fascismo, lingua del
Dal punto di vista linguistico il fascismo riveste grande interesse, perché il regime si propose di disciplinare l’intero repertorio linguistico italiano, non limitandosi al controllo della lingua nazionale (sua diffusione, insegnamento, uso) ma ingerendosi nelle parlate dialettali, in quelle dei territori alloglotti (Alto Adige e Venezia Giulia), e infine contrastando i prestiti da lingue straniere.
Il disegno di un’autarchia linguistica, e più generalmente l’idea che l’interesse nazionale dovesse essere il principio basilare dell’azione statale (Klein 1986: 69), derivava da idee del primo Novecento – quando erano stati già presi provvedimenti contro insegne e scritte straniere (S. Raffaelli 1983: 39 segg.). Il regime rafforzò la connotazione ideologica di tale interventismo, sfruttando la ricerca dell’uniformità linguistica per rafforzare i valori centralisti e il consenso popolare: cercò quindi di imporre con misure sistematiche di ➔ politica linguistica una norma unica uguale per tutti, eliminando gli ostacoli che le si opponevano e cercando di omogeneizzare le parlate locali. Puntava così a una lingua comune che potesse cementare la coesione nazionale (per una rassegna di studi, cfr. Foresti 2003: 11-26).
La cultura fascista e la concezione fascista della lingua risentirono sin dall’inizio dell’influsso dell’efficace oratoria di Benito Mussolini, in cui si raccoglievano elementi disparati (il lessico socialista, il dannunzianesimo, la tendenza a sentenziosità ed enfasi) in una sintesi conciliante parola e gestualità (Lazzari 1975; Simonini 1978; Agosto & Chieregato in Parlare fascista 1984: 15-23 e 25-37; Desideri 1984; Golino 1994; Cortelazzo e Leso in Foresti 2003: 67-82 e 83-128).
L’oratoria mussoliniana era fatta per la declamazione in pubblico e alle folle, basandosi su strutture sintattiche fatte di poche subordinate e costruite sulla ripetizione di elementi binari e ternari, che dettero spesso luogo a motti e frasi fatte presto diventate proverbiali («È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende»; «Combattere, soffrire, e se occorre morire»). Con tali modalità il duce e il fascismo perseguivano l’intento di raggiungere con immediatezza ed efficacia il popolo mettendosi in sintonia con esso (Simonini 1978: 60 segg.): la tempestiva intuizione delle potenzialità politiche della comunicazione costituì uno dei cardini della dittatura.
Non a caso venne riscoperto il motto (Isnenghi 1996: 289-306), forma testuale classica conciliante gli attributi della sintesi e del dinamismo verbale: oltre che pronunciato nelle adunanze, fu massicciamente diffuso iscrivendo epigrafi con frasi mussoliniane per le strade e sui palazzi.
La pressione sui gruppi intellettuali e sull’opinione pubblica fu attuata mediante capillari campagne di stampa, condotte con note di servizio governative (le famigerate veline), cioè disposizioni perentorie del Ministero per la cultura popolare (il cosiddetto Minculpop) circa le notizie da dare, i termini e gli epiteti con cui darle e anche le notizie da tacere. Questi comunicati, distribuiti a quotidiani e periodici che erano tenuti ad applicarle, furono diramati con particolare zelo a partire dal 1931 (Simonini 1978: 191-194, 215-220; S. Raffaelli 1997b). Di essi, alcune centinaia presentano un interesse specificamente linguistico.
L’intento pedagogico e dottrinario rivolto al popolo si applicava già all’infanzia. La riforma Gentile della scuola del 1923 puntava all’insegnamento dell’italiano secondo il procedimento detto «dal dialetto alla lingua», ma in seguito i programmi scolastici puntarono su un italiano accurato per timore di comprometterne l’uso corretto. Sempre al fine di modellare ideologicamente le giovani generazioni si introdusse il libro di testo unico per tutte le scuole del paese (1929) e la Carta della scuola (1939) del ministro dell’Educazione nazionale G. Bottai costituì la base concettuale della scuola (cfr. Marazzini 1997).
Il proposito di regolamentare ogni cosa si espresse nella produzione di strumenti normativi, come le grammatiche – tra le quali spicca quella di Trabalza & Allodoli (19342) (➔ grammatica) e i dizionari. L’Accademia d’Italia, massima istituzione culturale del regime, attiva dal 1929, ricevette direttamente dal duce nel 1934 l’incarico di redigere un «completo e aggiornato» Vocabolario della lingua italiana, di cui nel 1941 fu pubblicato solo il primo volume (A-C) sotto la direzione di G. Bertoni. Esso rispecchiava i precetti dichiarati nell’introduzione, di non considerare «la lingua come cristallizzata nelle sue antiche forme», accettando «vocaboli nuovi per designare idee e cose nuove»; concesse quindi un certo spazio ai forestierismi, pur segnalandoli tra parentesi quadre: babà, banjo, clown, club (Marazzini 2009: 386-387), e manifestò di fatto una moderata disponibilità anche verso i neologismi.
