Lingua del film
La parola, classificata in ambito teorico fra gli elementi non essenziali del linguaggio cinematografico, risulta di fatto una componente quasi immancabile dei film d'ogni tempo e d'ogni Paese. Unendosi alle immagini, normalmente sotto forma scritta nel periodo muto e parlata in quello sonoro, ha dotato il cinema di un patrimonio verbale in continua crescita, che con le sue risorse informative può prestarsi, come densa e varia fonte diretta, a migliorare la conoscenza storica tanto della produzione cinematografica mondiale e locale quanto delle lingue in essa usate. E congrua può dirsi l'attenzione concessa alla presenza della parola e al suo ruolo testuale da parte di cultori e professionisti del cinema, i quali fin dagli anni del muto hanno elaborato riflessioni e qualche trattazione sistematica sia in chiave teorica (intorno alla natura e alla liceità della sua unione con le immagini filmiche), sia in chiave critica (intorno al modo e alla misura della sua valorizzazione nei singoli film). Scarso e tiepido è rimasto invece l'interessamento in chiave linguistica nei confronti della componente verbale delle pellicole, fin verso il 1970. Da allora, infatti, in Europa e altrove la parola filmica non solo detta ma anche scritta ha cominciato a guadagnare la debita considerazione degli specialisti di cinema e di lingua e a uscire da un'annosa e improduttiva marginalità. A favorire il suo recupero storiografico contribuirono da una parte la rapida attenuazione del radicato pregiudizio teorico ed estetico nei confronti della connessione filmica della parola con l'immagine e la crescente accessibilità per gli studiosi d'importanti pellicole del recente passato e anche dei primordi; dall'altra la matura applicazione di aggiornati criteri della linguistica e della semiotica all'analisi del corredo verbale delle pellicole. Quest'interessamento specialistico ha cominciato a produrre pionieristici contributi di limitato respiro territoriale e cronologico, per cui non sono disponibili né storie delle singole lingue filmiche, né tanto meno un'organica storia linguistica della produzione mondiale. Sembra perciò opportuno tratteggiare qui, tenendo presenti taluni caratteri comuni in tutto il mondo o per lo meno nelle lingue maggiori, soprattutto le linee di sviluppo del cinema italiano muto e sonoro, che nella sua movimentata vicenda linguistica racchiude aspetti e problemi sia generali del cinema mondiale sia particolari di talune cinematografie.Cinema muto. ‒ Le pellicole primordiali non contenevano, a causa soprattutto di difficoltà tecniche, parole scritte dal realizzatore fra le inquadrature oppure sovrimpresse alle immagini; esse infatti erano in grado di esibire tutt'al più le iscrizioni eventualmente colte dall'obiettivo nel loro ambiente reale oppure predisposte ad arte in funzione della ripresa: così avvenne, per es., per l'insegna "Heat Fun Laundry" nella pellicola per Kinetoscope Chinese Laundry (1894) di Thomas A. Edison, o per l'insegna-titolo "Charcuterie mécanique / craque à Marseille", sul prodigioso cassone di Charcuterie mécanique (1895) di Louis Lumière. Alla mancanza di parole sopperivano, continuando una pratica dell'intrattenimento di piazza e in particolare dello spettacolo precinematografico della lanterna magica, le spiegazioni e i commenti che nel corso della proiezione erano formulati a viva voce, di solito in una lingua volenterosamente rispettosa della norma e con uno stile magniloquente, da addetti più o meno preparati. L'integrazione orale, benché ricalcata di solito sulle informazioni del programma fornito dal produttore (e previamente tradotte nella lingua locale, se era straniero), variava a seconda delle mutate attese di nuove platee o dell'estro del commentatore; il suo rapporto con il quadro diventava perciò approssimativo e instabile. Essa poteva conseguire però una connessione meno precaria con le immagini allorché era programmata ed eseguita con cura per dare voce a personaggi dello schermo, come avvenne, verso il 1900, nel Fregoligraph dell'illusionista italiano Leopoldo Fregoli il quale, nascosto presso lo schermo, interloquiva e cantava con ammirato sincronismo; e ben più notevole fu, per es., ai primi del Novecento negli Stati Uniti d'America l'intenso apporto professionale di gruppi teatrali (e in particolare di LeRoy Carleton) che dialogavano in sincrono con la proiezione. Un prolungamento, nel corso di tutto il muto, di questa primordiale integrazione orale delle immagini filmiche può considerarsi la diffusa e gradita consuetudine di leggere ad alta voce le didascalie ricorrenti sullo schermo, a beneficio degli spettatori analfabeti o pigri; il compito, di solito svolto da volontari o da avventizi, impegnava talvolta