cancellerie, lingua delle
Per lingua delle cancellerie o cancelleresca può intendersi, in senso stretto, quella della corrispondenza ufficiale delle cancellerie tardomedioevali e rinascimentali e, in senso lato, quella di statuti, decreti, bandi, grida, corrispondenze epistolari, relazioni di ambascerie, verbali, prodotti nel medesimo torno di tempo da uffici centrali o periferici della giustizia e più in generale della vita pubblica.
A parte le notevoli eccezioni costituite da intellettuali e umanisti che ricoprirono il ruolo di segretario (per Firenze si pensi a Coluccio Salutati, al Landino, a ➔ Niccolò Machiavelli; per la cancelleria aragonese a umanisti come il Pontano e il Carafa; per la corte pontificia a ➔ Pietro Bembo), nell’età comunale e signorile i cancellieri erano in genere scelti tra i notai (➔ notai e lingua): la solida formazione linguistica latina di queste figure professionali consentì loro di operare da trait-d’union tra la tradizione giuridica latina, consolidatasi attraverso le esperienze medievali, e il nascente e ancora informe linguaggio burocratico (➔ burocratese) in volgare, garantendo così una relativa omogeneità degli esiti locali.
Notai e mercanti (➔ mercanti e lingua) furono le due principali figure di scriventi professionali nell’età medievale, per questo entrambi raffigurati spesso nell’iconografia con penna in mano e calamaio alla cintola. A tale consuetudine con la scrittura si devono i nomi delle due grafie più diffuse dell’epoca: la cancelleresca italica, utilizzata per gli atti notarili, le corrispondenze pubbliche e diplomatiche, la redazioni di atti, bandi, statuti e grida, in una parola gli usi pubblici della lingua, e la mercantesca, tipica delle corrispondenze epistolari (➔ lettere e epistolografia), dei libri di conti e della memorialistica di uomini d’affari, non letterati di professione.
Con l’eccezione dei pionieristici lavori di Migliorini & Folena (1952; 1953) e Vitale (1953), solo in una fase relativamente recente degli studi le produzioni delle cancellerie sono state poste sotto la lente degli storici della lingua, la cui attenzione era concentrata inizialmente su quelle produzioni che testimoniassero nella maniera più fedele possibile le singole varietà dialettali: in questa prospettiva il testimone ottimale era il testo due-trecentesco, sia per la ricostruzione delle varietà toscane sia, laddove disponibile, delle varietà non toscane. Solo in un secondo momento l’interesse si è focalizzato su tutti i possibili testimoni della storia dell’italianizzazione: in tale prospettiva l’ibridazione tipica dei testi cancellereschi assume un’importanza centrale.
Sulla scia di questo rinnovato interesse hanno visto la luce, in tempi più recenti, oltre a numerosi saggi monografici, lavori di sintesi che dedicano ampio spazio alla produzione notarile e cancelleresca (Bruni 1992, 1994; Tavoni 1992; Marazzini 1993; Trovato 1994; Casapullo 1999; Serianni 2001), nonché i contributi di Fiorelli (1994; 2008) sulla lingua del diritto e dell’amministrazione. Grazie a questi lavori è possibile ora avere un quadro sufficientemente dettagliato dei percorsi di italianizzazione compiuti dalla lingua ufficiale nelle varie regioni d’Italia.
La produzione cancelleresca in volgare è di particolare interesse nell’intervallo dagli ultimi decenni del Duecento al primo quarto del Cinquecento. Dopo questo periodo, e prescindendo da zone in cui l’italianizzazione si compì con ritardo come il Piemonte, la Svizzera italiana, il Friuli, i documenti prodotti dagli uffici pubblici legano sempre più il proprio valore documentale alla testimonianza del linguaggio burocratico in fieri, le cui cifre caratterizzanti si concentrano piuttosto nel lessico, nella sintassi, nella testualità. Già nelle produzioni delle cancellerie medievali si possono osservare, mutatis mutandis, abitudini caratterizzanti ancor oggi i testi prodotti dagli uffici. Al livello sintattico si ricordi la preferenza per costruzioni astratte o impersonali quali l’➔accusativo con l’infinito, le nominalizzazioni (frequenti i nomi astratti in -tura: acconciatura, ricevitura, misuratura (➔ nominalizzazioni), le passivizzazioni, le perifrasi con verbi modali. Nell’organizzazione testuale spicca l’abitudine all’ipercoesione, tesa a evitare qualsiasi ambiguità, realizzata tra l’altro attraverso le riprese insistite con i coesivi detto, predetto, prefato, infrascritto. A livello lessicale si compie gradualmente la tecnicizzazione di nomi come querela, instrumento, provisione e di verbi come deliberare, allegare, conferire, contra(v)venire.
