Settecento, lingua del
Il Settecento fu un secolo decisivo per le sorti della lingua italiana, investita dalle grandi innovazioni culturali del periodo, che mettono in moto il processo destinato a modernizzarne le strutture, a trasformarne l’immagine da lingua prevalentemente letteraria e scritta a strumento di comunicazione nazionale più ampio e articolato: l’italiano si sostituisce al latino nell’erudizione, nelle scienze, negli usi giuridico-legali; si consolida negli usi pratici e amministrativi e si diffonde nell’uso parlato, dove si sovrappone e mescola ai dialetti, generando quelle forme ibride che preludono agli odierni italiani regionali.
La metafora dei ‘lumi’, nel suo aspetto di calco dal francese di diffusione europea, si presta a rappresentare il senso di un cambiamento in sintonia con il movimento delle idee guidato dalla Francia, e sotto l’influsso di quel francese che è la lingua universale dell’Europa colta; una egemonia limitata in alcuni settori dall’italiano, lingua della commedia dell’arte, della musica e del libretto per musica: a Parigi diffuso come lingua da salotto, «lingua plaisante di poeti e di amanti» secondo Voltaire (Folena 1983: 397-431); a Vienna usato a corte, tanto che Metastasio nel suo lungo soggiorno viennese non sentì la necessità di imparare il tedesco, e neppure Lorenzo Da Ponte, il librettista di Mozart (Marazzini 20023: 341-344), il quale a sua volta si dilettava a usare l’italiano nella corrispondenza (Folena 1983: 432-469) (➔ melodramma, lingua del; ➔ italiano in Europa). E nel confronto europeo matura una riflessione sull’identità del proprio patrimonio linguistico-culturale che alla fine del secolo sfocerà in una nuova coscienza nazionale della lingua.
Innanzitutto è importante esaminare come si configura il dominio ufficiale dell’italiano nel nuovo assetto politico della penisola, con la Lombardia asburgica, il Meridione e la Sicilia borbonici, il Piemonte e la Sardegna sabaudi, la Toscana sotto la dinastia dei Lorena, quindi lo Stato della Chiesa e la miriade degli staterelli. Lo Stato sabaudo promuove azioni a favore dell’italiano in Piemonte, dove il francese era abitualmente parlato accanto al dialetto dai ceti alti e dalla classe dirigente, e in Sardegna, dove leggi e regolamenti erano ancora scritti in spagnolo; in Alto Adige e nel Trentino l’italiano conquista spazi nel corso della seconda metà del secolo a scapito del tedesco, e pure a Trieste, nonostante l’obbligo del tedesco nelle scuole elementari e negli impieghi pubblici. In Sicilia un provvedimento del 1738 dispone l’uso dell’italiano in luogo del latino o dello spagnolo negli atti governativi, con la motivazione che «essendo Sua Maestà re Italiano, debba usare la lingua italiana» (Matarrese 1993: 21-23). Il quadro ci fa intravvedere una convergenza nel riconoscere e valorizzare la comune tradizione linguistica, con la conseguenza di un allargamento della comunicazione tra le diverse regioni della penisola.
Il processo è lento, essendo l’uso dell’italiano un fatto di élite, attinente alle situazioni formali e allo scritto alto, e l’analfalbetismo diffuso. Manca a tutti i livelli una educazione linguistica riguardo all’italiano: motivo ricorrente delle varie autobiografie che attraversano il Settecento, da Giambattista Vico a ➔ Vittorio Alfieri a Da Ponte, è il livello inadeguato dell’educazione linguistica e letteraria (Tomasin 2009; ➔ scuola e lingua). Nei primi decenni del secolo ➔ Ludovico Antonio Muratori denunciava «il lodevolissimo sì, ma troppo zelo d’instruire i giovani nel linguaggio latino […] a segno di non permetter loro l’esercizio dell’italiano» e di farli uscire dalla scuole «ignorantissimi della lor favella natìa» (Matarrese 1993: 26-27).