professionisti qualificati come, in particolare in Giappone, il benshi ("dicitore") che dalla platea corredava la visione di risonanze sonore, accompagnando la declamazione dei testi con musiche e canti.La consuetudine d'integrare la componente iconica dei brevi e lineari film primordiali aggiungendo rade ed elementari iscrizioni (in Italia dette didascalie, v., dalla metà degli anni Dieci) che di solito precedevano, come sorta di sottotitoli, le singole scene, iniziò dopo il 1900 negli Stati Uniti e presto diventò usuale dovunque; per es., il prototipo della produzione italiana a soggetto, La presa di Roma (1905) di Filoteo Alberini, introduceva i suoi sette quadri con altrettante iscrizioni (la prima: "Il parlamentario Generale Carchidio a Ponte Milvio"; e l'ultima: "Apoteosi"). L'assetto e la fisionomia linguistica delle scritte filmiche si modificarono dovunque, dopo il 1911, in seguito all'avvento del lungometraggio. Nelle pellicole che sviluppavano racconti lunghi e complessi, e che talvolta emulavano l'articolazione e lo spessore della fonte letteraria o teatrale di provenienza, le didascalie assunsero il compito di colmare vuoti narrativi, di riferire i dialoghi dei personaggi, di spiegare il senso del racconto, e aumentarono perciò di numero e d'estensione. La loro invadenza provocò dubbi sulla liceità teorica e sull'incidenza artistica e suscitò orientamenti teorico-estetici e pratici che si mossero fra gli estremi dell'accettazione per lo più passiva (ma pure ben motivata, per es. dai formalisti russi) e del 'puristico' ripudio (perseguito negli anni Venti, per es. in Francia e in Germania); in prevalenza essi però si assestarono nella posizione mediana del riluttante e provvisorio consenso a un impiego sobrio e motivato. La fisionomia linguistica della produzione mondiale muta assunse tratti comuni sotto la spinta non soltanto di istanze ideali, ma anche di forti condizionamenti di vario tipo, dalla ristrettezza dello spazio schermico alla necessità di rendere le scritte comprensibili, gradevoli e possibilmente suggestive. Dovunque i migliori realizzatori ebbero cura di attenuare la staticità e ridurre l'invadenza delle didascalie entro il dinamico flusso delle immagini, alleggerendole mediante formulazioni sintatticamente concise e lineari, e insieme diradandone l'apparizione; in particolare, nel trattamento della didascalia dialogica esiti notevoli furono raggiunti in Svezia, Stati Uniti, Germania e Russia, fra l'altro proponendo sì alla lettura la battuta ‒ peraltro incuneata per stacco sul duplice piano ravvicinato del parlante, specialmente nelle opere mature degli anni Venti, quale per tutte La passion de Jeanne d'Arc (1927; La passione di Giovanna d'Arco) di Carl Th. Dreyer ‒ ma sopprimendo la replica scritta (sostituita dall'eloquente reazione visiva del destinatario). Inoltre le produzioni più ambiziose provvidero, nell'ultimo quindicennio del periodo muto, ad armonizzare la didascalia con il fluente contesto iconico, ricorrendo a svariati artifici: di solito, una 'impaginazione' mossa, corredata di decorazioni talvolta allusive, come per es. in Intolerance (1916) di David W. Griffith; ancora, la disposizione figurale delle lettere, come in Sunrise (1927; Aurora) di Friedrich W. Murnau (dove, per es., un rigido allineamento orizzontale delle parole si spezza al centro, simulando l'affondamento di un'imbarcazione); infine, l'animazione delle lettere entro la rigida cornice del quadro, come in Anémic cinéma (1925) di Marcel Duchamp. Esiti singolarmente efficaci produsse tuttavia il movimento delle scritte sovrimpresse alle immagini, specialmente nella fase matura del muto, come può confermare, per tutta la suggestiva produzione espressionista, Das Cabinet des Dr. Caligari (1920; Dott. Calligari, noto anche come Il gabinetto del dottor Caligari) di Robert Wiene. La preoccupazione anche commerciale di proporre iscrizioni comprensibili al largo pubblico determinò il predominio, pressoché assoluto dovunque, della linearità sintattica e del lessico ordinario. Scelte linguistiche e stilistiche peculiari, alimentate da caratteristiche e vicende proprie dei singoli idiomi, corredarono questi tratti comuni. Una certa omogeneità stilistica, trascendente la diversità di lingua e imposta da taluni generi cinematografici, accomunò tuttavia la produzione mondiale, per cui, per es., dovunque al genere storico o celebrativo s'addiceva il registro elevato, mentre per quello comico si facevano scelte svariate e dimesse.Nel corso del muto i testi filmici assunsero nelle singole lingue un peculiare profilo, sfumando e arricchendo i tratti comuni con soluzioni proprie, più o meno perspicue, a seconda del sistema di trascrizione, dell'assetto grammaticale, delle