marineria, lingua della
Il più antico tra i testi italiani noti, redatto per finalità pratiche, è anche la prima delle testimonianze sul linguaggio marinaresco volgare. Si tratta del cosiddetto Conto navale pisano, elenco di spese di un cantiere nautico stilato tra la fine dell’XI e (con maggiore probabilità) l’inizio del XII secolo (➔ italiano antico), conservato da una pergamena poi usata come carta di guardia di un codice del Liber Sententiarum di Isidoro di Siviglia, ora alla Free Library di Philadelphia, in Pennsylvania.
L’ambiente marinaro era, nel basso medioevo, particolarmente propizio per l’impiego anche scritto del volgare, o di un latino la cui terminologia, solo in parte ereditata da quella antica, era in alcuni casi penetrata anche nella lingua parlata comune: si pensi all’etimologia di parole come l’it. arrivare «portare a riva» e il castigliano llegar < plicare «piegare le vele», o al verbo governare, antico grecismo marinaresco (da kybernân «pilotare»).
Il mutare delle tecniche nautiche e i numerosi episodi di ➔ contatto linguistico con le culture non romanze avevano poi arricchito quest’ambito di lessico esterno, cioè principalmente arabo e greco-bizantino. Ad esemplificare questi due filoni sono, nel citato Conto navale pisano, termini come l’arabismo marmuto («addetto alla fabbricazione delle vele»: Pellegrini 1978: 806; ➔ arabismi) e il grecismo sinopita («tipo di ocra rossa»; ➔ grecismi). E al di fuori di quel testo, si possono richiamare, per l’italiano antico, i bizantinismi argano, avaria, galea, gómena, molo, pànfilo, pilota, sàrtia, scala «scalo» (dal XVIII secolo si diffonde il tipo scalo; Castellani 2000: 155-185) e i temini arabi ammiraglio, garbino «libeccio», arsenale e darsena, sciabecco, feluca (Pellegrini 1978).
Il lessico marinaresco italiano si presenta perciò, sin dalle origini, estremamente composito. Assai marcata è anche la variabilità interna al dominio italoromanzo, visto che il suo impiego non è omogeneo lungo le coste, e i luoghi della sua elaborazione sono i singoli porti, o i più attivi tra essi. Perciò si parla spesso non di irradiazione regionale, ma appunto di provenienza cittadina per molti termini, specie in riferimento a centri in cui si è formata una parte consistente della nomenclatura poi condivisa da tutti i volgari italiani, nonché, spesso, da varietà forestiere anche molto lontane. È il caso di Venezia (da cui provengono voci come palombaro, pontile, traghetto, e probabilmente fusoliera e zattera), di Genova (boa, ciurma, molo, scoglio, forse fanale), di Napoli (ammainare, sommozzatore, faraglione, voce discesa, a quanto pare, dalla Francia settentrionale) e di Pisa (per cui è più difficile individuare termini di sicura provenienza; ma è probabile che da qui si sia diffuso il già citato arabismo darsena).
Relegato, di solito, ai margini della cultura scritta al pari di tanti altri linguaggi tecnici, quello marinaresco conosce un uso stereotipo nella tradizione letteraria, limitatamente ad alcuni fortunati campi metaforici (ad es., quelli della vita come navigazione, del dolore come tempesta, della consolazione come porto, della certezza come ancoraggio).
