cinema, lingua del
L’arte cinematografica giunse in Italia prestissimo, portando al seguito un intero armamentario lessicale, in gran parte preso in prestito dalla fotografia: fotografia animata (vivente) e proiezione animata, per l’appunto, veniva detto il cinema delle origini; apparecchio, o macchina, da presa, era il cinematografo (la macchina brevettata dai fratelli Auguste e Louis Lumière); quadro (animato o mobile) era l’immagine filmica, con i derivati inquadratura e inquadratore. La nuova arte adattò spesso, com’è ovvio, i vecchi significati, com’è il caso di film (cioè «pellicola»), pellicola, proiettare, proiezione, prendere «riprendere con continuità una serie di fotogrammi» (Raffaelli 2003: 524).
Com’è noto, ben presto film e pellicola passarono a designare, per metonimia, non più il supporto, bensì il prodotto filmico nel suo complesso. Oltre a quelli citati, tra i primi tecnicismi attestati in italiano prima del 1900 si ricordano almeno: cinematografia, cinematografo, manifesto, manovella, schermo, spettacolo, spettatore, treppiedi. Entro il 1910 entrarono, tra gli altri: azione, bigliettario, cabina, camerino, casa (di cinematografia), cinematografaro, dal vero, effetto, manovratore, negativo, operatore, parte, positivo, proiettore, sala, scritturare, teatro di posa (Raffaelli 1993: 125-126).
Meno significativa fu, in un primo momento, l’influenza della terminologia teatrale, se si esclude il precoce scena (fin dal 1895; Raffaelli 1992: 159), che però ebbe, oltre al significato specifico di «sezione delimitata dell’opera filmica», anche quello più generico di «opera cinematografica nel suo complesso», in alternanza con i sinonimi veduta, visione, quadro e cinematografia. Nell’arco del primo decennio del Novecento, l’influenza teatrale sul cinema si consolidò, nei prodotti artistici come nel lessico tecnico, come testimoniano termini quali figurante e comparsa «attore», posare «recitare», soggetto e soggettista, scenario, oltre ai più ovvi attore, recitare e, successivamente, sceneggiatura e sceneggiatore.
Tuttavia, l’osmosi terminologica e stilistica tra cinema e teatro non ebbe in genere vita facile nel primo ventennio del secolo, giacché i due mezzi guardavano con sospetto l’uno ai successi dell’altro. Ne sono prova denominazioni del cinema come antiteatro (Raffaelli 1992: 160-161) e dichiarazioni contro il cinema sonoro a favore del teatro, quali l’articolo di Luigi Pirandello Se il film parlante abolirà il teatro («Corriere della sera» 16 giugno 1929). Successivamente le ostilità si placarono, anche perché i due mezzi condividevano spesso attori e autori, oltreché termini. «In particolare, teatro e cinema accolsero simultaneamente, nel 1932, regia e regista, per iniziativa di Silvio D’Amico» e di Bruno Migliorini (Raffaelli 1992: 161). Prima dei nuovi conii, le nozioni di «regia» e di «regista» erano espresse, al cinema, con una messe di sinonimi (talora forestierismi e calchi), d’origine teatrale: direzione (artistica), mise en scène, messa in scena, inscenamento, i(n)scenatura, direttore (artistico), direttore di scena, direttore scenico, i(n)scenatore, maestro di scena, metteur en scène, mettitore di/in scena, régisseur e altri ancora.
La questione della designazione del ruolo del regista, e più ancora quella dell’esatta definizione di autore, in ambito cinematografico, oltrepassa il mero limite lessicologico, coinvolgendo la storia delle teorie e delle prassi delle arti performative. Dopo un periodo iniziale in cui il problema della paternità di un film, opera quant’altre mai d’équipe, non veniva neppure avvertito, si passò ad attribuire l’autorialità esclusiva dell’opera filmica soprattutto al soggettista, specie a fini promozionali, quando si trattava di nomi celebri (come il caso del D’Annunzio di Cabiria). A partire dagli anni Venti, con la maturazione espressiva del nuovo mezzo, sempre più affrancato dalla letteratura e dal teatro, i critici più accorti cominciarono a riserbare il titolo di autore al direttore della realizzazione, che nel decennio successivo sarebbe per l’appunto stato nominato sempre più spesso regista (Raffaelli 1978: 201-288).
