gastronomia, lingua della
Un linguaggio tecnico della gastronomia si può datare per l’italiano già ai primi secoli (sicuramente agli inizi del Trecento), molto prima cioè della circolazione di ricettari classici, dai trattati rinascimentali al ricettario per antonomasia, quello di Pellegrino Artusi, del 1891. Studi linguistici recenti sempre più numerosi evidenziano il forte legame della cultura gastronomica (e della lingua) con la storia culturale della società italiana come fattore significativo di identità culturale (Frosini 20092; Robustelli & Frosini 2009).
Termini gastronomici sono presenti fin dai più antichi testi italiani, anche letterari (per es., nel Decameron), ma è certamente la comparsa del libro di cucina, ai primi del Trecento, che fa registrare, oltre a denominazioni ancora attuali (agliata, mostarda, brodetto, cialda, cacio parmigiano), il fissarsi di tratti morfosintattici caratteristici del linguaggio tecnico (Lubello 2001). Infatti, nei ricettari tardo-medievali, raccolte in gran parte anonime (il primo nome, verso la metà del Quattrocento, è quello di Maestro Martino da Como, autore del De arte coquinaria) e poi nel primo trattato rinascimentale, i Banchetti, compositione di vivande et apparecchio generale di Cristoforo Messi Sbugo (edito a Ferrara nel 1549), risultano definitivamente codificate nella formazione dei termini della gastronomia (o gastronimi) alcune strutture tipiche: il sintagma preposizionale per la specificazione (salsa alla genovese), forme ellittiche (frittelle di vento), suffissazione tecnica, in particolare con -ata (salviata, peverata, cotognata) e con suffissi diminutivi (frittelle, pastatelle, tortelletti), traslazioni metonimiche e metaforiche (per la forma, il colore, l’ingrediente principale: vermicelli, ginestrata, reticelle, rosoni; cfr. Catricalà 1982).
Fin dai testi più antichi si abbinano, inoltre, tradizioni radicate nella penisola a pietanze non nazionali, almeno nelle intitolazioni, dal brodo tedesco al potagio francese al biancomangiare; quest’ultimo, in realtà, più che al francese di terraferma (blancmanger), sembrerebbe riconducibile ai Normanni in Sicilia, crocevia di culture e tradizioni mediterranee, spesso di origine orientale.
Dal Cinquecento in poi si allestiscono grandi ricettari nella forma di veri e propri trattati d’arte, in cui sono ormai ben fissati in formule i tratti prescrittivi tipici della ricetta (se vuoi ... se vuoi; l’uso del tu; la struttura paratattica, ecc.) e in cui trovano spazio ricette di varia provenienza, fino al massiccio infraciosamento settecentesco, segnato dal Cuoco piemontese perfezionato a Parigi (edito a Torino nel 1766) e ancora più marcatamente dall’Apicio moderno di Francesco Leonardi, del 1790. A segnare la svolta cruciale fu la Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie di Pellegrino Artusi (pubblicato nel 1891 per la prima volta e arrivato già nel 1911, anno della morte dell’autore, alla quattordicesima edizione), che ristabilizza le nostre tradizioni di cucina, normalizzando il linguaggio gastronomico italiano con una lingua nuova, moderna, di matrice fiorentina, tanto che Serianni (2009: 107) ha definito Artusi come il Manzoni della lingua gastronomica italiana. Anche nella Scienza in cucina, accanto a termini nostrani, toscani in particolare, trovano posto parole straniere non italianizzate, dai krapfen al plum-cake allo champagne, accanto a moderate ed eleganti italianizzazioni, non passate all’uso come rosbiffe, o stabilizzatesi come bistecca.
La lingua della cucina si caratterizza per la convivenza di termini locali, che rispecchiano tradizioni regionali, e di termini stranieri, più o meno acclimatati, di provenienza diversa: forte la spinta araba alle origini (➔ arabismi), la presenza iberica (➔ ispanismi) tra Quattro e Cinquecento (capirotta, mirasto, torrone), la componente francese (➔ francesismi) spiccata nel Settecento (entrano in questo periodo bodini «budini», brioche, caramel, escalope, glace, remoulade, soufflé, fondù, vinegrè «vinaigrette»; cfr. Thomassen 1997; Schweickard 2007).
