lingua letteraria
A rigore, la lingua letteraria è definita e distinta da quella non letteraria soltanto dal fatto di essere scritta (anche se è esistita ed esiste una letteratura solo orale) e dalle finalità estetiche, rappresentative, espressive dei testi in cui è usata. I suoi caratteri specifici sono quindi quelli della lingua in testi scritti, governati e controllati dalla consapevolezza, dalla ripetuta rilettura e correzione dello scrivente, e dal calibrato adeguamento dei mezzi espressivi agli scopi comunicativi. Essa può accogliere qualsiasi tratto della lingua, anche quelli più orali e parlati, quali interiezioni (➔ interiezione), ➔ segnali discorsivi, incongruenze sintattiche, testualità slabbrata, ma lo fa consapevolmente, in maniera mediata e finalizzata alla rappresentazione appunto della lingua parlata, del discorso orale.
Per questo, tutti i tratti di una lingua le sono possibili, anche quelli più esclusivi dell’orale, ma, via via che si allontana da quelli propriamente scritti, i tratti dell’oralità sono da essa più imitati che praticati. Il punto massimo di distanza della lingua letteraria da quella scritta è nei testi destinati ad essere ‘detti’, recitati, rappresentati, come lo sono quelli teatrali. Tra questi, quelli di tipo comico sono in genere più mimetici dell’orale di quelli di tipo tragico. Così, un romanzo o un racconto esibiscono una lingua mediamente meno lontana o meno indisponibile a quella non scritta di quanto faccia una poesia. Ma anche qui con molte differenze interne, perché ci sono romanzi che lo fanno di più e altri che lo fanno di meno. Lo stesso si dica delle poesie.
Per altro, va tenuto presente che testi che simulano molto l’oralità sono, per così dire, non meno ma ancor più ‘scritti’ di quelli che trascurano questo aspetto, perché la loro scrittura è sottoposta allo sforzo di imitare e riprodurre l’oralità, e quindi può risultare meno naturale e spontanea in quanto scrittura. Il caso estremo è quello di testi in dialetto (➔ dialetto, usi letterari del), che, invece di presentarsi come più diretti e parlati, sono ricevuti da tutti come ancor più mediati e scritti di quelli in lingua. Insomma, la lingua letteraria va anche oltre, in un certo senso, lo spazio della scrittura, ma sempre in modo scritto, attrezzando la lingua scritta a farsi deposito e rappresentazione di quella parlata. Per questo aspetto, si distingue da altre lingue prevalentemente scritte, come quelle delle scienze, che non sconfinano e non vogliono sconfinare nell’oralità, pena negare le loro proprietà costitutive di precisione e chiarezza (➔ scienza, lingua della).
La lingua letteraria italiana è quella data da tutti i prodotti letterari, in prosa e in versi, letti o recitati, che costituiscono quella letteratura che fin dalle origini prende il nome di italiana. Essa è centrale non solo per la storia della letteratura, ma anche per quella della lingua. In effetti, le lingue allo stato originario, anche l’italiana (quando ancora si chiamava volgare), debbono alla letteratura la prima tendenza alla normalizzazione e la prima grande forza di diffusione fuori dal centro in cui venivano parlate. Il siciliano dei primi poeti (➔ Scuola poetica siciliana) è stato ricevuto, sia pure con radicali adattamenti, anche in altre regioni; il toscano è diventato noto ovunque si cercasse di scrivere.
Diversamente da altre sedi della scrittura antica (testi pratici, conti, atti notarili, ecc.), la lingua letteraria esprime una tendenza a creare modelli, ad assumere a campione certe soluzioni, a correggere e normare sé stessa. Nei testi di altro genere (tolti, in parte, quelli di tipo religioso e liturgico), la finalità pratica non spinge che debolmente a una autoregolamentazione della lingua, e solo quando sono emanati da istituzioni ufficiali e pubbliche (stati, associazioni, ecc.), fa anch’essa proprie le esigenze e le tensioni normative della lingua letteraria.