I mezzi di comunicazione di massa, allora ai primi passi (radio, cinema, ma anche stampa e fotografia), contribuirono alla diffusione del corretto italiano, a cominciare dalla radio, che fin dalle sue prime trasmissioni (1924) adoperò generalmente un registro medio. Il programma radiofonico La lingua d’Italia, con S. Bertoni e A. Panzini, in onda in due fasi tra il marzo e il settembre 1938, fu dedicato spesso a quesiti degli ascoltatori relativi a dubbi fonetici (indizio della coscienza delle difformità dell’italiano del tempo): non règime ma regìme, non rùbrica ma rubrìca, non i suoni toscani lèttera e velóce ma i romani léttera e velòce. La trasmissione ebbe come seguito la pubblicazione del Prontuario di pronunzia e di ortografia, dove si proponeva una pronuncia basata sull’«asse Roma-Firenze» (Bertoni & Ugolini 1939), dando la priorità in caso di difformità alla capitale, per scrupolo anche di carattere politico (S. Raffaelli 1997a).
Anche il cinema operò da scuola di lingua per le masse: la produzione nazionale si caratterizzò per un parlato artificiale (➔ cinema e lingua), poco aperto a esigui innesti dialettali e con livellamento delle differenze di registro tra personaggi di ceto sociale differente: così, ad es., in Gli uomini che mascalzoni (1932) e in Il signor Max di M. Camerini (1937); invece i film stranieri, col decreto-legge del 5 ottobre 1933, n. 1414, furono obbligatoriamente doppiati da personale qualificato (S. Raffaelli 1992: 193).
Interventi normativi e correttivi toccarono pure la toponomastica (➔ toponimi): specie fra il 1927 e il 1929 furono modificati forzosamente oltre mille nomi di comuni, come Monteleone Calabro che divenne Vibo Valentia e Borgo San Donnino che cambiò in Fidenza (cfr. Caffarelli & Raffaelli 1999). Nell’intento di ripristinare una patina evocativa della romanità, furono coniati numerosi nomi dal suffisso latineggiante -ia, tipo Littoria o Mussolinia (S. Raffaelli 1995); si cambiarono poi in abbondanza anche gli odonimi (S. Raffaelli 1996: 225-234).
Dialetti, lingue minoritarie e prestiti furono visti come potenziali forze centrifughe (Simonini 1978: 201-211; S. Raffaelli 1983; Parlare fascista 1984; Klein 1986; Foresti 2003) e quindi contrastati con misure di unificazione forzata. Un punto di riferimento nella ricerca di una varietà linguistica comune fu «la purezza dell’idioma patrio» (menzionata da Mussolini in un discorso del 1931), ma nell’attuazione di tale scopo si possono fare alcune distinzioni: a posizioni più intransigenti come quelle di Torquato Gigli e Paolo Monelli si affiancarono quelle meno accese di Tommaso Tittoni e Alfredo Panzini.
L’avversione ai dialetti fu dettata dal timore che alimentassero spinte regionalistiche e localistiche (Còveri, in Parlare fascista 1984: 117-132). Il divieto di impiego dei dialetti fu rigido nella stampa (Cortelazzo, in Parlare fascista 1984: 107-116), nella letteratura e nel teatro, mentre per non perdere il consenso delle masse dialettofone si praticò maggiore tolleranza nel cinema, specie durante la guerra: così, ad es., in Avanti c’è posto … e Campo de’ Fiori di M. Bonnard e ne L’ultima carrozzella di M. Mattoli, formanti una trilogia romanesca (S. Raffaelli 1992: 79 segg.).
I territori tedescofoni e slavofoni annessi all’Italia nel 1918 furono quelli che subirono i cambiamenti più profondi a seguito della politica linguistica fascista (➔ legislazione linguistica), la quale cercò di applicare un’integrazione forzata in direzione dell’italiano. Il prefetto di Trento G. Guadagnini stabilì con ordinanza del 28 ottobre 1923 che l’italiano fosse lingua d’ufficio e, con altro provvedimento del medesimo giorno, che insegne e pubblici avvisi figurassero esclusivamente nella lingua ufficiale dello Stato (S. Raffaelli 1983: 116). Un decreto-legge del 29 marzo 1923 ordinò che i toponimi tedeschi venissero sostituiti con altri italiani, definiti (spesso fantasiosamente) già prima del regime da E. Tolomei: tra essi vi furono talvolta riprese calcate sulla nomenclatura latina del tipo Sterzing → Vipiteno, oppure adattamenti paraetimologici come Auer → Ora e Karersee → Carezza (Klein 1986: 95 segg.; ➔ paretimologia).