vicende storiche. In particolare la didascalia italiana, ottemperando alle esigenze di chiarezza ed efficacia comunicativa proprie dello spettacolo di massa, cercò di attenersi normalmente a un orientamento linguistico ispirato a quella sostanziale medietà e sobrietà che mezzi allora in espansione, come il telegrafo e il giornalismo illustrato, diffondevano. Moderando l'atavico gusto dell'elevazione stilistica, ma sempre nel rispetto spesso volonteroso della norma grammaticale (che fu tutelata, dopo il 1913, anche dalla censura), la didascalia italiana assunse in tutta la copiosa produzione ordinaria un lessico corrente, una fraseologia elementare e spesso stereotipata; valgano per tutti due distanti esempi, quali il dramma L'emigrante (1915) di Febo Mari (quattro didascalie: "Le fatiche più gravose", "L'impresa dà una parte di paga in vettovaglie che si consumano nel recinto del cantiere", "Dopo un'ora si ritorna al lavoro e al pericolo", "All'ospedale") e l'opera storico-avventurosa a serie Il Ponte dei sospiri (1921) di Domenico Gaido (dal prologo: "Imperia, la cortigiana di Roma, bellissima e potentissima, in viaggio verso Venezia si smarrisce nelle vicinanze dell'accampamento dei banditi"). A quest'orientamento linguistico si affiancarono con prepotente vitalità due diverse tipologie, esigue ma spiccate e inconfondibili, che caratterizzarono il cinema muto italiano. Infatti si manifestò, soprattutto nelle pellicole più ambiziose e accurate che si giovarono anche dell'apporto di narratori, drammaturghi e poeti come soggettisti, sceneggiatori e titolisti (così si chiamavano allora gli estensori di didascalie), una evidente propensione verso la lingua d'arte d'illustre tradizione letteraria. Una concentrazione ineguagliata di finezze lessicali, di ampollosità sintattiche e di abbellimenti retorici sciorinò Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, con l'apporto di Gabriele D'Annunzio (didascalia d'apertura: "È il vespero. Già si chiude la canzone dei caprai, che la Musa dorica ispira su i flauti dispari 'a cui la cera diede l'odor del miele'. E Batto ritorna dai campi alla città, al suo giardino di Catana in vista dell'Etna"). L'esempio fu contagioso naturalmente in Italia, ma anche altrove: si pensi in particolare al già citato Intolerance. Il cinema italiano muto, indotto e agevolato dal suo policentrismo produttivo e distributivo, attinse pure al variegato patrimonio dei dialetti. Nonostante la scarsa e incerta conoscenza di tale patrimonio linguistico, umile e sottovalutato e perciò quasi privo di testimonianze dirette, è possibile segnalare una certa sua fioritura in varie parti d'Italia. Già nel 1907 Biaso el luganegher di Almerico Roatto ebbe a Venezia battute dialettali, declamate presso lo schermo da attori; e nel 1914 uscirono, per es., a Milano La class di asen di Luca Comerio, con Edoardo Ferravilla, e a Napoli Fenesta che lucive… di Roberto Troncone. Tra le residue pellicole del tempo spicca Maciste alpino (1916) di Luigi Maggi e Romano L. Borgnetto, pregevole concentrazione di una varietà di codici e di registri, che oscillano fra un italiano impettito ("Il tricolore che le mie mani hanno cucito ti sia scudo nella perigliosa impresa"), l'espressione popolaresca ("'Ste canaglie!", "Kamerad un corno!") e il puro dialetto piemontese ("Tira nen bôrich! At girlo la bocia? I sôn Maciste!"). Singolare vitalità e diffusione anche nazionale (nonché fra gli emigrati meridionali) ebbe la sceneggiata napoletana per quasi un decennio, fino al blocco impostole nel 1928 dal governo fascista, a tutela del prestigio di Napoli e del-l'Italia (Raffaelli 1992, pp. 76-77); le migliori tra le sue scarse testimonianze scampate alla distruzione propongono didascalie che, ricalcando mimeticamente il variegato repertorio linguistico della città e delle sue peculiari manifestazioni (quali la canzone, l'arte varia, il teatro regionale), trascolorano fra gli estremi di un parteno-peo integrale e un italiano goffamente elevato, come accade in È piccirella (1922) di Elvira Notari (un giovane, all'amico Tore: "Non ti scottare al fuoco di quegli occhi, 'a figlia 'e donna Carmela 'nnammuratu lassa e 'nnammuratu piglia!"; Maria nel ristorante: "Il vino non lo abbiamo bevuto e lo vuoi essere pagato"; Ziè Rosa a Tore: "Cagnate strada: chella guagliona ha fatto chiagnere chiù de 'nu figlio 'e mamma!"; la madre a Tore: "Figlio, ritorna a tua madre onesto e buono, non insozzarti più per quella donna").Cinema sonoro. ‒ L'affermarsi della produzione industriale di pellicole parlate, varata nel 1927 a Hollywood con The jazz singer (Il cantante di jazz) diretto da Alan Crosland e presto estesasi in tutto il mondo, produsse profondi e duraturi mutamenti nella storia linguistica