Così, a parte sporadiche eccezioni o trite e ripetitive similitudini (se ➔ Dante usa termini come orza, poggia, sarte, terzeruolo e artimon nella Commedia, Francesco ➔ Petrarca non va molto oltre: nocchier, arbore e sarte nel celebre sonetto CCLXXII), a tramandare la sua terminologia specifica durante il medioevo non è la letteratura, bensì un’ampia ma disorganica produzione scritta. Questa si estende dai testi pratici come il Conto navale sopra citato ai trattati sulla costruzione degli scafi (ad es. le veneziane Ragioni antique spettanti all’arte del mare et fabriche de vasselli, tràdite da un manoscritto quattrocentesco del National Maritime Museum di Greenwich); dai cosiddetti portolani in volgare (manuali di navigazione, come quello detto di Grazia Pauli, conservato da un manoscritto trecentesco dellla Nazionale di Firenze, ed edito da Angela Terrosu Asole nel 1987) alle miscellanee mercantili (come il veneziano Zibaldone da Canal, del pieno Trecento, oggi alla Biblioteca dell’università di Yale), fino alla documentazione relativa a leggi e ordinamenti del mare (come il Capitolare dei Patroni e Provveditori dell’Arsenale di Venezia del tardo Trecento, il Breve dell’Ordine del mare di Pisa della prima metà dello stesso secolo, o il decreto Nova forma pro navibus promulgato dal Consiglio degli anziani di Genova alla fine del Quattrocento, custoditi nei rispettivi Archivi di Stato; sono invece andati perduti i testimoni antichi, tre-quattrocenteschi, dei Capitoli del consolato del mare di Messina). Da opere come il tardoduecentesco Compasso de navegare (conservato, in una redazione veneto-marchigiana, alla Staatsbibliothek di Berlino dal codice Hamilton 396), il cui titolo equivale, in italiano antico, a «bussola» (quindi, per traslato, «carta nautica»), si ricavano dunque varie precoci attestazioni di termini marinareschi destinati a lunga vita in ambito volgare, da costiera «costa» a plena «alta marea», da garbino «vento di sud-ovest» a scandallio «scandaglio, strumento per scandagliare» e scolliera «scogliera, catena di scogli» (Debanne 2010).
Durante l’età rinascimentale, una ricca letteratura di viaggio documenta copiosamente l’evoluzione della terminologia marinaresca italiana (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell'). Così, il grande esploratore fiorentino Amerigo Vespucci (1454-1512) esibisce nei suoi scritti una lingua ibrida, che
offre una congerie di termini non adattati o malamente adattati, di calchi bruti, non sopravvissuti, e non solo appartenenti al linguaggio nautico, come ad es.: […] allegare «arrivare», bomba «pompa nautica», origlia «riva», e così via (D’Agostino 1994: 803)
accanto a voci meno effimere, come l’iberismo tormenta.
Alla stessa epoca risalgono vari altri casi simili: ad es., il vicentino Antonio Pigafetta (vissuto tra la fine del XV secolo e il primo terzo del secolo successivo) impiega per primo in italiano castiglianismi come doppiare, tolda (➔ ispanismi), o voci orientali mediate dal portoghese come giunca, tipo d’imbarcazione cinese); il geografo trevigiano Giovan Battista Ramusio (1485-1557) introduce termini come il francesismo babordo (da bâbord) e l’ispanismo caletta; il mercante fiorentino Filippo Sassetti (1540-1588) parla per primo di punti cardinali, e impiega due francesismi nautici destinati a uso anche più vasto, (di) alto bordo e abbordare; e il poligrafo toscano Tommaso Porcacchi (1530-1585) fornisce, con il suo ‘isolario’, un ricco repertorio di terminologia geografica marina (Gerstenberger 2004).
L’assunzione di termini nautici da lingue straniere europee, e l’occasionale importazione di voci provenienti anche da lingue esotiche, talora destinate a mantenersi ancora nell’italiano dei secoli successivi, è dunque tipica della stagione delle grandi esplorazioni. Così, lo spagnolo media un termine caraibico come canoa, mentre attraverso il francese giunge, dalla stessa area geografica, piroga. E analoghi fenomeni di travaso riguardano voci provenienti da altre lingue europee: per tramite spagnolo si diffondono dunque in Italia durante il XVI secolo (pur non mancando occasionale documentazione anteriore) i nomi dei punti cardinali, di remota provenienza anglosassone. Di probabile matrice neeerlandese, ma mediato dal francese, è un termine come scialuppa; e di ascendenza germanica, ma anch’esse giunte attraverso altre lingue romanze, sono voci come carlinga e flotta, attestate in Italia dal XVI secolo, o i più recenti bitta «colonna di legno o di metallo per avvolgervi le gomene» (prima attestazione in italiano 1771), fiocco «vela triangolare» (1798).
