lingua scritta
* La voce enciclopedica Lingua scritta è stata ripubblicata da Treccani Libri con il titolo Italiano, parlare, scrivere, arricchita e aggiornata da un contributo di Giuseppe Antonelli.
La scrittura è un codice secondario rispetto alla lingua parlata. Grazie alla paleontologia possiamo ipotizzare che l’acquisizione del linguaggio da parte dell’Homo sapiens sia di molto anteriore alle prime testimonianze scritte; ma in proposito basterebbe dare un’occhiata alla geografia delle lingue.
Delle migliaia di idiomi oggi esistenti nel mondo, la grande maggioranza non ha una tradizione scritta. È vero che il dato cambierebbe radicalmente guardando non all’inventario delle lingue, di per sé oltretutto incerto e oggetto di calcoli contrastanti, ma al più facilmente accertabile numero di parlanti. Emergerebbe allora che tutte le lingue parlate da gruppi consistenti di locutori (e non solo da poche centinaia o migliaia, come avviene per tanti idiomi dell’Oceania e dell’Africa minacciati dall’estinzione) sono anche scritte e spesso vantano una tradizione letteraria di antica data. Resta comunque il fatto che, fino alle soglie dell’età contemporanea, la condizione più frequente delle masse popolari, anche in Europa, ossia all’interno di lingue ampiamente usate scrivendo, era quella dell’analfabetismo (De Mauro 1970: 169, nota 6).
Nell’immaginario italiano, come avviene nelle altre lingue dette di cultura, il radicamento della scrittura è tale che non ci meraviglia sentire un oratore che, parlando di sé in terza persona, dica il sottoscritto / la sottoscritta (e non chi vi parla, che sarebbe avvertito come formale e sostenuto); e sono diverse le frasi idiomatiche che documentano la traslazione dalla scrittura al parlato: mettere i puntini sulle i, proclamare a chiare lettere, non capirci un’acca, ecc.
Scritto e parlato presentano due differenze dovute alle diverse modalità di esecuzione (➔ lingua parlata):
(a) Il parlato utilizza solo il canale fonico-acustico, lo scritto prevalentemente quello grafico-visivo. Anche lo scritto può essere letto ad alta voce, come avveniva nell’antichità e nel medioevo (Pagliaro 1970: 15, nota 7), ma abitualmente viene recepito in modo endofasico, ossia attraverso una lettura mentale. Naturalmente esistono varie situazioni intermedie, definite in genere con l’etichetta scritto-parlato (Nencioni 1983): per es., l’attore che recita una parte imparata a memoria, o anche il conferenziere che parla sulla base di un abbozzo scritto, completandolo e adattandolo all’uditorio.
(b) Il parlato è una tipica comunicazione ‘in situazione’, cioè svolta in un dato contesto, e presuppone un emittente che si rivolge a uno o più destinatari, i quali possono interagire nel discorso, come avviene normalmente, oppure si limitano ad ascoltare (conferenza, omelia, lezione cosiddetta frontale). Lo scritto è solo eccezionalmente in situazione: per es. quando, in una riunione, un partecipante, per non interrompere o per non farsi notare, allunga un appunto a un collega. Perlopiù si scrive a un destinatario distante; anche la lettera elettronica o il messaggio sul cellulare sono letti in differita, magari solo pochi secondi dopo l’emissione. Oppure si scrive a uno o più destinatari astratti e ideali: quelli, per esempio, che potrebbero essere interessati, in un futuro più o meno lontano, a un verbale di condominio, a una sentenza penale, a una ricerca di fisica delle particelle, a una poesia o a un romanzo.
Di qui, o soprattutto di qui, scaturiscono altri elementi distintivi:
(c) Lo scritto è rigido e sequenziale e non offre la possibilità della retroazione (o feedback). In un dialogo chi parla ha sempre la possibilità di tener conto delle reazioni dell’interlocutore – interruzioni (come dici?, e allora?), mimica facciale – o anche della sua impassibilità, che verrebbe interpretata come espressione di disinteresse se non di ostilità. Nello scritto non si può intervenire in corso d’opera e, soprattutto rivolgendosi a un destinatario plurimo e indifferenziato, non si possono nemmeno immaginarne le possibili reazioni.
(d) Lo scritto è fruibile liberamente dal destinatario, senza l’obbligo di svolgimento lineare proprio del parlato. In moltissimi casi non si legge per intero un testo, ma solo le parti che interessano (le controindicazioni nel foglietto illustrativo di un medicinale) o quelle che danno un’idea dell’insieme (il titolo e la conclusione di un articolo giornalistico, l’indice di un saggio, ecc.).
(e) Lo scritto è regolato e programmato, mentre il parlato in situazione è sempre in una certa misura ‘sporco’ (rumori esterni alla conversazione, difetti di pronuncia o di esecuzione dei parlanti) e presenta un ineliminabile margine di ambiguità, sollecitando la cooperazione dell’ascoltatore: il parlato non distingue se si alluda a un insetto o alla capitale della Russia (perché non ha maiuscole e minuscole: mosca - Mosca); ai compagni di Biancaneve o a cose giudicate inutili, vane (perché non separa le parole grammaticali, come gli articoli, da quelle semanticamente piene: i nani - inani).