del cinema. Infatti la presenza nel testo filmico di parole che, quantunque registrate e riprodotte meccanicamente, conservavano l'originaria identità fonica oltre che semantica, costrinse da una parte a riconsiderare con criteri teorico-estetici nuovi il rapporto dell'immagine con la componente verbale sonora, e dall'altra a elaborare soluzioni linguistiche adeguate a differenti tipi di parlato. Affrontando un problema comune a tutte le cinematografie, la riflessione oscillò, soprattutto nella fase primordiale, fra il netto rifiuto (si pensi all'intervento di L. Pirandello, Se il film parlante abolirà il teatro, 1929) e qualche consenso ponderato, per arrivare poi, forse anche per il plebiscitario consenso del pubblico e per le sue innegabili risorse spettacolari, a concedere il riluttante riconoscimento della liceità teorica e della validità estetica, a condizione però che il ruolo testuale della parola fosse comunque subordinato a quello dell'immagine, come riconobbero subito in particolare i teorici russi. Queste riserve si attenuarono dovunque dopo la metà del Novecento per molteplici cause quali il rafforzarsi del realismo nel cinema, che in ambito creativo ebbe prestigiosa e influente attuazione nel Neorealismo italiano e che negli anni Cinquanta ricevette l'iniziale sostegno dottrinale e critico, per es., di André Bazin e di Siegfried Kracauer; inoltre, per l'adozione negli studi sul cinema, dagli anni Settanta, di criteri e metodi della linguistica e della semiologia che, essendo esenti da preoccupazioni normative e valutative, non ponevano discriminazioni tra immagine e parola. Da quest'orientamento trassero i maggiori e più evidenti vantaggi i Paesi tradizionalisti, come l'Italia, i cui realizzatori si giovarono di quella libertà d'invenzione e di espressione anche linguistica che permise loro di espandere o all'opposto di ridurre il corredo verbale dei film, subordinando le proprie scelte non tanto a esterni imperativi teorici ed estetici, quanto ai meccanismi dell'efficacia comunicativa ed espressiva. La connessione del parlato con l'immagine, oltretutto per lo più in pieno sincronismo, impose ai realizzatori di elaborare soluzioni linguistiche che fossero adeguate tanto alle svariate situazioni comunicative del film, quanto alle capacità ricettive degli spettatori. Le lingue che, grazie a un uso spesso secolare nella vita di relazione pubblica e privata, possedevano un copioso e duttile repertorio di scelte verbali, in breve riuscirono a conferire fluidità e verosimiglianza agli scambi dialogici tra i personaggi. Così accadde in particolare all'inglese, che oltretutto, fin dai primordi del sonoro, assunse una capillare e stabile egemonia mondiale. Altre lingue invece, trovandosi più o meno carenti delle risorse richieste dalla comunicazione filmica, dovettero provvedere a dotarsene. Il cinema italiano in particolare, che disponeva di una lingua nazionale elaborata e trasmessa attraverso la scrittura e parlata da pochi (e perciò priva di quella semplice e fluida colloquialità richiesta nell'interazione tra personaggi filmici per lo più umili, su temi dell'esistenza di tutti i giorni), per acquisire un patrimonio verbale adeguato alle necessità affrontò la ricerca forse più lunga, più travagliata ma anche più vivace di ogni altra.Nel quindicennio iniziale (1930-1945) la ricerca fu condizionata dal dirigismo linguistico del regime fascista. Essa infatti si estenuò nel tentativo di valorizzare l'italiano tradizionale, soffocando il promettente contributo del patrimonio dialettale. Ai primordi Alessandro Blasetti e altri realizzatori cercarono di evitare l'italiano tradizionale, alquanto inadatto al parlato filmico, come mostrarono i dialoghi da palcoscenico del lungometraggio inaugurale della produzione sonora nazionale, La canzone dell'amore (1930) di Gennaro Righelli, e così di conferire verosimiglianza, naturalezza e colore al parlato di taluni film sia ricalcando i dialoghi del teatro regionale, che erano d'impronta più o meno dialettale ‒ per es., romana in Nerone (1930) di Blasetti con Ettore Petrolini, napoletana in La tavola dei poveri (1932), sempre di Blasetti con Raffaele Viviani, toscana in Acqua cheta (1933) di Gero Zambuto ‒ sia attingendo ai dialetti vivi di diverse regioni, in particolare per 1860 (1933), e a varietà popolari dell'italiano, per es. per Vecchia guardia (1935), entrambi ancora di Blasetti. Quest'orientamento linguistico alternativo s'interruppe nel 1934 per l'intervento normalizzatore dell'autorità politica. La lingua pressoché esclusiva delle pellicole fu da allora un italiano elaborato a tavolino che, nel rigoroso rispetto della norma grammaticale, poteva muoversi tra registri talvolta solenni, per es. nei film