La nuova sensibilità illuministica per la diffusione del sapere dà impulso all’insegnamento pubblico e uniforme, introducendo l’italiano nella scuola. Con la soppressione dell’ordine dei gesuiti (1773), che aveva il monopolio dell’educazione, soprattutto superiore, l’educazione scolastica è assunta dallo Stato. Si afferma l’esigenza di una scuola pubblica primaria estesa a tutti: un fervore di iniziative a partire dalla seconda metà del secolo – da Napoli ai vari centri emiliani, al Piemonte, al Lombardo-Veneto –, che, pur restando per lo più sulla carta, aprono la strada a quell’allargamento dell’istruzione che è la base di una più diffusa conoscenza della lingua italiana. Si predispongono strumenti per l’insegnamento del leggere e dello scrivere, compaiono i primi abbecedari, come quello di Francesco Soave, attivo operatore nella riforma delle istituzioni educative in Lombardia: stampato nel 1786, il manualetto introduceva «i fanciulli alla cognizione delle lettere, al compitare, e sillabare, e leggere», curando l’apprendimento ortografico e portando campioni di massime, proverbi e «favolette morali», secondo un’idea laica di educazione. E in un manuale d’istruzione per gli insegnanti insisteva che «le prime cose, che hannosi a far leggere da’ fanciulli […] esser debbono italiane», raccomandando di astenersi dall’usare «in iscuola il dialetto lombardo» e di usare «sempre l’italiano finito, o, come dicesi comunemente, il toscano», e puntualizzando quanto alla pronuncia: «Il c si pronunzi ce, ci, non ze, zi, come fassi in più luoghi; l’u si pronunzii tondo alla maniera de’ Toscani; non acuto come si suol da’ Francesi, e da’ Lombardi, la s sia ben distinta dalla z, e si faccia notare a cagion d’esempio la diversità fra passo e pazzo, lesione e lezione» (Matarrese 1993: 32).
Anche nell’istruzione superiore, in cui l’insegnamento gesuitico e della Ratio studiorum prescriveva l’uso del latino pure nella conversazione, l’italiano s’impone come materia a sé stante. Esemplare è ancora il caso del Piemonte: si introducono manuali scritti in italiano per l’insegnamento della grammatica latina nell’università (finora tutta latina), si rende obbligatorio nella scuola superiore lo studio dell’italiano e viene istituita nell’ateneo torinese una cattedra di «eloquenza italiana». Qui come altrove si compongono antologie e grammatiche con precise finalità didattiche, tra le quali si impongono le Regole ed osservazioni della lingua toscana di Salvatore Corticelli (1745), la prima sistematica grammatica italiana destinata alla scuola, e la Gramatica ragionata della lingua italiana di Francesco Soave (1771), innovativa nel portare esempi non tanto da autori, ma dalla lingua comune (Soave 2001; ➔ grammatica). Un tale impegno per l’educazione linguistica, se non produsse effetti notevoli nel diffondere una competenza della lingua nazionale in ampi strati sociali, va comunque apprezzato per aver posto per la prima volta il problema dell’insegnamento istituzionale della lingua italiana.
Alla diffusione e al rinnovamento contribuisce la stampa periodica: «la storia della lingua del Settecento è in larga parte e in maniera progressivamente crescente legata al giornalismo» (Folena 1983: 17; ➔ giornali, lingua dei). La stampa diventa il veicolo di una informazione vasta e rapida sulle novità tecniche e scientifiche, mettendo in circolo nelle varie lingue di cultura, e «con sincronia, talvolta stupefacente», neologismi ed europeismi, le parole legate alle recenti scoperte, alle loro applicazioni pratiche, i nuovi termini della politica (Dardi 1992: 8). Formule più popolari come le gazzette trattano cronaca cittadina, fatti di attualità e costume; si affaccia anche un pubblico femminile, al quale si rivolgono il milanese «Giornale delle nuove mode di Francia e d’Inghilterra», il fiorentino «Giornale delle dame» e il veneziano «La Donna galante ed erudita». È su queste pagine che si fanno strada modalità più moderne di scrittura, determinate da esigenze di rapidità ed economia, oltre che di più larga fruibilità, che impongono un periodare più agile, lontano dal «labirinteo fraseggiare» della prosa elevata.