Pur avendo origini medievali, trova pieno sviluppo in età moderna un fenomeno di contatto linguistico che coinvolge ampiamente la terminologia marinara italiana: lo sviluppo della cosiddetta lingua franca barbaresca (➔ lingua franca, italiano come), varietà – o insieme di varietà, dai caratteri linguistici non sempre univocamente descrivibili – usata nei multietnici ambienti dei porti dell’Africa settentrionale. Nella Topographia e Historia General de Argel di Diego de Haedo (1612) sono riportati ampi brani scritti in questo caratteristico pidgin, il cui lessico confluì quasi due secoli dopo in un Dictionnaire de la langue franque ou pétit mauresque (1830), dove abbonda la terminologia nautica di provenienza italiana (si vedano voci come bandiera, foundo «fondo», fortouna «fortuna, fortunale», porto, sardina, alcuni dei quali resistono ancora nelle varietà arabe del Maghreb; cfr. Cifoletti 2004).
La vicenda della lingua franca barbaresca rientra in una più ampia fenomenologia di espansione internazionale del linguaggio marinaresco italiano. Se già in età medievale un gran numero di termini migra dall’Italia – soprattutto attraverso i volgari di Venezia e di Genova – verso numerose altre lingue del bacino del Mediterraneo (➔ Mediterraneo e lingua italiana) e delle coste atlantiche, tale movimento prosegue anche in età successiva, raggiungendo un nuovo picco d’intensità durante il XVI secolo. Ad accogliere ➔ italianismi marinareschi sono, tra la fine del medioevo e la prima età moderna, il francese (ad es. accoster «accostare», bonne-voglie «buonavoglia, rematore volontario», boussole «bussola», fortune «fortuna» e fortunal «fortunale», grec «greco», sirocco «scirocco», ecc.), il tedesco (Arsenal «arsenale», Barke «barca», Galeere «galera», Galeone / Galione «galeone», Gondel «gondola», Mole «molo» e Sandal «sandalo»), il castigliano (chusma «ciurma», fragata «fregata», crujia «corsia»), il catalano (carena, fortuna, portolà), il greco (tramontána «tramontana», póusolon «bussola», pôuntos «ponte») e il turco (busola / pusola < bussola, kadina / kadena < cadena «catena», mastela / mastalya < mastella, ecc.), cioè perlopiù le stesse lingue da cui l’italiano attingeva, contemporaneamente, terminologia omologa (più rado, in entrambi i sensi, lo scambio con l’inglese, per il quale il francese funge quasi sempre da mediatore).
Tale biunivoco flusso di prestiti fra l’Italiano e le altre principali lingue di cultura europee prosegue ancora durante i secoli XVII e XVIII, sebbene le fortune della marineria italiana declinino progressivamente rispetto a quelle di altre grandi nazioni vicine, col risultato che i termini importati, soprattutto dal francese: brulotto, cabotaggio, colare «affondare», corvetta, crociera, draga e dragare, filibustiere, gal(l)etta, rada, ecc., sono ben più abbondanti di quelli esportati.
Anche se non ne mancano occasionali esempi di epoca anteriore (ad es. la raccolta di parole marinaresche toscane commissionata da Leopoldo de’ Medici in vista della terza edizione del Vocabolario della Crusca, su cui cfr. Setti 1999; ➔ accademie nella storia della lingua), è soprattutto nell’Ottocento e nel Novecento che si cataloga il lessico marinaresco.
