origini, lingua delle
Con il termine origini ci si riferisce convenzionalmente alla fase aurorale delle lingue romanze (o neolatine), quando testi (o frammenti di testi) scritti in volgare cominciarono a essere conservati su un supporto capace di perpetuarne la memoria (pergamena, pietra, intonaco). La lingua delle origini, pertanto, è la lingua volgare o, meglio, il complesso delle lingue volgari nelle quali questi testi sono scritti.
Il termine lingua volgare (o semplicemente volgare) si riferisce alle lingue parlate (e poi anche scritte) nel medioevo da tutti, aristocratici e popolani, dotti e ignoranti, religiosi e laici, in tutte le situazioni informali della vita quotidiana (➔ volgari medievali; ➔ italiano antico). La lingua della comunicazione formale, parlata e scritta, era, invece, il latino (o gramatica, com’era chiamato nel medioevo), praticato unicamente dai dotti, o litterati.
La differenza funzionale tra i due idiomi è illustrata chiaramente da ➔ Dante: il volgare, lingua naturale che si apprende da bambini per imitazione, e la grammatica (o latino), lingua artificiale che si impara nel corso di lunghi anni di studio (De vulgari eloquentia I, i, 2-3). Dante elenca quattordici principali volgari, mutevoli nello spazio e nel tempo, indicandone la comune appartenenza a un unico dominio italiano (ivi, I, x, 9), proponendo la novità di un’Italia intesa «come spazio della lingua letteraria» (Bruni 2010: 76).
La prima metà del IX secolo e il primo decennio del XIII, o poco oltre, costituiscono i confini cronologici entro i quali si situano convenzionalmente i testi delle origini.
Se si prescinde dal precoce ma dubbio affioramento dell’Indovinello veronese (VIII-IX secolo), il primo testo scritto in un volgare italiano è il breve graffito conservato nella catacomba di Commodilla a Roma. La scritta non è datata, ma è stata attribuita verosimilmente ai secoli VIII-IX, più probabilmente alla prima metà del IX secolo, che può essere considerato, quindi, l’inizio della scrittura in volgare. La chiusura del periodo arcaico può essere datata ai primi decenni del XIII secolo. In particolare:
(a) la lingua dei documenti appare già formalizzata a partire dal 1211, data alla quale risalgono i Frammenti di un libro di conti di banchieri fiorentini (➔ mercanti e lingua);
(b) alla fine del XII secolo, o tutt’al più ai primi del XIII, anche la lingua della poesia profana appare costituita nelle sue linee fondamentali (cfr. § 5.6);
(c) alla fine del XII secolo, o al massimo ai primi decenni del XIII, sono databili alcuni componimenti arcaici d’argomento religioso, composti in un genere metrico e secondo schemi compositivi già obsoleti nella prima metà del XIII secolo (cfr. § 5.5).
Petrucci (1983: 504-508) ha proposto di suddividere in due fasi il periodo in cui si passò da una cultura volgare prevalentemente orale a una cultura volgare anche scritta:
(a) lo «stato di scrittura», durante il quale avvenne una trasmissione intenzionale ma episodica dei testi volgari, trasmessi all’interno di un contesto librario quasi esclusivamente latino;
(b) la «canonizzazione libraria», quando «testi complessi in volgare vennero scritti consapevolmente, organicamente e da soli (cioè senza mistione o giustapposizione di altri testi in lingue scritte ‘nobili’) in forma di libro».
La fase della canonizzazione libraria segna la nascita di specifiche «tradizioni discorsive» in volgare, cioè la formazione di un canone, sia pur esile, di scritture volgari sulle quali altre scritture in volgare furono modellate, uniformandovisi nella grafia, nello stile di discorso, nella lingua. Il passaggio decisivo fu la nascita di un ceto di laici alfabetizzati che diventarono i produttori e i fruitori della nuova cultura scritta.
I volgari romanzi dipendono dal latino da un punto di vista genetico, nel senso che è a partire da esso che si spiegano la quasi totalità dei fenomeni fonetici e morfosintattici romanzi e la gran parte del lessico (➔ latino e italiano). Esiste, tuttavia, un’altra dipendenza, di tipo latamente culturale, per cui il latino costituì per secoli il serbatoio al quale gli scrittori in volgare attinsero per arricchire il lessico e le strutture sintattiche della propria lingua materna.
Il latino medievale non era soltanto una lingua scritta, dato che in svariate occasioni, e a livelli diversi di formalità, era adoperato in situazioni comunicative di tipo orale (Stotz 1994: 177-178). Il latino scritto, d’altronde, era capace di assorbire e metabolizzare anche le spinte provenienti dal basso. Peraltro, almeno per quanto attiene alla produzione religiosa (che costituisce la gran parte di ciò che fu scritto nel medioevo), la compromissione con la lingua del popolo era programmatica e originaria, e si tradusse nell’adozione di uno stile humilis «semplice» (contrapposto a quello sublimis «elevato»), aggettivo col quale erano designati strategie comunicative e procedimenti espressivi atti a semplificare i testi, così che essi non risultassero troppo difficili per chi non era più in grado di capire il latino dei classici (Auerbach 19832: 33-67).
La presa d’atto della separazione ormai avvenuta fra i volgari e il latino si tradusse in una prescrizione pastorale mirante a favorire il pieno accesso agli insegnamenti della Chiesa da parte di chi non era più in grado d’intendere il latino: nell’813 il Concilio di Tours esortò a predicare in «rustica romana lingua», affinché nessuno fosse escluso dal messaggio religioso. Questa disposizione, tuttavia, dovette essere solo il riconoscimento ufficiale di una pratica già esistente da secoli, da quando, cioè, la lingua ancora chiamata latino era irreversibilmente cambiata nella struttura morfosintattica e nel lessico, perdendo, nel contempo, la sua sostanziale unità.
L’origine dei volgari romanzi è tradizionalmente ricondotta, a partire da Schuchardt (1866-1868), al latino volgare. Con tale espressione si indica un complesso di fenomeni non omogenei, riscontrabili in testi tipologicamente difformi lungo un arco di tempo assai ampio (dal latino arcaico al 700 d.C. circa), che è stato descritto nei suoi vari aspetti: fonologico, morfosintattico e lessicale (Roncaglia 1965: 22-32 e 247-248; Varvaro 1984a: 91-125; Varvaro 1984b; Väänänen 1971; Calboli 1994). Il latino volgare non è una fase cronologica del latino: si tratta, piuttosto, di un concetto composito che comprende in sé tratti stilistici, relativi al registro familiare e colloquiale, finanche plebeo degli scriventi, fenomeni linguistici arcaici e tendenze sviluppatesi nel latino più tardo, dal III al V secolo d.C. Proprio a causa della sua variegata consistenza l’espressione latino volgare è stata rifiutata per la sua ambiguità (Sabatini 1978); nessuna alternativa, tuttavia, è riuscita a subentrarle.
