lingua poetica
Nei protocolli della linguistica moderna per linguaggio poetico si intende un particolare uso della lingua finalizzato a ottenere la comunicazione attraverso l’evidenza e la valorizzazione degli strumenti significanti, della forma (fonetica, sintattica, ecc.) delle parole e del discorso. Roman Jakobson ha scritto che «la messa a punto della comunicazione rispetto al messaggio in quanto tale, cioè l’accento posto sul messaggio per sé stesso, costituisce la funzione poetica del linguaggio» (Jakobson 2002: 189). La lingua poetica non coincide dunque con quella della poesia, anche se ne è parte essenziale. D’altro canto, la lingua della poesia non è esaurita solo dalla funzione poetica del linguaggio, essendo in essa attive anche altre funzioni (referenziale, emotiva su tutte). Anche usi linguistici completamente diversi sfruttano infatti la funzione poetica del linguaggio, dai ➔ giochi di parole (chi ama chiama chi ama), agli ➔ slogan della pubblicità (Ava come lava, Vivere alla Grundig), alle battute della politica (Io c’entro, slogan di un partito di centro; ➔ politica, linguaggio della).
Il linguaggio nel suo assetto poetico ha sue regole di funzionamento. Jakobson aveva notato che quando si formula una frase si scelgono le parole che servono tra varie simili (per es., parlando dell’automobile posso adoperare automobile, auto, macchina e, se si deve dire che non si mette in moto, si può usare non funziona, non parte, non va, non si accende, ecc.) e poi si combinano. Vale a dire, l’espressione verbale nasce da una selezione e da una combinazione. Il principio che governa la selezione è la somiglianza, non solo concettuale ma anche formale tra le parole (pera, non sera o cera, ecc.), mentre quello che governa la combinazione è la contiguità logica (dopo pera non può venire tardi, che invece può seguire sera). Orbene, «la funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione» (Jakobson 2002: 189). Come dire che, «nella concreta esecuzione del linguaggio ‘poetico’ l’equivalenza, la similarità degli (tra gli) elementi (parole, sintagmi ecc.) prevalgono sulla loro contiguità e cioè sulle regole stesse della successione» (Coletti 1978: 31). Ancora Jakobson: «in poesia l’equazione serve a costruire la successione» (Jakobson 2002: 192).
La funzione poetica del linguaggio non è dunque solo un segno linguistico orientato su sé stesso (può esserlo anche quella metalinguistica, in cui la lingua parla di sé stessa), ma anche un segno che evidenzia la sua specificità prospettando rapporti non soltanto logici ma anche ‘estetici’ tra parole. Questa definizione di lingua poetica rende ragione di molti e importanti aspetti del modo con cui è stata più spesso adoperata in poesia, dove non a caso sono essenziali i tratti della somiglianza, a partire dalla idea e misura di verso (➔ versificazione) per arrivare alla ➔ rima e ai più diversi parallelismi fonici, semantici, ecc.
Questa definizione va però integrata, dopo il Novecento più che mai. I processi per cui la lingua mette (esteticamente) in mostra sé stessa, come avevano già visto gli autori delle magistrali Tesi del Circolo di Praga nel 1929, disautomatizzano e rendono autonome e visibili forme che nel linguaggio della comunicazione sono automatiche, trasparenti, subordinate al concetto e quindi inavvertite. Di qui, accanto all’impiego della somiglianza formale come principio generatore della contiguità, quello della deviazione rispetto allo standard, della deformazione, della violazione della norma, di manovre per rendere evidente, palpabile la forma.
Lo slogan pubblicitario, che recita: Piaggio non correte vespizzatevi, rompe la grammatica dell’italiano per farsi notare. Se un barista fantasioso, approfittando del proprio cognome, chiama il suo locale Bar ABBA, rompe il nesso standard tra bar e nome del proprietario, evocando un terzo nome celebre (quello di un gruppo musicale svedese), per di più con un valore aggiunto ormai comune e del tutto fuori luogo, ma proprio per questo rimarchevole, accattivante.
Deviazione dalla norma, prevalenza o comunque grande importanza dei requisiti di somiglianza tra parole nella successione delle stesse sono tratti caratteristici della lingua poetica, che la ➔ lingua letteraria adopera ed esalta particolarmente. Soprattutto quella della poesia o di generi affini. Ma non solo; anche la prosa lo fa, specie quando ha segni espressionisti o comici o parodici.