La lingua della gastronomia di oggi è molto ricca di forestierismi crudi, dal sushi giapponese al sandwich inglese, dallo tzatziki greco alla paella spagnola, dal cous cous arabo alla salsa schantung cinese, dai falafel medio-orientali al taco messicano; in qualche caso alcuni termini sono di irradiazione prima regionale e poi nazionale, come nel caso di germanismi presenti in aree di confine (i finferli «tipi di fungo» e i canederli «grossi gnocchi cotti nel brodo») accanto ad altre parole di origine tedesca ma di più larga diffusione (strudel, crauti, würstel, sachertorte).
Un apporto consistente proviene da ➔ dialettismi e regionalismi gastronomici, oggi diffusi e non sempre identificabili quanto a provenienza (Beccaria, Stella & Vignuzzi 2005; Beccaria 2009): il pesto genovese, la fontina piemontese, il gorgonzola milanese, il risotto, il minestrone e le trenette lombardi, i tortellini e cappelletti dell’Emilia Romagna, il panforte di Siena, la ribollita fiorentina, le fettuccine e i rigatoni di Roma (romanesco è anche l’abbacchio «agnello giovane»), la pizza napoletana (certamente per la preparazione, mentre non del tutto certa è l’etimologia) come il babà e le sfogliatelle, il cannolo siciliano.
Alcuni termini, già antichi, indicano nel tempo preparazioni diverse, come nel caso dei maccheroni, che in età moderna sono «pasta lunga forata a sezione rotonda»; regionali sono anche verbi come trifolare, farcire (settentrionali), abbuffarsi (siciliano, in origine «gonfiarsi come un rospo», da buffa «rospo»), e fraseologismi come finire a tarallucci e vino (partenopeo).
Sono termini della gastronomia gli italianismi più numerosi nelle lingue del mondo: insieme alla pizza e al (caffè) espresso, gli spaghetti, il tiramisù (di area veneta), la mortadella, il parmigiano reggiano, la mozzarella (napoletana), il panettone.
Il linguaggio gastronomico è quello in cui il settore deonomastico è sempre stato molto produttivo (Stefinlongo 2006; ➔ deonomastici): esempi in abbondanza vengono dai nomi dei vini, derivati da toponimi (chianti, lambrusco, frascati). Secondo la classificazione motivazionale proposta da Caffarelli (2002), l’uso dei nomi propri nell’alimentazione può dividersi in cinque classi: provenienza (bergamotto, galletti amburghesi, filetto alla parigina), preparazione (la salsa creata dal maestro di casa della corte di Luigi XIV, la sauce à la Béchamel, da cui in forma ellittica besciamella), celebrazione (pizza margherita, tributo di un pizzaiolo partenopeo a Margherita di Savoia), metafora (carpaccio, ispirato dalla sfumatura di rosso preferita dal pittore Vittore Carpaccio), identificazione commerciale (martini, campari, i pavesini).
Dal punto di vista della classificazione morfosintattica, i gastronimi possono raggrupparsi in almeno sei tipi:
(a) nome + aggettivo toponomastico o antroponimico (salsa tartara, cassata siciliana);
(b) nome + preposizione alla («alla maniera di», «a uso di») + aggettivo o sostantivo (risotto alla milanese, pollo alla marengo);
(c) nome + di + toponimo (prosciutto di Parma, pan di Spagna);
(d) toponimo ellittico (gorgonzola, frascati, meringa, marsala);
(e) aggettivo, ellittico e sostantivato (bresciano «tipo di pane», savoiardo, caprese, lambrusco, certosino, clementino; in diacronia si procede dall’espressione melanzana alla parmigiana alla forma ellittica parmigiana);
(f) nome o aggettivo semplice + determinante o suffisso (parmacotto, galbanino, parmella).
Termini gastronomici o connessi con l’alimentazione sono anche presenti nell’onomastica: per es., nei cognomi Bonvino, Magnafico, Pappalardo, Mangiacarne (Caffarelli 2002).