Delle tradizionali partizioni linguistico-grammaticali, la morfologia e la sintassi elementare sono condivise da scritto e parlato (* io avere fame e * le vecchia signore, con violazione della coniugazione verbale e dell’accordo aggettivo-sostantivo sono comunque inaccettabili in italiano, indipendentemente dalla variabile diamesica); la sintassi superiore è caratteristica dello scritto o del parlato molto formale (risulterebbe affettata una subordinata concessiva in una banale frase quotidiana come benché abbia sonno, non voglio andare a dormire, invece della ben più appropriata coordinativa avversativa: ho sonno, ma non voglio andare a dormire); il lessico dello scritto è ricco, variato e presenta una distribuzione diversa di alcune parti del discorso (i nomi, per es., sono proporzionalmente più frequenti di quel che avviene nel parlato; Voghera 2005); infine la grafematica (➔ ortografia) e la paragrafematica, ossia l’insieme dei segni e delle convenzioni grafiche diversi dai grafemi che compaiono nella pagina scritta (interpunzione, segni di accento e apostrofo, distinzione di maiuscole e minuscole, alternanza di tondo e corsivo, ecc.) sono di esclusiva pertinenza dello scritto.
Dall’ultimo decennio del secolo scorso, la telematica ha fatto sentire i suoi effetti anche nel dominio della scrittura. Si parla di «trasmesso scritto» (Prada 2003: 138) in riferimento alla scrittura per la rete, alla posta elettronica (e-mail), ai vari Internet relay chat (IRC), alla messaggeria elettronica (sms, short message system) (➔ Internet, lingua di). Ciò ha comportato non solo un certo ibridismo di tratti tipicamente scritti e tipicamente orali, ma anche l’apertura alla prospettiva ipertestuale, che è stata giudicata non a torto rivoluzionaria: «la creazione di testi discontinui, frazionati, cioè, in un numero variabile e potenzialmente infinito di unità informative connesse tra loro tramite collegamenti istituiti dall’autore e attivabili liberamente, nell’ordine preferito, dal lettore» (Prada 2003: 153 seg.) potrebbe portarci a mutare radicalmente la stessa nozione di testo scritto, come organismo in sé concluso e non modificabile, così come l’abbiamo appena definita.
Dei tratti linguistici esclusivi della scrittura, l’ortografia ha ormai raggiunto un forte grado di stabilizzazione. Oggi grafie latineggianti (➔ grafia) ancora diffuse nel XIX secolo come imagine, abondare, commune sarebbero considerate universalmente erronee. Sono da tempo codificate anche alcune incoerenze tra sistema grafico e sistema fonetico: la grafia ‹zi› + vocale (‹azione›), a cui corrisponde nell’italiano normativo e nella parlata spontanea dalla Toscana in giù la pronuncia rafforzata dell’affricata [tːs]; l’uso superfluo della ‹i›, in casi come ‹scienza› /ˈʃεntsa/, per omaggio al latino, o ‹cielo› /ˈʧεlo/, per evitare l’omografia con ‹celo› da celare. Ma sono ancora presenti oscillazioni, registrate dai dizionari (Serianni 2006: 107 seg.: «effigie, meno comune effige», ecc.). Non del tutto stabili neanche l’uso di ‹i› nel plurale delle parole uscenti al singolare in ‹-cia, -gia› con ‹i› atona, a seconda che la desinenza sia preceduta da una o da due consonanti (valigie / facce: la norma è puramente empirica) e nella prima persona plurale dei verbi con tema in nasale palatale (bagniamo / bagnamo; qui la ‹i›, superflua dal punto di vista fonetico, serve a ribadire graficamente la riconoscibilità della desinenza verbale ‹-iamo›). Va osservato che questi ultimi casi di oscillazione sono probabilmente destinati a scomparire grazie alla diffusione della videoscrittura, dal momento che i più diffusi correttori automatici correggono (o segnalano come erronee) le forme sconsigliate dalla tradizione grammaticale.
Abbastanza salde anche le norme che regolano l’uso di accenti e apostrofi: anche qui è indicativo l’intervento del correttore automatico che reprime grafie frequenti nell’uso scritto non sorvegliato come ‹fà, un pò, qual’è›. Vero è che nei messaggi sms la tecnologia T9, che permette di premere ogni tasto una sola volta grazie alla capacità del vocabolario in memoria di riconoscere le parole, «propone pò come prima scelta al posto di po’ e, tra le scelte secondarie, altre grafie errate come dò e sù» (Antonelli 2007: 150). Nell’accentazione dei ➔ monosillabi l’unica vera eccezione alla norma corrente, fondata sulla disambiguazione degli omonimi (‹da› preposizione, ‹dà› voce verbale, ecc.), è data dalla diffusa ma discutibile abitudine, promossa dalla pratica scolastica (non da grammatiche e dizionari), di privare dell’accento il pronome ‹sé› seguito da stesso (cfr. Serianni 2006: 115-117). Non sempre rispettato, neanche nella grande stampa, l’obbligo di adoperare la e maiuscola accentata (È), non presente nella tastiera dei computer, che viene sciattamente surrogata da una ‹e› seguita da apostrofo (E’). La distinzione tra accento grave e acuto per la e aperta e chiusa è abbastanza rispettata nella stampa (ancora una volta grazie alla tecnologia, cioè ai tasti presenti nelle tastiere italiane e all’azione del correttore automatico), mentre non si è mai davvero affermata nella scrittura a mano, in cui la vocale finale di perché e caffè viene generalmente scritta allo stesso modo, con un segno a forma di barchetta.
La tendenza a ridurre le maiuscole facoltative (in casi come papa, presidente, ma anche rinascimento, anni cinquanta) è controbilanciata, almeno nella scrittura non professionale, dall’estensione indebita della maiuscola nei derivati da etnici, verosimilmente per influsso inglese (Letteratura Francese, la grammatica dell’Italiano e sim.).
