melodramma, lingua del
Il melodramma è un genere teatrale nato in Italia a cavallo tra Cinquecento e Seicento che, sulla base della riflessione teorica sulla musica (e sul suo rapporto con la poesia) svolta nel tardo Rinascimento, intendeva recuperare la dimensione del ‘recitar cantando’ considerato proprio dell’antica tragedia greca.
Dopo le prime rappresentazioni a Firenze e Mantova, in occasione di feste presso corti signorili, nel corso del Seicento e del Settecento la nuova forma teatrale (definita anche come opera lirica) si diffuse a Venezia e in vari altri centri italiani, raggiungendo fasce di pubblico sempre più ampio, e superò anche i confini nazionali (come dimostra il caso di Metastasio, poeta cesareo alla corte di Vienna).
Il teatro d’opera è pertanto da considerarsi tra i generi espressivi caratterizzanti del nostro Paese, con indubbie influenze anche linguistiche all’estero (Folena 1983): basti pensare a ➔ italianismi come aria, bravo, cabaletta, daccapo, do di petto, libretto, opera e altri, presenti in molte lingue del mondo. In Italia il successo dell’opera lirica fu notevolissimo anche nel corso dell’Ottocento e ancora nella prima metà del Novecento (dalla seconda metà del secolo in poi diventano rarissimi casi di opere nuove), mentre oggi è tutto sommato un fenomeno d’élite, nonostante un recente riavvicinamento delle giovani generazioni; invece in molti paesi (dalle Americhe all’Estremo Oriente: statunitensi, giapponesi e coreani, tra gli altri, affollano teatri e corsi di canto italiani o con repertorio italiano) il melodramma continua a costituire un’indubbia cifra identitaria e una forte spinta motivazionale per l’accostamento alla lingua e alla cultura italiane (sul melodramma quale veicolo di circolazione dell’italiano all’estero, nei secoli scorsi: ➔ cantata, voce; ➔ musica e lingua).
Nonostante il successo anche popolare del genere (o forse proprio per questo), nella storia della cultura italiana, le recriminazioni contro il cattivo gusto della poesia per musica, la pessima qualità drammaturgica e stilistica dei libretti d’opera e l’inverosimiglianza del teatro lirico sono assai frequenti. Basti pensare all’accezione spregiativa dell’aggettivo melodrammatico, più o meno «enfatico, strappalacrime, dal sentimentalismo a buon mercato».
Le critiche al linguaggio melodrammatico (che peraltro aveva nobili ascendenze petrarchesche e tassiane) fiorirono già durante l’Arcadia e si fecero vieppiù violente tra gli intellettuali illuministici e poi romantici, per culminare nel corso del Novecento. Il teatro d’opera, ad es., è «un mostro, e un’unione di mille inverisimili», per Ludovico Antonio ➔ Muratori (Bonomi 1998: 155). L’accusa principale, che assolve quasi il solo Metastasio, è contro lo strapotere della musica ai danni della parola (Prima la musica e poi le parole recita ironicamente il titolo di un libretto metateatrale di Giovan Battista Casti, 1786) e contro il divismo di castrati prima, soprani e tenori poi (Benedetto Marcello, Il teatro alla moda, 1720):
Bisogna massacrar tutto il libretto,
ed uscir sempre fuor del seminato,
acciò quivi cader possa il duetto,
e qui venire il pezzo concertato;
spesso ancor da quei barbari si vuole,
pria la musica, e dopo le parole
rincara la dose Filippo Pananti, nel celebre romanzo epico Il poeta di teatro (1808), nel quale elenca i principali luoghi comuni che accompagnano la librettistica italiana almeno fino all’Ottocento inoltrato:
Mia speme, il mio bel sole, il mio tesoro,
lassa! Deh non partir! Ciel! Astri! Numi!
Accorrete o miei fidi, io manco, io moro,
mi struggo al tuo bel fuoco, ardo a’ tuoi lumi,
che pena! Che martir, che fier tormento!