Un analogo provvedimento il 22 novembre 1925 soppresse l’insegnamento delle lingue minoritarie (ibid.: 74). L’italiano inoltre venne esportato anche nelle terre conquistate dell’Impero (Foresti, in Parlare fascista 1984: 133-155; Ricci 2005), dove fu spesso imposto nelle scuole come prima lingua a scapito della lingua locale (così nelle isole greche del Dodecanneso, sotto amministrazione italiana).
Il trattamento fascista delle parole straniere si inserisce in una fase di evoluzione della scienza glottologica: quest’ultima negli anni ’20 del Novecento prende le distanze sia dai metodi di marca positivista, sentiti come inadeguati e astratti, sia dal crocianesimo, che considerava l’esperienza linguistica unica e irripetibile. I nuovi approcci rivalutano invece la concretezza della lingua, intendendola come istituto inscindibile dai parlanti ed esaltandone la funzione omologatrice di norma sociale (Simonini 1978: 205-206). La politica linguistica del regime s’inquadra in una simile prospettiva, le cui linee in generale «rimangono completamente estranee» al fermento teorico internazionale (Klein 1986: 119-120). Nel suo contesto matura comunque un’esperienza notevole come il ➔ neopurismo di Bruno Migliorini, lontano dalle vecchie forme di ➔ purismo libresco come da quelle dilettantesche che caratterizzarono molti interventi nella pubblicistica del tempo; esso, pur nel «doveroso rispetto della lingua nazionale» (Migliorini 1957: 308), ammetteva anche «forze diverse, anzi contraddittorie» («Lingua nostra» 1940: 26) aprendo ad es. agli idiomi settoriali.
Motivo ricorrente di creazione terminologica furono le traduzioni forzose dei ➔ forestierismi, che lungo tutto il ventennio furono ritenuti lesivi dell’identità e del prestigio nazionali. Contro di essi si esercitò una fitta propaganda giornalistica, il cui atto inaugurale può essere considerato un articolo di T. Tittoni (1926). Tra febbraio e luglio 1932 «La Tribuna» bandì un concorso a premi per sostituire 50 parole straniere, e tra il marzo dello stesso anno e il marzo 1933 Monelli tenne la rubrica Una parola al giorno nella «Gazzetta del popolo», in cui proponeva via via la sostituzione di prestiti non adattati.
Furono inoltre emanate molte leggi che con crescente severità scoraggiarono o proibirono l’uso di forestierismi. Già un decreto dell’11 febbraio 1923, n. 352, prevedeva un’imposta quadrupla sull’esibizione pubblica di forestierismi nelle insegne commerciali; successivamente la sanzione crebbe, e un provvedimento legislativo del 9 settembre 1937, n. 1769, la portò a 25 volte.
L’atteggiamento si inasprì una volta incrinatesi le relazioni internazionali dopo il 1936, quando nei confronti dei forestierismi le costrizioni e le proibizioni si intensificarono sulla spinta di un clima xenofobo. Fu ispirata da sentimento non solo antiborghese ma anche puristico la proibizione nel 1938 agli iscritti fascisti e ai dipendenti statali di usare il pronome allocutivo Lei (➔ allocutivi, pronomi), col pretesto di una sua supposta origine spagnola (S. Raffaelli 1993). Persino enti prestigiosi furono indotti a cambiare nome: da Touring club italiano a Consociazione turistica italiana (1937), da Club alpino italiano a Centro alpinistico italiano (1938), da Reale automobil club d’Italia a Reale automobile circolo d’Italia (1939). I nomi stranieri furono vietati ai locali di pubblico spettacolo (decreto 5 dicembre 1938, n. 2172) e ai neonati di nazionalità italiana (art. 72 del nuovo Ordinamento dello stato civile, promulgato con decreto 9 luglio 1939, n. 1238).
