lingua e media
È difficile ricondurre la lingua dei mezzi di comunicazione di massa (o mass media) a un unico tipo, nonostante alcuni fenomeni comuni. Prendendo in prestito l’abitudine dell’Accademia della Crusca di utilizzare il plurale per contrassegnare i vari gradini della variabilità diamesica (italiani scritti, parlati o trasmessi; ➔ variazione diamesica), si potrà parlare di italiani mediali.
È opportuno, innanzitutto, distinguere tra mezzi scritti, o alfabetici (giornale, fumetto), e mezzi cosiddetti non alfabetici, a loro volta distinti in orali (radio, telefono), audiovisivi (cinema e televisione), elettronici (computer) e new media (Internet, posta elettronica, telefonino, ecc.; ➔ posta elettronica, lingua della).
Non c’è accordo, tra gli studiosi, neppure sullo stesso concetto di medium, ora basato più sul supporto, o strumento, utilizzato per produrre atti di comunicazione, ora invece su un insieme di caratteristiche strutturali degli atti comunicativi che, pur diffondibili mediante mezzi diversi, costituirebbero abbastanza omogeneamente un medium. Secondo quest’ultima prospettiva, sarebbero mass media anche la canzone, la pubblicità, il film (più che il cinema) e altri.
A complicare la possibilità di uno studio unificato dei media, contribuisce anche l’inevitabile variabilità diacronica cui è sottoposto ogni prodotto della comunicazione umana. Basti considerare la lingua dei quotidiani che, nella seconda metà del Novecento, ha subito più d’una svolta stilistica (➔ giornali, lingua dei): dal crescere della frequenza della ➔ sintassi nominale, soprattutto nei titoli e nella parte iniziale dell’articolo (o lead: «Due ministeri al posto di tre. Uno per Ambiente e Territorio, uno per Mobilità e Infrastrutture: i Lavori Pubblici, via»), e della struttura tema-rema («Banche: l’accordo è vicino»; ➔ tematica, struttura), alla sempre più vistosa contaminazione tra linguaggi: metafore sportive negli articoli di politica (autogol, prendere in contropiede, scendere in campo), metafore belliche negli articoli di sport (attaccare, invasione di campo, offensiva, retroguardia, serrare i ranghi, tattica, trincea), fino alla pervasiva presenza dello stile cosiddetto brillante (Dardano 1981: 232-252), costituito, per l’appunto, dal continuo interscambio d’ambiti lessicali e dall’agilità sintattica (gli esempi sono tratti da Simone 2004, ad vocem «giornale», e Rossi 2003).
Data poi la sempre maggiore importanza delle immagini e la tendenza a non distinguere chiaramente tra la notizia e il commento, gli studiosi parlano spesso di rotocalchizzazione dei quotidiani negli ultimi decenni (Mengaldo 1994: 63). I quotidiani esemplificano un altro problema caratteristico degli studi sui media: è davvero possibile trattare unitariamente la lingua dei giornali (o della radio, della televisione, ecc.; ➔ radio e lingua; ➔ televisione e lingua), o non sarebbe forse più opportuno distinguere tra diversi ambiti tematici, come lingua dell’informazione, lingua dello sport (➔ sport, lingua dello), lingua dello spettacolo, ecc., pur con le note contaminazioni (come, per es., il cosiddetto infotainment: informazione e intrattenimento)?