Se si analizza la produzione in volgare dei pubblici uffici italiani nel periodo considerato colpiscono due fatti: la progressiva erosione di spazi del volgare a scapito del latino e il passaggio dalle scriptae municipali (➔ scripta) che avevano caratterizzato l’uso del volgare nei primi due secoli a forme di ➔ koinè che ambivano a dimensioni regionali, talvolta sovraregionali. Non può sfuggire del resto che il superamento del municipalismo linguistico assume la veste di correlato della crisi del municipalismo politico che aveva contrassegnato l’età comunale, e che i tentativi di delocalizzazione dei documenti delle cancellerie vanno di pari passo con l’affermarsi delle nuove forme di organizzazione del potere, le signorie, che proprio in quel torno di tempo estendevano il loro raggio d’azione dal comune a porzioni più estese di territorio. È inoltre significativo che tale sforzo di convergenza si riscontra in particolare negli atti pubblici e nelle corrispondenze diplomatiche, dove emerge la necessità di una comunicazione a più ampio raggio. In ogni caso, le produzioni delle cancellerie hanno contribuito a formare una piattaforma linguistica omogenea, sulla cui base si attivò a livello verticale la comunicazione tra i cittadini e le istituzioni, a livello orizzontale tra gli amministratori, gli uomini politici, i diplomatici delle varie realtà di governo locale.
In conseguenza della frammentazione politica, la produzione volgare delle cancellerie disseminate sul territorio della penisola è caratterizzata dall’eterogeneità. L’esordio dell’uso del volgare nelle corrispondenze e negli atti pubblici è perciò molto differenziato: al di fuori della Toscana, che aprì precocemente all’uso del volgare, a Palermo e a Napoli si hanno le prime occasionali tracce rispettivamente nel 1320 e nel 1356 (ma per tutto il secolo si trattò appunto di episodi isolati), a Urbino dal 1378, a Mantova, Ferrara, Milano e Venezia a partire dal XV secolo. Soltanto nel Cinquecento dunque si stabilizza su tutto il territorio l’uso del volgare, dapprima nell’ambito legislativo, dopo, e con alcune zone di resistenza del latino fino al XVIII secolo, in quello giudiziario.
Fra le produzioni più interessanti del linguaggio ufficiale vanno menzionati gli statuti. Tali documenti possono essere considerati in sé, indipendentemente dalla stesura in latino o in volgare, scritture pubbliche intrinsecamente legate all’organizzazione della società comunale. Si tratta infatti di raccolte più o meno organiche delle norme che regolamentano la vita cittadina o di singole corporazioni, società o confraternite. Dal nostro punto di vista può avere qualche interesse il fatto che nelle zone d’Italia che vissero più direttamente l’esperienza comunale si assistette a un’accelerazione dell’impiego del volgare. Questa scelta è legata a una maggiore attenzione per la comprensibilità del testo da parte di un’ampia platea di utenti; non per caso fu particolarmente sensibile al problema la Toscana, dove l’esistenza di un nutrito ceto mercantile, alfabetizzato ma di norma non in grado di accedere al latino, accelerò il processo di traduzione dei testi ufficiali o la loro diretta stesura in volgare.
I primi statuti in volgare giunti fino a noi risalgono al XIII secolo e provengono entrambi dalla zona compresa tra Siena e Grosseto. Nel breve di Montieri, del 1219, i membri della comunità si impegnano fra l’altro a fornirsi reciproca assistenza in caso di necessità. Come è stato notato, la lunghezza del testo (110 righi), insieme con la sicurezza e la fluidità della lingua, denotano una certa maturità nell’impiego giuridico del volgare e lasciano pertanto supporre la preesistenza di una tradizione, che doveva vedere la lingua impiegata «in un buon numero d’altre scritture di carattere formale, di cui non ci è rimasta traccia, dovute a notai che con la loro padronanza di grammatica e di formule potevano assicurare la continuità d’una tradizione pur nel trapasso da una lingua all’altra» (Fiorelli 1994: 563). Altro dato interessante è che il breve non sembra essere una traduzione dal latino (come per molti statuti più tardi), ma consiste con ogni probabilità in una minuta stesa dal notaio in vista di una redazione definitiva in latino (Castellani 1982: I, 42).