In Italia, queste pulsioni normalizzatrici sono state a lungo quasi solo coltivate dalla lingua letteraria, che ha infatti presto e a lungo cercato modelli, una grammatica, un lessico. Le istituzioni pubbliche hanno invece esitato sia ad assumere come lingua ufficiale l’italiano, sia a svolgere un’azione regolatrice della sua norma. Già ➔ Dante, nel De vulgari eloquentia, aveva capito che a lungo, in Italia, la lingua letteraria (il suo volgare illustre) doveva fare quello che avrebbe fatto la lingua ufficiale di istituzioni pubbliche nazionali che non esistevano e non sarebbero esistite per secoli. Di qui la centralità della lingua letteraria nella storia dell’italiano, perlomeno come sede di ricerca ed elaborazione della norma, a lungo, anzi, ritenuta l’unica sede autorizzata a cercarla e a proporla. Grammatiche e vocabolari sono stati, dal Cinquecento all’Ottocento, calibrati soprattutto sulla lingua letteraria (➔ lessicografia; ➔ grammatica), che, nel proporsi come modello agli scrittori, avanzava la propria candidatura anche a guida della lingua comune, perlomeno in tutti i suoi usi scritti.
La storia dell’italiano segue perciò da vicino quella della letteratura e, anche se non coincide con essa, non può prescinderne, specie ove si segua l’evoluzione della ➔ norma linguistica, il processo di selezione e condivisione di una grammatica. In realtà, non c’è una perfetta coincidenza tra lingua della letteratura e lingua tout court. Spesso nel processo di costruzione-autorizzazione della lingua è più avanti quella letteraria, a volte (dal Settecento in poi) quella delle scienze e della saggistica. In certi casi, la lingua letteraria segue una norma che altri domini della scrittura hanno già abbandonato. Del resto, è inevitabile. La lingua letteraria elabora le sue regole in vista dell’esito e del successo letterario. Per essa anche tratti e materiali desueti, arcaici possono andar bene. Non ha esigenze di funzionalità, laddove la lingua comune produce le proprie regole sulla base principalmente della loro funzionalità, e solo la forza delle istituzioni e delle tradizioni consente che questa e quelle possano non essere in perfetto accordo (si pensi all’ortografia di molte lingue moderne, molto lontana dalla pronuncia delle parole e per questo sottoposta a pressioni di riforma).
Dei diversi modi e forme in cui si è presentata la lingua letteraria italiana, quella nei testi in versi ha avuto fin da subito una tensione alla norma, alla selezione, alla stabilizzazione, superiore a quella dei testi in prosa, e più nei testi poetici di tipo lirico che in quelli di tipo epico o narrativo. La lingua del Canzoniere di ➔ Francesco Petrarca è il risultato di una selezione e riordino del volgare toscano letterario precedente, e per questo ha funzionato benissimo da indicatore della norma letteraria per secoli. La cernita del lessico, la riduzione di alcune oscillazioni ovvero la loro calibrata funzionalizzazione ai diversi bisogni della metrica (➔ lingua poetica; ➔ metrica e lingua) hanno fatto sì che un testo di poesie sia diventato il modello per la più autorevole e duratura grammatica dell’italiano, anche al di là della destinazione letteraria.
La lingua della poesia narrativa o didattica o epico-cavalleresca è stata meno selettiva e quindi meno normativa o meno autorevole nella costruzione della norma. La lingua della prosa è stata ancor più tollerante verso la pluralità degli usi e delle forme (per via dell’ambizione realistica della maggior parte delle prose letterarie), con una tale differenza da indurre a lungo i nostri grammatici a distinguere una norma della poesia da una della prosa (➔ storia della lingua). In linea di massima, si può dire che la grammatica della prosa è stata data da quella della poesia più altro, anche se non tutto ciò che è risultato accettabile in versi (come gli ➔ arcaismi) è stato altrettanto accolto in prosa. La differenza più significativa tra la lingua letteraria della prosa e quella della poesia è forse proprio nel tasso di esibita diacronia interna che la lingua della poesia consente (ammettendo forme antiche, morfologie superate, parole desuete), mentre la lingua della prosa ammette piuttosto variazioni diastratiche (➔ variazione diastratica), diafasiche (➔ variazione diafasica) o diatopiche (➔ variazione diatopica), legate a tipologie di narratori e/o personaggi più o meno popolari, a situazioni linguistiche più o meno informali, a un’ambientazione marcatamente regionale. La lingua della prosa accetta dunque volentieri la variazione sincronica, come si vede esemplarmente nel Decameron di ➔ Giovanni Boccaccio; la lingua della poesia preferisce la variazione diacronica, accogliendo o addirittura fingendo arcaismi. Un’altra differenza tra lingua della prosa e lingua della poesia è nella larghezza del ➔ lessico, molto meno selezionato in prosa per forma (anche lunghezza) e per significato delle parole, per suo livello d’uso e provenienza. La lingua del teatro (➔ teatro e lingua) varia invece a seconda che si tratti di commedie (in cui segue il modello della prosa narrativa; Testa 1991) o che si tratti di tragedie o libretti d’opera (si veda, per es., Serianni 2002: 113-161; ➔ melodramma, lingua del).