Nelle prove scolastiche incertezze grafiche, soprattutto in fatto di ortografia e uso di accenti e apostrofi, sono molto diffuse, persino nella scuola secondaria superiore, almeno in quella d’indirizzo tecnico-professionale. Gli esempi (1) e (2) provengono rispettivamente da Campania e Sardegna e appartengono ad alunni di 14-15 anni (il segno // indica il capoverso):
(1) Passate alcune settimane ho iniziato ha fare amicizia con alcuni ragazzi, sono passati alcuni mesi ed ho iniziato a conoscere tutti i ragazzi della classe e man mano ho iniziato ad affezzionarmi a tutti loro. // I ripetenti quelli che erano stati bocciati all’inizio sembravano antipatici ma conoscendoli meglio sono molto simpatici. // I ragazzi che mi sono affezzionato di più sono G[...] Vincenzo che è un ragazzo molto socievole e molto simpatico, non me lo immaginavo cosi, e dal primo momento è stato molto simpatico ed è molto buono e mi sono subito affezzionato (da Serianni & Benedetti 2009: 70)
(2) Era successo che avevo bisticciato con un ragazzino per una stupidagine e io non mi sono saputo diffendere ne a parole ne con le mani perché ne avevo preso, allora ero tornato a casa e raccontai tutto a mio padre e lui si arrabiò e mi spiego come mi dovevo comportare in quei casi (da Serianni & Benedetti 2009: 117 seg.)
Da prove così scadenti emerge inoltre il precario dominio dell’interpunzione: ora omessa, ora ridotta alla virgola anche là dove il cambiamento di tema avrebbe richiesto un segno adeguato a rappresentare una pausa medio-forte (si veda in 1 la virgola prima di sono passati e di non me lo immaginavo; in 2 la virgola prima di allora ero tornato).
Ben diverso, com’è naturale, l’assetto dell’interpunzione (➔ punteggiatura) nella scrittura esperta. Nella prassi giornalistica è stato notato il declino del ➔ punto e virgola, messo in relazione «principalmente con la riduzione del periodare articolato e la preferenza per segmenti periodali brevi, quindi con la dilatazione del punto fermo» (Bonomi, Masini & Morgana 2003: 151). È pur vero, comunque, che nella scrittura argomentativa anche il punto e virgola appare ben saldo, nelle sue funzioni fondamentali (isolare i membri di una sequenza complessa e segnalare un cambiamento tematico, tipicamente in presenza di un diverso soggetto). Eccone alcuni esempi in uno stesso articolo apparso in un settimanale di larga diffusione:
(3) [La lingua è un] “piccolo organo” che ha in sé il paradosso − continua Giacomo − di emettere bene e male al tempo stesso: ora consola, ora avvilisce il prossimo; pronunzia benedizioni e subito dopo maledice con insulti; invoca Dio e calunnia il fratello; sparge miele e fiele insieme. [...] “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Gianfranco Ravasi, «Famiglia cristiana» 9 agosto 2009; il secondo passo è una citazione evangelica)
Per quel che riguarda gli altri segni paragrafematici − più che l’ovvio, e tradizionale, incremento dell’interpunzione emotiva nella scrittura privata, manoscritta ed elettronica (punti esclamativi e interrogativi, anche variamente combinati tra loro) − va segnalata la recente sovraestensione delle virgolette metalinguistiche nella scrittura giovanile, e in generale presso scriventi non esperti, per segnalare banali usi figurati o neologici:
(4) al ritorno di Ilaria, in questi giorni in vacanza a Formentera con le “amiche del cuore” Rosita Celentano e Monica Bellucci [...] Voci di corridoio, comunque, vogliono al timone della trasmissione quotidiana una “interna” a Mediaset (da un giornale distribuito gratuitamente, cit. in Serianni 2006: 129)
Rispetto alla tradizionale carta stampata, molto più trascurata appare la punteggiatura dei quotidiani in rete (Bonomi 2002: 313-315), che condividono alcuni tratti tipici della scrittura mediata dal computer, dalla semplificazione alla mancata correzione degli errori di battitura (per la posta elettronica, in cui questi fenomeni hanno speciale rilievo, cfr. Pistolesi 2004: 173). Negli sms la scrittura è condizionata dalle limitate escursioni permesse dallo schermo di un cellulare rispetto alla tastiera del computer. Notevole l’uso dello stampatello con funzione emotivo-espressiva e la quasi sistematica abolizione dello spazio bianco tra una parola e l’altra (anzi, è frequente il tamponamento tra parole contigue). Si veda l’esempio (5):
(5) che BELLO SVEGLIARSI conTantaDOLCEZZA...ALMENO X1VOLTAL’ANNO! STOabb.RINCO XCHÉSTANOTTEhoFATTO1POKINO TARDI (da Pistolesi 2004: 213)
Caratteristiche come queste possono rientrare tra gli «espedienti codificati per reintrodurre nel testo la fisicità dell’atto linguistico» (Pistolesi 2004: 98), secondo una modalità tipica della comunicazione mediata dal computer: la tendenziale scriptio continua, oltre che far risparmiare caratteri, evoca il flusso ininterrotto del parlato e, in molti casi, le lettere maiuscole possono riprodurre il focus di una frase (sono IO che non voglio). Anche le faccine (o emoticon), ottenute combinando i caratteri della tastiera − per es. :-), lo smiley per indicare piacere, benessere, allegria − hanno la funzione di surrogare i tratti paralinguistici, cioè l’insieme degli elementi estranei alla pura successione dei fonemi nella comunicazione orale (mimica facciale, gesti, ecc.), «mantenendo con essi un’analogia iconica» (Pistolesi 2004: 98; ➔ posta elettronica, lingua della).
Dei fumetti, almeno dei fumetti veri e propri (i balloon; cioè le «nuvolette» che racchiudono le battute dei personaggi), sono caratteristiche la deformazione grafica, con iterazione di una lettera per simulare picchi prosodici (noooo!) e la punteggiatura espressiva ed emotiva, orientata alla riproduzione del parlato (punti esclamativi e interrogativi e puntini di sospensione polifunzionali; Bonomi, Masini & Morgana 2003: 187).