Per garantire la comprensione dei tecnicismi cinematografici, fiorì in Italia una precoce pubblicistica settoriale: Guglielmo Re, Vocabolario delle proiezioni (1907), Francesco Pasinetti, Dizionario cinematografico (1939) e Voci generali e tecniche (1948), e molti altri saggi e sezioni di libri. Senza contare i numerosi dizionari bilingui o plurilingui sull’argomento, tra i quali quello di Ernesto Cauda, Dizionario poliglotta della cinematografia (1936; Raffaelli 2003: 523-424).
Testimone autorevole della conseguita maturità del lessico tecnico cinematografico fu Luigi Pirandello con il suo romanzo Si gira ..., del 1915, riedito nel 1925 col titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Sono circa cento i tecnicismi presenti nel romanzo pirandelliano, quasi tutti ancora vivi: agente, attrezzista, azione, camerino, campo, effetto, tenere in fuoco, girare, macchinista, manovratore, operatore, produzione, sala di prova, scenario, scenografo, scritturare, teatro di posa, viraggio, ecc. (Raffaelli 1993: 69-91). Ma Pirandello non è l’unico né il primo caso di scrittore ad essersi accostato quasi subito al mondo del cinema e ad averne portato gli echi tecnicistici nella propria opera letteraria: vanno infatti ricordati, almeno, Gualtiero I. Fabbri, con la novella Al cinematografo, del 1907 (Fabbri 1993); Jarro (Giulio Piccini), Le novelle del Cinematografo, 1910; Augusto Pala, Scene cinematografiche, 1912 (Raffaelli 1993: 17-27).
Segno di rapida e duratura fortuna della nuova arte sono i numerosi derivati. Tra i primi ad affermarsi si ricordano: cinematografista, cinematografare e filmare. Non mancano neppure creazioni autonome (o meglio, accezioni tecniche di termini preesistenti), quali esterno e interno «scena ripresa in ambiente aperto o chiuso», comica e documentario.
Come illustrato da Raffaelli (2003: 524), «verso la metà degli anni Dieci il linguaggio cinematografico raggiunse nelle maggiori lingue un assetto maturo e stabile, che era frutto anche di spontanea selezione, a danno dei sinonimi meno pertinenti; tuttavia esso non si liberò né allora né in seguito di numerosi termini che non possedevano l’univocità semantica propria del maturo tecnicismo». Numerosi rimangono infatti i casi di polisemia, quali cinematografo «apparecchio per le riprese», «cinema inteso come sistema e forma espressiva», «locale pubblico di proiezione», «spettacolo filmico»; e di sinonimia: compagnia, troupe «gruppo di attori ed altro personale artistico e tecnico» (ibidem). Alcuni termini cambiano accezione, come per es. inquadratura, che dal significato originario di «elaborazione del soggetto in scene» passa, intorno al 1920, all’attuale significato di «immagine ripresa tra due stacchi». Altri termini cadono presto in disuso, come fonofilm, soppiantato da cinema sonoro già a metà degli anni Trenta.
Esteso e precoce è anche il contingente dei gergalismi. Negli studi di Hollywood negli anni Trenta, per es., si registrano alcuni italianismi quali cabiria «carrello» (uso antonomastico dal kolossal storico Cabiria, primo film ad aver fatto uso, per l’appunto, del carrello, consistente in un dispositivo di binari su cui far muovere senza scosse la macchina da presa su un piano orizzontale), comic «comica cinematografica», forte «bene», gobbo «pannello antisonoro», spaghetti «pellicola aggrovigliata». Anche il sopracitato kolossal è termine d’origine italiana propagatosi (attraverso il tedesco, come indica il k iniziale, e forse il francese) in America e, da lì, in tutto il mondo del cinema, a testimonianza del livello e del successo rapidamente conseguiti dalla cinematografia italiana nelle imponenti realizzazioni scenografiche, di carattere storico, per le ampie platee (prima di Cabiria, notevole anche Quo Vadis, 1913, di Enrico Guazzoni).