Un’utile categoria messa a punto per analizzare la lingua dei media è quella del trasmesso, nella quale rientrano quei messaggi che, per essere correttamente codificati e decodificati, necessitano di un complesso apparato tecnico (perlopiù elettrico o elettronico) ed economico di trasmissione e ricezione. Soprattutto per i mass media audiovisivi, la lingua trasmessa presenta le seguenti caratteristiche (Sabatini 1997 e Rossi 2006: 28):
(a) mancata condivisione del contesto da parte di mittenti e riceventi, che si trovano distanti nello spazio e spesso anche nel tempo;
(b) unidirezionalità dell’atto comunicativo (assenza di feed-back; ➔ Internet, lingua di): è raro che il pubblico possa rispondere a un messaggio mediatico come accadrebbe in un qualunque altro tipo di dialogo, sebbene talora ciò si verifichi, per es., con le telefonate in diretta durante una trasmissione radiotelevisiva, e oggi, sempre più spesso, con i messaggi di posta elettronica o i blog collegati a un sito Internet;
(c) molteplicità dei mittenti (produzione collettiva del messaggio): un messaggio mediatico non è quasi mai creato da un singolo autore, bensì da un’équipe di realizzatori (sceneggiatori, registi, attori, doppiatori, produttori, ecc., che in diversa misura possono essere considerati autori di un testo diffuso dai media);
(d) eterogeneità dei riceventi (destinazione di massa del messaggio);
(e) distanza tra il momento di preparazione del testo, il momento della sua esecuzione e quello della sua ricezione;
(f) simulazione del parlato spontaneo (vale a dire tendenza a imitare la spontaneità del parlato reale) e inclinazione alla contaminazione tra elementi tipici del parlato e dello scritto.
Un’altra caratteristica di molti media è la combinazione del codice verbale con altri codici: la prevaricazione dell’immagine sul testo scritto o parlato viene rimproverata a molti media, dalla stampa periodica al fumetto, dalla televisione ai siti Internet.
Un’altra critica mossa soprattutto a giornali, televisione, messaggi scritti con i telefoni cellulari, posta elettronica e altre applicazioni di Internet è quella di aver provocato l’imbarbarimento della lingua italiana, ormai costellata di errori di sintassi, ortografia e punteggiatura (sempre più frequenti errori quali l’apostrofo in casi come un’altro, la virgola che separa il soggetto dal predicato, ecc.), forestierismi, dialettalismi, asperità lessicali, indicativi al posto di congiuntivi (penso che è meglio, se lo sapevo ci venivo), ecc.
Il problema del mutamento dell’italiano nel corso degli ultimi cinquant’anni è, ovviamente, ben più complesso (➔ lingua d’oggi). Se è indubitabile il progressivo avanzamento del parlato informale (e soprattutto dialogico), fino a intaccare terreni un tempo propri della lingua scritta di media o alta formalità (si pensi allo stile brillante dei giornali, al disinvolto conversare dei dibattiti radiotelevisivi e all’abbattimento delle barriere sociali in taluni messaggi di posta elettronica), va detto che i media possono, semmai, esser ritenuti responsabili di rispecchiare tali usi, piuttosto che di suscitarli. Inoltre, si commette forse l’errore di estendere il potere di condizionamento dei media (soprattutto della televisione) dal piano dei contenuti a quello della forma. Se sono evidenti «alcuni sconfinamenti nelle zone più lontane dall’italiano standard», come anche la frequenza notevole di anglicismi, neoformazioni e regionalismi, «si tratta [...], al tirar delle somme, di trasgressioni infrequenti e che, anche da un punto di vista qualitativo, non appaiono in grado di attentare alla grammaticalità dell’italiano» (Masini 2003: 19-20).
Di là da ogni facile ottimismo, ma anche da un acritico catastrofismo, va rilevato «che i mezzi di comunicazione di massa offrono soprattutto dei modelli passivi di lingua», anche perché «il numero di parole che hanno origine dai media è scarso; piuttosto essi funzionano da diffusori di tecnicismi, esotismi, neologismi [...]. Semmai l’influsso sulla lingua comune è, tramite soprattutto il giornalismo, sintattico, con uno snellimento» del periodare, la preferenza accordata a strutture segmentate ed enfatiche (dislocazioni, frasi scisse, focalizzazioni ecc.), paratattiche, nominali e talora anacolutiche (Mengaldo 1994: 76-77).