Grazie vi rendo, oh giorno di contento!
Senti, che pensi? Olà figli, consorte,
gelo, palpito, oh dèi, sogno o son desto?
Scostati, oh ciel! Ti lascio, io vado a morte!
Tremo, che orror, che strano caso è questo!
Misero, che farò? Sorte rubella!
Fuggi, deh non partir, siedi e favella.
Dove son, dove fuggo, ove m’aggiro?
Odimi, non parlar, cedi, obbedisco;
che ascoltai! Che mi narri! Ahimè che miro! ...
(in Rossi 2005: 36-37).
Il librettista prototipico (postmetastasiano) è senz’altro tra le figure più vituperate della letteratura italiana, dapprima vincolato unicamente alle trite convenzioni teatrali, indipendentemente dalla musica destinata a ricoprire i suoi versi; da Verdi in poi, soggetto alle angherie del compositore. Il passaggio dal riconoscimento della dignità poetica e drammaturgica di tali testi (fino alla loro recitazione anche non musicata) alla damnatio memoriae romantica e ancor più postromantica è epocale:
Mentre parliamo dell’Olimpiade come di un dramma del Metastasio, solo raramente ricordando i vari compositori che l’hanno posto in musica, non abbiamo dubbi nel considerare Il trovatore un’opera di Giuseppe Verdi, dimenticando nella maggior parte dei casi di menzionare l’autore del libretto (Della Seta 1987: 259).
Come ben si evince dai versi biasimati dal Pananti, gli ingredienti fondamentali dei libretti d’opera sette-ottocenteschi sono l’arcaismo e l’aulicismo, l’antirealismo e un’estrema prevedibilità negli usi lessicali e fraseologici, in quella che può ben essere definita come una «quintessenza della tradizionale lingua poetica» (Serianni 2002: 114).
Le più comuni forme librettistiche non soltanto passano di melodramma in melodramma, infatti, ma provengono a loro volta da una lunga tradizione (e del resto l’opera lirica è sempre all’insegna del riuso, come mostra non solo la sua lingua ma le fonti delle sue storie, quasi sempre tratte da tragedie, libretti o comunque narrazioni precedenti): sulla linea Petrarca-Tasso-Metastasio si muove l’opera preromantica, dal binomio Ossian-Alfieri parte quella romantica; commedia dell’arte e Goldoni, invece, sono i numi tutelari della librettistica buffa. E dunque gli occhi saranno quasi sempre lumi, la speranza rigorosamente speme, l’anima alma, la morte dell’eroe e dell’eroina è di norma annunciata da io manco e io moro, il tormento d’amore è sempre fiero, l’amato che non riama è barbaro, la chiesa è un tempio, la casa le soglie, ecc. Si tratta cioè d’un codice infarcito di formule, assolutamente convenzionale e riconoscibile. Gli aulicismi sono spesso inerziali, vale a dire come deprivati della loro carica connotativa, stilistica e cronologica, com’è il caso di forme quali augello, rubella, è d’uopo, dessa, nel libretto, programmaticamente verista, dei Pagliacci di Leoncavallo:
l’autore ha cercato [...] porgervi
uno squarcio di vita. Egli ha per massima
sol che l’artista è un uomo e che per gli uomini
scrivere ei deve. – Ed al vero ispiravasi
(dal Prologo, in Serianni 2002: 116).