Per incontrare il secondo statuto in volgare occorre spostarsi di pochi chilometri, nel castello di Montagutolo dell’Ardinghesca, e aspettare più di sessant’anni: il 1281. Nel complesso, oltre i due terzi della produzione statutaria in volgare anteriore al 1375, da quel che si desume dalla consultazione della banca dati dell’OVI (Opera del vocabolario italiano), proviene dalla Toscana. A Siena l’amministrazione comunale si preoccupa affinché tutti i cittadini possano consultare, copiare e comprendere il contenuto dei documenti pubblici. Il Costituto del Comune di Siena del 1296, volgarizzato nel 1309, impone che una copia del testo volgare debba rimanere a disposizione dei cittadini affinché «pauperes persone et alie persone gramaticam nescientes et alii qui voluerint possint ipsum videre et copiam exinde sumere et hinc pro sue libito voluntatis» (Elsheikh 2002: X). Si testimonia qui l’uso, poi mantenutosi per secoli, di tenere copia degli statuti ‘alla catena’ in locali accessibili al pubblico. Nel fondo Statuti delle città, terre e castelli dello stato senese dell’Archivio di Stato di Siena, ben 10 statuti del XIV secolo e 30 del XV sono in lingua volgare. A Firenze i volgarizzamenti di importanti statuti come quello di Calimala (una delle Arti maggiori) vedono la luce nella prima metà del XIV secolo e nel 1355 viene affidato al notaio Andrea Lancia, più noto come autore di un volgarizzamento dell’Eneide, il compito di volgarizzare una serie di documenti legislativi.
A Milano, i primi documenti in volgare della cancelleria visconteo-sforzesca datano dal 1426 e l’uso ufficiale del volgare si afferma progressivamente nel corso del secolo. Più precoce il percorso verso l’italianizzazione alla corte mantovana dei Gonzaga, percorso ben documentabile grazie agli imponenti fondi dell’Archivio Gonzaga, che testimoniano come nel corso delle signorie di Ludovico I e del suo successore Francesco I, a cavallo fra XIV e XV secolo, non solo si impieghi il volgare, ma scompaiano dai documenti pubblici i tratti dialettali che contraddistinguevano la produzione letteraria precedente (caduta delle vocali finali, scempiamento delle consonanti intervocaliche) per far posto a soluzioni di koinè.
Sulle vicende della standardizzazione della lingua ufficiale a Roma pesò l’allontanamento della corte pontificia a seguito della cattività avignonese (1309-1377). La curia si ristabilì definitivamente in città solo nel 1420, con papa Martino V, che perfezionò l’istituzione del nuovo ceto dei curiales, reclutati in buona parte dalle élite fiorentine che andavano acquisendo anche il potere economico in città. Non sembra estranea a ciò la precoce toscanizzazione che emerge nelle produzioni ufficiali quattro-cinquecentesche, che sono state al centro di numerosi studi sulle vicende della lingua di Roma. Tuttavia va rilevato il peso ancora cospicuo del latino nella redazione dei documenti pubblici a Roma. Se si vaglia la produzione di bandi, altro genere di testo per il quale l’intelligibilità da parte del popolo dovrebbe essere caratteristica imprescindibile, si rileva che ancora nella prima metà del Cinquecento questi documenti erano in larga prevalenza stesi in latino, solo a volte tradotto o compendiato in volgare: l’ufficializzazione del volgare come seconda lingua scritta della cancelleria pontificia avvenne nel 1515, sotto il pontificato di Leone X (Gualdo G. & Gualdo R. 2002).