Sicuramente, come già messo in luce oltre venti anni fa (Simone 1987), i mezzi di comunicazione di massa hanno da tempo dismesso la veste di «scuola di lingua» per indossare quella di «specchio delle lingue». Scuola di lingua, in effetti, i media non scritti sono stati davvero, per i milioni di italiani ancora in larga parte dialettofoni e analfabeti. Cominciò la radio, nel 1924: «il primo medium che abbia varcato decisamente la barriera dell’italofonia, che sia penetrata nella massa dei 26 milioni di italiani abituati a parlare quasi esclusivamente dialetto» (De Mauro 1993: 434). Subito dopo venne il cinema sonoro (dal 1927 negli Stati Uniti, dal 1930 in Italia), il quale, soprattutto nei film americani doppiati, era caratterizzato da un tale rispetto degli standard ortofonici, morfosintattici e lessicali, da essere intrinsecamente didattico e da giustificare l’affermazione del regista Luigi Magni, secondo cui nell’Italia del secondo dopoguerra «l’italiano lo parlava soltanto Gary Cooper, perché era doppiato» (Rossi 2006: 293). La breve parentesi neorealistica e quella, più lunga, della commedia all’italiana, con i loro dialetti (➔ cinema e lingua), non furono sufficienti a intaccare una produzione media tendenzialmente italofona. Ma è soltanto con la televisione, a partire dunque dal 1954, che la lingua italiana entra in ogni casa. Una lingua dapprima assai paludata, poi sempre più variegata e sempre più incline a riflettere il reale assetto del Paese. Una lingua, tuttavia, complessivamente omogenea, in cui la componente fonetica romana ha un ruolo egemone (comprensibilmente: Roma è tuttora la sede della maggior parte degli studi televisivi e delle sale di doppiaggio), anche se «la totalità della lingua [...], nella totalità dei suoi usi, formali e informali, regionali e standard, parlati e perfino scritti, è messa in opera nelle trasmissioni televisive», le quali ottengono presto il risultato di «far regredire» l’uso dei dialetti nella popolazione italiana (De Mauro 1993: 439-440).
È tuttora evidente una certa tendenza alla standardizzazione e all’innalzamento diafasico, nel parlato televisivo, tanto più spiccata in taluni programmi rivolti a un’utenza culturalmente meno agguerrita. Dai romanzi d’appendice in poi, è noto come il livello culturale del pubblico sia inversamente proporzionale al livello stilistico: le infrazioni della norma di stampo espressionistico sono tipiche dei prodotti d’élite. Si prenda come esempio la lingua dei serial televisivi. Sia quelli originariamente in italiano, sia soprattutto quelli doppiati, infatti, raramente si avventurano nella riproduzione dei fenomeni più distanti dallo standard: solo occasionalmente ci si imbatterà in un’omissione di congiuntivo o in un anacoluto in una puntata di Beautiful (seguitissima soap opera americana, trasmessa in Italia dal 1990), di Cento vetrine (soap italiana trasmessa dal 2001), o addirittura della parzialmente regionalizzata Un posto al sole (soap ambientata a Napoli e trasmessa dal 1996). Del tutto banditi il turpiloquio, nelle medesime sedi, e la dialettalità più stretta. Rispetto al passato, comunque, il parlato radiotelevisivo odierno è meno timoroso d’esibire varietà regionali e, grazie anche all’emittenza privata (e poi satellitare) e allo spostamento verso il Nord del baricentro degli studi di produzione, l’accento milanese, o genericamente settentrionale, viene percepito dalla maggioranza degli italiani come più prestigioso rispetto a quello romano o meridionale.
Molti studiosi insistono sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nella propagazione dell’italiano dell’uso medio (Sabatini 1997), ovvero di quella forma di italiano, per lungo tempo avversata dalle grammatiche, ma ormai largamente presente nelle produzioni parlate e scritte anche delle persone colte: dai fenomeni sintattici della dislocazione (la notizia l’abbiamo data ieri; ➔ dislocazioni), agli usi pronominali (gli in luogo di a loro), tutti fenomeni peraltro ben attestati fin dalle origini della nostra lingua, sebbene osteggiati sin dalle grammatiche rinascimentali. Anche in questo caso, è difficile stabilire quanto si possa parlare di responsabilità dei media e quanto, invece, di naturale percorso evolutivo della nostra lingua, sicuramente incoraggiato dall’indebolimento dei freni censori delle grammatiche e dell’istruzione scolastica tradizionali. Il medium più resistente alle innovazioni grammaticali sembra il quotidiano (Bonomi 2003: 151).
