare, per analogia, l’indebita estensione dell’apostrofo sia dopo qual in qual è, sia dopo il maschile un, dove è relativamente estesa, come pure la sua saltuaria assenza nel caso del femminile, probabilmente per ➔ ipercorrettismo.
Un punto in cui la grafia è tutt’altro che stabilizzata è quello della ➔ composizione: se nelle locuzioni avverbiali e congiunzionali la tendenza è verso l’➔univerbazione (invece prevale da molto tempo su in vece, pressoché su presso che, nonostante su non ostante, ecc.), nei composti nominali e aggettivali si ha una varietà di soluzioni: grafia separata (italo americano, auto bomba), ➔ trattino di congiunzione (italo-americano, auto-bomba), univerbazione (italoamericano, autobomba). Normalmente si arriva all’univerbazione man mano che le forme si lessicalizzano (➔ lessicalizzazione), ma capita non di rado di trovare separati non solo primi elementi di composti, ma anche ➔ prefissi e prefissoidi che normalmente non compaiono isolati (settori scientifico disciplinari, semi nascosto, pseudo scientifico). Ancor meno stabilizzate sono le univerbazioni di polirematiche (pan di Spagna prevale tuttora su pandispagna; ➔ polirematiche, parole).
Infine, appaiono in declino anche nello scritto, oltre che nel parlato, la d eufonica (limitata quasi solo a casi con due vocali identiche: è stato il primo ad arrivare; ed ecco che … ) e la i prostetica (➔ fonetica sintattica; ➔ vocale di appoggio), che resiste solo nella formula per iscritto. Nell’uso delle maiuscole iniziali (➔ maiuscola), se sono in decrescita grafie come Santo, Papa, Paese, Stato, Repubblica, ecc., si ha viceversa un loro indebito intensificarsi, per probabile influsso inglese, nei nomi dei mesi nelle date (15 Aprile 2010), negli ➔ etnici aggettivali e nei glottonimi (uno studente Inglese, in Italiano).
Anche in questo settore (➔ flessione) l’italiano si è caratterizzato a lungo per la sua stabilità, che è stata ulteriormente rafforzata, nel corso del Novecento, dalla progressiva riduzione della polimorfia. La sovrabbondanza di forme, soprattutto all’interno del sistema verbale, che caratterizzava ancora la lingua dell’Ottocento (Migliorini 1960), è andata via via scemando: attualmente, forme come debbo, segga, offerse, potette, dette, veduto, pur non essendo affatto uscite dall’uso, appaiono senza dubbio in forte regresso rispetto a devo, sieda, offrì, poté, diede, visto. Ancora maggiore la riduzione della polimorfia (sia essa morfologica o esclusivamente fonetica) nel caso dei nomi (uffizio, giovine hanno ceduto da tempo il campo a ufficio, giovane), a meno che non si tratti di ➔ allotropi (prezzo e pregio); anche nei plurali dei nomi in -co e -go le alternanze tra forme concorrenti (chirurghi / chirurgi) si vanno riducendo.
Nella morfologia nominale si può registrare la crescita di peso della classe degli invariabili, originariamente marginale (D’Achille & Thornton 2003), in cui vengono inseriti non solo i ➔ forestierismi uscenti in consonante, ma anche nuovi nomi maschili in -a (numerosi, a dispetto delle regole fonologiche dell’assegnazione di genere, che prevedono per l’uscita in -a la scelta del femminile; Thornton 2003) e persino in -o (D’Achille 2005), e soprattutto nomi femminili in -o (D’Achille & Thornton 2008). In questo quadro l’accoglimento di euro al plurale, secondo la Nota comunitaria europea del 1998, non ha trovato troppe resistenze (la forma euri è però documentata, almeno a livello popolare, specie in Toscana e a Roma, e si registrano anche forme femminili plurali come le dieci euro). Negli articoli determinativi si segnala qualche incertezza nella scelta tra il e lo prima di parole inizianti in ‹w› o ‹j› o con nessi consonantici (il whisky, lo whisky o l’whisky, il judo o lo judo, il pneumatico o lo pneumatico, ecc.).