Soprattutto per termini del passato, a volte legati a vicende non ben ricostruibili o a tradizioni locali scomparse, non sempre si arriva a una definitiva ipotesi etimologica. Un caso, apparentemente semplice ma dalla storia anche linguistica complessa, è il medievale biancomangiare (Pfister 2007). Un esempio per tutti: l’etimo germanico proposto per pizza è stato rimesso in discussione da nuove ipotesi che collegherebbero l’area bizantina di pitta, ancora oggi presente nel meridione d’Italia: potrebbe trattarsi di una base greca nel sud d’Italia ma riadattata a Napoli in bocca germanica.
Un capitolo a parte, in questa prospettiva, è quello delle etimologie popolari (➔ paretimologia) relative ai gastronimi. Vitel tonné, per es., è un falso francese, come il pan di Spagna è sconosciuto in Spagna e la crema catalana si chiama in catalano crema queimada «crema bruciata».
Beccaria, Gian Luigi (2009), Misticanze. Parole del gusto, linguaggi del cibo, Milano, Garzanti.
Beccaria, Gian Luigi, Stella, Angelo & Vignuzzi, Ugo (2005), La linguistica in cucina. I nomi dei piatti tipici, Milano, Unicopli.
Caffarelli, Enzo (2002), L’alimentazione nell’onomastica. L’onomastica nell’alimentazione, in Saperi e sapori mediterranei. La cultura dell’alimentazione e i suoi riflessi linguistici. Atti del Convegno internazionale (Napoli, 13-16 ottobre 1999), a cura di D. Silvestri et al., Napoli, Università degli Studi di Napoli L’Orientale, 3 voll., vol. 1º, pp. 143-173.
Castiglione, Marina & Rizzo, Giuliano (a cura di) (2007), Parole da gustare. Consuetudini alimentari e saperi linguistici. Atti del convegno “Di mestiere faccio il linguista, percorsi di ricerca” (Palermo - Castelbuono, 4-6 maggio 2006), Palermo, Università di Palermo.
Catricalà, Maria (1982), La lingua dei “Banchetti” di Cristoforo Messi Sbugo, «Studi di lessicografia italiana» 4, pp. 147-268.
Frosini, Giovanna (20092), L’italiano in tavola, in Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, a cura di P. Trifone, Roma, Carocci, pp. 79-103 (1a ed. 2006).
Lubello, Sergio (2001), Il linguaggio gastronomico italiano dei secoli XIV-XVI: ultime ricognizioni, in Le parole della scienza. Scritture tecniche e scientifiche in volgare (secoli XIII-XV). Atti del convegno (Lecce, 16-18 aprile 1999), a cura di R. Gualdo, Galatina, Congedo, pp. 229-242.
Pfister, Max (2007), Bramangiari e capirota: la prospettiva storico-etimologica, in Castiglione & Rizzo 2007, pp. 219-225.
Robustelli, Cecilia & Frosini, Giovanna (a cura di) (2009), Storia della lingua e storia della cucina. Parole e cibo. Due linguaggi per la storia della società italiana. Atti del VI convegno dell’Associazione per la Storia della Lingua Italiana (Modena, 20-22 settembre 2007), Firenze, Franco Cesati Editore.
Schweickard, Wolfgang (2007), I gallicismi nel lessico culinario italiano, in Castiglione & Rizzo 2007, pp. 267-284.
Serianni, Luca (2009), “Prontate una falsa di pivioni”: il lessico gastronomico dell’Ottocento, in Di cotte e di crude. Cibo, culture, comunità. Atti del convegno di studi (Vercelli - Pollenzo, 15-17 marzo 2007), a cura di G. Tesio, Torino, Centro Studi Piemontesi, pp. 99-122.
Stefinlongo, Antonella (2006), Il nome del piatto. Deonomastica e alimentazione, in Lessicografia e onomastica. Atti delle giornate internazionali di studio (Roma, 16-17 febbraio 2006), a cura di P. D’Achille & E. Caffarelli, Roma, Società Editrice Romana, pp. 89-104 (poi in Ead., L’italiano che cambia. Scritti linguistici, Roma, Aracne, 2008, pp. 43-68).
Thomassen, Helga (1997), Gallizismen im kulinarischen Wortschatz des Italienischen, Frankfurt am Main, Peter Lang.