Particolare precocità e fortuna dimostrano i dizionari settoriali bi- o plurilingui, come il Vocabolario di marina in tre lingue (italiano, francese, inglese) di Simeone Stratico, uscito tra il 1813 e il 1814, e il Dizionario di marineria militare italiano-francese e francese-italiano di Domenico Parrilli (1846-1847), a cui si aggiunga il principale rappresentante (non italiano) di questo genere, il Glossaire nautique di Augustin Jal (1831), vastissimo repertorio comprendente, oltre alla terminologia francese, anche quella peculiarmente nautica di tutte le principali lingue europee, e di varie lingue del Mediterraneo orientale e meridionale.
Tra quelli monolingui, spiccano – sebbene gli autori di entrambi siano digiuni di specifiche competenze linguistiche – il Vocabolario marino e militare pubblicato nel 1889 dal padre domenicano Alberto Guglielmotti, e il Vocabolario nautico italiano di Francesco Corazzini (1900-1907). Scopo del primo di essi, frutto di quattro decenni di lavoro, è fornire alla marineria dell’Italia unita una terminologia tecnica omogenea, il più possibile scevra di elementi stranieri e capace di «rimettere in fiore le voci e le frasi del linguaggio marino e militare usato a Roma, a Pisa, a Livorno e per tutta la penisola, onorata e non piccola parte del nostro patrimonio artistico e letterario». E un’analoga avversione per il lessico d’origine straniera dichiara (pur non mostrandosi in grado d’individuarla con sicurezza) anche il secondo.
Negli stessi anni (1891), il Ministero della pubblica istruzione bandisce un concorso per la realizzazione di una «antologia di prose e poesie intorno alla vita marinaresca, e di un vocabolario di marina, che per mole e metodo si acconciasse ai bisogni degli istituti nautici» (Catricalà 1987: 75). Il concorso fallisce, ma l’idea di affidare all’iniziativa dello Stato una simile impresa si prolunga nel secolo successivo, concretizzandosi nel Dizionario di marina medievale e moderno, pubblicato nel 1937 dall’Accademia d’Italia e diretto da Giulio Bertoni. Nell’introduzione dell’opera, si sottolinea la natura composita e interdisciplinare del lessico marinaresco italiano:
La nostra lingua del mare […] è, fra le lingue tecniche, una delle più ricche di termini propri per l’introduzione di vocaboli desunti da molti e svariati rami del sapere (dalla matematica alla fisica, dall’astronomia all’idraulica, alla geografia, ecc.) e per il concorso di idiomi e dialetti diversi e lontani.
Nonostante la tendenza a una razionalizzazione e a un’uniformazione degli usi terminologici tipica dell’età postunitaria, e nonostante il declino delle tradizioni dialettali, tali caratteri di varietà interdisciplinare e di policromia dialettale caratterizzano l’italiano della marineria anche nella sua fase più recente.
Vari altri ➔ linguaggi settoriali si intersecano così, ancora in età novecentesca, con quello nautico dando origine ad ambiti caratteristici, come ad es. quello della marineria militare (➔ militare, linguaggio): per es., il gergo degli allievi dell’Accademia Navale di Livorno, in cui tratti caratteristici dei linguaggi di caserma si accompagnano a quelli propri della nomenclatura tecnica nautica (Tollemache 1968). Quanto alla componente dialettale, una fortissima differenziazione regionale conserva, ancora in età contemporanea, il settore dell’ittionimia, nel quale, nonostanti gli sforzi profusi fin dall’età immediatamente postunitaria (commissione ministeriale Targioni-Tozzetti, del 1868; cfr. Nesi 2003), non si è di fatto mai realizzata una vera standardizzazione su base toscana simile a quella affermatasi in altri settori affini.