Con ciò non si vuol certo negare la funzione dei media come propagatori di modi di dire. Anzi, giornali e televisione sono la sede privilegiata dei fenomeni cosiddetti della criptocitazione o della ripetizione polifonica, ovvero del riuso più o meno deformato, e non dichiarato, di ➔ titoli o frasi celebri tratti da altri mezzi: «Materazzi, la classe operaia va in gol» (Rossi 2003: 299). Il fenomeno del riuso è strettamente connesso con un’altra caratteristica dei media, vale a dire la loro spiccata autoreferenzialità: la televisione, per es., dedica un ampio spazio della propria programmazione ad autopromuoversi e a parlare di sé o di media limitrofi (cinema), mediante repliche, trailer, anticipazioni di programmi o dibattiti sugli stessi.
Molti termini comuni o scientifici acquistano, nei media, una nuova accezione politico-giornalistica, con la quale vengono poi reintrodotti nella lingua comune: clima (nel senso di «clima politico e sociale»), congiuntura, linea (di governo), pacchetto (di riforme), parametro, piattaforma (politica, sindacale), terreno (d’intesa), ventaglio (di riforme), vertice.
Giornali, radio e televisione tendono spesso a preferire il termine marcato in senso tecnico-scientifico o burocratico (perché erroneamente ritenuto più preciso o più prestigioso) in luogo del termine comune: attuare o effettuare per fare, conferire per dare, epicentro per centro, identikit per fisionomia o personalità, recarsi per andare, rinvenire per trovare. Di provenienza dal linguaggio burocratico (➔ burocratese) è anche la preferenza per alcune perifrasi verbali (➔ perifrastiche, strutture) piuttosto che per il verbo semplice: apportare modifiche o variazioni per modificare, variare; dare avviso per avvisare; essere di spettanza per spettare; prendere in esame per esaminare; trarre le conclusioni per concludere.
Numerosissimi sono gli stereotipi lessicali, le formule, le cosiddette ➔ collocazioni: brillante operazione di polizia, efferato delitto, sciagura agghiacciante, tempestivo intervento delle forze dell’ordine, tragedia della follia, aperta opposizione, fermo atteggiamento, netto contrasto, pesante bilancio. La lista potrebbe proseguire a lungo,
con i vari allucinante, intrigante, mitico, megagalattico, riportare una contusione: tutte formule preconfezionate e pronte per l’uso (anzi, per l’usa e getta), che configurano una lingua di plastica [...], ripetitiva e costellata di luoghi comuni che perdono pregnanza semantica in proporzione diretta con il loro impiego (Masini 2003: 31).
Molti dei neologismi prodotti o propagati dai media hanno durata effimera (celodurismo, forestare, lottometro, moviolare, piduista, saccopelista, scudare, vu’ cumprà), anche perché spesso legati a situazioni contingenti (per es., craxismo, negli anni Ottanta del XX secolo); altri (molto meno numerosi) entrano più o meno stabilmente nella lingua italiana (europarlamentare, malasanità, mani pulite, pentitismo). Talvolta i media riescono addirittura a sovrapporsi all’uso reale, divulgando termini o perifrasi che occultano completamente le denominazioni precedenti: tassa sulla salute (per Contributo al servizio sanitario nazionale), ticket.