Un grande impulso hanno le traduzioni, soprattutto dal francese, non solo di grandi opere come le enciclopedie, ma anche di teatro e di narrativa. Nasce adesso quella letteratura di consumo che ha notevole incidenza nella società del tempo e in particolare sul pubblico femminile: un fenomeno che non può non avere ricadute sulla lingua comune (Antonelli 1996). Si tratta di una produzione preoccupata più della larga leggibilità dei testi che della loro letterarietà, presentando una prosa più sciolta e moderna, che accanto a scontati residui letterari è aperta ai francesismi e ai neologismi alla moda. Le traduzioni contribuiscono a quell’influsso del francese a cui era particolarmente esposto l’italiano, privo di una salda compagine e di una coscienza nazionale: un fenomeno che interessa il costume, le mode, la letteratura, le scienze, le ideologie e alla fine del secolo anche la politica. Entrano nell’italiano termini francesi legati a cose e situazioni della vita pratica, variamente adattati (canapè, comò, mantò, bignè, burò, ecc.), o calcati su locuzioni francesi (colpo d’occhio, mano d’opera, treno di vita, ecc.; ➔ francesismi); sull’esempio del francese si diffondono forme di derivazione con i suffissi -ismo, -ista, -aggio (fanatismo, dispotismo, libertinaggio, ecc.). Un impulso valutato positivamente da ➔ Melchiorre Cesarotti, che nel Saggio sulla filosofia delle lingue (1800) sostiene l’utilità delle traduzioni nel caso della lingua e della letteratura italiana, veicolo per il suo rinnovamento e modernizzazione e stimolo «a inventar vari modi di conciliazione e d’accordo, a renderla in fine più ricca di flessioni e d’atteggiamenti senza sfigurarla né sconciarla» (Cesarotti 1969: 92).
Un settore da conquistare, nonostante il precedente di ➔ Galileo Galilei, era quello delle scienze: in Europa i dotti hanno abbandonato il latino per esprimersi nelle lingue nazionali, in Italia tale scelta ha bisogno di essere continuamente riaffermata. Se all’inizio del secolo la scelta tra latino e volgare è ancora in discussione e Antonio Vallisneri si batte per l’uso della lingua italiana «per debito, per giustizia, e per decoro della nostra Italia», qualche decennio dopo Lazzaro Spallanzani non si pone più il problema.
La definitiva adozione dell’italiano negli argomenti scientifici produce un generale rinnovamento delle modalità espositive delle diverse discipline, tendenti a farsi autonome dalla lingua letteraria, benché all’inizio di essa tributarie, per la coscienza della dignità culturale della ricerca scientifica e la conseguente esigenza di tutelarne un alto livello letterario; anche se, ovviamente, esistono differenze notevoli a seconda della disciplina e del suo grado di accessibilità presso i non profani. Per es., la prosa delle Dissertazioni di Spallanzani presenta uno stile frondoso e sintatticamente complesso, che gli merita la critica di un suo corrispondente estero, il quale lo esorta a una maggiore concisione nelle descrizioni. E Spallanzani modifica in seguito il proprio stile anche per adeguarlo al francese, in cui prevede di fare tradurre le sue opere, mirando «alla chiarezza e alla precisione, senza trascurare quella eleganza nella lingua italiana che può combinarsi con lo stile didascalico» (Altieri Biagi 1990: 263-264). L’esempio francese è uno stimolo a rinnovare la struttura sintattico-stilistica e adeguarla alle esigenze espressive del sapere tecnico-scientifico, passando da uno stile «manifatturato» a uno «istruttivo» funzionale a un «ordine, che debbe consistere nelle cose, non nelle parole»: frasi brevi e autonome, accostate paratatticamente da contrapporre all’architettonico periodare tradizionale, come si sostiene sulle pagine di quel «Caffè», da cui «sortirono le dichiarazioni più ribelli del dibattito linguistico settecentesco» (Morgana 2003: 155).