Tra le iuncturae verdiane preferite si ricordano almeno (Telve 1998): «amare lagrime» (Ernani e in molti libretti non verdiani coevi, oltreché nella lirica italiana a partire da Petrarca); «amor possente» (Ernani, Rigoletto, Aida e altrove, da Guinizzelli a Da Ponte a Leopardi); «ardente affetto» (Un giorno di regno, Nabucco, Luisa Miller e altrove, da Dante a Tasso, da Alfieri a Praga); «caro accento» (Ernani, I due Foscari, I masnadieri, Rigoletto, I vespri siciliani, Aida e altrove, soprattutto in Metastasio); «ciel pietoso» (Oberto, I due Foscari, Un ballo in maschera, Simon Boccanegra, Luisa Miller, in altri libretti non verdiani coevi e altrove, da Buonarroti a Guidi); «cruda sorte» (La traviata, I vespri siciliani e già nell’Italiana in Algeri e in molte altre opere di Rossini, oltreché da Petrarca a Goldoni); «fato estremo» (Luisa Miller, I lombardi alla prima crociata, La battaglia di Legnano, Aida e altrove, da Burchiello a Guidi); «furtiva lagrima» (I masnadieri e già nell’Elisir d’amore di Donizetti, oltreché da Monti a Giusti); «giusto ciel» (in quasi tutti i libretti verdiani e rossiniani e altrove, a partire da Metastasio); «ora estrema» (Il trovatore, Aroldo, La forza del destino, Don Carlos, Simon Boccanegra, Un ballo in maschera, in altri libretti non verdiani coevi e altrove, a partire da Petrarca); «perduto bene» (Rigoletto, Il trovatore, Don Carlos e altrove, da Petrarca a Metastasio e Alfieri); «regal serto» (Aida, Don Carlos, Goldoni, Alfieri e altri libretti); «rio destin» (Alzira, La forza del destino, Il trovatore, Otello e altrove, a partire da Cino da Pistoia); «tetto natio» (I lombardi alla prima crociata, Luisa Miller, Un ballo in maschera, Goldoni, Manzoni, ecc.); «vago sembiante» (Oberto, Otello, già a partire da Boccaccio e fino a Goldoni e Leopardi); «vile seduttore» (Giovanna d’Arco, Simon Boccanegra, La forza del destino, La battaglia di Legnano e già in Alfieri). Esse creano una fitta rete di corrispondenze, quei
segnali linguistici che suggeriscono all’ascoltatore lo statuto drammatico dell’opera e delle singole situazioni sceniche a cui sta assistendo, fornendo spie circa il tono del momento, grave o non grave, la posizione gerarchica dei personaggi, il loro stato d’animo, ecc. [...] Perifrasi e circonlocuzioni [...] appartengono a tal punto alla lingua del melodramma che una loro disattesa può risultare una violazione del codice, un elemento straniante più di quanto non lo sia la circonlocuzione stessa, per quanto oscura (Telve 1998: 335-336).
Si tratta, in breve, della stessa estrema riconoscibilità delle trame e del carattere dei personaggi.
Alcune forme ritenute particolarmente aspre, non tanto perché latineggianti, arcaiche o eccessivamente ricercate, quanto perché riferite a contesti più o meno realistici e dunque inappropriati, furono facile bersaglio della critica, dalle «egre soglie» della Traviata:
lui che modesto e vigile
all’egre soglie ascese,
e nuova febbre accese,
destandomi all’amor
al «bronzo ignivomo» (il «cannone») di Ernani (ma già in Monti e Parini):
se mai prescelto io sia
tre volte il bronzo ignivomo
dalla gran torre tuoni
È ovvio che il compito dei libretti d’opera non era quello di «agevolare la comprensione» dello spettatore, né quello di rendere verosimile o piacevole il testo verbale, sibbene l’adeguamento alle convenzioni. Il piacere del testo è destinato a nascere dalla composizione di parole (affabulatorie in quanto distanti dall’uso comune), musica e interpretazione:
è solo nella situazione vissuta ed emotiva propria del cantato [...] che il ‘parlato inverosimile’ dei personaggi, originariamente compiuto e incompleto, rivela con forza la sua spontaneità e la sua autenticità, dando così prova tangibile della verità drammatica dell’opera in atto (Telve 1998: 431)
Quanto alla metrica, ai versi più prosastici dei recitativi (di solito endecasillabi sciolti), si alternano più o meno tradizionali schemi strofici delle arie e degli altri pezzi chiusi (duetti, terzetti, cori, ecc.), rigorosamente rimati, con frequentissima ripetizione di versi, con metri che spesso includono ottonari, settenari o quinari, ma anche decasillabi o versi doppi (senari o settenari) o, più raramente, versi brevissimi (Coletti 2005: 25-27).