Si capisce comunque che le proprietà della lingua poetica sono più evidenti e operanti nella poesia e nel teatro in versi, e più nella poesia lirica che in quella epico-narrativa, e più nel teatro tragico che in quello comico. È questione di tradizioni, di gerarchie letterarie storicamente invalse.
Questa differenza di ‘poeticità’ linguistica (tendenziale, si capisce) a seconda dei generi letterari rinvia a un altro principio che, con molta frequenza, interviene nell’uso poetico del linguaggio: quello della sua codificazione. Vale a dire che in varia misura le procedure caratteristiche di quest’uso sono state codificate e si trasmettono nel tempo, e quando variano lo fanno sempre in rapporto alla codificazione precedente. Jurij Tynjanov, uno dei più autorevoli tra i formalisti russi, mostrò come i testi a dominante poetica siano, come gli altri, soggetti alla normalizzazione delle procedure espositive del segno e quindi alla loro automatizzazione, col risultato che la dinamica storica consiste perlopiù nella codificazione e poi nella disautomatizzazione di dispositivi codificati, che in precedenza ne avevano a loro volta disautomatizzato degli altri (Tynjanov 1968). La storia delle forme poetiche è anche una vicenda di tradizioni che si consolidano e di gesti che le rompono e ne fondano di nuove. Una delle procedure più frequentemente adoperate per spezzare gli automatismi pregressi consiste nella ridefinizione dei rapporti interni al sistema linguistico, mobilitandone aspetti prima trascurati o modificando le gerarchie tra i diversi livelli del linguaggio. Per es., l’abbandono della rima oppure il suo trasferimento anche all’interno del verso sono riposizionamenti del fattore ritmico dentro il complesso del discorso poetico.
La lingua poetica in poesia tende dunque a codificarsi continuamente e continuamente a superarsi per mantenere vitale il costitutivo processo di evidenza del segno che ogni automatismo tende a occultare.
In Italia la codificazione del linguaggio poetico è stata assai forte, anche se, specie all’inizio, la libertà di manomissione della norma non è stata inferiore.
I primi poeti, siciliani e toscani, hanno usato in quantità provenzalismi e ➔ francesismi, adattandoli alla loro grammatica, di cui forzavano i limiti spingendo al massimo le possibilità di neologismo del lessico. La loro libertà si è trasformata in regola per i poeti successivi, ancorché ridotta e potata delle punte estreme e più esibite. Ma prestiti d’oltralpe come sembianza o rimembranza sono diventati norma nella lingua della poesia perdendo presto il ruolo di deviazioni dalla norma e acquisendo quello di indicatori di codice. Lo stesso si potrebbe dire per il condizionale in -ia di tipo siciliano. Dal suo impiego normale nei poeti della ➔ Scuola poetica siciliana è passato alla poesia di altre grammatiche in cui non era norma (o lo era solo marginalmente) e c’è rimasto per secoli. In Italia è persino rimasta una possibilità di far rimare u con o (noi : lui) come eredità dell’impianto di rime a vocalismo siciliano; e sicilianismi (nui) si trovano ancora in ➔ Alessandro Manzoni poeta. Lo stesso si può dire (anche se qui ha contato pure la somiglianza col latino) per la grande prevalenza di monottonghi in parole chiave (core, foco, loco, fero, tepido), per cui è stato scritto «che in poesia» si muore e ci si muove «di preferenza senza dittongo» (Patota 1990: 105).
Ma c’è di più. La particolare storia dell’italiano, che, fuori di Toscana, è stato per secoli lingua prevalentemente letteraria, ha favorito la lingua poetica, assai più di quella della prosa fedele a codici linguistici, ancorché non più giustificati dallo stato corrente della lingua in altri domini. Infatti, nel suo stadio antico l’italiano (meglio dovremmo dire il volgare toscano; ➔ italiano antico) presentava una serie di instabilità, di pluralità di forme, di varietà tipiche delle lingue non normate, spesso legate alla convivenza di tratti di diversa provenienza (per es., dai diversi volgari di Toscana), e di tratti non sincronici, perché gli uni più recenti e gli altri più antichi (per es., le uscite in -e delle prime persone singolari dell’indicativo e del congiuntivo presente dei verbi di prima coniugazione sono più antiche di quelle, poi prevalse, in -i), gli uni della città e gli altri del contado, o di diversi livelli sociolinguistici (per es., l’opzione tra arò e avrò, arei e avrei).