Venendo a vicende ancora più recenti, nel corso del Novecento la terminologia nautica è stata adottata per descrivere, con sistematica estensione dei significati originari, le nuove tecniche dell’aeronautica e, poi, dell’esplorazione spaziale, per cui termini ed espressioni come (di/a) bordo, cabina, carlinga, equipaggio, navicella, navigazione, pilota, rotta, timone, velocità di crociera, virare, ecc., sono stati trasferiti dall’ambito del mare a quello del volo, e in alcuni casi anche a quello dell’automobilismo (ancora pilota, navigatore, plancia, ecc.), oltreché, occasionalmente, in altri lessici tecnici (antenna, cavo, ecc.).
Un travaso ancor più pervasivo del lessico marinaresco nella lingua comune si è poi verificato, in parallelo con quanto accaduto nell’inglese contemporaneo, nella terminologia legata alla tecnologia di Internet, in cui il ricorso alle metafore nautiche si è rivelato molto produttivo. Ciò ha ulteriormente ampliato l’estensione semantica di lessemi già comuni, come appunto navigare o barra, e ha dato luogo a neologismi formati con -nauta, come internauta e cybernauta (dove anche il formante cyber- ha remota origine marinaresca, derivando, come governare, dal gr. kybernân «pilotare»).
Ancora, vari termini marinareschi inglesi sono stati adottati non col loro significato originario, ma appunto con quello metaforico relativo alle tecniche dell’Internet surfing; ➔ Internet, lingua di). Un caso particolare è, a tal proposito, il termine blog «sito web personale nel quale si raccolgono pensieri e opinioni dell’autore e dei visitatori del sito stesso», da (we)b «rete» e log «diario di bordo», formato appunto con un tecnicismo della tradizione marinara britannica, log, che dal significato originario di «pezzo di legno» passa in inglese a designare dapprima il solcometro, strumento impiegato per misurare la velocità dei navigli (con questo significato la voce è impiegata anche nella marina mercantile italiana tra Sette e Ottocento) e poi il quaderno compilato durante la navigazione.
Castellani, Arrigo (2000), Grammatica storica della lingua italiana, Bologna, il Mulino, vol. 1° (Introduzione).
Catricalà, Marina (1987), Il “Vocabolario di marina” di Cesare Tommasini e la politica linguistica di fine ’800, «Studi di lessicografia italiana» 9, pp. 75-128.
Cifoletti, Guido (2004), La lingua franca barbaresca, Roma, Il Calamo.
D’Agostino, Alfonso (1994), L’apporto spagnolo, portoghese e catalano, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 3° (Le altre lingue), pp. 791-824.
Debanne, Alessandra (a cura di) (2010), Il Compasso da navegare, Bruxelles, Lang.
Gerstenberger, Annette (2004), Thomaso Porcacchis “L’Isole piu famose del mondo”. Zur Text- und Wortgeschichte der Geographie im Cinquecento (mit Teiledition), Tübingen, Niemeyer.
Nesi, Annalisa (2003), Duemila e dintorni. Cambiamenti in atto nel lessico tecnico della pesca in mare, in Italia linguistica anno Mille, Italia linguistica anno Duemila. Atti del XXXIV congresso internazionale della Società di Linguistica Italiana (Firenze, 19-21 ottobre 2000), a cura di N. Maraschio et al., Roma, Bulzoni, pp. 341-355.
Pellegrini, Giovanni Battista (1978), Terminologia marinara di origine araba in italiano e nelle lingue europee, in La navigazione mediterranea nell’Alto Medioevo. XXV settimana di studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo (14-20 aprile 1977), Spoleto, presso la sede del Centro, 2 voll., vol. 2º, pp. 797-841.
Setti, Raffaella (1999), Un “dizionarietto di marineria” nel laboratorio lessicografico del principe Leopoldo de’ Medici, «Studi di lessicografia italiana» 16, pp. 267-330.
Tollemache, Federigo (1968), Il linguaggio degli allievi dell’Accademia Navale, Livorno, Poligrafico dell’Accademia Navale.