Dal punto di vista morfosintattico, normale è il cosiddetto imperativo tragico, vale a dire con particella pronominale in posizione proclitica anziché enclitica: «tu lo calma», «mi perdona» (La traviata; ➔ imperativo). In altri costrutti è, di contro, frequente l’enclisi:
Oh! quale orrore
spargesi intorno!
(Rossini, Tancredi)
Comune la forma avvi «c’è»:
Non avvi
riparo dunque a questo passo estremo?
(Rossini, Bianca e Falliero)
Frequente anche l’uso assoluto di verbi normalmente pronominali: «gente appressa» (Il trovatore). O, di contro, l’uso pronominale di verbi normalmente senza pronome: «non sai tu dunque qual mi son» (I vespri siciliani). Assai amati sono i costrutti impersonali e passivi, in una sorta di tendenza all’indebolimento del soggetto:
In servigio del cielo,
sangue e sudor da noi si spande. Rieda
in libertà Sionne; su quel monte
di nostra fede ondeggi
il venerato segno,
e poi si pensi al tuo perduto regno
(Rossini, Armida).
Per motivi analoghi, i personaggi operistici spesso si rivolgono a sé stessi in terza persona:
Perché al mondo di scherno far segno
di sua casa e d’Elvira l’onore?
(dice Elvira, nell’Ernani di Verdi)
Ancora a proposito delle invocazioni, a essere apostrofati come fossero persone sono spesso alcuni sentimenti o concetti (secondo la figura retorica detta prosopopea o personificazione):
Non lasciarmi in tal momento,
bel pensier di gloria e amor.
Se mi segui nel cimento
lieta è l’alma e balza il cor
(Rossini, Aureliano in Palmira).
La transitività dei verbi è sovente invertita rispetto al consueto:
amor crudele
al pensier lo ritorna
(Rossini, Ermione)
dal tuo morto fu il mio genitore
(Verdi, Ernani)
«Che parli?» in luogo di «che dici?» è formula comunissima di molti libretti d’opera (Rossini, Elisabetta regina d’Inghilterra, Semiramide, ecc.). Anche l’elevata presenza del futuro e del passato remoto è indice di antirealismo, poiché distacca il soggetto dal presente dell’azione:
del vostro Re la sorte
da noi dipenderà
(Rossini, Demetrio e Polibio)
ella fuggì, t’illuse:
me illudere non seppe. A tempo accorsi
(Rossini, Ricciardo e Zoraide)
Per rendere ancora più assoluta e scolpita l’evidenza di certi oggetti, sentimenti e concetti, l’articolo viene talora omesso (secondo un modulo comune in Alfieri): «gioia m’innonda il petto» (Il trovatore). Il possessivo nelle invocazioni viene spesso anteposto al nome, alla francese: «mio padre!» (in Rossini, Verdi, ecc.).
Nell’ordine delle parole spiccano l’➔ iperbato e la tmesi, ovvero l’inversione e la spezzatura di sintagmi, che raggiungono vette di cripticità nell’opera romantica:
sacro in quell’alma
di patria amor tutto l’investe, e ardito
l’impeto incauto ad arrestar lo spinge
di Giacomo, che queste
contra ogni legge invade
pacifiche contrade
(Rossini, La donna del lago)
notturna, nei pugnati campi
di Pelilla, ove spento
fama ti disse,
a darti sepoltura non mossi?
(Verdi, Il trovatore).
Quasi tutto, insomma, dal lessico alla morfologia alla sintassi, sembra allontanare la lingua dei libretti (ancor più rispetto agli altri generi poetici coevi) da quella della prosa.