All’inizio, la lingua letteraria in Italia è impegnata a eleggere un volgare tra i tanti disponibili per la destinazione letteraria (➔ Duecento e Trecento, lingua del). Ai primi del Trecento, Dante, nel De vulgari eloquentia, sembra ritenere la situazione del tutto aperta, ricostruendo lo stato linguistico dell’Italia letteraria duecentesca, in cui parecchi sono i volgari a tentare la strada soprattutto della poesia. Oltre al toscano, il siciliano e il bolognese, il ligure e il veneto, per citare solo i casi più importanti, si affacciano ai versi.
Ma molto presto la prevalenza del filone amoroso e dei suoi autori attribuisce una maggiore autorevolezza ai volgari di Toscana, eredi e assimilatori principali di quelli siciliani e meridionali in cui si erano espressi i poeti più antichi. In breve, il toscano diventa la lingua volgare «magis apta ad litteris», come dice il padovano Antonio da Tempo già ai primi del Trecento. La differenza tra i volgari è ancor più netta in prosa, con una grande e precoce superiorità del toscano, in cui si scrive di tutto (narrativa, ma anche prosa scientifica, storiografica, memorialistica), anche se si scrivono prose (specie volgarizzamenti dal latino; ➔ volgarizzamenti, lingua dei) anche in vari altri volgari, dal mantovano al siciliano al romanesco al veneto. La prosa scritta ha problemi diversi dalla poesia: questa ne ha soprattutto di lessico e fonomorfologia; la prosa di sintassi. Il governo della sintassi volgare è difficile (a lungo, per es., la ➔ paraipotassi denuncia incertezza tra coordinazione e subordinazione) e i testi in prosa toscana sono i primi a raggiungerne uno di buon livello, per ragioni che non sono solo letterarie, ma più genericamente culturali e sociali. Questo insieme di cose, unito alla straordinaria levatura di scrittori come Dante, Petrarca e Boccaccio (i quali riabilitano il latino anche come modello sintattico delle prose volgari), spiega il successo del toscano nella corsa al ruolo di lingua modello per la letteratura tra i volgari italiani. Già nel secondo Trecento, anche se non scontata, questa prevalenza è chiara e presto viene accettata anche dagli scrittori di altri volgari, a partire dai veneti, in testa nel percorso verso l’elevazione del toscano-fiorentino a lingua della letteratura italiana.
Gli altri volgari non cessano di tentare strade autonome di affermazione letteraria, ma con esiti assai meno fortunati. Piuttosto, lasciano a lungo le loro diverse impronte in una lingua letteraria (in poesia e in prosa) aperta a tratti locali, nella forma delle cosiddette lingue di koinè (➔ koinè).
La costruzione di una norma per la lingua letteraria non è solo volta alla scelta di un volgare, ma, dentro questo volgare, a un lavoro di pulitura, selezione, riordino. I volgari delle origini (➔ origini, lingua delle) erano molto aperti e mobili, appunto perché non normati. Per di più le mode letterarie avevano ulteriormente variegato la grammatica e soprattutto il lessico delle poesie scritte dai poeti più colti e informati sulla nuova lirica europea volgare, in provenzale e in francese. Di qui costrutti e soprattutto calchi lessicali gallicizzanti (➔ francesismi). A questo si aggiunga la grande propensione alle neoformazioni (➔ neologismi) da parte di certi poeti, che costruivano su due piedi la parola loro necessaria, sfruttando senza ritegno le procedure consentite (in Jacopone da Todi o in Chiaro Davanzati si trovano in massa nomi astratti da trans-categorizzazione verbo-nome e da derivazione per suffisso, specie -anza, -ura, -ore, -mento, -ezza, ecc.; cfr. Corti 2005). L’insieme era una vegetazione troppo esuberante e incontrollata, specie per le ragioni del verso, e prima Dante e poi Petrarca potano e sistemano il patrimonio ereditato e lo avviano, selezionato e con una prima sistematizzazione, alla autorità di norma. Nell’opera dei due poeti, per la storia dell’italiano letterario, quello che hanno tralasciato del volgare precedente non è meno importante di quello che hanno salvato e quindi proposto alla storia futura.