A metà del Novecento erano attestati, tra gli altri, i seguenti gergalismi, di provenienza romana: chiocciola o lumaca «dispositivo per creare ventilazione», giraffa «supporto del microfono pensile», millepiedi «cassetta elettrica a derivazioni multiple», topolino «involto trascinato sulla superficie dalla cinepresa mobile, utile per segnalare agli attori la distanza da tenere rispetto all’obiettivo», ragno «supporto della cinepresa», caccola «emulsione incrostata», catarro «effetti di cattiva riproduzione sonora», pioggia «rigatura longitudinale sulla pellicola, tipica dei film proiettati molte volte», castagnetta «ciak», fegatello «segmento di pellicola impressionata», insalata «pellicola aggrovigliata», padellone «apparecchio per creare una luce diffusa», madama «grande lampada ad arco». Di questi e di altri termini dà conto il regista Alessandro Blasetti, che riporta numerose parole e locuzioni decisamente più gergali che tecniche e, proprio per questo, davvero caratteristiche del mondo del cinema: impallare (dal gioco del biliardo, laddove la palla si colloca tra i birilli e il pallino) «nascondere, non rendere visibile all’obiettivo»; girare a cavallo «girare una scena in esterno con una luce crepuscolare, in un’ora intermedia tra il giorno e la notte»; dall’aeronautica provengono cabrare e picchiare, ovvero «volgere la macchina da presa verso l’alto o verso il basso». Ultimo gergalismo della rassegna blasettiana è il fortunato maggiorata: «Proviene dal film Altri tempi! (sketch Il processo di Frine [1952, di Blasetti]) e precisamente da una battuta coniata dallo sceneggiatore A. Continenza per l’arringa dell’avvocato (Vittorio De Sica), che definisce maggiorata fisica la sua difesa (Gina Lollobrigida), donna di irresistibile floridità di forme, degna perciò di essere assolta dal suo crimine come lo sarebbe una ‘minorata psichica’» (Blasetti 1958: 1070).
Data la preponderanza di Roma nel sistema di produzione italiano, non meraviglia che alcuni gergalismi d’area romana o centromeridionale si siano presto affermati (e siano talora anche decaduti) nell’italiano comune: cinematografaro, puzzonata e boieria «film mediocre», pizza «rotolo di pellicola e suo contenitore». Vita non facilissima ebbero invece i forestierismi, almeno fino alla fine degli anni Trenta, per le note tendenze xenofobe e autarchiche della politica linguistica fascista (➔ fascismo, lingua del), e già prima di quella giolittiana. La prima norma contro i forestierismi in ambito pubblico risale al 1913:
I titoli, i sottotitoli e le scritture, tanto sulla pellicola quanto sugli esemplari della domanda, debbono essere in corretta lingua italiana. Possono tuttavia essere espressi in lingua straniera, purché riprodotti fedelmente e correttamente anche in lingua italiana (Regolamento per l’esecuzione della legge 25 giugno 1913, n. 785, relativa alla vigilanza sulle pellicole cinematografiche; Raffaelli 1992: 169-170)
Tale norma, con qualche aggiustamento, rimase nella sostanza invariata anche nell’epoca del sonoro. Ecco le proposte di italianizzazione dell’Accademia d’Italia nel 1941:
disegno animato per animated cartoon, rocchetto per bobine, ciàc per ciak, cinecronaca per reportage, pacchetto per filmpack, trovata per gag, mischiatura per mixage, fonofilm per phonofilm, fonoregistro per record, rulletto per roll film, cortometraggio per short, stella o diva per star, trasparente per transparency, scenario per treatment, autosonora per track (Raffaelli 2003: 525)
Tra gli adattamenti più controversi si ricordano quello di doppiaggio, dall’ingl. dubbing attraverso il fr. doublage. In realtà, negli anni Trenta circolavano in Italia anche i forestierismi dubbing, to dub, doublage, doubler e dublé. Nel 1941 Bruno Migliorini suggerì doppiatura, per la pratica, e doppiato, per il risultato, entrambi da preferirsi al francesizzante doppiaggio, tuttora, però, prediletto dai parlanti comuni in entrambe le accezioni. Per quanto riguarda l’etimologia, va ricordato che to dub non ha il significato di «raddoppiare», bensì quello di «foderare», riconducibile al francese medievale adoubler, similmente all’italiano addobbare: «sostituire, senza danno per l’immagine, il rivestimento sonoro» (Raffaelli 2001: 892-893); altro significato pertinente è quello di «indicare, denominare». La nuova pratica del doppiaggio porta con sé tutta una serie terminologica, già a metà degli anni Trenta: adattamento, riduzione, ridurre e riduttore, sincronizzare, sincronizzazione e sincronismo, che diede subito vita all’abbreviazione gergale sin (oggi sinc «sincronismo labiale»; Rossi 2006: 274); dialoghista e concertatore furono proposti nel 1937 da Giacomo Debenedetti per designare rispettivamente l’adattatore e il direttore del doppiaggio.