Fatta salva l’estrema omogeneità stilistica della lingua librettistica, un’importante ripartizione va creata tra libretti se-ri e buffi, laddove i secondi, con l’eccezione delle scene liri-co-amorose (quasi totalmente allineate alla lingua dell’opera seria), fanno ampio ricorso a tutto l’armamentario lessicale della tradizione comico-realistica, dalla commedia dell’arte a Goldoni, passando per il teatro napoletano cinque-settecentesco (Goldin 1985: 77-189). Il teatro musicale comico riabilita tutte quelle forme escluse dai libretti metastasiani (ma presenti nell’opera secentesca delle origini, prima della separazione del genere serio da quello buffo: Coletti 2003: 110): le onomatopee, gli ideofoni e altri elementi fonosimbolici (➔ onomatopee e fonosimbolismo), gli alterati (cospettone, merlotto, padroncino, castrataccio, furfantella, Isacchetto, Lisettuccia e molti altri, in Rossini, inclusi i superlativi abnormi: eccellentissimo, leggiadrissimo, orribilissimo e sublimissimo) e gli insulti, il lessico dell’imbroglio (corbellare, gabbare, infinocchiare, babbeo, babbuino, balordo, birbone, furfante, mammalucco, ecc.) e quello sessuale, le parole spezzate e la funzione metalinguistica:
Pappataci! che mai sento!
La ringrazio. Son contento.
Ma di grazia, Pappataci
che vuol poi significar?
(Rossini, L’italiana in Algeri)
e ancora la metateatralità e le esplicite citazioni letterarie, i giochi verbali e la riproduzione di difetti di pronuncia come la balbuzie, già precocemente attestata in opere come il Giasone di Cavalli, e quindi nel celebre Signor Bruschino di Rossini:
padre mio! ... padre mio! ... mio, mio ... mio, mio! ... mio, mio, son pentito! tito ...tito ...tito ...tito ...tito
padre mio, sono pentito! tito ...tito ...tito ...tito
Non va poi dimenticato l’uso di dialetti e di lingue straniere (celeberrime le turcherie nei libretti da Goldoni a Rossini: La pietra del paragone), la lunga e virtuosistica elencazione di termini e nomi propri (dal catalogo di Leporello nel Don Giovanni mozartiano all’aria di Don Profondo nel Viaggio a Reims di Rossini) e lo sfoggio di parole non letterarie, dai tecnicismi ai gergalismi al lessico della quotidianità:
sarà zeppo e contornato
di memorie e petizioni,
di galline, di sturioni,
di bottiglie, di broccati,
di candele e marinati,
di ciambelle e pasticcetti,
di canditi e di confetti,
di piastroni, di dobloni,
di vaniglia e di caffè
(Rossini, La Cenerentola)
La librettistica buffa rossiniana riassume esemplarmente tutto questo (Rossi 2005, da cui sono tratti tutti gli esempi).
Quanto al fonosimbolismo (➔ onomatopee e fonosimbolismo), a esemplificare la vittoria del significante sul significato (o meglio, la loro reciproca rimotivazione) – specie nei libretti buffi, nei quali la sonorità delle parole deve suggerire quella orchestrale, oltreché suscitare la comicità –, basterebbero i libretti dell’Italiana in Algeri:
nella testa ho un campanello
che suonando fa dindin.
Come scoppio di cannone
la mia testa fa bumbum.
Sono come una cornacchia
che spennata fa crà crà.
Nella testa un gran martello
mi percuote e fa tac tà
del Barbiere di Siviglia:
la calunnia è un venticello,
[...] che insensibile, sottile,
[...] incomincia a susurrar.
[...] Sotto voce sibilando,
va scorrendo, va ronzando;
[...] Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo;
[...] sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta
va fischiando, brontolando
[...] e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale,
che fa l’aria rimbombar
e della Cenerentola:
questo è un nodo avviluppato,
questo è un gruppo rintrecciato.
Chi sviluppa più inviluppa,
chi più sgruppa, più raggruppa.
