economia, lingua dell’
L’inquadramento e la descrizione del linguaggio economico (o, meglio, della lingua dell’economia e della finanza; Dardano 1998: 65-69; Rainer 2006: 2148-2149) come linguaggio settoriale (➔ linguaggi settoriali) incontrano diverse difficoltà.
Innanzitutto, il campo delle scienze economiche e commerciali risulta costituito da una quarantina di discipline (dall’economia politica, alla politica economica, al diritto dell’economia, alle discipline finanziarie e aziendali fino a quelle relative al marketing e al management), con una gamma di oggetti e metodi di studio in cui si riflettono i diversi saperi da cui l’economia è stata alimentata e definita nel corso del suo sviluppo storico. A tale articolazione corrisponde poi la «complessità epistemica e linguistica» (De Mauro 1994: 413) degli studi economici: per un verso impostati sulla formalizzazione logico-matematica dei fenomeni osservati, per l’altro concentrati sull’analisi delle singole situazioni, altamente complesse e suscettibili di correzioni e interventi di tipo politico ma, proprio per la loro complessità, non descrivibili attraverso formalizzazioni.
Dal punto di vista esterno (o «verticale», secondo la terminologia di Cortelazzo 1990), la lingua dell’economia e della finanza presenta una ricca articolazione in tipi o livelli testuali differenziati e di diversa diffusione. Si va dal livello specialistico (in cui tendono a prevalere la tecnicità e l’univocità terminologico-concettuali, spesso affiancate da un alto grado di formalizzazione, con frequente ricorso a grafici e iconismi e con forte presenza di termini e/o scritture in lingue straniere, in particolare l’inglese) alle diverse forme, modalità e densità della divulgazione (➔ divulgazione, linguaggio della), anch’esse improntate all’alta presenza di locuzioni e termini stranieri, perlopiù angloamericani. Tra queste ultime spicca, per influenza e capacità di penetrazione (dovute alla diffusa consapevolezza dell’importanza della dimensione economica nella società contemporanea), il giornalismo economico-finanziario, che in diversi paesi costituisce, accanto a quello sportivo, l’unico genere di giornalismo settoriale di larga diffusione e influenza (De Mauro 1994: 416).
Forse più che altrove, in Italia questa situazione è l’esito di una particolare evoluzione economico-commerciale e della correlativa maturazione di uno specifico linguaggio, arricchito e definito da una lunga e originale tradizione di pensiero economico.
Benché i vocaboli fondamentali delle principali attività economiche siano latini (merx, mercator, commercium, lucrum, pignus, ecc.), è solo con la fine dell’alto medioevo che si abbandona il criterio dell’attività economica essenzialmente come amministrazione dell’unico bene reale riconosciuto, la proprietà terriera (criterio e mentalità tipici del mondo romano e mantenuti come fulcro della società feudale), per una nuova concezione (non solo dell’agire economico ma anche dell’intero sistema socio-politico) basata sui concetti di scambio e di commercio e incentrata sulla nuova figura del mercante.
Viene così articolandosi, a partire da elementi lessicali in genere risalenti ai secoli V-IX, un primo vocabolario commerciale, i cui lemmi hanno origini ormai prevalentemente non latine (germaniche, franche, longobarde, ecc.; Schiaffini 1930: 27-28, 44-54): da guadagnare e guadagno (< franco *waiđanjan), che sostituisce il latino lucrare; a risparmiare (< franco *sparanjan); all’ant. it. bargagnare «negoziare, contrattare» (< galloromano *barganiare, da cui il verbo e nome inglese bargain); a garante, g(u)arentire / garantire (< franco garant); a gruzzolo (< longobardo gruzza) e roba (< franco rauba, «veste», «armatura»); fino al vocabolo che apre una nuova epoca, banco / banca (< franco *bank, che in origine indicava la «panca»).