Beninteso, i testi pubblicati dalle grandi case editrici, che si fondano, oltre che sulla perizia degli autori, sul lavoro di esperti revisori editoriali (➔ correzione di bozze), offrono tuttora esempi di punteggiatura impeccabile, funzionale a una lettura che possa concentrarsi nel merito delle cose dette, senza trovare intralcio nella forma in cui sono espresse. Si veda l’es. (6), che riproduce l’avvio di un saggio di un noto filosofo della storia, rivolto al più largo pubblico delle persone colte:
(6) Quali siano i confini dell’Europa è cosa quanto mai incerta, e lo era già per la cultura greca, quando si cominciò a distinguerla dalle altre parti della terra. Erodoto, al quale si deve il primo tentativo di descrizione sistematica del mondo allora conosciuto dai Greci, assume come scontata la distinzione tra l’Europa, l’Asia e la Libia (quella che sarà in seguito designata con il nome di Africa), ma è tutt’altro che sicuro delle linee che le separano. [...] Meno ancora lo è a proposito dell’Europa, indicata − secondo la tradizione − come la parte della terra che si estende, comprendendola, a nord e a ovest della Grecia (Pietro Rossi, L’identità dell’Europa, Bologna, il Mulino, 2007, p. 15)
La virgola precede le relative esplicative (al quale si deve, con valore parentetico), ma non quelle limitative (che le separano; ➔ relative, frasi); manca nelle enumerazioni in presenza di una congiunzione coordinativa (l’Asia e la Libia), ma viene espressa quando le forme coordinate non sono omogenee, e il secondo membro assume particolare salienza (come avviene in è cosa quanto mai incerta, e). Distinzioni e puntualizzazioni, normali in qualsiasi scrittura argomentativa, favoriscono l’uso di incisi delimitati da lineette (‹−›, da non confondere col trattino ‹-›, più corto e adoperato per separare i membri di una parola composta: austro-ungarico ecc.) e da parentesi, che si alternano anche per non appesantire la pagina: (quella che sarà [...] Africa), − secondo la tradizione −.
A differenza del testo parlato, il testo scritto rivolto a una molteplicità di destinatari indifferenziati (tipicamente, la prosa saggistica) non può fondarsi su due meccanismi tipici dell’oralità: la presupposizione e la deissi.
La presupposizione è il meccanismo per il quale si danno per note circostanze evidenti nel contesto comunicativo. Una frase come ce n’è uno qui vicino è chiara solo se viene calata in una delle tante possibili comunicazioni concrete in cui sarebbe appropriata: per es., per rispondere a qualcuno che ci ha chiesto dove si trova un giornalaio; ma potrebbe andare altrettanto bene per soddisfare chi ha bisogno di un idraulico, di un buon ristorante, di uno sportello a cui presentare la richiesta di un bonus ferroviario. La stessa informazione, tradotta nella scrittura, dovrebbe esplicitare i dati presupposti, puntando su una informazione analitica, che rischia di essere ridondante. Così, esemplificando la terza possibilità:
(7) I viaggiatori che si trovino nella condizione di chiedere un rimborso parziale del costo del biglietto in seguito a un ritardo superiore a 25′ (treni a tariffa eurostar) o a 60′ (treni intercity) dovranno presentare domanda presso la biglietteria di una stazione abilitata (l’elenco è disponibile a richiesta). Il beneficio non potrà essere concesso se il ritardo del convoglio è addebitabile a cause di forza maggiore
Da notare anche l’impersonalità del testo (non c’è un destinatario direttamente chiamato in causa) e il dettato relativamente sostenuto: rimborso è richiamato con il coesivo iperonimico beneficio, per evitare la ripetizione; convoglio è vocabolo più ricercato di treno; abilitata e addebitabile non sono certo parole del lessico quotidiano.
C’è tuttavia un tipo di testo scritto − il testo letterario − che, pur essendo rivolto a destinatari plurimi e indifferenziati, ricorre abitualmente alla presupposizione specie in esordio, per coinvolgere il lettore, dandogli la sensazione di essere immesso nel vivo della vicenda. Si veda l’es. (8), che riproduce l’inizio di un celebre romanzo di Alberto Moravia, Gli indifferenti:
(8) Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe [...]; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo seduto sul divano; un’oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto
Avviata la lettura non sappiamo dove Carla entri (solo alla fine del periodo ricaveremo che si tratta di un salotto). Inoltre un lettore ingenuo potrebbe ben chiedersi: chi sono Carla e Leo? E perché il vestito del personaggio femminile, di cui si ignora ancora tutto, è descritto così minutamente? La risposta verrà, indirettamente, dalle pagine seguenti, che metteranno in luce, tra l’altro, la libidine del maturo Leo per la ragazza, e il particolare delle gambe inavvertitamente mostrate apparirà funzionale alla situazione.