Tra i meccanismi di ➔ formazione delle parole, i più produttivi sono i verbi denominali in -are (posizionare, visionare); i suffissi -izzare, -izzazione (irizzare, irizzazione); i deverbali a suffisso zero (ammortizzo, reimpiego, reintegro, scorporo, stipula, utilizzo); e soprattutto l’uso di prefissoidi (dis-, eco-, euro-, maxi-, super-, trans-: disurbanista, ecodiesel, eurotassa, euroscettico, maxitruffa, supertestimone, transnazionalizzazione) e di qualche suffissoide (-poli, -matic). Come suole accadere nelle fasi di massima diffusione di taluni composti, i parlanti perdono presto la coscienza etimologica del composto, dando vita, su nuova base semantica, a nuove formazioni. È quello che è accaduto, per es., alla serie iniziata da tangentopoli, che in origine indicava, secondo l’etimologia, la «città delle tangenti» (inizialmente, nel 1992, epiteto spregiativo di Milano) e che ha poi generato tutta una serie di composti in cui il valore spregiativo si è spostato dal primo al secondo elemento, come in farmacopoli, togopoli: non «città dei farmaci» o «delle toghe», ma «scandalo (legato alle tangenti) dei farmaci» e «della magistratura»; così ancora: ospedalopoli, parcheggiopoli, terremotopoli, vesuviopoli, ecc. Il fenomeno, com’è noto, ricalca quanto precedentemente accaduto, negli Stati Uniti, con -gate, come secondo elemento, sull’esempio del famigerato scandalo Watergate, tuttora impiegato, anche nei media italiani, in forme come Irangate o sexgate.
Molta fortuna godono presso i media i sintagmi giustappositivi nome + nome, per la tendenza alla sintesi estrema e per l’influenza angloamericana: caro-petrolio, commissione finanze, dirigenti Fiat, discorso bomba, governo fantoccio, legge truffa, problema base, udienza fiume. Abbastanza diffuso, soprattutto qualche anno fa, l’impiego di -pensiero come secondo elemento modificato dal primo (sulla base dei meccanismi di formazione dell’inglese): D’Alema-pensiero.
Frequentissimo è il meccanismo della ➔ sineddoche per designare categorie di persone: le toghe «i giudici», gli ermellini «i giudici della corte costituzionale», i camici bianchi «i medici», i fischietti «gli arbitri di calcio», gli uomini radar «gli addetti al controllo del traffico aereo»; analogo è il procedimento di metonimia per cui il Quirinale indica la Presidenza della Repubblica o il Presidente stesso, palazzo Chigi indica la Presidenza del Consiglio, la Farnesina indica il Ministero degli Esteri, ecc.
Tra le parole e espressioni radiotelevisive (talora provenienti da canzoni) del passato, più o meno stabilizzatesi nella lingua comune, si ricordano, tra l’altro: bellezza in bicicletta; canzonissima; cari amici vicini e lontani; che sarà sarà; compagnucci della parrocchietta; cuore matto; domenica è sempre domenica; è primavera svegliatevi bambine; grazie dei fior; il bello della diretta; il cielo in una stanza; in onda; lascia o raddoppia; la verità ti fa male; live; lo sai che i papaveri son alti alti alti; maggiorata (fisica), supermaggiorata; malafemmina; mamma mia che impressione!; musichiere; nel blu dipinto di blu; nessuno mi può giudicare; nientepopodimenoché; non ho l’età; o sole mio; paperino; parole parole parole; sanremo; sarchiapone; senza fine; senza rete; signore e signori; stasera mi butto; supereroe; superman; superstar; the show must go on; topolino; vengo anch’io, no tu no; uomo ragno; vincere la serata; wonderwoman.
È noto il ruolo di Mike Bongiorno e dei suoi quiz, fin dal 1955 (De Mauro 1993: 437-440), nella divulgazione di errori (personaggio in luogo di persona) ed espressioni presto divenute proverbiali: allegria!, esatto (spesso usato anche come sostituto del semplice sì) e risposta esatta, fiato alle trombe, signor no («notaio di una trasmissione televisiva»).
Tra le formule televisive più recenti ricordiamo: blobbare; bucare il video o lo schermo; consigli per gli acquisti; di tutto di più; gabibbo; karaoke; mi consenta; new entry; standing ovation; top ten; tronista; vado al massimo; una vita spericolata. O la rivitalizzazione e la risemantizzazione di parole ed espressioni ben più antiche: confessionale, grande fratello.
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