La prosa è meno selettiva e meno rigorosa, come si è detto. Il Decameron non fa eccezione, ma attesta livelli di toscano in precedenza non noti o non accolti in versi perché popolari o idiomatici. In compenso fornisce un modello sintattico di grande ambizione, autorizzando una costruzione del periodo non nativa di un volgare romanzo come il toscano e fortemente tributaria di modelli letterari latini: ampia subordinazione; anticipo delle dipendenti rispetto alla principale; ritardo del verbo; secondarie a incastro; inversione dei moduli di ausiliare o modale e verbo, specie in clausola per ragioni di ritmo. Tutto questo conferisce al volgare della prosa boccacciana una complessità sintattica prima ignota ma destinato a rappresentare a lungo il modello della prosa d’arte italiana.
Sulla base dei due protocolli, quello della poesia e quello della prosa, si svolgono secoli di lingua letteraria, con innovazioni e artificiose regressioni (Coletti 2000). Basti qui dire che lo sguardo all’indietro della poesia resta forte e in certi momenti e tipologie testuali diventa vistosissimo (nel neoclassicismo, per esempio) e che le novità nel frattempo circolanti nella lingua non letteraria (lessici tecnico-scientifici) faticano ad essere ricevute dalla norma proprio per la loro sostanziale estraneità alla lingua della letteratura, che a lungo ha continuato a essere il modello linguistico di riferimento. Certo, la lingua poetica allarga il lessico, sfrutta nuovi stampi culturali (per es., quello del greco con i suoi aggettivi composti), seleziona più largamente i materiali poetabili, con orecchio diverso per la struttura fonica delle parole (sdrucciole, tronche), ma, sostanzialmente, resta fino all’Ottocento fedele all’antica grammatica (Serianni 2009) e, anche nel XIX secolo, le potenti novità sono accolte all’interno delle vecchie regole (basti pensare a ➔ Giacomo Leopardi, ad ➔ Alessandro Manzoni poeta, a ➔ Giosuè Carducci).
Diversa è la storia della lingua della prosa letteraria, più ricettiva delle novità lessicali e sintattiche favorite dal contatto col francese dal Sei-Settecento e dallo sviluppo di prose saggistiche e scientifiche. Patota (1987) ha documentato la progressiva riduzione di morfemi colti (per es., l’imperfetto con -v- non è più minoritario rispetto a quello con dileguo della consonante) e il lento ma costante venir meno di secolari inversioni dell’ordine ausiliare o servile e verbo, pur nella persistenza di soluzioni tradizionali (come il gusto dell’enclisi pronominale).
Le maggiori novità sono introdotte in prosa dal momento in cui si afferma anche in Italia un genere con forte propensione realistica come il romanzo. Strutture già accennate dalla novellistica e dalla commedia (Testa 1991) si irrobustiscono nella scrittura letteraria, e sono accolte via via con più facilità e larghezza in direzione di quello che è stato chiamato «lo stile semplice» e che ha nei Promessi sposi di Manzoni il suo testo inaugurale e a lungo più autorevole.
Testa (1997) ha stabilito il regesto dei tratti che corrispondono a questa rivoluzione grammaticale della lingua della prosa. Sono tratti che, come ha mostrato D’Achille (1990), pertengono tutti alle necessità di messa in rilievo proprie del parlato. Poiché ora la prosa è determinata a riprodurre il più fedelmente possibile la dimensione parlata della lingua (perlomeno, all’inizio, nei dialoghi; più tardi nella lingua stessa dei narratori), questi fenomeni (➔ che polivalente, dislocazione del tema a destra o a sinistra con richiamo pronominale, frase scissa, concordanza a senso, ecc.; ➔ dislocazioni; ➔ scisse, frasi), da tempo (a volte da sempre) presenti nella sintassi dell’italiano come delle altre lingue e dialetti romanzi, emergono con decisione ed evidenza e segnano una svolta nella grammatica della letteratura. Questa può essere presto ben assecondata da quella della lingua comune, ormai divenuta lingua ufficiale dello stato unitario (dal 1861) e sul punto di essere quella d’uso dell’intera comunità nazionale. Si situano infatti nella prosa narrativa, dai Promessi sposi in giù, le maggiori innovazioni poi accolte dalla grammatica dell’italiano, come la definitiva potatura delle forme arcaiche dei pronomi personali di terza persona (ei, eglino, elleno), la sostituzione di ella soggetto con lei, l’abilitazione di lui come soggetto accanto a egli (fenomeno del toscano parlato già da secoli, ma mai ricevuto dalla norma; ➔ soggetto), gli per «a loro», la cancellazione del pronome soggetto anaforico, l’uscita in -o invece che in -a della prima persona sing. dell’imperfetto indicativo, la riduzione dei dittonghi dopo palatale (spagnolo), l’eliminazione di molti doppioni (pugna → pugni, dimanda → domanda, veggo → vedo, sieno → siano, gittare → gettare, ecc.).