Gli stessi termini indicanti la nuova arte (detta dapprima, letterariamente, anche sesta o settima arte, arte muta, arte del silenzio, decima musa) si acclimatarono con qualche difficoltà. In primo luogo, ancor prima dell’invenzione dei Lumière, va ricordata quella dell’americano Thomas A. Edison, che già nel 1889 aveva messo a punto un sistema per la registrazione (Kinetograph) e la riproduzione, per un unico spettatore alla volta (Kinetoscope), di film addirittura già sonori. Dal 1894 cominciarono a entrare in Italia sia le forme originarie, sia quelle più o meno adattate: dapprima kinetografo, poi cinetografo, cinetoscopio e altre (Raffaelli 1978: 15-36). Dall’inizio del 1896, sull’eco dell’entusiasmo per l’invenzione dei Lumière, cominciò a circolare in Italia la forma cinematografo (è tuttora insoluta, tra l’altro, la questione della paternità del composto grecizzante francese cinématographe; ➔ parole d’autore):
Il termine cinématographe subì l’immediato adattamento al sistema fonologico italiano secondo le leggi che regolavano l’assimilazione dei grecismi mediati dal francese: passaggio della consonante iniziale ad affricata palatale (come cinematica da cinématique), assunzione della finale -o (come sismografo da sismographe) e, trattandosi di composto greco con il secondo elemento bisillabo, accentazione sulla terzultima (Raffaelli 1978: 32)
Non mancò, tuttavia, chi trovò il neologismo ostico, tanto da suggerirne varie semplificazioni. Quelle che attecchirono stabilmente furono (almeno dal 1908), su influenza del francese, cinema (con incertezza, fino agli anni Quaranta, sull’accento: cìnema, cinèma o cinemà) e cine. A differenza di cinema, che ha dato vita a un numero limitato ed effimero di composti (cinemadramma, cinemateca, cinemateatro e cinematurgo), cine si stabilizzò presto anche come prefissoide: cinefilo, cinedramma, cineromanzo, cineteca, cinegiornale, cineamatore, cinespettatore, Cinecittà, fino ai più recenti cineclub, cineforum, cinegenico, cinepresa, cinerama, ecc. Al 1919 risale cineasta, adattamento del francese cinéaste, sebbene il termine si stabilizzi nel significato nel decennio successivo.
Dal 1889 cominciò a circolare in Italia l’anglicismo film, naturalmente minoritario rispetto all’equivalente italiano pellicola. Dal 1905 il tecnicismo passò dall’ambito fotografico a quello cinematografico, diventando ben presto un termine polisemico: l’accezione di «pellicola» cedette quasi subito il passo al significato principale, cioè quello di «opera cinematografica». Già nel 1913 si levarono gli scudi contro il forestierismo film, che rischiò l’espulsione negli anni Trenta: «a tutelarlo definitivamente sarebbe scesa in campo nel 1941 l’Accademia d’Italia» (Raffaelli 1978: 141-142). In italiano il termine assunse dapprima preferibilmente il genere femminile, per influenza di pellicola; successivamente, dopo un lungo periodo di oscillazione, cominciò a imporsi il maschile, verso la metà degli anni Dieci, benché il femminile abbia continuato a resistere, come forma più elevata e poi arcaica, fino agli anni Trenta (con qualche estrema propaggine ancora negli anni Settanta). Ma le oscillazioni morfologiche di film non si fermano al genere, coinvolgendo anche l’eventuale mantenimento del morfema inglese per il plurale -s (i films, almeno fino al 1932) e l’aggiunta di una desinenza vocalica italianizzante (il filmo, il o la filme e soprattutto i filmi, almeno fino al 1943). La vitalità incontrastata di film in italiano è peraltro dimostrata anche dalla ricca serie di derivati e composti, a tutte le altezze cronologiche: filmetto, filmino e filmina, filmone, filmico, filmare, filmopoli, filmoteca, filmologia, filmografia, fonofilm, telefilm, ecc.