Gli studi degli ultimi decenni hanno tentato di individuare le tappe attraverso le quali nel latino, a partire dal III secolo d.C., si fecero strada tratti del parlato che, differenziandosi nelle diverse aree geografiche dell’Impero romano, diedero luogo alle lingue romanze.
Non è facile precisare la data a partire dalla quale il latino d’Italia si trasformò nei volgari in uso nel medioevo. Ciò non avvenne, verosimilmente, nel V secolo. Benché il 476 segnasse la fine ufficiale dell’Impero romano, era certamente ancora latina la cultura che si respirava nelle aule regie della nuova capitale, Pavia, oppure a Ravenna, centro di quella splendida cultura tardoantica che spostò l’epicentro politico italiano da Roma all’Italia settentrionale. Anche nelle scritture più umili il latino dei secoli V e VI non mostra di aver perso la sua sostanziale unità.
In Italia una vera e propria frattura si ebbe, più tardi che nelle restanti parti dell’Impero, con la discesa dei Longobardi (593 d.C.). All’avvento di questo popolo è stata ascritta anche una prima, importante divisione della penisola in zone di varia influenza culturale e linguistica: un’Italia appenninica di tipo longobardo, sede privilegiata dell’azione benedettina, e un’Italia costiera, legata al mondo bizantino di lingua greca (Baldelli 1988).
Almeno per buona parte del VI secolo, dunque, l’universo linguistico della Romània era ancora unitario, e la gente parlava (o almeno credeva di parlare) latino. Naturalmente si trattava di un latino molto diverso non solo dalla lingua classica di Cicerone e Virgilio, ma anche da quella degli autori del III e del IV secolo. Mentre la grafia della lingua di Roma era rimasta sostanzialmente simile a quella adoperata in età classica, la pronuncia era completamente cambiata. Conseguenza di ciò fu una sensibile divaricazione fra la lingua parlata e la sua rappresentazione grafica (➔ ortografia). Alcuni importanti mutamenti linguistici, inoltre, erano già avvenuti o erano almeno in corso di svolgimento (Herman 1998: 9-20).
4.2.1 Fonetica. In fonetica i fenomeni principali sono i seguenti:
(a) già dal I secolo d.C. la -m finale era ammutolita, o perlomeno era soggetta a un’articolazione estremamente debole;
(b) come appare da iscrizioni pompeiane, nel I secolo d.C. il gruppo consonantico -ns- fra vocali si era già ridotto a -s- (mensem > mese), perlomeno nella pronuncia meno controllata;
(c) a partire dal II secolo, a Roma, nell’Italia centro-meridionale e in Africa si confondono nei testi scritti le grafie di + vocale, i + vocale e ge, gi (si trova, per es.: aiutor per adiutor, zaconus per diaconus, genuaria per ianuaria, ecc.), sintomo della confluenza dei suoni corrispondenti (si pronunciano allo stesso modo giorno < diurnum, già < iam, gente < gentem);
(d) a partire dal II-III secolo fanno la loro comparsa le consonanti ➔ affricate prodotte dall’azione di una /j/: faccia < *faciam (< *facia per facies) o piazza < plateam;
(e) la confusione fra b e v è databile al III secolo, ma già dal I secolo a Pompei si trovano grafie come bixit per vixit «visse» e serbus per servus «servo»;
(f) tra il IV e il V secolo scompare progressivamente la distinzione tra vocali lunghe e brevi, cui si sostituiscono differenze nel grado di apertura delle vocali, come per es. venti < ventos e venti < vi(gi)nti;
(g) datano al V secolo i primi esempi sicuri di sonorizzazione delle consonanti ➔ occlusive sorde fra vocali (spatam > spada, ripam > riva; ➔ sonorizzazione);
(h) alla fine del V secolo si fa risalire il passaggio dalla pronuncia velare a quella palatale della consonante [k] davanti a e, i (centum /ˈkentum/ > cento /ˈʧεnto/).
4.2.2 Morfologia. In morfologia si osservano i fenomeni seguenti:
(a) i primi errori nell’identificazione del ➔ caso del nome si verificano nelle province prima che a Roma; nell’Urbe numerosi esempi di confusione fra i casi obliqui si registrano già nei testi scritti del IV-V secolo, specialmente nelle iscrizioni cristiane;
(b) lo scardinamento del sistema casuale è più tardo nel latino parlato e scritto in Italia, certamente posteriore al VI secolo;
(c) non si grammaticalizzano che dopo il VI secolo i cambiamenti più appariscenti nella morfologia verbale: la sostituzione del ➔ futuro latino sintetico con una perifrasi formata dall’infinito + habeo (porterò < portare habeo); la formazione del ➔ condizionale, che il latino non aveva, da una perifrasi formata con l’infinito + habui (amerei < amare habui) o con l’infinito + habēbam (ameria < amare habēbam); la sostituzione del passivo sintetico latino con un passivo analitico (sono amato invece che amor; ➔ passiva, costruzione); l’espressione del passato mediante avere (usato come ausiliare) + participio passato (ho amato < amatum habeo).
È più o meno concorde l’opinione che fu nella seconda metà del VI secolo che il latino cominciò a perdere le caratteristiche che da secoli lo avevano differenziato dagli idiomi italici (Varvaro 1995a; 1995b). Nel corso del VII e dell’VIII secolo il processo di frantumazione di un equilibrio linguistico che si riconosceva come ancora sostanzialmente latino divenne irreversibile, di pari passo con i cambiamenti politico-istituzionali, culturali, economici e demografici avvenuti nel corso di questi due secoli: lo iato linguistico fra le varietà del latino (scritto e parlato, colto e plebeo, ufficiale e aulico o colloquiale e informale) si approfondì al punto da creare una pluralità di idiomi distinti, territorialmente differenziati, parlati ma non scritti (i volgari), in genere separati dalla lingua colta (il latino), riservata agli usi ufficiali e scritti.
Per definire la situazione linguistica appena descritta è stato usato il concetto di diglossia, mutuato dalla sociolinguistica (Ferguson 1959; ➔ bilinguismo e diglossia). L’estensione del termine all’ambito romanistico (Lüdtke 1964) ha comportato adattamenti e mutamenti di significato talora notevoli rispetto alla formulazione originaria.