Più rilevanti le innovazioni nel sistema, molto complesso, dei pronomi personali (➔ personali, pronomi) e in particolare dei ➔ clitici. Qui – almeno nel parlato – sembrano essersi ormai definitivamente completati processi di lunga durata, come la vittoria di lui / lei in funzione di soggetto su egli / ella (Vanelli in Marcato 2003: 59-70; ➔ lingue romanze e italiano) e anche su esso / essa (al plurale esse / essi resistono un po’ meglio a loro), l’espansione di gli al posto dello pseudoclitico plurale loro (Cardinaletti in Cardinaletti & Frasnedi 2004: 49-75, che tratta pure del caso, diverso, e ancora substandard, di gli invece del femminile le), di ci locativo invece di vi.
Tra le altre innovazioni si possono indicare l’espansione (da Roma in su) di te anche come forma di soggetto invece di tu (da rilevare la coesistenza di tu ed io e io e te), l’uso desemantizzato di ci con essere e avere (esserci e averci) e la sua lessicalizzazione con verbi come entrare (dove il processo è particolarmente avanzato, tanto che c’entrare invece di entrarci «riguardare, essere pertinente» è attestato, forse favorito dalla preesistenza di centrare «mettere al centro»), volere, stare, ecc. Ma un po’ tutti i clitici tendono, specie nel parlato, a legarsi a particolari verbi (definiti a volte procomplementari: Viviani 2006) e, più in generale, a perdere il loro valore propriamente pronominale (Berretta 1985; 1993; ➔ pronominali, verbi).
Per quanto riguarda i verbi, non si individuano, dal punto di vista propriamente morfologico, effettive novità, a parte la tendenza verso una possibile accettabilità di alcune forme analogiche tuttora substandard, come l’estensione di -isc- a verbi in -ire che non appartengono a questa sottoclasse o la regolarizzazione dei composti degli irregolari dire, fare e venire.
Invece, sul piano funzionale si nota, specie nel parlato, la tendenza alla ➔ semplificazione del sistema tradizionale, anche in questo caso particolarmente complesso: molte forme, infatti, risultano oggi di uso piuttosto raro e sembrano avviate a un lento declino o comunque sono esclusive di registri molto formali e accurati, mentre altre tendono ad allargare la loro sfera d’uso e ad assumere nuovi valori (temporali, modali, aspettuali) che si aggiungono a quelli tradizionali e che, in prospettiva, potrebbero arrivare talvolta a soppiantarli (➔ lingue romanze e italiano).
Così, per es., tra i tempi dell’indicativo, il presente sostituisce non solo il passato nei testi narrativi (al ➔ presente storico si lega l’uso, nello scritto, del ➔ futuro ‘storico’, in alternativa al condizionale passato, per indicare eventi posteriori), ma spesso anche il futuro (vengo domani), che ha a sua volta sviluppato un valore epistemico di dubbio (sarà anche giusto, ma non mi convince); il presente indicativo può avere anche valore iussivo prendendo il posto dell’➔imperativo (adesso ti siedi e mi stai a sentire invece di adesso siediti e stammi a sentire; si noti, comunque, la preferenza per la perifrasi stare a + infinito; ➔ perifrastiche, strutture; ➔ emiliano-romagnoli, dialetti) o rimpiazzare il presente congiuntivo in certe dipendenti, in particolare (a volte in alternativa al futuro) nelle completive rette da verbi di opinione (non penso che è vero; credo che verrà; analogamente si ha l’imperfetto indicativo invece del congiuntivo in non sapevo chi era; ➔ completive, frasi). Il ➔ passato prossimo è largamente preferito al ➔ passato remoto (morfologicamente spesso irregolare e assente nei dialetti settentrionali), anche per eventi cronologicamente lontani, mentre l’➔imperfetto, che in certi testi scritti può assumere anche il valore puntuale e perfettivo proprio del passato remoto, ha vari usi modali: in partic., sostituisce spesso il congiuntivo e/o il condizionale in periodi ipotetici (se venivi ti divertivi) e può avere valore attenuativo, di cortesia o di modestia (volevamo due caffè; ti cercavo per chiederti una cosa; ➔ cortesia, linguaggio della; ➔ mitigazione).