Il culmine dell’interventismo legislativo fu raggiunto con la legge 23 dicembre 1940, n. 2042, che proibiva l’esposizione di parole straniere sia «nelle intestazioni delle ditte industriali o commerciali e delle attività professionali», sia «nelle insegne» e in ogni altra forma pubblicitaria. Il compito istituzionale (sancito nel decreto legge 26 marzo 1942, n. 720) di proporre sostituti italiani dei prestiti in uso fu affidato all’Accademia d’Italia, i cui membri già in precedenza si erano espressi sul tema, con posizioni peraltro sostanzialmente moderate. Per ottemperare al mandato, l’Accademia creò una Commissione per l’italianità della lingua, che formulò nel biennio 1941-43 circa 1500 proposte sostitutive, pubblicate sul suo «Bollettino d’informazioni» (S. Raffaelli 1983: 193 segg.; Klein 1986: 111 segg.) e inserite in parte pure in appendice all’ottava edizione del Dizionario moderno (Panzini 19428).
In quella fase di crescente autarchia si mirava al contenimento della concorrenza straniera in campo economico: da tale scopo di tutela dell’autonomia produttiva italiana deriva anche l’attenzione dimostrata dalla Commissione verso i tecnicismi. Vari furono i criteri adottati per le italianizzazioni (cfr. A. Raffaelli 2008: 339-340): agli adattamenti grafici (the → tè) o fonomorfologici (autocar → autocarro) si alternarono le traduzioni (check → assegno) e i costrutti polirematici (bunker → fossa di sabbia). Degne di nota alcune neoformazioni (avanspettacolo da lever de rideau), riprese di parole semanticamente modificate (arlecchino da cocktail), nonché soluzioni talvolta fantasiose (canturino da valenciennes, calceggio per dribbling e affollo per bagarre nell’uso sportivo; negli stessi anni erano stati proposti ber e qui si beve per bar e puttanambolo per tabarin).
Il bilancio della politica linguistica del fascismo è contraddittorio. Nel dopoguerra il rafforzamento della compagine sociale attraverso la lingua avvenne soprattutto grazie all’emigrazione interna, all’incremento del livello medio di istruzione e all’avvento della televisione, non già per interventi dirigistici dall’alto. Tra gli obiettivi della censura fascista, l’uso del dialetto arretrò, ma la diglossia (➔ bilinguismo e diglossia) rimase diffusa, se nel 1951 «per oltre quattro quinti della popolazione italiana il dialetto era ancora abituale» e solo il 18,5% degli italiani aveva del tutto rinunciato ad esso (De Mauro 19702: 130-131; statistiche alla mano nel lasso temporale comprendente il ventennio comunque «la percentuale degli italofoni era giunta a decuplicarsi»: ibid.: 135).
Se nei media resistette almeno fino agli anni Settanta la norma fonetica suggerita dal Prontuario (salvo il diffondersi di alcune varianti fiorentine), fu invece del tutto fallimentare il divieto del Lei, pronome che dopo la caduta del regime riacquistò lo spazio tradizionale. Analogamente, nei territori alloglotti l’avvento della Repubblica smascherò l’inefficacia dell’italianizzazione forzata, dando adito, sia in Alto Adige sia nelle zone della Venezia Giulia passate alla Jugoslavia, a fenomeni di restaurazione.
Anche nell’uso lessicale il sostanziale fallimento della «bonifica linguistica» fascista (espressione adoperata tra virgolette in Migliorini 1941: 22 e 26) è dimostrato dalla modesta fortuna nel dopoguerra dei sostituti italiani rispetto ai prestiti che avrebbero dovuto rimpiazzare: a una permanenza nell’uso alquanto bassa – a parte alcune significative eccezioni come quelle dei termini del calcio – delle proposte sostitutive formulate dalla Commissione per l’italianità della lingua e in altre sedi, se ne riscontra una invece piuttosto rilevante dei prestiti combattuti e banditi dal regime (Cicioni, in Parlare fascista 1984: 87-95). A tale esito contribuirono vari fattori: la «scarsa omogeneità» della campagna di propaganda, il prestigio attribuito ai forestierismi, la loro maggiore efficacia rispetto ai termini corrispettivi proposti per l’italiano, nonché l’abitudine dei parlanti (ibid.: 87, 93).
Un tempestivo decreto luogotenenziale di Umberto di Savoia (26 aprile 1946, n. 343) abolì la legge del 20 dicembre 1940 contro i prestiti, mentre una più tardiva legge del 31 ottobre 1966, n. 935, tolse il divieto del 1939 di chiamare i neonati con nomi stranieri (➔ antroponimi). Ma in generale, forse proprio per reazione al soffocante interventismo fascista in fatto di lingua, nell’Italia democratica si è manifestata una lunga assenza di attenzione legislativa in materia, almeno fino agli anni Ottanta; fanno eccezione provvedimenti a tutela delle ➔ minoranze linguistiche, ispirati al criterio dell’eguaglianza delle lingue sancito negli artt. 3 e 6 della Costituzione della Repubblica (1948), che peraltro non indica in alcun luogo l’italiano come lingua ufficiale del paese.
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