La diglossia interessa una data comunità linguistica nella sua interezza: tutti i parlanti, senza differenze di ceto, adoperano negli scambi linguistici quotidiani una lingua d’uso comune, mentre riservano agli usi ‘alti’, e principalmente allo scritto, una lingua di cultura dotata di una stabile norma grammaticale (Berruto 1995: 227-250). Tuttavia, nell’Italia dei secoli VII e VIII, accanto a una forte stratificazione della società, riflessa sul piano linguistico dalla diglossia latino-volgare, esistevano altrettante forze che agivano nel senso della mobilità sociale e della promozione culturale. La rivoluzione in atto nel mondo occidentale a partire dalla fine del VI secolo consiste proprio in un definitivo atto di rottura, anche sul piano grafico, con la precedente plurisecolare tradizione latina e con il passaggio dei volgari alla scrittura (Varvaro 1995a: 139).
Il latino scritto nei secoli VII e VIII riflette generalmente, anche nella grafia, i cambiamenti in atto nel parlato e la pressione delle lingue d’uso quotidiano. Prima che la riforma della cultura voluta da Carlo Magno restaurasse la corretta grafia e, accanto ad essa, una più stretta osservanza delle antiche regole fonetiche e morfosintattiche, i testi scritti testimoniano con le loro frequenti deviazioni dalla norma la perdita di cognizioni che, ancora nei secoli II o III, costituivano il normale bagaglio linguistico di un qualsiasi parlante medio latino. Per es.:
(a) non è più avvertita la differenza tra vocali lunghe e brevi (in latino sŏlus e sōlus erano due parole diverse, rispettivamente «suolo» e «solo»; ➔ quantità fonologica), sulla quale si fondava, tra l’altro, una plurisecolare tradizione poetica;
(b) scompare la capacità di discernere le funzioni dei casi (per es. fra il nominativo puellă e l’accusativo puellam, con funzione, rispettivamente, di soggetto e complemento oggetto, e puellā, ablativo);
(c) le funzioni morfosintattiche assolte dai casi sono trasferite o alla posizione delle diverse componenti nella frase, con la conseguenza che nei volgari parlati la posizione di un elemento nella frase cominciò a indicarne anche la funzione, oppure alle ➔ preposizioni che, già presenti in latino, cominciarono ad assolvere alla funzione fondamentale di distinguere i diversi complementi (quindi, per es., non più dicere alicui «dire a qualcuno» ma *dicere ad aliquem, con ad e l’accusativo invece che col dativo).
Non sempre, tuttavia, le scorrettezze sono indizio di ignoranza. In alcuni generi e tipi di testo, come le agiografie e i documenti notarili (➔ notai e lingua), la maggiore vicinanza alle lingue parlate dal popolo, che si manifesta con una incidenza proporzionalmente più elevata di ‘errori’ e con un lessico più prossimo al parlato, serviva a garantire una maggiore trasparenza del messaggio. Si è parlato, in casi del genere, di latino rustico o iuxta rusticitatem, cioè tale da risultare comprensibile anche a parlanti che non dominavano i registri più colti (Avalle 1970). Per i documenti è stato utilizzato il concetto di scripta latina rustica, espressione che indica la lingua della parte variabile dei documenti (il dispositivo). Diversamente che nella parte formulare, nel dispositivo compare un maggior numero di volgarismi grafici, morfosintattici e lessicali, accolti, verosimilmente, al fine di garantire una migliore comprensione del rogito (Sabatini 1965; 1968).
Il passaggio dalla scripta latina rustica alle scriptae volgari (➔ scripta), che conduce nel IX secolo all’emergere dei primi testi romanzi, si svolge all’insegna di un’ideale continuità con le esperienze di scrittura maturate nei secoli precedenti (Sabatini 1965, rist. 1996: 101-102; Sabatini 1968, rist. 1996: 227-228). Si tratta, però, di una continuità non priva di significativi elementi di rottura, nel senso che molte delle esperienze di adattamento della scrittura latina alle esigenze grafico-fonetiche del latino rustico non ebbero alcun esito nelle scritture in volgare (per es., la cosiddetta i carolingia, di cui si trova testimonianza in qualche testo delle origini, scomparve senza lasciare traccia).
È stato, inoltre, ridimensionato il peso della cosiddetta rinascita carolingia, espressione che indica il rinnovamento delle istituzioni educative promosso da Carlo Magno e dai suoi successori a partire dai primi decenni del IX secolo. Pur senza sottovalutarne gli effetti sulla cultura e le lingue dell’Europa occidentale, oggi si ritiene che quell’evento vada interpretato come una congiuntura che accelerò e favorì il passaggio dei volgari alla scrittura, senza esserne la causa prima (Petrucci 1994: 33-35).
Anche la convivenza fra lingue romanze e lingue non romanze in uno stesso territorio è stata indicata come fattore importante per il progressivo affrancarsi delle lingue volgari dal latino (Roncaglia 1965: 153). La prima registrazione di un idioma volgare avvenne proprio in una situazione di bilinguismo romanzo-germanico: i Giuramenti di Strasburgo dell’842, che sancirono l’alleanza fra Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, figli di Ludovico il Pio, furono redatti in «romana lingua» e «theotisca lingua». Anche in Italia le prime testimonianze in volgare si registrano proprio laddove si affiancavano etnie e lingue radicalmente diverse (Folena 1973: 506).
5.1 Classificazione cronologica, dislocazione geolinguistica
Alla tradizionale scansione temporale dei primi testi in volgare è possibile affiancare perlomeno due altre possibili classificazioni: una basata sul contesto geolinguistico e culturale entro il quale i testi sono apparsi; un’altra basata sulle differenti tipologie dei testi. Una visione globale della qualità e varietà delle prime scritture in volgare emerge proprio dall’incrocio di questi criteri. La mera successione temporale dice poco, se non le si associano informazioni circa gli enti che promossero il volgare e le forme via via assunte dalle scritture. L’elenco che segue, pertanto, serve a riassumere i testi in una non inutile cornice cronologica, da integrare coi criteri cui si è accennato (si riprende, modificandola, la tabella di Petrucci 1994: 47).
Il primo gruppo di testi, che si colloca fra la tarda età longobarda e l’età carolingia, è formato da: Indovinello veronese (fine VIII - inizio IX sec.); graffito della catacomba di Commodilla a Roma (prima metà del IX sec.); glossario di Monza (inizio X secolo); placiti campani (960-963).
Un secondo gruppo comprende testi che risalgono alla prima età comunale, dalla seconda metà dell’XI secolo alla prima metà del XII: privilegio logudorese (1080-1085?); postilla amiatina (1087); carta cagliaritana (1089 - 1103); iscrizione della basilica romana di San Clemente (fine XI - inizio XII sec.); conto navale pisano (inizio del XII sec.); formula di confessione umbra (inizio XII sec.); carte d’Arborèa (1102-1120); carte logudoresi (1120-1136); iscrizione di Vercelli (1140/1148); carta osimana (1150 o 1151); due iscrizioni di Casale (metà circa XII sec.); testimonianze di Travale (1158).