Il ➔ congiuntivo, di cui già alla metà del Novecento si lamentava la prossima ‘morte’, cede spesso il campo all’indicativo nelle completive, nelle ➔ interrogative indirette e nelle relative restrittive (➔ relative, frasi), ma è tuttora usato, sia nel parlato sorvegliato, sia soprattutto nello scritto, in molte subordinate; nelle principali va segnalata l’espansione dell’imperfetto, invece del presente ‘esortativo’ (lo facessero, una buona volta!), di matrice romana e meridionale (Renzi 2007). Il ➔ condizionale si caratterizza soprattutto come modo del ➔ discorso riportato. Tra i modi indefiniti, l’infinito presente si usa spesso al posto dell’imperativo, specie in cartelli e in manuali di istruzione (introdurre la carta; agitare prima dell’uso); il participio presente mantiene valore verbale solo in testi burocratici (si ricorda ai docenti componenti la commissione); il participio passato può essere usato al superlativo anche quando ha valore verbale e non aggettivale (il concerto è stato applauditissimo), mentre il ➔ gerundio (che non ha sempre un legame diretto con il verbo della principale, assumendo così valore testuale: riassumendo, la situazione appare complessa) ha molto successo in titoli (Ballando con le stelle; ➔ titoli), tanto che la terminazione -ando (anche per calco dell’inglese) si estende, in nomi di aziende commerciali o di manifestazioni, a nomi non convertiti in verbi (pizzando, chitarrando).
Nei ➔ tempi composti, la scelta degli ausiliari appare sostanzialmente stabilizzata (tranne che nei verbi cosiddetti atmosferici, dove si alternano ha nevicato ed è nevicato; ➔ atmosferici, verbi; in altri casi il verbo assume caratteri diversi a seconda dell’ausiliare; così in ha fiorito ~ è fiorito, ho scivolato ~ sono scivolato, ecc.; ➔ ausiliari, verbi); resta invece instabile l’accordo del ➔ participio passato all’oggetto nelle forme composte con l’ausiliare avere e con i verbi pronominali (ma ho fatto la spesa, mi sono bevuto una bibita e grazie per averci seguito sembrano prevalere rispetto a ho fatta la spesa, mi sono bevuta una bibita e grazie per averci seguiti; ➔ pronominali, verbi). Molto in espansione sono le strutture perifrastiche: anzitutto stare + gerundio, probabilmente favorito, anche attraverso il doppiaggio, dal modello inglese (Degano 2005), ma anche (come si è detto prima) stare a + infinito (alternativo al precedente con i verbi di percezione, in frasi negative, con gli imperativi), andare a + infinito, avere da + infinito, ecc.
Nella lingua di oggi le neoformazioni sono prodotte grazie ai tradizionali meccanismi di derivazione e composizione, ma vi sono alcuni fatti degni di nota (cfr. Terreni in Cardinaletti & Frasnedi 2004: 163-85, e soprattutto Grossmann & Rainer 2004; Dardano 2009).
Non tutti i ➔ prefissi e i ➔ suffissi tradizionali risultano tuttora produttivi, né, tra quelli produttivi, tutti hanno la stessa numerosità e frequenza; tra i prefissi più usati si possono citare anti- (misure anticrisi; come si vede dall’esempio è questo forse il solo prefisso che consente un cambio di categoria rispetto alla base), post- (governi post-comunisti; ma forte è la concorrenza dei composti con dopo, come dopo-elezioni), trans- (transavanguardia), iper- (iperattivo), super- (supereroi). Tra i suffissi produttivi, si possono citare -ista da basi nominali e -tore da basi verbali per i nomi d’agente (il tradizionale -aio è scarsamente produttivo, mentre il romanesco -aro dà luogo soprattutto a neoformazioni espressive; ➔ agente, nomi di); -zione, -mento, -tura e -aggio per i nomi d’azione (➔ azione, nomi di); -ità e -ismo rispettivamente per i nomi astratti e per nomi di movimenti e tendenze; -izzare (da cui -izzazione) per i verbi (cannibalizzare e cannibalizzazione); -ale, in espansione anche per influsso inglese (opzionale, decisionale), ma anche -(i)ano, -ista e -istico, -ato per gli aggettivi, ecc. Resta produttiva l’➔alterazione, tipica dell’italiano (➔ immagine dell’italiano; ➔ lingue romanze e italiano), e si ha spesso la lessicalizzazione degli alterati, che assumono un significato autonomo rispetto alle basi (messaggino, calcetto, telefonino). Da registrare anche la diffusione del cosiddetto suffisso zero nella ➔ conversione di nomi in verbi e viceversa (così da fax si è avuto faxare «inviare per fax», da allacciare si è tratto allaccio invece di allacciamento; nel caso di qualifica invece di qualificazione si può parlare invece di sottrazione di suffisso); resta ancora praticabile il meccanismo della parasintesi (➔ parasintetici), che tiene in vita la classe dei verbi in -ire (svelenire).