Con i Promessi sposi si registra l’intervento normativo più autorevole di un’opera letteraria dopo quella delle Tre Corone trecentesche, ma anche l’ultimo. Dopo, in sostanza dal momento in cui, con lo stato nazionale, la lingua comincia a cercare ed elaborare altrove i suoi modelli e ad avere altre esigenze che quelle letterarie, tutto cambia. La lingua letteraria funziona sempre meno o non funziona più da modello, si avvicina a quella comune perfino in poesia, e in prosa cerca di imitare quella della realtà, spesso parlata e dialettale, più che guidarla e farle da modello.
Da quando la grammatica si fissa altrove che in letteratura – nella scuola (➔ scuola e lingua), nella pubblica amministrazione (➔ burocratese), nei mezzi di comunicazione moderni – la lingua letteraria si mette all’inseguimento di quella comune, spesso anche cercando di superare o rendere ininfluente il costitutivo limite della scrittura per catturare il parlato e gli italiani vivi e diversi della nazione. Dopo essere stata il punto di riferimento per secoli della grammatica dell’italiano, la lingua letteraria corre volentieri il rischio dell’agrammaticalità o della pre-grammaticalità, raccogliendo i livelli più popolari dell’italiano e accogliendo persino i dialetti o i ➔ dialettismi, ospitando in certi romanzi costrutti (per es., le ridondanze pronominali, i periodi ipotetici con il doppio imperfetto indicativo) che la norma comune stenta ancora oggi ad ammettere.
Se poi si aggiunge che, specie nelle prove dell’avanguardia o in quelle più libere della poesia (dai futuristi agli espressionisti a Sanguineti a Zanzotto), la lingua letteraria va oltre la grammatica corrente (dalla punteggiatura al lessico), si potrà misurare fino in fondo il distacco della lingua letteraria dalla norma. Anzi, oggi, nel comune sentire, la lingua letteraria è la più autorizzata a evadere la grammatica standard. Del resto, lo ha fatto anche in testi tutt’altro che sperimentali, come le poesie degli ermetici, dove ci sono usi del plurale o costrutti con la preposizione a (Mengaldo 1991: 131-158) del tutto fuori norma.
La lingua letteraria è stata in Italia (assai più a lungo che altrove) guida della lingua in generale. Quando i francesi dell’Académie costruivano il loro celebre dizionario, per il lemmario facevano riferimento alla loro personale competenza di utenti colti di una lingua di un grande stato unitario. I lessicografi dell’Accademia della Crusca (➔ accademie nella storia della lingua) loro contemporanei, pur possedendo sostanzialmente, da toscani, come vivo l’italiano scritto, ricorrevano ai testi letterari di quasi tre secoli avanti. Perché la stessa cosa accadesse in Italia doveva succedere, come aveva già intravisto all’inizio Dante, che anche il nostro paese diventasse uno stato e l’italiano ne fosse la lingua per tutti gli usi e situazioni comunicative, soppiantando in autorevolez-za normativa, con le sue istituzioni e con sedi linguistiche più rappresentative e popolari come i giornali (➔ giornali, lingua dei) e poi la radio (➔ radio e lingua) e la televisione (➔ televisione e lingua), la lingua letteraria, da allora passata a inseguire quella comune e diventata libera di alterarne la grammatica quanto prima era stata impegnata a impersonarla e farla rispettare.
Coletti, Vittorio (2000), Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi.
Corti, Maria (2005), La lingua poetica avanti lo stilnovo. Studi sul lessico e sulla sintassi, a cura di G. Breschi & A. Stella, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini (1a ed. Firenze, Olschki, 1953).
D’Achille, Paolo (1990), Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana. Analisi di testi dalle origini al secolo XVIII, Roma, Bonacci.
Mengaldo, Pier Vincenzo (1991), La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino, Einaudi.
Patota, Giuseppe (1987), L’“Ortis” e la prosa del secondo Settecento, Firenze, Accademia della Crusca.
Serianni, Luca (2002), Viaggiatori, musicisti, poeti. Saggi di storia della lingua italiana, Milano, Garzanti.
Serianni, Luca (2009), La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Roma, Carocci.
Testa, Enrico (1991), Simulazione di parlato. Fenomeni dell’oralità nelle novelle del Quattro-Cinquecento, Firenze, Accademia della Crusca.
Testa, Enrico (1997), Lo stile semplice. Discorso e romanzo, Torino, Einaudi.