Questi sviluppi, basati sulla fioritura economica e la correlativa diffusione del commercio su scala internazionale, ebbero il loro centro di creazione e di irradiazione in Italia, e in particolare a Firenze. Nella Penisola, infatti, non solo si elaborarono i nuovi strumenti finanziari, tutti legati alla scrittura e alla pratica del volgare (in particolare del fiorentino e del toscano), ma si venne anche formando e definendo la relativa terminologia, ben presto recepita, adattata e spesso ancora vitale nelle lingue dei paesi europei legati da rapporti commerciali con gli italiani (➔ italianismi). Nacquero così gli strumenti operativi (e i relativi vocaboli) della prassi e della contabilità mercantile, quali: il libro dei conti (conto, nel senso di «partita di dare e avere» risale al XIV sec. ed è vivo nel tedesco Konto; Stammerjohann et. al. 2008: 235), la lettera di cambio (XIV sec.; cfr. fr. lettre de change, XV sec.; per cambiare e cambio, d’origine romanza, cfr. Schiaffini 1930: 3, 28) e di legaggio («nota di consegna»), la fattura (XV sec.; cfr. ted. Faktur) e la polizza di sic(h)urtà (contratto assicurativo in campo marittimo, XIII sec.; Sosnowski 2006: 46-47; più tardo, XVI sec., il derivato assicurazione; per polizza, cfr. fr. police, XIV sec., ted. Police / Polizze, XVI sec.).
Venne così formandosi una vera e propria terminologia settoriale della prassi commerciale, che, elaborata in Italia tra XIII e XV secolo, si diffuse in tutte le lingue europee, formando il nucleo più antico della lingua dell’economia, costituito da una serie di vocaboli originariamente italiani, ma talmente diffusi da essere ben presto sentiti come veri e propri internazionalismi (Sosnowski 2006: 59). Tra essi: bilancio (XV sec., fr. bilan, ted. Bilanz); capitale (settentrionale cavedal, XIV sec.); cassa e cassiere (rispettivamente XIII e XIV sec.; fr. casse, XVII sec.; ingl. cash, XVI sec.; ted. Kasse e Kassier, XVI sec.); credito (XIV sec.; fr. crédit, XV sec.; ingl. credit, XVI sec., dal francese; ted. Kredit, XV sec.) e tariffa (XV sec., dall’arabo ta‛rīfa).
Contemporaneamente, dapprima in latino (nel Liber abaci di Leonardo Fibonacci, XIII sec., a metà tra il trattato di matematica e il manuale di pratica mercantile), poi sempre più frequentemente nel volgare delle «pratiche di mercatura» (a partire da quella trecentesca di Francesco Balducci Pegolotti, da cui il genere prende il nome), cominciò a formarsi una letteratura precettistico-teorica e di sistemazione algebrica delle procedure mercantili e contabili caratterizzata da lessico e fraseologia specifici. In questa direzione, appunto, si colloca il trattato in volgare Summa de arithmetica (1494) di Luca Pacioli, perfezionatore del sistema della partita doppia (che sopravvive ancora come nucleo della moderna ragioneria) e insieme divulgatore del linguaggio contabile (vi si trova la prima attestazione di tecnicismi quali stornare, cfr. ted. stornieren, e monte «capitale», poi internazionalmente diffuso nella locuzione monte di pietà; Stammerjohann et. al. 2008: 511).
Un’ulteriore svolta nella definizione concettuale e nell’assetto linguistico-stilistico della lingua dell’economia e della finanza italiana si registra tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento in tre opere (L’alitinonfo, 1582, di Gasparo Scaruffi; la Lezione delle monete, 1588, di Bernardo Davanzati e il Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento, 1613, di Antonio Serra) in cui si ponevano le prime questioni teoriche della moderna economia politica e si delineavano i concetti portanti della dottrina mercantilistica. Alle innovazioni sul piano scientifico corrispose un affinamento linguistico (Sosnowski 2006: 97-126) in direzione dell’arricchimento lessicale, della specializzazione terminologica (attraverso frequenti e controllate definizioni), del ricorso a procedure analogico-metaforiche per mettere a fuoco e lessicalizzare idee nuove (per es. i termini-concetto liquido / liquidità e circolazione, che accostano il flusso monetario alla circolazione sanguigna; Rainer 2006: 2155-2156). Ancora per tutto il Seicento l’italiano continua a fornire tecnicismi al linguaggio internazionale dell’economia, per es.: giro («circolazione, traffico di merci, attività commerciale», di diffusione internazionale; più tardi, XVIII sec., i derivati girata e giratario), impresa, quota (ted. Quota / Quote).