storico-celebrativi come Scipione l'Africano (1937) di Carmine Gallone, ma di solito dimessi, tendenti a perseguire vivacità e gradevolezza mediante la concisione sintattica e la valorizzazione di parole ed espressioni sorvegliate, comprensibili e spesso argute, specialmente nel cosiddetto genere dei telefoni bianchi (per il quale v. commedia), collaudato da Il signor Max (1937) di Mario Camerini. L'italiano in uso nel cinema subì, nel clima antiborghese e autarchico della vigilia di guerra, due aberranti imposizioni: la rinuncia al pronome di riverenza lei a favore del voi, nel 1938, e l'adozione della pronuncia dell'italiano in uso nella capitale Roma, nel 1939. Un certo spazio tornò ad acquistare negli anni di guerra la produzione dialettale ‒ in particolare d'ambiente genovese in Colpi di timone (1942) di Righelli, d'ambiente romano in Avanti c'è posto... (1942) e Campo de' Fiori (1943) entrambi di Mario Bonnard e in L'ultima carrozzella (1943) di Mario Mattoli ‒ la quale, quantunque contravvenisse alla politica linguistica del fascismo, fu tollerata per il suo evidente ruolo 'consolatorio'.Finite la dittatura fascista e la guerra, nel 1945, la ricerca di modi locutivi consoni all'eterogenea produzione nazionale riprese libera e vivace, nel contesto delle vaste modificazioni della società italiana e in particolare del suo patrimonio linguistico (regresso dei dialetti ed estensione dell'italofonia); essa imboccò varie direzioni, ora ricalcando o sviluppando esperienze tradizionali ora tentandone di nuove, ma per un quindicennio non conseguì esiti definitivi. L'italiano da una parte conservò la schiacciante preminenza, ma dall'altra abbandonò la sostanziale uniformità d'anteguerra. Nella maggioranza dei film d'ogni tipo esso si presentò come codice unico e rispettoso sì della norma grammaticale, ma, da una parte, assestato su un livello medio-alto d'antica tradizione, specialmente nelle pellicole culturalmente ambiziose, come, per es., Giulietta e Romeo (1954) di Renato Castellani, e in quelle popolari come Catene (1949) di Raffaello Matarazzo; e, dall'altra, tendente alla dimessa colloquialità, come, per es., Vita da cani (1950) di Mario Monicelli e Steno. Spesso la lingua costituì con il dialetto (e talvolta con espressioni in lingua straniera) un parlato composito, foggiato a tavolino, di due tipi. Nel primo, un italiano più o meno compassato accolse, in film comici o drammatici d'ambiente contemporaneo, battute in dialetto, come, tra i primi, Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano. Nel secondo, un italiano popolare, segnato da fenomeni fonetici e grammaticali di matrice regionale e talora corredato da innesti di dialetti più o meno italianizzati, caratterizzò soprattutto certa produzione comica, di solito ricalcata su scenette radiofoniche o teatrali e proposta con successo sullo schermo da attori regionalmente connotati, quali, fra molti, il napoletano Totò, il romano Aldo Fabrizi e il milanese Tino Scotti.Due furono però le scelte nuove di questo quindicennio. La prima contraddistinse i film neorealisti che, adeguandosi allo stile di una verosimile rappresentazione di autentici drammi individuali e collettivi vissuti da personaggi umili e oppressi, trasferirono mimeticamente nei dialoghi il composito repertorio di codici e di registri in uso nelle vive situazioni locali, ora urbane ora rurali, che il testo filmico ricreava. Così, in particolare, Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) di Roberto Rossellini riproposero, con verosimiglianza, il primo uno spaccato della realtà linguistica di Roma in tempo di guerra (tutta una trascolorante gamma di variazioni del dialetto e dell'italiano, e intrusioni del tedesco), il secondo una sorta di viaggio di risalita, assieme al fronte bellico, dalla Sicilia alla Pianura padana, lungo la variegata Italia dialettale, trovatasi a brutale contatto con le lingue dei belligeranti. Ladri di biciclette (1948) e Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica rispecchiarono la Roma linguistica del dopoguerra, l'uno nell'ambito popolare e l'altro in quello impiegatizio e piccolo-borghese; mentre La terra trema (1948) di Luchino Visconti adottò il chiuso dialetto dei pescatori siciliani. Le opere classiche del Neorealismo (v.), nonché altre meno celebrate, come in particolare Non c'è pace tra gli ulivi (1950) di Giuseppe De Santis e il notevole Due soldi di speranza (1952) di Castellani, procurarono un riscatto anche estetico e civile a varietà basse d'italiano e a dialetti rurali tradizionalmente schiacciati dalla supremazia della lingua nazionale; riscatto effimero, a causa d'impacci ideologici e commerciali. L'altra nuova scelta, che grazie al largo gradimento caratterizzò gli anni Cinquanta, consistette