Un terzo gruppo è costituito da testi, risalenti alla fine del XII e all’inizio del XIII secolo, che segnano la fine dell’affioramento episodico del volgare e l’inizio di vere e proprie tradizioni discorsive (fra questi si collocano i primi testi letterari): memoratorio di Monte Capraro (1171); recordacione di P. Corner (fine XII sec.); decime di Arlotto (1160-1180); carta logudorese (1170); carta gallurese (1173); iscrizione della tomba di Giratto (1174-1180); dichiarazione di Paxia (1178-1182); carte cagliaritane (1181-1212); carte d’Arborèa (1182-1185); carta fabrianese (1186); ritmo bellunese (1193-1196); carta picena (1193); ritmo laurenziano (fine XII - inizi XIII sec.); annotazione pistoiese (1187-1208); ritmo cassinese (fine XII sec.); inventario dei beni di Santa Maria di Fondi (fine XII sec.); passione cassinese (fine XII sec.); sermoni subalpini (fine XII sec.); affitti di Coltibuono (fine XII - inizi XIII sec.); memoria di Coltibuono (fine XII - inizi XIII sec.); versi d’amore della carta ravennate (fine XII - inizi XIII sec.); elegia giudeo-italiana (fine XII - inizi XIII sec.); ricordi veronesi (1205 circa); ritmo su Sant’Alessio (inizio XIII sec.); frammenti di un libro di conti di banchieri fiorentini (1211); ritmo lucchese (1213).
Il gruppo più antico comprende testi assai brevi, a carattere avventizio e inseriti entro un preponderante contesto latino. Solo con l’avvento della civiltà comunale e l’intensificarsi della cultura urbana l’avanzata del volgare nella scrittura diviene irreversibile, anche se lenta, e le scritture in volgare cominciano a perdere il carattere dell’occasionalità.
Quanto ai luoghi, risalta, in particolare per i testi dei primi due gruppi, la preponderanza delle aree centrali e meridionali. La distribuzione geografica delle prime testimonianze in volgare è legata, infatti, all’economia delle fiorenti abbazie benedettine dislocate lungo la dorsale appenninica. Spiccano per la loro omogeneità le testimonianze sarde, dislocate cronologicamente lungo gli ultimi decenni del XII secolo e i primi del XIII e rappresentate unicamente da testi documentari.
I motivi per cui fu impiegato il volgare variano da caso a caso: giocarono un ruolo significativo l’intento di rendere più apertamente accessibili le decisioni adottate nei documenti (è il caso dei placiti), la difficoltà di rendere in latino un lessico strettamente legato alla cultura materiale di un dato luogo, e quindi a un idioma specifico (come nel caso della Dichiarazione di Paxia). Si può anche ipotizzare che l’incapacità dell’estensore di mantenere separati i due ambiti latino e volgare abbia talvolta suggerito l’adozione sistematica di quella che era ormai una lingua diversa, il volgare appunto, e non uno dei registri informali e sociolinguisticamente bassi del latino (per un più dettagliato panorama su quanto precede, cfr. Casapullo 1999: 17-34).
In anni relativamente recenti almeno tre diverse modalità di classificazione sono state elaborate (Koch 1993; Renzi 1994: 239-249; Petrucci 1994), ma di fatto procedimenti tipologizzanti sono già in Lüdtke (1964) e Sabatini (1965); si ricordano, per es., le tre categorie delle «liste di nomi», della «descrizione di confini prediali» e delle «testimonianze».
La tipologia di Koch prescinde dalla zona di provenienza dei testi e prende in considerazione un periodo, variabile da lingua a lingua, che va dalle prime attestazioni romanze del IX sec. fino al XV secolo. Da presupposti diversi muovono le tipologie di Renzi e di Livio Petrucci: la prima si basa sulla bipartizione fra testi religiosi (predicazione e testi paraliturgici) e testi laici (poesia profana e documenti giuridico-amministrativi); la seconda raggruppa le testimonianze volgari in base alla «consapevolezza mediale» degli scriventi, fondandosi in particolare «sull’individuazione degli specifici ambiti di scrittura all’interno dei quali gli estensori dei testi volgari hanno consapevolmente e storicamente agito» (Petrucci 1994: 49). Oltre che le singole tradizioni, lo studioso prende in esame le differenti modalità di conservazione dei testi, che si rivelano tutt’altro che irrilevanti in relazione alle diverse tipologie testuali. Costituisce un’effettiva novità, per es., il fatto che alla Dichiarazione di Paxia fosse stato riservato lo stesso trattamento previsto per i documenti notarili in latino, i soli considerati, fino a quel momento, meritevoli di essere tramandati in quanto depositari di legalità. Al contrario, alcuni testi, almeno prima della metà del Duecento, erano «fisiologicamente» destinati a un alto grado di dispersione (per es. le scritte preparatorie in volgare di un rogito ufficiale in latino o i libri di conti).
Una scrittura esposta è un testo ideato e realizzato per una fruizione pubblica in spazi aperti e, dunque, «in posizione propriamente ‘esposta’ agli sguardi dei frequentatori di quegli spazi, al fine di permetterne la lettura a distanza, anche collettiva» (Petrucci 1997: 45). Le scritture esposte medievali in volgare sono state chiamate anche «visibile parlare» (Ciociola 1992 e 1997).
Ove non si consideri l’Indovinello veronese, la più antica scrittura esposta e, più generalmente, il più antico reperto linguistico in volgare (ma si veda Petrucci 2010: 71-72) è la scritta della catacomba di Commodilla a Roma, edita criticamente e commentata da Sabatini (1996: 173-217; cfr. inoltre Castellani 19762: 31-37; Petrucci 2010: 35, 71-72, 185). La breve frase, graffita a sinistra di un affresco («Non dicere ille secrita a bboce»), è un’esortazione rivolta al sacerdote officiante affinché pronunciasse a bassa voce le secrita, cioè le orazioni segrete della messa.
Da tempo è nota inoltre l’iscrizione volgare che correda l’affresco della basilica sotterranea di San Clemente, sempre a Roma (Castellani 19762: 111-121; Raffaelli 1987; Petrucci 1997: 49-51; Petrucci 2010: 72-82). L’affresco, commissionato da due laici, Beno de Rapiza e sua moglie Maria, per celebrare il santo cui la chiesa è dedicata, raffigura un episodio della Passione di San Clemente. Le parole in volgare pronunciate dai carcerieri e quelle in latino pronunciate dal santo danno vita a un breve scambio di battute fra i personaggi:
[Albertello e Gosmari:] Falite dereto colo palo, Carvoncelle.
[Carboncello:] Albertel Gosmari, tràite.
[Sisinium:] Fili dele pute, tràite.
[San Clemente:] Duritiam cordis vestris saxa traere meruistis.
Latino e volgare concorrono all’identificazione sociolinguistica e morale dei personaggi: al latino ieratico del santo si oppone il volgare brutale e rozzo del carceriere e dei torturatori (Stussi 1997: 152-154).