Più mosso il panorama nel Settecento, in cui per un verso prosegue il contributo italiano alla lingua e alla teoria economica, per l’altro, a partire dagli anni Settanta si affermano, in Francia e Inghilterra, concezioni che, innovando il quadro teorico delle scienze economiche, ne modificano radicalmente il vocabolario. Così, nella prima metà del secolo, mentre nella lingua internazionale degli scambi continuano ad affermarsi italianismi quali addebitare, cambiale (riduzione e specializzazione della medievale lettera di cambio), valuta e voltura, nell’opera dei «filosofi-economisti e riformatori» (secondo la definizione di Folena 1983: 39, tra i quali Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Gian Rinaldo Carli, Pietro Verri e Cesare Beccaria) viene delineato e giunge a maturazione (epistemologica e accademica ma anche linguistica; Finoli 1947 e 1948) il nuovo settore dell’economia detta pubblica o civile (cioè l’attuale economia politica). Dopo il 1770, la diffusione delle idee e delle opere dei fisiocratici francesi e della scuola classica inglese, spinta dalla decisiva azione dei primi giornali e periodici economici (Augello, Bianchini & Guidi 1996: 21-127), determinò un primo afflusso in italiano di stranierismi economici, mutuati o adattati prevalentemente dal francese, tra cui: azione (e i derivati azionario e azionista), aggiotaggio e aggiotatore, beneficio, budget, economista, esportare e esportazione, stock, stabilimento (o sviluppamento) di mercati (< établissement e développement; Folena 1983: 51).
Questo confronto (linguistico ed epistemologico) con il pensiero economico europeo continuò nell’opera di Carlo Cattaneo, che però ebbe un posto a sé nell’intricato sviluppo della lingua e della letteratura economica nell’Ottocento. Anche qui si rilevano alcuni neologismi (assegno, che tiene testa al francese chèque; circolante, come nome, «il complesso dei mezzi di pagamento in circolazione in uno Stato»; gettito; ecc.), ma risultano privi di respiro internazionale e in netta minoranza rispetto ai prevalenti forestierismi (ormai perlopiù anglicismi: clearing, plafond, tender, trust, warrant). Anche nella letteratura specialistica si ricorre spesso alle lingue straniere: dopo l’Unità d’Italia, infatti, sempre più frequentemente gli studiosi di economia pubblicano le loro ricerche in lingue diverse dall’italiano (dapprima il francese, come molte opere di Vilfredo Pareto; poi quasi solo l’inglese, come diversi scritti di Maffeo Pantaleoni). Ciò è il risultato, per un verso, delle oscillazioni linguistico-stilistiche che caratterizzano le opere di diversi economisti (Francesco Ferrara, Giulio Alessio, Enrico Barone, ecc.), spesso incerti tra lo stile sostenuto della tradizione letteraria italiana e modi espressivi più diretti e referenziali mutuati dagli autori delle ormai prevalenti scuole inglese, francese e austro-tedesca; per l’altro, del sempre più accelerato processo di specializzazione della lingua economico-finanziaria, che la allontana progressivamente dal crescente bisogno di informazione degli operatori e del pubblico medio, cui si tenta di ovviare con la fondazione dei primi quotidiani settoriali (Il Commercio di Genova, 1861; Il Sole, Milano, 1865; Il Corriere italiano. Quotidiano di finanza, banche, industria, Genova, 1888).
Queste linee di tendenza si ritrovano fortemente accentuate nel Novecento, nel corso del quale la lingua economico-finanziaria italiana, per un verso, subisce un forte incremento terminologico (quasi interamente costituito, però, da prestiti e adattamenti di termini stranieri, per la quasi totalità inglesi, e dovuto alla forte tendenza alla specializzazione e al correlativo ricorso a procedure di formalizzazione matematica); per l’altro, perde progressivamente terreno rispetto all’ormai assoluta prevalenza dell’inglese. Così, nella prima metà del secolo si riscontrano ancora neologismi derivati dalla tradizione economica italiana (contropartita, extrastallia, quotazione) o adattati dal francese (movimentazione; numerario, come nome; ofelimità, classamento, beneficio, presa di beneficio, ecc.) e la penetrazione di anglicismi non adattati sembra limitata, con prevalenza del settore macroeconomico, a casi di effettiva necessità (dumping, gold standard, holding) e comunque accompagnata da adattamenti e calchi (inflazione e deflazione, riconversione, taylorismo). Dagli anni Cinquanta in poi si riducono fortemente le mutuazioni dal francese (filier, indicizzazione, remise, dont, ecc.) e i termini di formazione italiana (cartolarizzare, crematistico, indotto, come nome), mentre dilagano gli anglicismi non adattati, relativi ormai a tutti i settori del campo economico-finanziario (da blue chip a cash flow e fringe benefit; da factoring a future e golden share, ecc.).