nell'elaborazione di un approssimativo parlato 'italo-dialettale', foggiato a tavolino sulla falsariga del mistilinguismo in uso nella reale comunicazione tra i recenti urbanizzati, adottando moduli discorsivi di dialetti vivi e mescolandoli, previa cancellazione dei tratti meno comprensibili al vasto pubblico nazionale, secondo schemi funzionali a situazioni elementari e ripetitive. Questo tipo di parlato, nel quale prevaleva la suggestione della varietà dialettale romana, diventò codice peculiare di un disimpegnato sottogenere comico-sentimentale, detto neorealismo rosa, che di solito s'ispirava alla realtà coeva per darne però una rappresentazione depauperata, convenzionale, consolatoria: così, fra molti titoli, testimoniano, per l'ambiente rurale, Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini e, per quello urbano, Poveri ma belli (1957) di Dino Risi.Il cinema italiano coronò la lunga e tormentata ricerca della lingua negli anni Sessanta, grazie a vari fattori quali la notevole ripresa artistica e civile e l'affermarsi di un più articolato e diffuso repertorio linguistico nazionale, che permisero finalmente di elaborare con crescente disinvoltura, al pari delle altre cinematografie, un parlato filmico adeguato al codice di ciascun genere produttivo, al taglio espressivo dei singoli film. Finalmente svincolato da modelli impropri, quali il teatro e la letteratura, cominciò allora a costituirsi un ricco e solido patrimonio di soluzioni linguistiche, nel quale coesistevano con pari dignità le svariate gradazioni dell'italiano, da quello di tradizione dotta a quello popolare, nonché i dialetti (però di solito privati delle punte idiomatiche estreme) e le lingue straniere. Un ruolo predominante assunse allora stabilmente l'italiano dell'uso medio, per lo più corredato di tratti fonetici regionali, che specialmente dal dopoguerra stava estendendosi, a danno degli idiomi locali, come lingua ordinaria di comunicazione pubblica e privata. Esso diventò componente usuale del parlato filmico, dapprima nella commedia all'italiana e presto anche in generi 'seri', come possono esemplificare rispettivamente Il sorpasso (1962) di Risi e Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi. Ad arricchire, legittimare e diffondere la variegata gamma di soluzioni del nuovo repertorio linguistico contribuirono, dopo la svolta del 1960, talune opere pregevoli e fortunate come, tra le prime, Accattone (1961) di Pier Paolo Pasolini per la soluzione dialettale, Divorzio all'italiana (1961) di Pietro Germi per la distorsione caricaturale dell'italiano regionale, 8¹/₂ (1963) di Federico Fellini per l'intreccio di lingue e di stili, L'armata Brancaleone (1966) di Monicelli per l'inventiva pseudo-arcaica, e così via.Da allora i realizzatori poterono adeguare a piacimento i dialoghi dei propri film alle più svariate scelte espressive, come confermarono negli anni Settanta numerosi titoli eterogenei, quali C'eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola per l'orchestrazione di peculiarità etniche, sociali, culturali e generazionali del suo parlato italiano, Padre padrone (1977) di Paolo e Vittorio Taviani per il ruolo drammaturgico del problema linguistico del protagonista sardo, L'albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi per il recupero evocativo del bergamasco rurale; e ancora, in seguito, talune opere di giovani registi, che erano apprezzabili per certa frenesia locutiva più o meno idiomatica, come Un sacco bello (1980) di Carlo Verdone, Ricomincio da tre (1981) di Massimo Troisi, Tu mi turbi (1983) di Roberto Benigni, oppure per la naturalezza e la libera mobilità tonale dei dialoghi, parlati in un verosimile italiano medio, come per es., fra molti, Senza pelle (1994) di Alessandro D'Alatri. Il patrimonio linguistico acquisito dal cinema italiano proprio allora, però, s'è trovato esposto, soprattutto in seguito alla crisi produttiva dell'ultimo ventennio del Novecento, a remore e a contagi che lo hanno indotto a ripiegare spesso, per opportunità commerciale, su soluzioni stereotipate e su un certo passivo assorbimento di espressioni ricalcate sull'inglese. Esso comunque possiede un assetto di fondo tanto articolato e stabile da rassicurare sulla conservazione delle posizioni raggiunte e su ulteriori conquiste, come può confermare Il mestiere delle armi (2001) di Olmi, con il suo calibrato impasto verbale cinquecentesco.Adattamento dei film stranieri. ‒ Nel cinema muto le didascalie delle pellicole destinate a circolare in mercati stranieri, fuori del loro naturale confine linguistico, erano sottoposte a traduzione: con tecnica alquanto semplice il singolo cartello originale era sostituito da un altro recante la versione del suo