La documentazione sulla cancelleria angioina fu irrevocabilmente compromessa, durante il secondo conflitto mondiale, dalle distruzioni seguite ai bombardamenti subiti da Napoli nel 1943. L’opera meritoria effettuata sulle carte superstiti ha portato, dal 1950 ad oggi, alla pubblicazione di 45 volumi di registri della cancelleria angioina. Se nella prima fase della dominazione il francese godette indubbiamente di maggior forza, il prestigio del fiorentino e della numerosa e qualificata comunità fiorentina presente a corte, che culminò con la nomina di Niccolò Acciaiuoli a Gran siniscalco (1348), portò anche qui a un progressivo aumento della produzione ufficiale in un italiano fortemente basato sul modello toscano. Durante la dominazione aragonese si ebbe una situazione di bilinguismo: il catalano fu spesso usato nei documenti di circolazione interna alla corte, mentre per i documenti pensati per i nobili locali e il popolo si preferì l’uso del volgare. Anche in Sicilia si registra l’organizzazione plurilingue della cancelleria aragonese, dove il volgare siciliano risultava «tra le lingue cancelleresche ammesse dalla burocrazia aragonese accanto al latino (con destinazione diplomatica straniera), al catalano (con destinazione della cancelleria iberica), e allo stesso greco (con destinazione estranea alla corte)» (Bruni 1992: 808). Un esempio di corrispondenza trilingue (latina, catalana, siciliana), è offerto da un carteggio del duca di Montblanc, del 1394. In esso la scelta dell’idioma sembra essere così governata: le lettere ufficiali e attinenti al diritto pubblico, come le investiture, sono scritte in latino, quelle indirizzate alla corte aragonese in catalano, quelle private in siciliano.
Altro genere testuale caratteristico della produzione cancelleresca furono i verbali contenenti le trascrizioni delle sedute consiliari dei vari organi di governo. Anche in queste produzioni «l’uso del volgare si è esteso progressivamente nel corso del XV secolo riducendo a poco a poco l’ambito d’uso del latino» (Telve 2000: 15). A Firenze, per esempio, nei verbali della Consulta, agli inizi del Quattrocento erano ancora prevalenti le trasposizioni in latino, grosso modo intorno alla metà del secolo si raggiunse la parità, per arrivare all’impiego quasi esclusivo del volgare a partire dai due ultimi decenni del secolo.
Fra le aree di italianizzazione più tarda è interessante il caso del Piemonte, dove l’affermazione del volgare ebbe luogo solo nel pieno Cinquecento, in seguito all’azione di Emanuele Filiberto di Savoia (1528-1580), promotore di una vera e propria politica linguistica in favore del volgare negli usi civili e giudiziari. Con l’editto di Rivoli del 1561 (peraltro scritto in francese, come era d’uso nei documenti coevi della monarchia sabauda), si impone, sull’esempio di quanto stabilito nel più noto editto di Villers-Cotterêts del 1531 per il francese, l’uso della langue vulgaire nell’amministrazione della giustizia e in tutti gli altri pubblici affari. Di lì a poco anche ai notai fu imposto di redigere i loro atti in volgare.
Le produzioni cancelleresche manifestano tentativi di creazione di varietà scritte regionali a volte convergenti tra loro.
Analizzando testi provenienti da diverse aree della penisola è possibile notare un’oggettiva uniformità, come dimostra il confronto fra i seguenti tre brani, pressappoco coevi, rappresentanti generi testuali (la lettera ufficiale, lo statuto) e caratteristiche compositive tipici della produzione cancelleresca:
(1) La Illustrissima Signoria Vostra me scrive ricordarse altre volte haverme scripto ad instantia del Magnifico Conte Filippo Bonromeo, che devesse servare modo et via de pagarlo et de farlo contento de ciò ch’el diceva devere havere da mi, et che io rescripsi che non ero suo debitore et che de novo dicto Conte Filippo fa instantia adessa Vostra Signoria pur me voglia scrivere et stringere, sì che gli facia il dicto devere suo. Ad il che, con debita reverentia respondendo, dico hè vero la Signoria Vostra altre volte me ne scripsi et io gli rescripsi, non denegando, ymo confessando et cossì de presente confesso essere suo debitore de certa quantità de denari a mi prestati per lo Magnifico quondam suo patre, quando io pagay lo offitio de la potestaria de Como (Lettera di Esterolo Visconti podestà di Como al Duca Francesco Sforza, 1451; cit. da Tavoni 1992: 217)