Orbene, questa polimorfia è stata codificata dalla lingua poetica italiana, che, con un movimento antitetico a quello tipico delle norme standard, ha mantenuto aperte tutte (o quasi) le possibilità presentatesi, sfruttandole magari come arcaismo quando ritenute meno comuni o correnti. Serianni (2009) ha fatto un regesto di queste opzioni aperte nella lingua, notando come, via via, la maggior parte di esse sia rimasta tale appunto solo in poesia. Intanto, perché la poesia ha bisogno di più varietà da usare per le rime. Se persiste, accanto all’adattamento dal provenzale desire, il metaplasmo desiro, è per la sua utilità in rima, come martiro rispetto a martire. Allo stesso modo, la compresenza della forma apocopata degli astratti provenienti dal suffisso latino -taten con quella con conservazione del suffisso, eventualmente nella variante popolare tosco-fiorentina con sonorizzazione in -tade (per cui bontà / bontate / bontade), si spiega con le esigenze non della lingua (che ha optato per tempo per la tronca), ma della poesia e della rima, cui tornano a lungo utili anche le altre forme. Oltre alla rima funziona anche il verso in casi come questi, quando può essere utile disporre di una sillaba in più o di una in meno, come mostra l’alternanza tra forme intere e forme sincopate, propria della lingua antica, molto sfruttata in poesia (carco / carico, merto / merito), o la possibilità di usare forme intere o forme apocopate (solo alcune previste anche dallo standard), presenti molto più massicciamente in versi (fiore / fior, piede / piè).
Ma anche casi non spiegabili col verso, come la variante sorda invece della sonora in lito o secreto o viceversa in nudrire o ovra, trovano una ragione della loro sopravvivenza nel gradimento dell’infrazione alla regola del tipo più rappresentato, e contribuiscono a quel gusto dell’antico che resta per secoli nella nostra poesia.
L’arcaismo è una delle forme più ricorrenti dello scarto dalla norma usate dalla poesia; resistono fino all’Ottocento (perfino nei popolarissimi libretti d’opera; ➔ melodramma, lingua del) forme antiche come deggio e veggio, periglio e veglio (➔ arcaismi). Anzi, dal secondo Settecento e fino al primo Ottocento, si modellano forme fuori standard presentate come arcaismi (il cosiddetto imperativo tragico, con proclisi del pronome: t’arresta!; ➔ imperativo) o, già dal Cinquecento, l’anteposizione del possessivo nelle allocuzioni (mio padre! per padre mio!).
Se molte forme cadono con la prima codificazione cinquecentesca (per es., i futuri in -aggio, del genere seguiraggio «seguirò»), altre, pur selezionate e ridotte di numero, rimangono a disposizione della lingua poetica (per es., le epitesi vocaliche negli ossitoni, tipo fue, sentio, poteo) fino all’Ottocento. Insomma, la lingua della poesia si è rivelata un codice a forte tasso di conservazione e accumulo di opportunità, anche quando scartate o selezionate dalla lingua. Di qui la distanza, fortissima in Italia, tra lingua della poesia e lingua della prosa e tra lingua della letteratura e lingua comune (Coletti 2000). Le traduzioni di testi poetici francesi (per es., dei libretti d’opera) sono eloquenti al riguardo.
Tra i tratti specifici del codice poetico c’è anche la predilezione per una giacitura sintattica comandata dal ritmo più che dal senso, anteposizione di subordinate, rovesciamento di sequenze standard tipo determinato-determinante o ausiliare o modale e verbo. Basti rileggere questi famosi versi del leopardiano “Ultimo canto di Saffo” (con un arcaismo, fenno, già definito non toscano da ➔ Pietro Bembo nel Cinquecento):
Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno
o ricordare dall’Ernani di Giuseppe Verdi (libretto di Francesco Maria Piave) l’«aragonese vergine» o «l’odio inulto che m’arde nel core / tutto spegnere alfine potrò».
Anzi, a un certo punto, è stato accentuato ad arte (nella poesia neoclassica e in quella seria del primo Ottocento) l’aspetto arcaizzante ed extranorma della lingua poetica, con operazioni di maquillage linguistico (come il recupero dell’uscita in -e delle persone singolari al presente congiuntivo dei verbi di prima coniugazione o dei passati remoti con epitesi vocalica, tipo poteo, uscio), come quelle che si leggono nelle poesie di Parini o di ➔ Vincenzo Monti o dello stesso Manzoni e ancora nei libretti di Verdi (Serianni 2002: 113-161).