testo. L'esecuzione dell'adattamento seguì in Italia e altrove due diversi procedimenti. Fin verso il 1920 essa fu, per così dire, aziendale. Infatti la casa produttrice, che vendeva agli acquirenti stranieri singole copie del film già pronte per la proiezione, provvedeva a dotarle della veste linguistica richiesta. Poiché la versione era di solito affidata a improvvisati traduttori locali, le improprietà linguistiche erano usuali, come testimoniano lo stillicidio di lamentele rinvenibili nella stampa settoriale in Europa e altrove, nonché, per l'Italia, gli elenchi dei nulla osta di proiezione concessi alle pellicole nazionali e straniere dal Ministero dell'Interno, che fra l'altro davano notizia anche degli emendamenti linguistici; per es., la correzione imposta al cinegiornale della francese Pathé, Battaglia della Champagne (1915): "Che siano sostituite le parole 'avanzo', 'infanteria', 'va partire', e 'impacciate' con le altre più appropriate alla nostra lingua: 'avanzata', 'fanteria', 'sta per partire' e 'ingombre'" (una rassegna completa delle censure formali sino all'inizio del sonoro è in Raffaelli 1992, pp. 163-216). Dalla fine degli anni Dieci, invece, il compito dell'adattamento linguistico diventò di solito cura della ditta acquirente, che per lo più lo svolgeva nel proprio Paese e lo affidava a professionisti: migliorò di solito la qualità della traduzione, ma talvolta a scapito dell'integrità dell'opera. Così accadde anche in Italia, dove l'adattamento era concepito, dall'attivissimo Guglielmo Giannini e da altri colleghi, come libero rifacimento, che piegava il senso delle nuove didascalie e talvolta anche della stessa componente iconica del film alle attese del grande pubblico e alle preoccupazioni ideologiche e morali delle autorità; per es., Giannini si vantò di avere 'migliorato' fra gli altri The circus (1928; Il circo) di Charlie Chaplin e The crowd (1928; La folla) diretto da King Vidor; e, sotto l'incipiente regime fascista, prudenza autocensoria consigliò all'adattatore del francese Feu Mathias Pascal (1925; Il fu Mattia Pascal) di Marcel L'Herbier di non trasporre nell'edizione italiana le numerose occorrenze di liberté, libre e altri riferimenti, in verità schiettamente privati, alla libertà.La presenza del parlato nei film sonori costituì un grave inciampo per le pellicole che aspiravano a circolare in mercati linguisticamente differenti. L'industria cercò subito di superare questo ostacolo, senza recedere di fronte a costi economici e artistici. Prima Hollywood e presto altre cinematografie si dedicarono fin verso il 1932 alla frenetica e insoddisfatta ricerca di sistemi che agevolassero dovunque la comprensione delle proprie opere. L'Italia, che a causa della politica linguistica xenofoba del regime fascista vietò subito, fin dal 1929, la distribuzione di film stranieri parlati in lingua originale, ospitò nelle sue sale i vari ed effimeri espedienti allora escogitati, cioè la sostituzione del parlato originale con didascalie italiane, la recitazione di attori 'poliglotti', le 'versioni multiple', con dialoghi recitati per il medesimo film da gruppi 'nazionali' di attori, e altri ripieghi di minor conto. Non fu ammessa invece la traduzione mediante sottotitoli giustapposti alle immagini schermiche, perché non eliminava l'inquinante esposizione dello spettatore all'ascolto del parlato forestiero; questa fu invece una delle due soluzioni definitive, praticata nei decenni successivi con crescente consenso del pubblico in varie parti del mondo, nonostante certa inevitabile e spesso travisante sommarietà del testo sostitutivo. L'altra soluzione fu il doppiaggio (v.), cioè la sostituzione del parlato originale con uno succedaneo nella lingua locale che, pur suscitando la riprovazione dei cultori del cinema, riscosse dovunque il pieno e redditizio consenso delle grandi platee. Varato nel 1929 in America e diventato usuale in molti Paesi dopo il 1931, trovò favorevole terreno di maturazione tecnica e linguistica soprattutto in Italia, dove un provvedimento legislativo (d.l. 5 ott. 1933, nr. 1414) lo impose per tutti i lungometraggi importati e dove da allora fu applicato a qualsiasi pellicola straniera.Quanto alle scelte linguistiche del doppiaggio, l'esigenza di conferire ai dialoghi italianizzati da una parte prestigio e dall'altra naturalezza e comprensibilità presso platee eterogenee, indusse i distributori ad adottare all'epoca, con criterio rimasto quasi immutato fino agli anni Settanta, un italiano grammaticalmente sorvegliato, di livello medio, uniforme al punto di annullare non soltanto le variazioni sociali, culturali e generazionali, ma anche l'eventuale plurilinguismo del testo straniero; isolate increspature della sua rigida fisionomia