(2) Anche statuimo che qualunque tollerà li pesci de li martavelli, nasse, rethi o d’altro instrumento altrui apto ad pigliare pesce, paghi per pena X soldi et emendi lo danno al doppio. Et similemente dicemo de quelli che tolleranno li uccelli da le reti o laccioli d’altri, salvo non fusse patrone o possessore de quella cosa dove fussero o vero altri de la sua famiglia li quali non siano tenuti ad pena et qualunque li tollerà le martavelle o vero nasse e reti, o vero le levarà del suo luoco, paghi et emendi lo danno ad doppio. Et sia creso al sacramento de lo accusatore, si accusarà averlo veduto, altramente con uno testimonio lo quale lo possa provare ad pieno (Statuto di Civitavecchia, 1451; cit. da Migliorini & Folena 1953: 67)
(3) Como de alcuno tempo in cqua lo Gran Turcho sia facto diligente et multo sollicito in destrudere la sancta fede catholica et religione christiana, né per li soi grandi preparatorij che continuamente tene prompti, li soi pensieri siano altri che invadere et occupare le terre de Cristiani et delere lo nomo di quelli de la terra et memoria de li viventi: havemo deliberato tenire Nui personalmente parlamento generale in la citate de Napoli cum li Baroni et universitate de lo dicto Regno per debitamente provedere a la defensione de lo prefato Regno che per li turchi né altri de la fede [...] Cristiana de li quali se sentono grandi preparatorij per mare non pocza essere invaduto oy ofeso (Re Alfonso d’Aragona chiama a parlamento i baroni e le Università [corporazioni] del regno, 1454; cit. da Migliorini & Folena 1953: 72-73)
Di là dalle coloriture locali che ancorano i testi alla rispettiva zona di produzione, si possono individuare numerosi elementi di convergenza. Sul piano grafico il latino svolse l’importante funzione di fornire un diasistema che consentiva, in una lingua veicolata prevalentemente attraverso la scrittura, di conguagliare per l’occhio, non per l’orecchio, le diverse realizzazioni fonetiche locali. Nei brani citati svolgono questa funzione i nessi consonantici alla latina (un lombardo dell’epoca avrebbe certo pronunciato dicto, offitio o instantia diversamente da un napoletano). Si noti inoltre il consueto bagaglio di h latineggianti (haverme in 1, christiana in 3, ecc.), a volte non etimologiche (hè in 1, rethi in 2, Turcho in 3). Per la fonetica, pur senza disconoscere l’apporto di una base toscana alla formazione della lingua di koinè, possiamo trovare tracce significative di un’antifiorentinità sottrattiva, che si alimenta nel duplice serbatoio del latino e dei dialetti. Il risultato fu la non accettazione di tratti evolutivi del fiorentino privi di corrispondenza in altre varietà locali. Ecco allora emergere, anche in questi brevi specimi, la tendenza a non accogliere il dittongo toscano -uo (novo in 1, ma luoco in 2), l’assenza della chiusura di e atona, particolarmente evidente nella preposizione de (in 1, 2, 3) e nei pronomi atoni me (1), se (3), il mantenimento di -ar- atono (potestaria in 1, levarà in 2, accusarà in 2). Sul piano della morfologia si osserva il mantenimento delle desinenze etimologiche di prima persona plurale dell’indicativo presente (dicemo in 2, havemo in 3, statuimo in 2), contro l’uniformazione fiorentina nell’unica desinenza anetimologica -iamo.
Non documentati nei nostri testi, ma comuni nelle produzioni di koinè sono altri due casi di convergenza antifiorentina: l’assenza dell’➔ anafonesi, tratto squisitamente fiorentino (fameglia, longo), il condizionale in -ia (saria, vorria) e il mantenimento della vibrante negli esiti del nesso latino -rj- (notaro, fornaro). Altre forme bandiera della produzione cancelleresca possono essere individuate nei tipi fusse, debia, como, contra (presenti peraltro anche nel fiorentino quattrocentesco) e nella prevalenza dell’articolo determinativo maschile singolare el, e del corrispondente plurale li.