Al rinnovamento dello stile espositivo si accompagna l’acquisizione di un lessico specifico, per il quale è frequente il ricorso ai composti greco-latini, tramite la mediazione dell’inglese e del francese, del tipo microscopio, barometro, idrometria, ecc. (➔ elementi formativi). Ma la necessità di nuovi termini sollecita le capacità interne della lingua. Alessandro Volta, per es., riguardo alla denominazione di un nuovo importante apparecchio oscilla tra il composto greco micro-elettroscopio e il sintagma analitico apparecchio ingranditore, ma alla fine opta per il termine condensatore, perché più chiaro, trasparente e sintetico (Morgana 2001: 221): il vocabolo, di origine latina, ma di coniazione inglese (condenser), si inserisce nella serie di suffissati in -tore, utile a formare nuovi nomi riferiti a persone, dotati di connotazione tecnica. Le necessità terminologiche sollecitano le capacità formative della lingua attraverso per es. i suffissi -tore per i nomi d’agente (isolatore, conduttore, investigatore, ecc.), -sione e -zione per i nomi d’azione (intensione «intensità», rifrazione, intersecazione, ecc.), -izzare e -ificare per verbi fattitivi (polverizzare, volatilizzare, analizzare, elastificare, chiarificare, ecc.). La riflessione di Volta è indicativa non solo dell’attitudine metalinguistica che caratterizza lo scienziato in periodi di forte sviluppo della sua disciplina, ma anche della vocazione comunicativa tipicamente settecentesca di mantenere il legame con la lingua comune (Giovanardi 1987).
Sviluppo tecnico-scientifico e rapida circolazione delle conoscenze impongono strumenti lessicografici adeguati, dizionari sia generali di stampo enciclopedico sia settoriali: una esigenza cui dava la massima risposta la grande impresa di Diderot e D’Alembert, l’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (Paris 1751-1777), ma che trovava impreparata un’Italia condizionata da una tradizione lessicografica conservativa. Accanto al dizionario generale, rappresentato dal Vocabolario della Crusca, alla sua quarta impressione (1729-1738), vengono via via sorgendo da una parte i dizionari specializzati, dall’altra quelli dialettali. Il Vocabolario della Crusca, nel proporsi come guida normativa nazionale, perfeziona la sua impostazione letteraria e toscaneggiante, pur con caute aperture all’uso colto nazionale e alle voci tecnico-scientifiche (➔ accademie nella storia della lingua). Tra le varie imprese lessicografiche (➔ lessicografia) che si discostano dal canone cruscante va notata l’opera di Gian Pietro Bergantini (1745), che integrava la Crusca nel settore delle arti e delle scienze e del lessico comune con fonti nuove e moderne, documentando con larghezza il rinnovamento lessicale settecentesco, nei suoi caratteri dotti ed europeizzanti (latinismi, grecismi, neoformazioni, forestierismi, dai francesismi agli anglismi; Morgana 2003: 117-154). Un punto d’arrivo del lavoro lessicografico settecentesco, ormai alle soglie dell’Ottocento, è il Dizionario universale critico enciclopedico della lingua italiana di Francesco D’Alberti (1797-1805), che segna un vero stacco dalla tradizione cruscante. La sua apertura ai diversi settori e livelli della lingua, i latinismi, grecismi e neologismi per le voci scientifiche, i regionalismi per le arti e mestieri, e gli svariati francesismi, rendono l’immagine della bifronte realtà linguistica e culturale settecentesca, per un verso rivolta all’Italia, alla sua tradizione e alle sue realtà locali, per l’altro alla Francia e pertanto all’Europa.