Dal secondo dopoguerra a oggi l’ingresso degli ➔ anglicismi nel lessico cinematografico (come del resto in quasi tutti i linguaggi settoriali) è ovviamente crescente e riflette ora la nascita di nuove tecniche (dolby «sistema di registrazione e riproduzione del suono»; split screen «effetto speciale consistente nella suddivisione del fotogramma in due o più parti»; steadycam «meccanismo che conferisce stabilità alla macchina da presa portatile»; Raffaelli 1996: 116), ora mere ragioni di prestigio culturale: coming soon, trailer e spot sostituiscono oggi sempre più spesso gli originari termini italiani di prossimamente e presentazione (o anche provino); box office sostituisce spesso sia botteghino sia incasso; filmmaker prende il posto di cineasta; fiction si sostituisce ormai sistematicamente a finzione, remake a rifacimento, plot a trama e script a copione o sceneggiatura.
Dato che il cinema ha rappresentato una delle forme comunicative ed estetiche più rappresentative del Novecento, e continua a intrattenere rapporti di reciproca influenza con molte altre forme espressive (dalla televisione alla visual art, dalla canzone alla pubblicità), non meravigliano i frequenti riferimenti filmici nella poesia, nella narrativa e nella critica contemporanee, anche mediante prelievi di tecnicismi. Il caso forse più evidente è quello di flashback, concetto che, notoriamente, viene messo a punto in letteratura (in narratologia viene designato perlopiù come analessi) fin dalle origini (basti pensare al lungo racconto di Ulisse ai Feaci, nell’Odissea) e che diventa subito uno dei mezzi di montaggio prediletti dal cinema per movimentare la narrazione, per raccordare blocchi narrativi e per mettere lo spettatore al corrente di un antefatto. Il flashback non è altro, dunque, che una delle strategie retoriche attinte dalla nuova arte filmica alla letteratura, come la metafora e la metonimia. Non v’è dubbio, però, che da decenni il termine e il concetto vengano inequivocabilmente associati al linguaggio cinematografico e, come tali, vengano oggi impiegati in letteratura, non dissimilmente da altri termini quali carrello, inquadratura, primo piano, montaggio, panoramica, soggettiva, zoom.
Blasetti, Alessandro (1958), Gergo. Cinema, in Enciclopedia dello spettacolo, Roma, Le Maschere, 10 voll., vol. 5°, coll. 1068-1070.
Fabbri, Gualtiero (1993), Al cinematografo, a cura di S. Raffaelli, Roma, Associazione italiana per le ricerche di storia del cinema.
Raffaelli, Sergio (1978), Cinema film regia. Saggi per una storia linguistica del cinema italiano, Roma, Bulzoni.
Raffaelli, Sergio (1992), La lingua filmata. Didascalie e dialoghi nel cinema italiano, Firenze, Le Lettere.
Raffaelli, Sergio (1993), Il cinema nella lingua di Pirandello, Roma, Bulzoni.
Raffaelli, Sergio (1996), Introduzione all’onomastica del cinema, in «Rivista italiana di onomastica» 2, 1, pp. 113-124.
Raffaelli, Sergio (2001), La parola e la lingua, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, Torino, Einaudi, 5 voll., vol. 5° (Teorie, strumenti, memorie), pp. 855-907.
Raffaelli, Sergio (2003), Lessico cinematografico, in Enciclopedia del cinema, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 7 voll., vol. 3°, pp. 523-526.
Rossi, Fabio (2006), Il linguaggio cinematografico, Roma, Aracne.