Effetti di questa situazione sono un’accresciuta distanza della lingua economico-finanziaria italiana, specialmente in testi di livello semispecialistico (saggistica, pubblicistica, ecc.), dalla lingua comune e quindi una accresciuta difficoltà di comprensione da parte dei non specialisti (Richelle Giampiccoli 1983). Certo, non sono mancate opere di economisti (Luigi Einaudi, Umberto Ricci, Giovanni Demaria, Federico Caffè, Claudio Napoleoni e Piero Sraffa, nei suoi non numerosi scritti in italiano) scritte in una prosa italiana pienamente comprensibile ed efficace, ma è altrettanto vero che i raffronti sul grado di leggibilità dei testi economici (non solo saggistici ma anche di livello divulgativo) rispetto a quelli di altri ambiti disciplinari hanno indicato che il settore dell’economia è quello «con l’indice di leggibilità di gran lunga più basso» (De Mauro 1994: 417).
Ciò ha determinato la larga diffusione, la crescente fortuna e la forte influenza di periodici e soprattutto di quotidiani con pagine e/o inserti interamente dedicati a temi economico-finanziari. Anche a questo livello divulgativo, però, abbondano, come peraltro già nelle cronache finanziarie dei primi decenni del Novecento (Devoto 1939), locuzioni e termini stranieri, con la solita prevalenza dell’inglese e con spiccata preferenza per i tecnicismi collaterali (bear trap «trappola al ribasso», lett. «trappola per orsi»; operazioni cross-border «transazioni compiute solo tra partner internazionali»; Scavuzzo 1992: 186-189) e i neologismi (specie quelli più recenti, Rando 1990), che trovano forse una duplice ragione come modalità di richiamo al lettore e come ostentato segnale di competenza tecnica e, quindi, di autorevolezza.
Augello, Massimo M., Bianchini, Marco & Guidi, Marco E.L. (a cura di) (1996), Le riviste di economia in Italia (1700-1900). Dai giornali scientifico-letterari ai periodici specialistici, Milano, F. Angeli.
Cortelazzo, Michele A. (1990), Lingue speciali. La dimensione verticale, Padova, Unipress.
Dardano, Maurizio (1998), Il linguaggio dell’economia e della finanza, in Con felice esattezza. Economia e diritto tra lingua e letteratura, a cura di I. Domenighetti, Bellinzona, Casagrande, pp. 65-88.
De Mauro, Tullio (1994), Nota linguistica aggiuntiva, in Scrittori italiani di economia, a cura di R. Bocciarelli & P. Ciocca, Roma - Bari, Laterza, pp. 407-423.
Devoto, Giacomo (1939), Dalle cronache della finanza, «Lingua nostra» 1, pp. 114-121.
Finoli, Anna Maria (1947), Osservazioni sulla lingua degli economisti italiani del Settecento, «Lingua nostra» 8, pp. 108-112.
Finoli, Anna Maria (1948), Note sul lessico degli economisti del Settecento, «Lingua nostra» 9, pp. 67-71.
Folena, Gianfranco (1983), L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi.
Rainer, Franz (2006), Geschichte der Sprache der Wirtschaft in der Romania, in Romanische Sprachgeschichte. Ein internationales Hand-buch zur Geschichte der romanischen Sprachen, hrsg. von G. Ernst et al., Berlin - New York, de Gruyter, 3 voll., vol. 2°, pp. 2148-2161.
Rando, Gaetano (1990), “Capital gain”, lunedì nero, “money manager” e altri anglicismi recentissimi del linguaggio economico borsistico-commerciale, «Lingua nostra» 51, pp. 50-66.
Richelle Giampiccoli, Emma (1983), La langue de l’économie, de la technique à la banalisation, Torino, Giappichelli.
Scavuzzo, Carmelo (1992), Il linguaggio delle pagine economiche, in Il linguaggio del giornalismo, a cura di M. Medici & D. Proietti, Milano, Mursia - Mont-Blanc, pp. 73-82.
Schiaffini, Alfredo (1930), Disegno storico della lingua commerciale dai primordi di Roma all’età moderna. I. Roma e i Regni romano-germanici, «L’Italia dialettale» 6, pp. 1-56.
Sosnowski, Roman (2006), Origini della lingua dell’economia in Italia. Dal XIII al XVI secolo, Milano, F. Angeli.
Stammerjohann, Harro et al. (2008), Dizionario di italianismi in francese, inglese, tedesco, Firenze, Accademia della Crusca.