Più rilevanti, forse, le novità nella ➔ composizione, in particolare nei vari sottotipi delle formazioni nome + nome, alcuni dei quali scarsamente rappresentati in passato, come i composti formati per ellissi della preposizione che esprime la subordinazione del secondo elemento al primo, derivati dunque da polirematiche (come banca dati o bagnoschiuma), oppure le combinazioni asindetiche come partito-azienda o lista civetta da un lato ed effetto serra o allarme inquinamento dall’altro, nonché i composti ibridi, formati con un elemento italiano e uno straniero (per lo più inglese), tra loro coordinati o subordinati e in cui non sempre la testa è costituita dal primo componente (si pensi a incentivi boom). Tra i composti verbo + nome alcuni sono usati come aggettivi (film mozzafiato, farmaco salvavita); in crescita anche i composti aggettivo + aggettivo (in particolare gli ➔ etnici) che, almeno occasionalmente, possono essere formati da più di due elementi (anglo-franco-tedesco). La composizione neoclassica, realizzata con prefissoidi e suffissoidi latini e soprattutto greci (➔ elementi formativi), continua ad essere in espansione e vari elementi assumono progressivamente nuovi valori (si pensi a euro-, prima usato nel senso di «relativo all’Europa», poi anche come «proprio dell’Unione Europea», infine pure nel senso di «relativo alla moneta dell’Unione Europea», o a -poli, che dal valore di «città» ha sviluppato, a partire da tangentopoli, quello di «fenomeno di corruzione»). Notevole peso, infine, hanno fenomeni di riduzione, dall’uso di ➔ sigle (spesso modellate sull’inglese, come AIDS), agli accorciamenti (come le recenti info «informazioni», demo «dimostrazione»), che coinvolgono i nomi di persona (dove si può avere la perdita della marca di genere, come in Simo «Simone o Simona», Fede «Federico o Federica», ecc.; ➔ antroponimi), dalle ➔ parole macedonia (glocalizzazione; lo scherzoso Veltrusconi) ad alcune ➔ retroformazioni (come spaghi «spaghetti», cappuccio «cappuccino»).
Secondo Benincà (1993), è difficile parlare, per l’italiano contemporaneo, di vere novità sintattiche: anche i calchi dall’inglese, come l’interrogativa detta bifocale, diretta o indiretta (il tipo chi ha visto chi?) restano circoscritti a dati tipi testuali e sostanzialmente estranei al sistema. Altri calchi sintattici dall’inglese, come si è detto, sembrano però avere maggior diffusione. Da segnalare, inoltre, certi spostamenti nella ➔ reggenza del verbo, con intransitivi usati transitivamente (è il caso di operare, viaggiare e vivere) o al posto delle forme pronominali (alternare per alternarsi, dirigere per dirigersi, ecc.).