Alcune iscrizioni piemontesi, quella di Vercelli (1140/1148) e le due iscrizioni di Casale (metà circa XII sec.) rientrano nel genere delle didascalie delle raffigurazioni di pavimenti musivi (Petrucci 2010: 85-88 e 89-92). Rientra nella tipologia degli epitaffi in volgare l’epigrafe incisa sulla tomba che il maestro Biduino costruì per il giudice Giratto nel Camposanto monumentale di Pisa, risalente al 1174-1176 (Stussi 1997: 150-152; Petrucci 2010: 93-95).
Con l’espressione testi pratici si indicano le scritture documentarie di provenienza notarile, le scritture normative prodotte a uso di determinate comunità (come gli statuti cittadini, quelli delle confraternite religiose, quelli delle corporazioni professionali e artigiane), i documenti emanati dalle autorità pubbliche, la corrispondenza ufficiale o privata, in definitiva i testi non letterari finalizzati ad attività professionali e a usi specifici.
L’importanza delle scritture pratiche medievali non risiede soltanto nel loro intrinseco valore di documenti storici ed economici, ma anche nell’insostituibile messe di informazioni che forniscono sulle lingue speciali dell’epoca, come il lessico della mercatura (➔ mercanti e lingua), del lavoro artigianale (➔ gerghi di mestiere), dell’economia (➔ economia, lingua dell’). Oltre a ciò, trattandosi di scritture dirette soprattutto alla comunicazione di contenuti, per lo più trasmesse da originali o da copie coeve all’originale, le scritture pratiche permettono di individuare più chiaramente i caratteri linguistici delle zone di provenienza degli estensori. Raccolte di testi fiorentini (Schiaffini 1926; Castellani 1952), pratesi e aretini (Serianni 1977), pistoiesi (Manni 1990) e altri, fondate su testi in larga parte di ambito pratico, hanno permesso di disegnare una carta dettagliata delle varietà linguistiche in uso nella Toscana medievale, e di seguirne gli sviluppi nel tempo (cfr. Castellani 2000).
Il primo affioramento in volgare di tipo documentario è nel Placito di Capua del marzo 960 (placito = «decisione giudiziale»; dal latino placitum est «si delibera che», formula con la quale il giudice introduceva le proprie decisioni). Nel Placito si stabilì il diritto del monastero benedettino di Montecassino al legale possesso di alcune terre, accertato mediante le deposizioni di tre testimoni, i quali dichiararono di essere a conoscenza di quel possesso e della sua durata trentennale. Mentre l’intero documento è scritto in latino, le sole testimonianze rese dinanzi al giudice furono riportate in volgare. Ciascuno dei tre testimoni ripeté la formula che segue (Castellani 1976: 59-76): sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti («so che quelle terre entro i confini di cui qui [cioè: nell’abbreviatura] si parla trent’anni le possedette il monastero di San Benedetto»).
Provengono dalla stessa zona e sono di tenore analogo il placito di Sessa Aurunca (marzo 963), il memoratorio («atto col quale si fa memoria di un evento») di Teano del luglio 963, e infine il placito di Teano dell’ottobre 963. Le brevi testimonianze sono redatte secondo una tipica formularità notarile (Fiorelli 1994: 553-556). Esse, quindi, non hanno nulla di spontaneo né di improvvisato, tant’è che si conoscono carte contenenti le stesse frasi, ma scritte in latino, risalenti all’incirca allo stesso torno di anni (Mancini 1994: 28).
La formularità del latino notarile si manifesta nella frase que ki contene (lett. «che qui dice») e nelle espressioni parte Sancti Benedicti «la parte di San Benedetto» (Placito di Capua), parte Sancte Marie «la parte di Santa Maria», nei genitivi di possesso Sancte Marie è, Pergoaldi foro (Placiti di Sessa e di Teano). Essa convive con un costrutto tipico del parlato: la messa in rilievo del complemento oggetto della subordinata con ripresa pronominale (una dislocazione a sinistra; ➔ dislocazioni), e la collocazione del soggetto all’estrema destra, «in posizione di forte rilievo» (D’Achille 1990: 135-136): kelle terre […] le possette parte Sancti Benedicti. Le ragioni dell’adozione del volgare nei Placiti campani vanno ricercate, probabilmente, nella necessità di rendere inequivocabile il diritto al possesso delle terre nominate nell’atto mediante il ricorso a una pratica giuridica consolidata (Petrucci 1994: 18-19).
Sono di tenore diverso le testimonianze registrate in un documento del 1158, relative a un contenzioso fra Galgano, vescovo di Volterra, e suo fratello, il conte Ranieri Pannocchieschi. In questo caso furono rese vere e proprie testimonianze spontanee, raccolte fra sei boni homines di Travale. Due di queste, trascritte in volgare, recano consistenti tracce del parlato locale (Castellani 1976: 155-164); un tal Henrigulus dice «Io de presi pane e vino per li maccioni a Travale» («io presi di lì pane e vino per i muratori a Travale»), mentre un tal Pogkino (Poghino) riporta le parole sentite da un certo Malfredus, chiamato a fare la guardia a Travale: «Guaita, guaita male; non mangiai ma mezo pane» («sentinella, fa’ male la guardia; non mangiai più di mezzo pane»).
Una parte consistente delle scritture a carattere pratico consiste di carte (rogiti notarili) e scritte (scritture private) di provenienza generalmente centro-italiana (principalmente toscana e mediana). In qualche caso gli estensori appaiono incapaci di tenere distinti come dovrebbero i due codici linguistici, latino e volgare. È il caso dell’atto rogato dal notaio Simeone col quale il vescovo di Osimo Grimaldo dona all’abbazia di Chiaravalle di Fiastra la chiesa di Santa Maria in Selva (Castellani 19762: 149-154).
Fra le scritture notarili particolare interesse rivestono le liste di nomi, che rientrano in una tipologia testuale precocemente aperta agli influssi del volgare, come la Dichiarazione di Paxia, il primo documento ligure, del 1178-1182. Si tratta di due foglietti sciolti che contengono la dichiarazione resa dalla vedova Paxia ([ˈpaza] < pacem) ai consoli della città di Savona circa i beni ereditati dal marito, quelli che lei stessa gli aveva portato in dote, e le spese sostenute dopo la morte del coniuge. Sebbene sia evidente l’influenza del latino, ineliminabile per la tipologia stessa del testo (nella formula d’esordio, nei residui di declinazione, ecc.), la scripta ha caratteri spiccatamente liguri. Lo dimostrano il tipico grafema ‹x› che rende la fricativa prepalatale sonora /z/ (Paxia, albaxie, camixoto), la ➔ sonorizzazione o il dileguo di -t- intervocalica (vergada «stoffa rigata», buada «bucato», scudelle) e l’➔ indebolimento delle consonanti intense fra vocali (bruneta «panno bruno», capa «cappa», rota «rotta»); è un caratteristico ligurismo e piemontesismo l’esito -it- < -ct- in peiten «pettine» (< pecten).