La deissi è il meccanismo che aggancia una comunicazione allo spazio (per es., con gli avverbi qui, là o con i pronomi questo, quello), al tempo (ieri, oggi), alle persone implicate (io, tu). Si tratta di un requisito tipico del testo parlato; anche il passaggio da una frase diretta a una indiretta richiede in primo luogo un’adeguata ristrutturazione dei ➔ deittici (ieri → il giorno prima; tu → l’uomo / la madre / Franco, ecc.; dirmi → dirle; qui → in quella casa):
(9) Sono arrivata ieri, e ora tu hai il coraggio di dirmi che non posso più restare qui? → La donna disse di essere arrivata solo il giorno prima: non ammetteva che l’uomo [o la madre, Franco, ecc. − comunque un soggetto di terza persona] osasse dirle che non poteva più restare in quella casa
La testualità di un tipico testo scritto è assai diversa da quella propria dell’oralità. Gli strumenti della coesione (➔ coesione, procedure di) sono molto più articolati e variati: nel parlato il tema viene abitualmente ripetuto e i coesivi effettivamente disponibili si riducono all’ellissi e ai pronomi (con limitazione dei pronomi soggetto a lui, lei, loro − non egli, ella/essa, essi − e a questo, quello, nei due generi e numeri: non codesto, costui, tale). Immaginiamo un qualsiasi discorso parlato, per es. quello di una donna che parla con un’amica di una comune conoscente:
(10) Ieri è venuta Carla e mi ha detto che [ellissi] vuole andare in pensione prima. Io le ho detto che [ellissi] sbaglia: finisce che poi [ellissi] se ne pente ... Ma sai com’è fatta Carla / lei: se [ellissi] si mette in testa una cosa ... Poi però [ellissi] non mi venga a dire del marito che sta sempre tra i piedi, che [ellissi] si annoia, che Irene (la nuora, sai?) le lascia sempre il nipotino! Ma quella è fatta così, ti dico: [ellissi] fa tutto di testa sua e poi [ellissi] si lamenta
In sottolineato abbiamo posto i coesivi che richiamano il tema Carla: semplice iterazione (Carla, sostituibile col pronome personale), pronomi obliqui (le, ma nel parlato informale sarebbe ben possibile gli, anche per il femminile) e il pronome dimostrativo soggetto quella, connotato polemicamente. La soluzione più praticata, però, è quella dell’ellissi, resa possibile dal fatto che la sintassi elementare tipica del parlato prevede una serie di frasi che condividono tutte lo stesso soggetto. Se provassimo a sostituire Carla / lei con una riformulazione, cioè con una perifrasi che, facendo appello alle conoscenze ricavabili dal contesto e dall’enciclopedia dei parlanti, indichi senza alcun dubbio il tema, otterremmo un’espressione meno spontanea o addirittura improbabile: «Ma sai com’è fatta la mia amica / la nostra collega / la dirigente dell’ufficio terzo ...».
Invece un testo scritto argomentativo ricorre abitualmente a meccanismi del genere (oltre alla riformulazione, anche alla sostituzione lessicale mediante sinonimi, iperonimi o nomi generali, evidentemente impossibile se il tema è rappresentato da un nome proprio). Si vedano i seguenti esempi:
(11) Dal secondo dopoguerra in poi la Sicilia è sequestrata dal potere politico-mafioso. [...] Alla vigilia del federalismo fiscale, quasi l’ouverture di una Terza Repubblica, l’isola al centro del Mediterraneo si presenta con tutti i dati fondamentali in rosso. [...] La regione è ultima per reddito pro-capite (Paolo Verre, Sicilia nazione, «Limes» 2, 2009, pp. 179-188)
(12) L’osteomalacia può esser definita come il «rachitismo dell’età adulta» [...]. L’insorgenza della malattia è subdola [...]. S’istituiscono allora deformità che persistono anche dopo cessata l’attività del processo morboso (Tullio Chiarioni, Le disvitaminosi, in Trattato di patologia medica e terapia, a cura di M. Bufano, Padova, Piccin, 1981, pp. 1-64)
La coesione testuale diventa quasi ossessiva nei testi burocratici (➔ burocratese), punteggiati di continui rinvii anaforici (suddetto, predetto, di cui sopra, ecc.; ➔ anafora), anche se da qualche tempo queste abitudini stilistiche si sono alleggerite (Serianni 2007: 133).
Analogamente, l’uso dei ➔ connettivi è molto più rigoroso di quel che non avvenga nel parlato, in cui forme come insomma o dunque possono essere adoperate come modi fraseologici, puramente inerziali. Nello scritto descrittivo e argomentativo la congruenza tra causa ed effetti deve essere sempre esplicitata; solo in una prosa acerba − quella di adolescenti con mediocre padronanza espressiva − potremmo imbatterci in violazioni della coerenza testuale come le seguenti (da Serianni & Benedetti, 2009: 97 e 196, nota 10; alunne del primo anno di un liceo socio-pedagogico e di un istituto professionale):
(13) Quando Mazzarò consegnava i suoi prodotti non voleva essere pagato in denaro, ma con monete d’argento
(14) Quest’anno l’argomento che mi è piaciuto maggiormente di storia sono stati gli Egiziani perché i gatti li consideravano sacri
In (13) il collegamento tra reggente e coordinata avversativa è assurdo: monete di argento è un iponimo di denaro (l’assurdità può essere facilmente sanata risalendo alla famosa novella verghiana qui riassunta, La roba, in cui si dice che Mazzarò voleva essere pagato con «tarì d’argento» e non con la «carta sudicia», cioè con banconote). La causale di (14) è almeno incongrua, in assenza di un collegamento accettabile con la reggente; il prevedibile anello mancante doveva essere qualcosa come: «sono appassionata di gatti e mi ha colpito apprendere che gli antichi Egizi, ecc.».