Minore il grado di uniformazione di altri generi di comunicazione pubblica come i bandi e le grida. In queste produzioni il tasso di localismo si innalza, sia per la concretezza degli oggetti e delle situazioni di cui trattano, sia per la necessità di comprensione da parte di tutto il popolo. Si vedano i seguenti esempi, tratti rispettivamente da una grida promulgata dalla cancelleria mantovana dei Gonzaga nel 1374 e da un bando romano del 1447:
(4) El fi fato crida e comandamento, per parte del nostro magnifico segnor meser Ludovico da Gonzaga, segnor general della cità de Mantoa, al qual De dia bona vita, che zaschuna persona, om o femena ch’el sia, e così forestero como terero, debia condur tuti li soy blavi [biade] e lemi [legumi] d’ogni manyera, li quali enno sul teratorio de Mantoa, in li teri del vicariado de Marcharia, de Cerexeri [...] a li fortezi del dito segnor, sì che per tuto el dì de martedì, chi serà octavo dì d’augusto, siano condute, sì che fora de li dite forteze non remagna alcuna quantità de blave ni de lemi, ni per somenar [seminare], ni per alcuna altra cason, excepta solamente quela parte la quala possa esser sufficiente pro uso de li soy famei per un messe, tanto e no plu (Grida mantovana, 1374; cit. in Bruni 1994: 118-19)
(5) Item che non sia nullo macellaro che sse accotii [= pensi] de vendere alcune carne gattiue o vero puczolencti, né una carne per un’altra, né dega inmisticare [= mescolare] una carne bona colla gattiva, e che llo dicto macellaro sia tenuto de dicere fedelmente que carne so quando fosse domandato, e che non dega vendere carne sorsomera [= infetta] ne infiata [= gonfiata per farla sembrare più grossa] né sciactata, alla pena predicta da tollere et da applicare come è dicto de sopra [...] (Bando romano, 1447; cit. in Re 1928: 84)
L’intelaiatura linguistica conferma la presenza di alcuni dei tratti di koinè già riscontrati nei brani (1-3), innestati in questo caso su una base più marcatamente dialettale, più evidente nella grida mantovana anche per la sua precocità. Notevoli le spie lessicali del localismo (in 4 blavi, lemi, somenar, in 5 inmisticare, sciactata «sgozzata», voce forse di origine ebraica: Cimarra 2004).
I tentativi di convergenza linguistica nati in seno ai pubblici uffici e agli ambienti politico-diplomatici nel corso del Quattrocento, che avevano principalmente per oggetto la lingua scritta, si saldarono a cavallo tra i due secoli e per almeno il primo quarto del XVI con la riflessione linguistica di intellettuali ed uomini di corte. Costoro, vivendo quotidianamente l’esperienza di una lingua colta anche parlata, si sentivano stretti nella proposta di standardizzazione su base esclusivamente toscana. Se esempi di scrittura letteraria furono forniti soprattutto da scrittori operanti nelle corti padane, i propugnatori della teoria cortigiana (➔ cortigiana, lingua) guardarono come modello alla corte pontificia, che più di altre viveva in questo periodo un’esperienza cosmopolita. A quanto si apprende dalla ricostruzione postuma del Castelvetro, sul finire del XV secolo l’umanista Vincenzo Calmeta decise di stabilirsi presso la corte di Roma perché qui «il poeta, senza imprender fatica di discorrere qua, e là per tutte le corti d’Italia, può con molta agevolezza ammendare, e adornare la lingua sopradetta [= il toscano] col fiore di tutte le lingue Italiane, raccolte in un luogo» (cit. da Mengaldo 1960: 448). Qualche anno più tardi, nell’epistola dedicatoria del Libro de natura de amore Mario Equicola afferma l’esistenza di una lingua «cortesiana romana, la quale de tucti boni vocabuli de Italia è piena per essere in quella corte de ciascheuna regione preclarissimi homini» (Ricci 1999: 213).
Tanto il modello cancelleresco quanto quello cortigiano cessarono la propria fase propulsiva nella prima metà del Cinquecento, quando la standardizzazione linguistica superò di fatto i tentativi di uniformazione legati alle scritture pubbliche delle corti e degli uffici per orientarsi su soluzioni orientate all’imitazione di modelli toscani e letterari e affidò la sua diffusione al potere unificante delle tipografie (➔ editoria e lingua) e al prestigio dei luoghi deputati della codificazione linguistica (grammatiche, dizionari, accademie). Ma, almeno in questo torno di tempo, il modello di koinè ebbe, come si è visto ampia circolazione e godette di prestigio anche al di fuori dell’ambito giuridico e letterario. Un tal Galcerando, medico di corte dei Gonzaga, in una lettera del 1483 chiede venia all’interlocutore non per la limitata perizia nello scrivere in latino o in toscano ‒ come ci si potrebbe aspettare ‒ ma per «non esser uso de scriver alla cortezana» (Bruni 1992: 101).
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