Nell’ordine delle parole nell’italiano di oggi si rileva la ➔ grammaticalizzazione di alcune strutture originariamente marcate, documentate da secoli ma a lungo considerate scorrette: il mancato accordo del verbo (al singolare) con il soggetto ‘nuovo’ posposto (alla cerimonia ha partecipato il sindaco e il presidente della provincia); la dislocazione a sinistra dell’oggetto diretto, ormai largamente accolta nello scritto e del tutto normale, in alternativa al passivo, nel parlato, dove inoltre gli oggetti caratterizzati dal tratto [+ umano], almeno in dipendenza di verbi psicologici come convincere, invitare, ecc., possono essere preceduti dalla preposizione a (a me la spiegazione non (mi) ha convinto, a Maria nessuno l’ha invitata; ➔ accusativo preposizionale; ➔ clitici); la dislocazione a destra, in cui l’elemento anticipato dal pronome non si caratterizza come ‘dato’ ma come ‘nuovo’, e che è particolarmente frequente nelle interrogative polari (l’hai letto l’articolo su Panorama?; ➔ dislocazioni); la frase scissa (➔ scisse, frasi), che nel parlato è usatissima nelle interrogative restrittive (dov’è che hai messo le chiavi della macchina?) e si trova anche nei tipi è che … e non è che … (➔ negazione), mentre nello scritto serve spesso a marcare un cambiamento di tema e va dunque letta in chiave testuale; la frase presentativa (➔ focalizzazioni), che nel parlato introduce più elementi nuovi (c’è qualcuno che ti vuole parlare), ecc.
Nella sintassi del periodo si può citare la riduzione, sul piano sia quantitativo sia qualitativo, delle congiunzioni subordinanti tipiche dello scritto tradizionale: questo tratto caratterizza, ovviamente, soprattutto il parlato, dove, per es., siccome sostituisce poiché e ha largo spazio il che subordinatore generico; diffuso anche, per introdurre una relativa, il ➔ che polivalente (seguito o no da ripresa pronominale), che però resta più marcatamente substandard. Anche lo scritto sembra spesso puntare a una semplificazione sintattica, quale si coglie, oltre che nella frequente adozione dello ➔ stile nominale, nell’alleggerimento delle strutture ipotattiche che hanno caratterizzato per secoli l’italiano. La riduzione della profondità della subordinazione non va però sempre attribuita alla pressione del parlato: cresce infatti anche l’inserzione di frasi incidentali, sintatticamente autonome, che, unitamente alla «estrazione interpuntiva di materiale linguistico», va nella direzione di una maggiore complessità. Pertanto, la lingua scritta di oggi sembra soprattutto «attenta a controllare, anche localmente, l’architettura semantico-pragmatica dei testi» (Ferrari 2007: 79).
In chiave testuale vanno interpretate anche alcune innovazioni sul piano della punteggiatura (Ferrari 2003; Francesca Gatta in Cardinaletti & Frasnedi 2004: 267-79; ➔ punteggiatura), come l’estensione, nella narrativa ma spesso anche nel giornalismo, del punto fermo, posto prima di sequenze subordinanti e coordinanti, di sintagmi nominali e preposizionali: le spezzature ottenute consentono di non esplicitare i nessi logici e sintattici tra i vari sintagmi, che vengono così tutti in certo modo focalizzati. Ma se il punto prende a volte il posto della ➔ virgola, in altri casi è questa a sostituire il punto, ponendosi tra frasi del tutto indipendenti.
Nella narrativa contemporanea non mancano neppure casi di totale assenza di punteggiatura, che possono di volta in volta arieggiare il parlato, rendere il flusso dei pensieri (secondo il modello del monologo interiore), ottenere particolari effetti ritmici. In declino, infine, almeno in molti tipi di testo (e soprattutto nella scrittura in rete; ➔ Internet, lingua di) il punto e virgola.
Prima di concludere si segnalano vari fatti, forse meno rilevanti dal punto di vista strutturale, ma utili per caratterizzare la lingua di oggi, o perché rivelano aspetti sociolinguistici interessanti, oppure perché documentano mode e tendenze spesso considerate con avversione: alcuni rientrano infatti in quella che è stata definita come «lingua di plastica» (Castellani Pollidori 1995; 2004), che trova largo spazio nei media.