Nel seguente esempio, invece, tratto dal saggio di due giuristi, i connettivi argomentativi scandiscono i momenti salienti e conclusivi (si noti la formula iniziale: Alla luce [...] svolta) di un ragionamento, di cui vengono sottolineati i passaggi con appositi coesivi (tali passi, Questa opzione):
(15) Alla luce della riflessione fin qui svolta, occorre con realismo riconoscere che l’Europa si trova oggi di fronte a un bivio. Una prima opzione è il mantenimento dello status quo, ovvero di una politica dei «piccoli passi» perseguita facendo bene attenzione a che nessuno di tali passi implichi sostanziali rinunce di sovranità da parte degli Stati membri. Questa opzione, come il Trattato di Lisbona dimostra, non può portare alla risoluzione dei due problemi del deficit democratico e della inefficienza dei processi decisionali, con la conseguenza che l’Unione procederà con fatica e non potrà rimediare alla crescente disaffezione dei cittadini europei nei suoi confronti. A lungo andare, è probabile che gli stati membri cercheranno di riappropriarsi di alcune delle competenze già cedute all’Unione [...] e l’Unione tenderà pertanto a riassestarsi come una grande area di libero scambio, secondo l’orientamento mai celato di una parte degli Stati membri, primo fra tutti il Regno Unito (Ugo Draetta & Andrea Santini, Europa, quali prospettive per l’integrazione?, «Vita e Pensiero» 92, 2, 2009, pp. 24 seg.).
Altre caratteristiche della testualità di un discorso argomentativo sono la riformulazione interpretativa di una formula neutra (mantenimento ... [passi]); la riduzione dell’assertività delle proprie affermazioni, che vengono sfumate (è probabile che ...) oppure presentate come puramente referenziali (occorre con realismo riconoscere che ...); l’aggancio delle argomentazioni a fonti controllabili (come il Trattato di Lisbona dimostra). Il lessico, senza essere ricercato, è però di registro alto: processi decisionali per «decisioni», celato per «nascosto».
Il tipico testo orale presenta alcune ben definite caratteristiche sintattiche: scarsa coesione, frutto di una progettazione a breve gittata (frasi sospese, cambi di progetto), prevalenza di moduli coordinativi e giustappositivi, limitato sviluppo dell’ipotassi (le subordinate più frequenti sono relative e completive; difficilmente si supera il secondo grado di subordinazione; ➔ subordinate, frasi). Molto più variegato il quadro del testo scritto.
Nella prosa argomentativa non è rara una struttura periodale complessa, che presuppone tipicamente la lettura endofasica e che renderebbe ostico quello stesso testo letto a voce alta in pubblico:
(16) Rimarrebbe aperta la questione di un’eventuale delimitazione del raggio d’azione del GCG [= Global Consensus Group, un’auspicata evoluzione degli attuali vertici tra i grandi Paesi del mondo] su base tematica. Occorre infatti chiedersi se sia opportuno che le sue competenze siano confinate a questioni definite (inerenti, ad esempio, all’agenda globale e di stampo economico-finanziario) o se, invece, esso debba includere anche la trattazione di argomenti di carattere politico o di sicurezza. Se è evidente che il GCG assegnerebbe una preponderante attenzione alle tematiche globali, non si può escludere la possibilità che esso affronti anche questioni di rilevanza politico-internazionale, specie in relazione a gravi crisi in atto o ad iniziative riguardanti la sicurezza in senso più ampio (Pasquale Ferrara, Dopo il G8: verso un gruppo per il consenso globale?, «Italianieuropei» 3, 2009, p. 33)
Oltre a confermare aspetti testuali già osservati nel paragrafo precedente (riduzione, o problematizzazione, dell’assertività: Occorre infatti chiedersi se ..., non si può escludere la possibilità che ...; uso di coesivi estranei al parlato: esso, due volte), spicca l’architettura sintattica. Dopo la frase iniziale (in cui il condizionale si giustifica alla luce di ciò che precede: il GCG presenterebbe una serie di vantaggi rispetto ad altri organismi internazionali, ma ...), si sgrana un periodo bipartito costituito da reggente, interrogativa indiretta (se sia opportuno), coordinata a una disgiuntiva (o se ... debba includere): tra le due coordinate si sviluppa un inciso parentetico che ritarda la conclusione della frase. Anche il periodo successivo è bilanciato: a una proposizione avversativo-concessiva (Se è evidente), che regge una completiva (che il GCG assegnerebbe), segue la principale, a sua volta reggente un’altra completiva (che esso affronti). Da notare anche il participio presente con valore verbale riguardanti, caratteristico della lingua scritta (il parlato preferisce la perifrasi relativa − che riguardano −, tranne che l’originario participio non abbia assunto valore di aggettivo o di sostantivo: un discorso brillante, i partecipanti).
La complessità del periodo richiede anche il rispetto delle regole che governano la sintassi, per es. la restrizione per la quale una subordinata implicita deve essere coreferente con la reggente, deve cioè condividere lo stesso soggetto. Una violazione del genere può comparire in testi di registro formale ma redatti da scrivente non abituale, come per esempio un verbale di condominio stilato seduta stante:
(17) L’Amministratore in carica dà lettura della lettera inviata dallo studio legale avv. Mario M[...] e della risposta del Rag. L[...] con la quale si dichiara disponibile a saldare il suo debito (esempio autentico; è obbligatorio esprimere il soggetto di «si dichiara»)
Colpisce, invece, l’occasionale violazione di questa norma nella prosa di due noti articolisti che scrivono nel principale quotidiano italiano, il «Corriere della sera»: segno, forse, di una stesura affrettata, ma anche delle insidie della scrittura, persino per scriventi professionali come i giornalisti:
(18) un piano «innovativo» per lo sviluppo del Meridione è allo studio, anzi è «quasi pronto», e sbloccherebbe i tanto invocati fondi FAS ma non per buttarli «nel calderone della spesa corrente», ma per essere utilizzati nel quadro di un «progetto nazionale» (Paola Di Caro, «Corriere della sera» 16 luglio 2009; le virgolette riproducono una nota governativa; la seconda finale è errata: recte «per utilizzarli»)
(19) Ancora una volta si prende una vecchia fotografia in cui compare una sigaretta, la si mutila, la si sfigura, la si edulcora, la si stravolge per poi essere impacchettata in una confezione epurata (Pierluigi Battista, «Corriere della sera» 16 luglio 2009; recte: «per poi impacchettarla»)
Ma nella prosa giornalistica (➔ giornali, lingua dei) di norma si evitano periodi lunghi e ricchi di incisi; recentemente si è affermata la tendenza a isolare singole frasi subordinate, trattandole come se fossero autonome. Si tratta peraltro di un’innovazione che riguarda piuttosto l’interpunzione che la sintassi:
(20) Così Tomba diserta e torna subito a casa. A curarsi. A farsi coccolare (cit. in Dardano & Giovanardi 2001: 7)
Un altro settore in cui la sintassi periodica appare complessivamente in crisi è, da tempo, la prosa letteraria (➔ lingua letteraria). Ma qui è difficile ridurre a unità dei materiali che per loro natura sono assai difformi. Si può osservare (con Coletti 1993: 382) che
uno dei processi stilistici che più incidono nella lingua media e la movimentano è la liberazione della sintassi dalle regole consuete della scrittura, in un recupero, tutto letterario, dell’oralità, come in un flusso ininterrotto di discorso, di cui sono stati maestri recenti e ineguagliabili certi autori sudamericani.