Naturalmente, entro questa continuità ci sono momenti di evoluzione e cambiamento, specie in rapporto ai diversi generi. Restando alla sola lirica, i cambiamenti più notevoli, dopo l’italiano di ➔ Francesco Petrarca fissato dalla grammatica cinquecentesca nel petrarchismo nazionale, si hanno con la poesia per musica e le canzonette barocche del Chiabrera, del Redi, ecc., quando si prediligono, per es., parole sdrucciole o tronche, decisamente sopra la media della lingua della prosa o del toscano parlato o si coniano composti sul modello del greco (auricrinito) o, più tardi, su quello dell’inglese dei poemi di Ossian tradotti da ➔ Melchiorre Cesarotti (ondicerchiata). Contemporaneamente, l’ampliarsi, più deciso nel Settecento (➔ Settecento, lingua del), delle tematiche, con agganci anche all’attualità, produce una progressiva intensificazione dell’estraniazione dell’italiano poetico dalla norma, in modo da consentirgli di assorbire la modernità senza traumi. Il principio della convivenza tra antico e nuovo è dominante nella poesia sino a fine Ottocento (➔ Ottocento, lingua dell’). Uno dei modi più consueti è quello di nobilitare l’onomastica moderna o con perifrasi dotte (Giuseppe Parini: ultimo caffro per africani; Monti: onde Braulie per Adda) o con adattamenti che la italianizzano a oltranza (Monti: Klebero e Macco per Kléber e Mack).
La fine dell’età del codice si ha all’inizio del XX secolo, quando, la lingua della poesia abbandona il suo linguaggio secolare, dopo che questo (con ➔ Giosuè Carducci, ➔ Giovanni Pascoli e ➔ Gabriele D’Annunzio) aveva fatto le sue ultime, molto intellettualistiche, discontinue apparizioni. Il cambiamento è evidenziato con forza, realizzato in ironici accostamenti di parole dotte e lessico quotidiano, con una struttura sintattica di tipo standard e prosastico («Piove. È mercoledì.
Sono a Cesena», scrive Marino Moretti). Insomma, la rinuncia ai «nomi poco usati» (➔ Eugenio Montale) è esibita come nuovo tratto specifico della lingua poetica, che sottolinea la propria prosaicità in rapporto alla appena conclusa, secolare tradizione. Ma non passa molto che la lingua della poesia cerca di scartare nuovamente dalla norma appena fissata. Ci sono poeti (come Giovanni Boine, studiato da Contini 1970: 247-258) che inventano composti bimembri mostruosi («angosce rapide vaste»); altri, recentissimi, che rilanciano morfologie e giaciture sintattiche in abbandono (come il tipo verbo + soggetto in Mario Luzi: «Si sgretola la malcresciuta torre», «Al giogo della metafora / così ci sovvengono / esse»), lavorano nei sottopassi della lingua (le parentetiche, le incidentali in Giorgio Caproni, con certi componimenti tutti tra parentesi), moltiplicano neoformazioni lessicali spesso complesse:
Extraeccito esoftalmiche endoioniche,
nonne nasute, nomadi nixonici,
radariste radiotelegrafoniche
(Edoardo Sanguineti)
sfruttando a fondo anche la propensione compositiva e addirittura polirematica dell’italiano moderno (Andrea Zanzotto: «smaccata punizione / risuzione», «accorte / insorte»).
Il lessico della poesia è un tratto che merita un approfondimento. All’inizio si sviluppò vorticosamente, sia accogliendo o coniando parole nuove e diverse (ci sono poeti duecenteschi straordinari per invenzione lessicale, come Guittone, Davanzati, Jacopone; cfr. Corti 2005), sia ammettendo varianti fonomorfologiche della stessa forma. Poi venne via via selezionato, anche in ragione della dominante tematica amorosa, e si concentrò su un segmento più ridotto, anche se eletto e dotato di non poche varianti di una stessa parola. Dal Sei-Settecento e più decisamente dall’Ottocento prese a riallargarsi, aprendosi anche a domini tematici del tutto nuovi e perfino moderni, ma progressivamente ridusse il numero delle varianti, fino ad azzerarle nel Novecento.