Anzitutto, un problema sociolinguisticamente significativo è quello della mozione (Thornton in Grossmann & Rainer 2004: 218-27), specie per quanto riguarda l’indicazione del genere per nomi di professioni e attività un tempo riservate all’uomo: la ricerca del ➔ politically correct ha determinato una certa riduzione dei suffissi -essa e -trice (forme di matrice femminista come la studente, la professora, la direttora non si sono però di fatto mai imposte; ➔ genere e lingua; ➔ femminile), ma si oscilla tuttora tra il ministro (con il mantenimento del maschile anche quando si tratta di una donna, che crea problemi di accordo in frasi come il sindaco è stata molto impegnata), la ministra (spesso ironico) e la ministro (ma al plurale le ministro è di fatto non usato, al contrario di le soprano, diffuso accanto a i soprani); da notare che a volte – anche in conseguenza di mutamenti nel costume – il nome maschile è il derivato e il femminile la base (divo «attore di successo» è posteriore a diva; mammo «padre che fa le veci della madre» e nuoro «compagno del figlio omosessuale» sono stati tratti da mamma e nuora). Legato alle tematiche femministe è anche il relativo declino dell’articolo determinativo prima del cognome di donne (Bonino e non la Bonino), che peraltro è ancora diffuso; con i cognomi di uomini, e con i nomi di persona maschili e femminili, la presenza dell’➔articolo è invece marcata diatopicamente come toscana e settentrionale (ma anche, per quanto riguarda i nomi, meridionale: vedi salentino lu Carlu). La ricerca del politicamente corretto ha determinato anche la diffusione di alternative eufemistiche per nomi di mestieri considerati umili (operatore ecologico invece di mondezzaio o spazzino), o per particolari categorie di malati (non udenti invece di ciechi).
A mutamenti nei rapporti sociali si legano le recenti trasformazioni nell’uso degli allocutivi (➔ allocutivi, pronomi): al singolare si ha la crescita del tu confidenziale (che in origine caratterizzava dialettalmente l’uso popolare di Roma e di altre zone dell’Italia centrale e in grande estensione a partire dal Sessantotto) e la limitazione del voi di cortesia all’area meridionale; al plurale la restrizione del loro corrispondente al lei solo a testi e contesti molto formali. Anche nelle formule di saluto (➔ saluto, formule di), oltre all’espansione del ciao (come saluto anche collettivo, sia di esordio sia di congedo, che presuppone il tu), si può registrare la ripresa di salve come saluto di media formalità, usato anche dai giovani (Canobbio, in Marcato 2003: 147-154). Dal linguaggio giovanile sono risaliti all’italiano comune vari tratti, dal troppo con valore relativo (troppo forte! «bellissimo»), alle interiezioni inglesi (o)ops!, diffusasi grazie ai fumetti e usata sempre più spesso come segnale di scusa, o wow (anche uau!), all’introduttore della serie …, ricavato dagli annunci televisivi. Ormai da tempo detabuizzati sono vari termini disfemici (Giovanni Nencioni in Accademia della Crusca 1982: 5-33), da casino, usato con valore avverbiale, a cazzo, quasi grammaticalizzato nel parlato in domande come (che) cazzo dici?, peraltro fortemente marcate in diafasia (➔ parole oscene).
Tra le grammaticalizzazioni primarie e secondarie diffuse soprattutto nel parlato si possono citare (Renzi 2000) tipo con valore avverbiale (lui pensa tipo che …), che ha precedenti milanesi già negli anni Cinquanta, (e) quant’altro come conclusione di enumerazioni di qualunque natura, e piuttosto che, che nello standard tradizionale istituisce una comparazione di preferenza, mentre nell’uso contemporaneo (ma anche qui c’è una matrice milanese o comunque nordoccidentale) ha assunto anche il valore di semplice alternativa, perfetto equivalente di oppure. In continuo movimento, infine, il settore dei ➔ segnali discorsivi.
Nella lingua di oggi si registrano indubbiamente tendenze evolutive, dovute in parte alla sua stessa espansione in una gamma di usi assai diversificata; alcune sembrano di carattere strutturale, altre si direbbero legate piuttosto a spostamenti di carattere normativo; alcune si possono definire endogene, interne al sistema (e spesso hanno un retroterra storico consistente), altre sono esogene, legate cioè agli apporti delle varietà regionali diverse da quella toscana e ai contatti con le lingue straniere e soprattutto con l’inglese. Il quadro appare mosso e, in certi aspetti, persino contraddittorio. La registrazione di fenomeni nuovi non deve però far trascurare gli elementi di continuità con la lingua della tradizione, che appaiono tuttora saldi. Lo stesso contesto sociale sembra, al di là di certe apparenze, favorire la stabilità piuttosto che la ‘deriva’ a volte pronosticata.
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