Quanto alla prosa letteraria, il suo rinnovamento nasceva anche da quel confronto con il francese che aveva promosso una riflessione sui caratteri e sui limiti della nostra lingua. In discussione era il Vocabolario della Crusca, «più adoperato e seguito in pratica che non sia stato espressamente riconosciuto», avrebbe scritto ➔ Alessandro Manzoni nel Sentir messa. Celebre la Rinunzia al Vocabolario della Crusca, comparsa sul «Caffè» (1764), manifesto dell’insofferenza della cultura illuminista nei confronti del conservatorismo e del toscanismo. Un altro punto critico è lo stile «intralciato» della prosa italiana, la sua propensione ai periodi complessi, al modello boccacciano canonizzato da ➔ Pietro Bembo; in particolare viene presa di mira la costruzione inversa della frase rispetto a quella diretta (soggetto-verbo-oggetto), ritenuta più razionale e naturale, pertanto più appropriata alla prosa. All’inizio del secolo l’esigenza di modernizzazione dell’Arcadia aveva promosso una prosa dalle strutture più semplici e lineari, anche se non dimentica del particolare genio retorico dell’italiano, propenso alle inversioni utili a variare il discorso e a evitare la monotonia a cui era esposta la prosa francese a causa della uniformità della sua costruzione diretta. Pier Jacopo Martello in Il vero Parigino italiano (1718) difende «la semplicità di uno stile grazioso, agile e naturale, tanto nemico delle trasposizioni, quanto amico della brevità nei periodi». E Muratori, per il quale le lingue sono «ministre affatto indifferenti dell’uomo» e il «cangiarsi» delle parole «dal natural’ordine […] e l’artifiziosamente trasporle» è pertinente all’«elocuzione poetica» (Matarrese 1993: 124), negli scritti storici ed eruditi dà l’esempio di una prosa modernamente denotativa con una sintassi lineare e un linguaggio più colloquiale. Esplicitamente Francesco Algarotti nei Dialoghi sopra l’ottica neutoniana (1752) afferma di aver seguito uno stile «netto, chiaro, preciso, interrotto», di aver evitato «lunghi periodi col verbo in fine», lo stile idoneo al dialogo di contenuto scientifico divulgativo cui appartiene l’opera (Matarrese 1993: 203-209).
Infine, a reclamare un rinnovamento radicale sono gli scrittori del «Caffè», i cui argomenti di scienze, tecnica, economia richiedono una scrittura più direttamente comunicativa opposta allo stile «manifatturato» boccacciano, ai «rotondi periodi», in cui tutto deve essere «liscio e legato e fluido», come scrive Alessandro Verri. La lingua postulata da illuministi e riformatori era una lingua «comune» regolata dai dotti, cioè dagli scrittori, non fissata al passato e neppure a una regione, propria pertanto di tutti gli italiani e ragionevolmente aperta ai neologismi e ai regionalismi. Un apporto importante alla questione è quello di Cesarotti col Saggio sulla filosofia delle lingue: partendo dal presupposto che non ci sono lingue superiori e perfette, Cesarotti stabilisce il moderno principio della variazione per cui ogni lingua varia a seconda delle situazioni e dei luoghi («niuna lingua è parlata uniformemente dalla nazione»), e a seconda dei registri e degli strati e gruppi sociali («le diverse classi degli artefici si formano il loro gergo: i nobili hanno anche senza volerlo un dialetto diverso da quello del volgo») (Cesarotti 1969: 25-27). La lingua scritta è più stabile, regolata dagli scrittori, che possono introdurre parole e significati nuovi purché inseriti secondo le regole proprie della lingua. A spiegare tale regime di variazione e innovazione Cesarotti ricorre ai concetti di «genio grammaticale» e «genio retorico», il primo corrispondente alla struttura profonda della lingua, il secondo mutevole, disponibile alle variazioni legate alla storia; al genio retorico poi pertengono il lessico, sempre aumentabile, aperto quindi ai neologismi, ai dialettalismi, ai forestierismi, e la costruzione con le sue possibilità di marcatezza espressiva in cui rientrano le inversioni.