Un posto a sé occupano i documenti sardi, dotati di una formularità completamente diversa da quella dei documenti peninsulari. Le carte sarde, che non sono sottoscritte da un notaio, perché gli atti, contratti fra privati, sono autorizzati da un giudice, attestano, tra la fine dell’XI e i primi del XIII secolo, un impiego del volgare negli atti pubblici assai più esteso di quanto non fosse nella penisola. Le scritture, tuttavia, restarono per alcuni secoli le sole testimonianze scritte negli antichi volgari sardi.
La più antica poesia religiosa in volgare proviene dall’➔ Italia mediana, «l’area linguistica e culturale a sud della linea La Spezia-Rimini, escludendo la Toscana e fino a comprendere il Lazio e l’Abruzzo», elaborata in seno alla cultura benedettino-cassinese cui si devono, come si è detto, anche i primi documenti in volgare (Baldelli 1987: 29; Vignuzzi 1995: 151-152 e 156-158).
Riconducono al volgare mediano, nel Ritmo cassinese (Contini 1960: I, 7-13 e II, 791-792; Formentin 2007: 63-93), il betacismo (bita «vita», bollo «voglio», nubele «novelle», ecc.), la distinzione fra -o e -u finali (eo «io», fabello «favello», ecc., ma bostru «vostro», mundu «mondo», ecc.), la metafonesi (stissu «stesso», bui «voi», ecc.) con un unico caso di dittongo metafonetico (tie’ «tieni»), la conservazione dei nessi con l (platio, occlu, ecc.), i pronomi tebe (< tibi) e sebe (< sibi), il condizionale boltiera «vorrei». Nel Ritmo su Sant’Alessio, accanto ai molti fenomeni linguistici presenti anche nel Ritmo cassinese, spiegabili con la comune origine mediana, è da ricondurre all’area marchigiana l’assenza del betacismo (Contini 1960: I, 15-28 e II, 793; Formentin 2007: 95-137). Sotto il profilo formale i due Ritmi attestano in vario modo l’influenza di moduli metrici d’oltralpe, a cominciare dall’adozione di versi derivanti dall’octosyllabe e dal décasyllabe francesi (otto-novenari) e dall’organizzazione in lasse e non in strofe.
La Passione cassinese, indicata come il più antico reperto del dramma sacro in volgare, si compone di tre quinari doppi (ma forse in origine si trattava di una quartina) monoassonanzati (ventre : presente : mmente), trascritti alla fine di un dramma latino sulla Passione di Cristo (Varanini 1972: 3-4). Pare probabile che i versi volgari costituissero la parte finale di una sacra rappresentazione recitata nella Settimana Santa, che si concludeva con l’esclamazione della Vergine davanti al figlio morto:
Eo te portai nillu meu ventre;
quando te beio, moro presente;
nillu teu regnu agime a mmente
Fra i testi delle origini si novera anche il primo esempio di predicazione in volgare (➔ predicazione e lingua), i piemontesi Sermoni subalpini (Babilas 1968), con ogni probabilità mere esercitazioni retoriche e non prediche realmente pronunciate. Nei Sermoni un piemontese venato di francesismi si accompagna alle citazioni scritturali in latino, a volte traducendole, più spesso parafrasandole liberamente, secondo uno schema tipico del sermone antico, consistente nell’illustrazione letterale di un versetto biblico seguita dalla spiegazione dei sensi riposti secondo modalità di lettura figurale (allegorica, morale, anagogica), con il sussidio di exempla tratti per lo più dalle Scritture e dalle enciclopedie naturali.
Il Ritmo laurenziano (Contini 1960: I, 3-6 e II, 790; Castellani 1986; Formentin 2007: 15-37), che consta di tre lasse monorime di otto-novenari, non è di argomento propriamente religioso, ma fu composto da un giullare in contatto con ambienti religiosi per celebrare il vescovo Grimaldesco di Iesi (Salva lo vescovo senato «salva, o Dio, il vescovo esinate», ovvero di Iesi).
Il primo reperto lirico in volgare, di recente acquisizione, è la canzone anonima Quando eu stava in le tu cathene, composta fra il 1180-1190 e il 1210 (Stussi 1999; Castellani 2000: 524-536; Formentin 2007: 139-177). La canzone scalza il tradizionale primato della ➔ Scuola poetica siciliana e fa supporre l’esistenza di una linea di sviluppo settentrionale della poesia cortese, anteriore e autonoma interpretazione della lirica trobadorica d’oltralpe. La pergamena che conserva la canzone (cinque strofe di dieci decasillabi ciascuna) tramanda anche un altro componimento, formato da cinque endecasillabi che imitano la poesia precedente (Castellani 2000: 530).
Fra i più antichi testi in versi si trovano anche due interessanti reperti di poesia epica e guerresca, influenzati dalla chanson de geste in lingua d’oïl. Il più antico, tramandato da testimoni cinquecenteschi, è il Ritmo bellunese (Castellani 1975: 57-58; Petrucci 1994: 71-72), quattro decasillabi epici inseriti in una memoria latina che esalta le vittorie di Belluno e Feltre su Treviso nel 1193 e nel 1196. Risale al 1213 il Ritmo lucchese, costituito da otto-novenari parte rimati, parte assonanzati, che, come il precedente, è stato trasmesso da un memoriale di tipo cronachistico scritto in latino, per celebrare la vittoria dei lucchesi sul marchese di Massa del gennaio 1213 (Castellani 2000: 466-470; Formentin 2007: 39-61).
Le scritture volgari presentano una grande varietà di soluzioni grafiche, in particolare nella resa di fonemi che il latino classico non possedeva (per es. le affricate palatali e dentali). Tali soluzioni, variabili nello spazio e estremamente instabili anche in un medesimo testo, si saldarono alle scriptae latine altomedievali nel segno di una continuità non priva di numerosi elementi di rottura; per es., la cosiddetta i merovingica che valeva e chiusa confluì nei Giuramenti di Strasburgo e nel graffito di Commodilla (secrita > secreta), oltre che in qualche documento posteriore (Frammenti di un libro di conti di banchieri fiorentini, 1211), senza, peraltro, lasciare successivamente alcuna traccia di sé.
Anche dopo la riforma carolingia, d’altronde, il latino continuò a esercitare un’influenza che si potrebbe definire trasversale, nel senso che influenzò scritture di diversa provenienza geografica e, in una certa misura, socioculturale. Grafie come ‹ti› + vocale per le affricate dentali sorda e sonora /ʦ/ e /ʣ/, ‹ct› e ‹pt› per la /tː/ intensa, homo o huomo, con un’‹h› muta già nel latino classico, sopravvissero ben oltre il basso medioevo (Maraschio 1993: 158-161).