erano tutt'al più prodotte da trovate verbali, come, per es., picchiatello, dall'originale pixillated, nella versione di Mr. Deeds goes to town (1936; È arrivata la felicità) di Frank Capra. I mutamenti ampi e profondi che dopo il 1945 investirono l'intera realtà italiana, coinvolsero anche il cinema in tutte le sue componenti, a eccezione del doppiaggio che, rinunciando a ricalcare le mutevoli innovazioni linguistiche della produzione italiana coeva, si mantenne fedele al collaudato modello d'anteguerra, che assicurava prestigio e comprensibilità alle pellicole per lo più provenienti da Hollywood. La documentazione raccolta a suo tempo da Alberto Menarini (specialmente in Menarini 1955) e il riascolto delle copie doppiate fino all'inizio degli anni Settanta permettono di rilevare un costante e pieno rispetto della grammatica e persino della buona pronuncia. Nell'insieme di questo sorvegliato assetto suonano sempre più distinte talune codificazioni stilistiche legate ai generi; in particolare ai film di nobile soggetto (religioso, storico, letterario) sembra spettare un andamento contegnoso e, all'opposto, uno sbarazzino a quelli comici o comunque leggeri. Nel corso degli anni aumentò un certo apprezzabile recupero delle variazioni di codice e di registro dell'originale, peraltro mediante l'immissione di parole e locuzioni anomale, oppure di umile uso settoriale.Il doppiato italiano si rinnovò negli anni Settanta, allorché le grandi ditte americane, modificate alquanto le strategie produttive e commerciali, dietro l'urgenza di superare una crisi industriale quasi ventennale e di conquistare in patria e nel mondo il pubblico di giovani allora in fermento, abbandonarono fra l'altro il vecchio perbenismo linguistico. Opera inaugurale della nuova fase è da considerarsi The godfather (1972; Il padrino) di Francis Ford Coppola, un 'colosso' che ammise senza remore un parlato arieggiante la varietà siciliana dell'italiano. Tuttavia timide aperture alla dialettalità già erano affiorate in qualche pellicola poco condizionata da strategie commerciali: quelle di case produttrici minori, anche americane, come Marty (1955; Marty, vita di un timido) di Delbert Mann con Ernest Borgnine; quelle di animazione per piccini come The aristocats (1970; Gli aristogatti) di Wolfgang Reitherman; quelle ragguardevoli, ma distribuite da ditte minori, come Kakushi toride no san akunin (1958; La fortezza nascosta) di Kurosawa Akira, nel cui adattamento del 1961 due stolidi inservienti del samurai imprecavano in romanesco; infine quelle di coproduzione, come Le magot de Josefa (1963; La pila della Peppa) di Claude Autant-Lara, dove Anna Magnani, proprietaria francese di un'osteria, usava un parlato romaneggiante. In seguito alla frantumazione del vecchio monolinguismo, il doppiaggio italiano si è mosso in tre principali direzioni. La maggior parte delle pellicole straniere si è attenuta al doppiato 'normale', avvalendosi di un italiano corretto ma di livello medio. I prodotti meno ambiziosi, con destinazione soprattutto televisiva 'a puntate', hanno ripiegato su un parlato 'seriale', cioè caratterizzato da un italiano medio-basso, tendenzialmente rispettoso della norma, ma stereotipato e inverosimile: frutto di adattamenti acerbi o affrettati, imposti dall'aumento di prodotti stranieri, dopo la metà degli anni Settanta. Alcuni film, all'opposto ambiziosi o anomali, si sono dotati invece di un doppiato 'creativo', consistente di solito nel trasporre, con procedimento analogico, i codici e le oscillazioni stilistiche dell'originale in varietà sia dell'italiano sia dei più noti dialetti e di lingue straniere; tra i primi esempi notevoli, Trash (1970; Trash ‒ I rifiuti di New York) di Paul Morrissey, nel cui adattamento del 1974 gli emarginati di New York usavano varietà meridionali dell'italiano; Breaking away (1979; All American boys) di Peter Yates, dove il biascicato italiano dell'originale suonava trasposto in veneto; analoga la soluzione per A fish called Wanda (1988; Un pesce di nome Wanda) di Charles Crichton, dove uno dei personaggi, italofono nell'originale, parlava spagnolo. Infine va segnalata la comparsa, dagli anni Ottanta, del doppiato per così dire 'filologico', consistente nella ridoppiatura del film straniero, già edito a suo tempo in versione italiana, ricalcando di solito il vecchio doppiato con cura, ma a volte con ammodernamenti, come, tra i primi, in Fury (1936; Furia) di Fritz Lang, dove un poliziotto rilevava a un automobilista, nell'adattamento del 1937: "Andavate a tutta velocità, vero?"; e in quello nuovo: "Te la stavi filando a tutta birra, a quanto pare" (Maraschio, in La lingua italiana in movimento, 1982, p. 147).
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