Un buon punto di osservazione dell’evoluzione della prosa è quello della scrittura autobiografica, che ha grande sviluppo nel Settecento. Nei primi decenni ci si imbatte in esempi opposti: per un verso la Vita di ➔ Vico, che si muove tra tendenze arcaizzanti e latineggianti e influssi del dialetto, con una sintassi complessa, modellata sul latino (Tomasin 2009: 35-47); una prosa estranea allo stile razionalistico, rapido e franto come quello, per l’altro verso, della Vita di Pier Jacopo Martello (Folena 1983: 11; Tomasin 2009: 49). Verso la fine del secolo anche un conservatore come Carlo Gozzi condivide nelle sue Memorie inutili le tendenze modernizzanti della prosa contemporanea (Tomasin 2009). Pur nella tendenza allo svecchiamento delle strutture, permangono le oscillazioni e le disomogeneità di uno strumento non ancora passato attraverso quel processo di unificazione che solo un uso vivo e comune avrebbe potuto determinare (Patota 1987: 154): e quindi coesistono forme come, per es., nella fonetica romore / rumore, nutrire / nodrire, devo / debbo / deggio; nella morfologia ei, eglino, elleno; il tipo in -a della prima persona dell’imperfetto, e altro.
Se la prosa ricerca un livello medio e uno stile comunicativo che privilegia la costruzione diretta della frase, la poesia va invece in direzione opposta, accentuando la sua caratteristica di codice separato dalla prosa, un fenomeno che riguarda in particolare gli ambienti illuministici e riformatori. L’Arcadia aveva trasformato modi e convenzioni di tradizione petrarchesca in un uso generalizzato del far poesia: un linguaggio nobile, semplice, lontano dalla lingua comune, la cui estrema selettività del lessico era compensata dalla amplissima possibilità di variazioni offerte dal patrimonio letterario: ➔ allotropi (ritondo, rimoto, gittare, aura, augello, ei «egli»); ➔ arcaismi (speme, alma, frale, ponno «possono», aggio «ho», ecc.); una sintassi lineare, funzionale a una poesia chiara, limpida e accessibile a un vasto pubblico. Una poesia disponibile a quella unione con la musica che decreta il successo letterario dell’italiano anche fuori d’Italia attraverso il melodramma, «il genere più sintonizzato con lo spirito e il gusto del secolo» (Coletti 1993: 197).
Metastasio codifica il genere alto dell’opera seria con un linguaggio che propende verso modi aulici, con incremento di ➔ latinismi (brando, cimento, pugna, talamo) e tratti sintattici esclusivamente letterari, come il cosiddetto «imperativo tragico» con pronome anteposto al verbo (t’affretta «affrettati»; ➔ imperativo; ➔ teatro e lingua). A questa poesia «alla portata di tutti, e come tale votata alla mediocrità» (Roggia 2002: 260), reagiva il movimento riformatore in nome di un’idea di poesia selettiva e aristocratica: una tendenza che rappresenta il risvolto del rinnovamento che investe la lingua nel corso del secolo e spinge la poesia ad accentuare la sua specificità rispetto alla lingua comune, in ragione anche di quel confronto tra le culture nazionali (il genio delle nazioni), nel quale l’italiano vantava una preminenza nella poesia in virtù proprio di quella specificità (➔ immagine dell’italiano). Come avrebbe osservato ➔ Giacomo Leopardi,
non prima del passato secolo e del presente si è formato pienamente e perfezionato il linguaggio (e quindi anche lo stile) poetico italiano (dico il linguaggio e lo stile poetico, non già la poesia); s’è accostato al virgiliano, vero, perfetto e sovrano modello dello stile propriamente e totalmente e distintissimamente poetico; ha perduto ogni aria di familiare; e si è con ben certi limiti, e ben certo, né scarso, intervallo, distinto dal prosaico (Zibaldone, 12 sett. 1823).