I primi testi permettono di ricomporre uno spazio plurilingue che si esprime attraverso altrettante tradizioni grafiche, com’è normale in un’epoca in cui la scrittura non aveva una norma unica e codificata, e in cui inoltre convivevano, spesso in conflitto, abitudini scrittorie diverse (Maraschio 1993: 156-158). Per es., testimonia di un antico legame con la lingua e la cultura bizantina la carta cagliaritana del giudice Costantino Salusio (1089-1103), nota anche come Carta greca di Marsiglia, scritta in volgare campidanese e in caratteri greci (Loi Corvetto 1992: 882-883).
Altre tradizioni grafiche in alfabeto non latino sono dovute alla presenza di minoranze alloglotte, come i gruppi ebraici. Dall’Italia mediana proviene uno dei testi letterari più interessanti dei primi secoli, l’Elegia giudeo-italiana, scritta in un volgare che accoglie generici tratti centromeridionali accanto a fenomeni di tipo marchigiano meridionale e laziale (Contini 1960: I, 35-42 e II, 796-797; Hijmans-Tromp 1990). Precoce esempio dell’incontro di un volgare romanzo con una cultura di tipo semitico, l’Elegia ricalca la struttura metrica dei canti liturgici di tradizione ebraica, ma linguisticamente è affine ai coevi ritmi giullareschi di area mediana.
In taluni casi il plurilinguismo è associato all’uso funzionalmente differenziato di grafie diverse. Baldelli (1988: 7) osserva che «con la grande eccezione del Ritmo cassinese, si direbbe che nel secolo XIII, mentre la beneventana rimaneva più naturalmente congiunta col latino, quando si scriveva in volgare si passasse alla nuova grafia».
Un bell’esempio di bilinguismo con digrafismo è offerto dai tre versi in volgare mediano della Passione cassinese. Nel manoscritto che tramanda il frammento le parti in latino e quelle in volgare sono trascritte dalla stessa mano con due grafie differenti: la beneventana per i testi latini, una minuscola con elementi gotici per i testi in volgare (Varanini 1972: 3), un modulo che si ritrova in altri testi più tardi di provenienza mediana (Glosse cassinesi, Scongiuri aquinati, Istorie dell’Exultet barberiniano).
Alighieri, Dante (1996), De vulgari eloquentia, in Id., Opere minori, a cura di P.V. Mengaldo & B. Nardi, Milano - Napoli, Ricciardi, 3 voll., vol. 3°/1 (De vulgari eloquentia, Monarchia) (rist. dell’ed. 1979).
Castellani, Arrigo (a cura di) (1952), Nuovi testi fiorentini del Dugento, Firenze, Sansoni, 2 voll.
Castellani, Arrigo (19762), I più antichi testi italiani. Edizione e commento, Bologna, Pàtron (1a ed. 1973).
Contini, Gianfranco (a cura di) (1960), Poeti del Duecento, Milano - Napoli, Ricciardi, 2 voll.
Manni, Paola (a cura di) (1990), Testi pistoiesi della fine del Dugento e dei primi del Trecento: con introduzione linguistica, glossario e indici onomastici, Firenze, Accademia della Crusca.
Schiaffini, Alfredo (a cura di) (1926), Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, Firenze, Sansoni.
Serianni, Luca (a cura di) (1977), Testi pratesi della fine del Dugento e dei primi del Trecento, con introduzione linguistica, glossario e indici onomastici, Firenze, Accademia della Crusca.
Varanini, Giorgio (a cura di) (1972) Laude dugentesche, Padova, Antenore.
Auerbach, Erich (19832), Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli (1a ed. 1960; ed. orig. Literatursprache und Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter, Bern, Francke, 1958).
Avalle, D’Arco Silvio (a cura di) (1970), Latino “circa romançum” e “rustica romana lingua”. Testi del VII, VIII e IX secolo, Padova, Antenore (1a ed. Torino, Giappichelli, 1964).
Babilas, Wolfgang (1968), Untersuchungen zu den “Sermoni Subalpini“, mit einem Exkurs über die Zehn-Engelchor-Lehre, München, Max Hueber Verlag.
Baldelli, Ignazio (1987), La letteratura volgare in Toscana dalle origini ai primi decenni del secolo XIII, in Letteratura italiana. Storia e geografia, a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 1° (L’età medievale), pp. 65-77.
Baldelli, Ignazio (1988), Conti, glosse e riscritture dal secolo XI al secolo XX, Napoli, Morano.
Berruto, Gaetano (1995), Fondamenti di sociolinguistica, Roma - Bari, Laterza.
Bruni, Francesco (2010), Italia. Vita e avventure di un’idea, Bologna, il Mulino.
Calboli, Gualtiero (1994), Latino volgare e latino classico, in Cavallo, Leonardi & Menestò 1994, pp. 11-62.
Casapullo, Rosa (1999), Il Medioevo, in Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni, Bologna, il Mulino.
Castellani, Arrigo (1975), Appunti sui più antichi testi italiani, «Lingua nostra» 36, pp. 101-102 (rist. in Id., Saggi di linguistica e filologia italiana e romanza (1946-1976), Roma, Salerno Editrice, 1980, 3 voll., vol. 2°, pp. 55-58).
Castellani, Arrigo (1986), Il Ritmo laurenziano, «Studi linguistici italiani» 12, pp. 182-216.
Castellani, Arrigo (2000), Grammatica storica della lingua italiana, Bologna, il Mulino, vol. 1° (Introduzione).
Cavallo, Guglielmo, Leonardi, Claudio & Menestò, Enrico (dir.) (1994), Lo spazio letterario del Medioevo, I. Il Medioevo latino, Roma, Salerno Editrice, 1993-1998, 5 voll., vol. 2° (La circolazione del testo).
Ciociola, Claudio (1992), «Visibile parlare»: agenda, Cassino, Università degli Studi (già in «Rivista di letteratura italiana» 7, 1989, pp. 9-77).
Ciociola, Claudio (a cura di) (1997), «Visibile parlare». Le scritture esposte nei volgari italiani dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno internazionale di studi (Cassino - Montecassino, 26-28 ottobre 1992), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane.
D’Achille, Paolo (1990), Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana. Analisi di testi dalle origini al secolo XVIII, Roma, Bonacci.
Ferguson, Charles A. (1959), Diglossia, «Word» 15, pp. 325-340.
Fiorelli, Pietro (1994), La lingua del diritto e dell’amministrazione, in Serianni & Trifone 1993-1994, vol. 2º, pp. 553-597.