E, più che indugiare sull’ampia galassia dei narratori attratti dal parlato e dalle contaminazioni con i vari media (dal fumetto alla canzone alla pubblicità), conviene indicare, esemplarmente, un interessante episodio di semplificazione della sintassi, prodotto da una rinnovata tecnica di monologo interiore, ad opera di una giovane scrittrice, Chiara Zocchi:
(21) La luce entra e mi tocca. Mi tocca la luce, mi fa delle carezze da ferma, e con le sue dita, lunghe come questa stanza, vorrebbe bucare il mio buio. Ma resiste, il mio buio resiste. Mi abbraccia, il mio buio mi abbraccia e mi stringe. E sto, senza stupirmi. Senza stupirmi, sto (male) (Chiara Zocchi, Tre voli, Milano, Garzanti, 2005, p. 9)
La sintassi estremamente elementare (solo coordinate e giustapposizioni, a parte l’esclusiva implicita senza stupirmi) è in funzione di una prosa orientata in direzione poetica: dunque verso un genere testuale che, nella letteratura contemporanea, si concentra su parole e suoni, deprimendo i rapporti sintattici interfrasali. In direzione poetica agisce l’investimento retorico (la doppia anadiplosi di mi tocca e senza stupirmi, l’epifora di resiste, l’anafora di mi abbraccia, l’epanadiplosi di sto, con riformulazione semantica: prima resto immobile, poi sto male), figurale (personificazione della luce, che ha lunghe dita, e del buio, che può abbracciare e stringere), fonico (allitterazioni in bucare-buio e in sto-senza-stupirmi).
La diversità del ➔ lessico è non certo il tratto fondamentale, ma forse quello più appariscente tra gli elementi che distinguono scritto e parlato. Le necessità lessicali del parlato (e dello scritto meno elaborato) sono ben rappresentate dalla nozione di vocabolario di base, approfondita in Italia soprattutto da Tullio De Mauro e dalla sua scuola. La formulazione più recente è quella che si è tradotta nel Grande dizionario italiano dell’uso (GRADIT 1999-2007): 6522 vocaboli − distinti in lessico fondamentale (2049), di alto uso (2576), di alta disponibilità (1897) − permetterebbero di coprire circa il 96% «delle occorrenze lessicali nell’insieme di tutti i testi scritti o discorsi parlati» (GRADIT 1999-2007: vol. 1°, XX). Se parole come fare, gatto (fondamentali), correggere, rapace (alto uso), alluce e dogana (alta disponibilità) possono essere considerate patrimonio di qualsiasi italofono, il discorso cambia per le decine di migliaia di parole che costituiscono il lemmario di un comune dizionario dell’uso.
In un numero consistente di casi è possibile risalire al significato (e quindi, ipotizzare almeno una diffusa competenza passiva) grazie al meccanismo di formazione delle parole: se qualcuno non avesse mai ascoltato o letto parole come imbustare o esortatore può sempre orientarsi conoscendo i significati di busta e di esortare e padroneggiando, come avviene per ogni parlante madrelingua, i processi di formazione dei verbi parasintetici e dei nomina agentis. Ma sono irrecuperabili, se non attraverso una competenza specifica, altri due importanti settori: prima di tutto, il lessico tecnico-specialistico (parole come epiluminescenza, evizione, liquidone, metafonesi saranno verosimilmente ignote per chi non sia, rispettivamente, medico, giurista, fisico, linguista); poi, il lessico astratto: un insieme composito, costituito in gran parte di sinonimi e di iponimi relativi ad alcune costellazioni semantiche fondamentali. La nozione di «vecchio», per es., è espressa in italiano, oltre che da vecchio, da altre due parole del vocabolario di base: anziano, dotato del tratto semantico [+ umano], e antico, dotato del tratto [+ lontano temporalmente]. Ma esistono molti altri modi per esprimere una nozione del genere, con varie restrizioni semantiche o di registro: annoso, vetusto, remoto, atavico, arcaico, obsoleto, desueto, decrepito, cadente, ecc.
La lingua scritta attinge ampiamente a questo vasto repertorio di possibilità, offrendo un lessico molto più ricco del parlato e più sensibile a connotazioni evocative o ironiche. In Serianni 2003 si sottolinea il carattere colto della scrittura giornalistica, mostrando la circolazione, in un’annata scelta a caso di un grande quotidiano, di accezioni non ovvie (come per angustia «ristrettezza materiale, di spazio e tempo», oltre a «ristrettezza economica o morale» e «pena, afflizione») e di sinonimi ricercati, adibiti talvolta con funzione ironica: per «discorso», ad es., anche allocuzione, concione, diatriba, dissertazione, filippica, panegirico; per «indubbio», apodittico, incontestabile, incontrovertibile, indiscutibile, inoppugnabile, irrefutabile, perentorio.