Da qui l’aulicismo, la conservatività grammaticale e l’intenso ricorso ai latinismi, base viva dell’italiano, che l’avvicinava al suo stadio originario; da qui gli espedienti retorici (perifrasi, trasposizioni con inversioni e iperbati), che più segnano la distanza della poesia dalla lingua comune e ne sublimano il carattere; e il ricorso alla costruzione inversa, che risentiva anche dell’idea sensista di una intrinseca poeticità degli ordini marcati, ritenuti più naturali in quanto più vicini alle forme primitive di comunicazione in cui prevalgono i valori dell’immaginazione rispetto a quelli della razionalità discorsiva (Roggia 2002: 263 segg.). Interprete massimo di questa concezione della poesia è Giuseppe Parini, con il suo poemetto di critica sociale e d’ispirazione illuminista Il Giorno. Già l’incipit mostra la marcata impronta latineggiante nell’ampio periodo con il verbo in posizione finale, nell’➔iperbato e nelle inversioni (lungo … ordine, del sangue … il difetto):
Giovin Signore, o a te scenda per lungo
di magnanimi lombi ordine il sangue
purissimo celeste, o in te del sangue
emendino il difetto i compri onori
e le adunate in terra o in mar ricchezze
dal genitor frugale in pochi lustri,
me precettor d’amabil rito ascolta
Consustanziali a tale poesia gli epiteti rari e peregrini, le complesse perifrasi che dilatano le immagini, come quella celebre per il caffè: «la nettarea bevanda ove abbronzato / fuma, ed arde il legume a te d’Aleppo / giunto» (Roggia 2002: 278 segg.). Una tale sostenutezza di linguaggio non esclude elementi del quotidiano, come nella descrizione della toilette (anzi tavoletta nella revisione successiva del testo) del «giovin signore» i termini comuni calzonetti, sapon, spugna: una presenza del concreto e del prosastico «solo in quanto l’insieme si faceva più aulico» (ibid.: 253), come indicano anche le varianti redazionali che mutano ferire in fiedere, abbian in aggian, specchio in speglio ecc., privilegiando le forme più lontane dall’uso medio.
L’uso medio comincia a delinearsi nei generi più comunicativi, rivolti a un pubblico più ampio. Uno di questi è la commedia, dove si fa strada un italiano intermedio tra il registro alto e quello basso nella ricerca di un ‘parlato’ che possa rendere l’immagine di una lingua viva. L’esigenza di una lingua comune parlata e di un modello più naturale e colloquiale indirizzano verso il toscano vivo e parlato, al quale guarda ➔ Carlo Goldoni nella ricerca di un italiano che potesse suggerire la vivezza e spontaneità del parlato. E nella lettera di dedica delle Femmine puntigliose dichiara utile per un «un uomo di lettere, trattenersi per qualche tempo a Firenze ad imparar dalle balie e dalle fantesche ciò che altrove si mendica dal Bembo, dal Boccaccio o dalla Crusca medesima»; invece Vittorio Alfieri stabilisce la sua residenza a Firenze nell’intento di impossessarsi di «quella doviziosissima ed elegante lingua; prima indispensabile base per bene scriverla» (Vita scritta da esso I, iv, 2): il fiorentino è fonte di comunicazione viva e popolare per l’uno, lingua per eccellenza delle lettere per l’altro.
Quanto all’uso vivo fuori Toscana, la lingua comune, s’intende di matrice letteraria, sta penetrando e diffondendosi nel parlato soprattutto nei grandi centri. Giuseppe Baretti nota come in ciascuna regione d’Italia accanto al «dialetto particolare», usato da chiunque «nel suo quotidiano conversare sì nella propria famiglia che fuori», si usi anche un modo più affettato di parlare toscaneggiando «quel suo dialetto alla grossa» (Migliorini 19785: 501). Altre testimonianze del fenomeno, da Milano come da Napoli, indicano il formarsi di quella lingua ibrida, compromessa con il dialetto, che aveva da tempo una sua esistenza al di sotto dell’italiano scritto fissato dalle grammatiche: un punto di passaggio fondamentale per giungere all’uso parlato e colloquiale dell’italiano.
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