Folena, Gianfranco (1973), Textus testis: caso e necessità nelle origini romanze, in Concetto, storia, miti e immagini del Medio Evo, a cura di V. Branca, Firenze, Sansoni, pp. 483-507.
Formentin, Vittorio (2007), Poesia italiana delle origini, Roma, Carocci.
Herman, József (1998), La chronologie de la transition: un essai, in Id. (a cura di), La transizione dal latino alle lingue romanze. Atti della Tavola rotonda di linguistica storica, Università Ca’ Foscari (Venezia, 14-15 giugno 1996), Tübingen, Niemeyer, pp. 5-26.
Hijmans-Tromp, Irene (1990), Per il testo dell’“Elegia giudeo-italiana”, «Lingua nostra» 51, pp. 97-99.
Koch, Peter (1993), Pour une typologie conceptionelle et médiale des plus anciens documents/monuments des langues romanes, in Selig, Frank & Hartmann 1993, pp. 39-81.
Loi Corvetto, Ines (1992), La Sardegna, in L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino, UTET, 1992, pp. 875-917.
Lüdtke, Helmut (1964), Die Entstehung romanischer Schriftssprachen, «Vox romanica» 23, pp. 3-21.
Mancini, Marco (1994), Oralità e scrittura nei testi delle origini, in Serianni & Trifone 1993-1994, vol. 2°, pp. 5-40.
Maraschio, Nicoletta (1993), Grafia e ortografia: evoluzione e codificazione, in Serianni & Trifone 1993-1994, vol. 1°, pp. 139-227.
Petrucci, Armando (1983), Il libro manoscritto, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1982-1992, 15 voll., vol. 2° (Produzione e consumo), pp. 499-524.
Petrucci, Armando (1997), Il volgare esposto: problemi e prospettive, in Ciociola 1997, pp. 45-58.
Petrucci, Livio (1994), Il problema delle origini e i più antichi testi italiani, in Serianni & Trifone 1993-1994, vol. 3°, pp. 5-73.
Petrucci, Livio (2010), Alle origini dell’epigrafia volgare. Iscrizioni italiane e romanze fino al 1275, Pisa, PLUS-Pisa University Press.
Raffaelli, Sergio (1987), Sull’iscrizione di San Clemente. Un consuntivo con integrazioni, in Sabatini, Raffaelli & D’Achille 1987, pp. 35-66.
Renzi, Lorenzo (1994), Nuova introduzione alla filologia romanza, con la collaborazione di G. Salvi, Bologna, il Mulino (1a ed. 1985).
Roncaglia, Aurelio (1965), Le origini, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi & N. Sapegno, Milano, Garzanti, 1965-1969, 9 voll., vol. 1° (Le origini e il Duecento), pp. 3-289 (nuova ed. aggiornata diretta da N. Sapegno 1987).
Sabatini, Francesco (1965), Esigenze di realismo e dislocazione morfologica in testi preromanzi, «Rivista di cultura classica e medievale» 7 (Studi in onore di A. Schiaffini), pp. 972-988 (rist. in Sabatini 1996, pp. 99-131).
Sabatini, Francesco (1968), Dalla “scripta latina rustica” alle “scriptae” romanze, «Studi medievali» 9, 1, pp. 320-358 (rist. in Sabatini 1996, pp. 219-265, da cui si cita).
Sabatini, Francesco (1978), Lingua parlata, scripta e coscienza linguistica nelle origini romanze, in Atti del XIV congresso internazionale di linguistica e filologia romanza (Napoli, 15-20 aprile 1974), a cura di A. Varvaro, Napoli, Macchiaroli; Amsterdam, John Benjamins, 5 voll., vol. 1°, pp. 445-453.
Sabatini, Francesco (1996), Italia linguistica delle origini. Saggi editi dal 1956 al 1996, raccolti da V. Coletti et al., Lecce, Argo, 2 voll.
Sabatini, Francesco, Raffaelli, Sergio & D’Achille, Paolo (1987), Il volgare nelle chiese di Roma. Messaggi graffiti, dipinti e incisi dal IX al XVI secolo, Roma, Bonacci.
Schuchardt, Hugo E.M. (1866-1868), Der Vokalismus des Vulgärlateins, Leipzig, Teubner, 3 voll.
Selig, Maria, Frank, Barbara & Hartmann, Jörg (édité par) (1993), Le passage à l’écrit des langues romanes, Tübingen, Narr.
Serianni, Luca & Trifone, Pietro (a cura di) (1993-1994), Storia della lingua italiana, Torino, Einaudi, 3 voll. (vol. 1º, I luoghi della codificazione; vol. 2°, Scritto e parlato; vol. 3°, Le altre lingue).
Stotz, Peter (1994), Le sorti del latino nel Medioevo, in Cavallo, Leonardi & Menestò 1994, pp. 153-190.
Stussi, Alfredo (1997), Epigrafi medievali dell’Italia settentrionale e della Toscana, in Ciociola 1997, pp. 149-175.
Stussi, Alfredo (1999), Versi d’amore in volgare tra la fine del secolo XII e l’inizio del XIII, «Cultura neolatina» 59, 1-2, pp. 1-69.
Väänänen, Veikko (1971), Introduzione al latino volgare, a cura di A. Limentani, Bologna, Pàtron (ed. orig. Introduction au latin vulgaire, Paris, Klincksieck, 1963).
Varvaro, Alberto (1984a), La parola nel tempo. Lingua, società e storia, Bologna, il Mulino.
Varvaro, Alberto (1984b), Omogeneità del latino e frammentazione della Romània, in Latino volgare, latino medioevale, lingue romanze. Atti del Convegno della Società italiana di glottologia (Perugia, 28-29 marzo 1982), a cura di E. Vineis, Pisa, Giardini, pp. 11-22.
Varvaro, Alberto (1995a), Origini romanze, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, Roma, Salerno Editrice, 14 voll., vol. 1° (Dalle origini a Dante), pp. 137-174.
Varvaro, Alberto (1995b), Problemi di sociolinguistica nelle origini delle lingue romanze, in Kulturwandel im Spiegel des Sprachwandels. Achtes Partnerschaftskolloquium der Facoltà di lettere e filosofia der Università degli studi di Napoli Federico II, und der Philosophischen Fakultät der Heinrich-Heine-Universität Düsseldorf (Düsseldorf, 21.-24. Oktober 1991), hrsg. von L. Karl-Egon, Tübingen, Francke, pp. 31-39.
Vignuzzi, Ugo (1995), Marche, Umbria, Lazio, in Lexikon der romanistischen Linguistik, hrsg. von G. Holtus, M. Metzeltin & C. Schmitt, Tübingen, Niemeyer, 8 voll., vol. 2°/2 (Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete vom Mittelalter bis zur Renaissance), pp. 151-169.