L’opera tardo-ottocentesca (tardo-verdiana) e novecentesca (da Puccini in poi) sembra operare una riunificazione tra i generi serio e buffo.
La librettistica pucciniana, per es., è caratterizzata da un’estrema varietà espressiva, che combina elementi della lirica tradizionale con forme tipicamente buffe. Basti prendere uno dei melodrammi pucciniani migliori, La Bohème (1896), nel quale trovano spazio il gioco linguistico (aringhe per arringhe: «è un piatto degno di Demostene») non meno delle solite forme d’accatto, come nel valzer di Musetta (con quel piè, l’alterato vezzoso soletta, le inversioni sintattiche):
quando men vo soletta per la via,
la gente sosta e mira
e la bellezza mia tutta ricerca in me
da capo a piè…
Nel medesimo libretto compaiono tanto oggetti quotidiani (caramelle, cuffiette, giocattoli, prugne) quanto la ricercatissima tmesi «viso di mite circonfuso alba lunar», nel seguente brano:
O soave fanciulla, o dolce viso
di mite circonfuso alba lunar,
in te, vivo ravviso
il sogno ch’io vorrei sempre sognar!
La carnalità con cui è descritta la malattia di Mimì:
una terribil tosse
l’esil petto le scuote
e già le smunte gote
di sangue ha rosse
nonostante gli iperbati (➔ iperbato), sembra abissalmente distante dell’eterea, arcaizzante metafora delle «rose pallenti» (anziché «gote pallide») di Violetta, nella Traviata verdiana:
addio, del passato bei sogni ridenti,
le rose del volto già sono pallenti
Va segnalato, infine, che varie espressioni librettistiche restano tuttora proverbiali, o quantomeno assai sfruttate dai media, sebbene non tutti siano in grado di coglierne l’origine (➔ titoli; Serianni 1989: 369-379; si riporta, così come negli esempi precedenti, soltanto il compositore dell’opera citata): «bugia pietosa», «croce e delizia», «pio ministro» (da La traviata di Verdi); «e non mi pesa la lunga attesa», «un po’ per celia, un po’ per non morire» (da Madama Butterfly di Puccini); «Figaro qua Figaro là», «sono un barbiere di qualità», «tutti mi chiedono, tutti mi vogliono», «ma se mi toccano dov’è il mio debole» (da Il barbiere di Siviglia di Rossini); «oh! dolci baci, o languide carezze» (da Tosca di Puccini); «schiavo son de’ vezzi tuoi», «sono studente e povero», «tutte le feste al tempio» (da Rigoletto di Verdi); «siamo tutti una sola famiglia» (da Ernani di Verdi); «all’alba vincerò» (da Turandot di Puccini).
Bonomi, Ilaria (1998), Il docile idioma. L’italiano lingua per musica. La diffusione dell’italiano nell’opera e la questione linguistico-musicale dal Seicento all’Ottocento, Roma, Bulzoni.
Coletti, Vittorio (2003), Da Monteverdi a Puccini. Introduzione all’opera italiana, Torino, Einaudi.
Coletti, Vittorio (2005), Libretti, opera e lingua, in Storia della lingua italiana e storia della musica nel melodramma e nella canzone. Atti del IV convegno dell’Associazione per la Storia della Lingua Italiana (Sanremo, 29-30 aprile 2004), a cura di E. Tonani, Firenze, Cesati, pp. 21-32.
Della Seta, Fabrizio (1987), Il librettista, in Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi & G. Pestelli, Torino, EDT, vol. 4º (Il sistema produttivo e le sue competenze), pp. 233-291.
Folena, Gianfranco (1983), L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi.
Goldin, Daniela (1985), La vera fenice. Librettisti e libretti tra Sette e Ottocento, Torino, Einaudi.
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Serianni, Luca (1989), Saggi di storia linguistica italiana, Napoli, Morano.
Serianni, Luca (2002), Viaggiatori, musicisti, poeti. Saggi di storia della lingua italiana, Milano, Garzanti.
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