Il lessico poetico del Novecento, ormai privo di barriere selettive, accetta ogni tipo di parola. Ma ben presto riacquista specificità, accogliendo lessici speciali (quello botanico o zoologico in Montale, su cui cfr. Coletti 1998), parole rare (Luzi: escrucia, muliebrità, illecebra), o addirittura, come si diceva, inventandosene di nuove (Giorgio Caproni: asparizioni, disperanza; Zanzotto: grigità, februarietà, ingalluzzo, entificazioni).
Mentre la sintassi perde le antiche ambizioni di scarto (non ci sono più inversioni delle sequenze fisse di ausiliare o modale e verbo, e quelle che ci sono son quelle tipiche del parlato, come la dislocazione in Luzi: «il cammino non lo comprendono. / È solo un intimato prolungamento»), il lessico mantiene una inclinazione alla deviazione, ora dalle zone più frequentate della lingua, ora addirittura dalla norma.
La lingua della poesia ha una sede di codificazione ancora più forte della grammatica. È quella del ritmo e dei suoi vettori, versi, strofe, rime, forme del componimento. Anche qui molte invenzioni e innovazioni si concentrano all’inizio della storia (➔ sonetto; ➔ terza rima; ➔ canzone; ➔ sestina; ➔ ottava rima, frottola, madrigale, ecc.), e poi la selezione successiva ne salva solo alcune. In età barocca la pressione della musica e del canto spinge a elaborare nuovi contenitori metrici (canzonette), spesso esemplati sui modelli classici, di cui le Odi barbare di Giosuè Carducci, nell’Ottocento, avrebbero dato l’ultima grande interpretazione. Temi nuovi o inconsueti in poesia (come l’«acqua cedrata» e i «sorbetti» toccati dal medico Francesco Redi nel XVII secolo) vi entrano in forme antiche o anticheggianti o comunque dentro una forte architettura ritmico-metrica.
Dal Novecento invece non sono quasi più riconoscibili strutture metriche predefinite. Il nuovo dei temi va di pari passo con quello delle forme. Ogni componimento sembra generare le proprie, la stessa suddivisione in strofe è messa in discussione (o frammentandole o dilatandole), i versi si spezzano a gradino, nuovi accorgimenti tipografici segnalano anche all’occhio la giacitura della poesia nella pagina. Cambia la specificità scritta oltre che letta della poesia, con nuove libertà ma anche più fragili codificazioni.
Tra i tratti tipografici e ortografici merita di essere segnalata la punteggiatura che, molto standardizzata in passato, si fa in tempi recenti sempre più libera e fuori norma. Edoardo Sanguineti, che ne presenta un uso ipertrofico, termina i suoi componimenti con i due punti; Enrico Testa senza alcun segno di punteggiatura.
Tra i vettori del ritmo, il più resistente è stata la rima, stabile e fissata nei luoghi previsti fino a tutto l’Ottocento. Per la verità, anche qui, le grandi invenzioni del Duecento e di Dante (le rime identiche delle sestine, le rime al mezzo, nel trisillabo interno all’endecasillabo) sono ridotte e normalizzate in seguito, e, ancora una volta, solo il Seicento (Chiabrera in particolare) innova, lanciando la moda delle rime date solo dalla comune cadenza sdrucciola (versi anarimi, poi fortunatissimi specie nei testi per musica) e impone il gusto di quelle tronche, particolarmente in clausola. La rima resta compatta sino a fine Ottocento, sotto il segno della sua regolarità, anche se ➔ Giacomo Leopardi innova molto sulla sua prevedibilità e si moltiplicano dal Settecento i componimenti in versi sciolti (null’altro che un tipo previsto di assenza di rima). Tutto rimane sostanzialmente inalterato fino al primo Novecento, quando la rima perde regolarità, prevedibilità, fissità di posizione. Ma resta, sia pure molto più sporadicamente, con una certa predilezione per i versi finali di un componimento (così, per es., in Montale).
Le caratteristiche funzioni poetiche sono oggi forse più attive in linguaggi settoriali come quello della pubblicità o dell’intrattenimento comico. Ma la poesia non smette mai di cercare nuovi percorsi per mantenere viva l’attenzione al segno che è costitutiva della sua lingua, anche se rifiuta di codificarli, di farne tradizioni e regole durature.
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Contini, Gianfranco (1970), Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi.
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