In generale la scrittura giornalistica offre, fra i tanti, anche esempi di lingua sapientemente elaborata, in grado di sfruttare tutte le risorse della lingua, dal lessico letterario tradizionale all’imprevedibilità dei neologismi più effimeri: ciò grazie alla tecnica di scrittura dei giornalisti e alla frequente presenza, nelle pagine culturali, di scrittori di prestigio. La prima tipologia può essere illustrata da un articolo di Marina Terragni, che prende spunto dalle polemiche che avevano occupato la cronaca politica e mondana della primavera-estate 2009:
(22) Cerchiamo di vedere sempre il mezzo pieno del bicchiere, perché il male fa da sé, mentre il bene ha sempre bisogno di una mano. E allora mettiamola così: tutta questa triste vicenda delle escort (oggi si dice così), delle ragazze immagine, delle letteronze candidate politiche, delle velinazze in carriera, delle ville in Sardegna strapiene di vergini come il paradiso dei musulmani, vicenda che ha saturato il 90 per cento della recente cronaca politica italiana, ci dà il senso di morte di un mondo in declino, è il fondo di un barile che abbiamo dolorosamente raggiunto («Io donna» 4 luglio 2009)
La verve espressiva è assicurata dalla convivenza di modi idiomatici di sapore familiare (bicchiere mezzo pieno, fondo del barile») e da asserzioni solennemente impegnative (il senso di morte di un mondo in declino), da paragoni beffardi (strapiene ... musulmani), ma anche da un preciso investimento lessicale. Si prendono ironicamente le distanze dall’anglicismo eufemistico escort («accompagnatrice disponibile a prestazioni sessuali») e si introducono neologismi occasionali come letteronza («valletta di spettacolo televisivo che deve il suo nome a una deformazione scherzosa e parodistica di letterina lanciata nel 2000» in una trasmissione televisiva; Adamo & Della Valle 2005: 240) e velinazza, tratto da velina «ragazza che anima uno spettacolo», col suffisso peggiorativo -azza (qui settentrionalismo, come in damazza, bonazza).
Come intervento di un noto intellettuale su questioni di attualità culturale (in questo caso l’uso del latino nella messa) si legga questo brano di Guido Ceronetti:
(23) Mi dà il prurito di dire anch’io qualcosa: il latino mi concerne, mi ha reso la caduta in questo triste mondo meno sfracellatrice, mi è rifugio e madre tuttora, che m’illeb[b]rosiscono gli anni. // Un contravveleno perché ti porta via, per un poco, anche solo il tempo di buttare giù questa nota per il vostro giornale, dal lager del wu-wu-wu e dalle cronache sanguinose, dai kalashnikov puntati su innocenti, dai suk dove si va a comprare il proprio esser fatto a pezzi. La storia umana che parla latino, non è meno sanguinosa, ma è un’emorragia fermata per sempre, ed ecco nitente la massima di Tommaseo: «Solo il passato è bello, perché non duole più» («La Repubblica» 29 marzo 2007)
Anche qui un lessico prezioso o addirittura di conio originale (nitente per «risplendente», illeb[b]rosire per «rendere come la pelle di un lebbroso», in riferimento alle rughe) convive con neologismi esotici, concentrati polemicamente: la sigla www − simbolo della navigazione in rete e quindi della modernità − diventa l’immagine di un’intollerabile schiavitù; parole di origine tedesca (lager), russa (kalashnikov), araba (suk) − tutte distanti, dunque, dalla tradizione latina − simboleggiano un presente negativo, sentito come ostile. E non sfugga la vivacità metaforica: l’aggettivo sanguinoso è rinnovato semanticamente e dà vita all’immagine, inedita, di un’«emorragia fermata per sempre».
La nozione di linguaggio settoriale (o speciale; ➔ linguaggi settoriali) travalica il confine scritto-parlato, almeno per quanto riguarda la componente lessicale; ma non c’è dubbio che il canale della scrittura rappresenta l’ambito tipico in cui riconoscerne la fisionomia.
Per le cosiddette scienze dure (fisica, matematica, chimica, biologia, ecc.) e per l’economia la comunicazione scientifica internazionale − in parte anche intranazionale − avviene ormai in inglese: l’uso dell’italiano, così come quello delle altre lingue europee, è confinato alla manualistica e alla divulgazione (sulle caratteristiche dei «discorsi secondari», ossia rivolti a un pubblico esterno al gruppo di esperti di un certo settore scientifico, cfr. Dardano 2008). Diverso è il caso della medicina (➔ medicina, lingua della), e non solo perché l’area della divulgazione è ben altrimenti importante di quel che non avvenga per l’astrofisica o le nanotecnologie: tutti, nel corso della loro vita, si imbattono in problemi medici e nella relativa terminologia, e anche i sani hanno un forte interesse a saperne di più in fatto di salute. L’uso dell’italiano è abituale anche nei testi prodotti dal medico nella sua prassi professionale (referti, cartelle cliniche) e nei testi informativi rivolti al paziente, a partire dai foglietti illustrativi dei medicinali.
Rispetto allo stile espositivo proprio dei foglietti francesi e spagnoli, quelli italiani presentano un quadro meno nitido. In Serianni 2008 si illustra l’infelice revisione (risalente al 2005) del foglietto di un noto farmaco a base di paracetamolo − largamente consumato, quindi, per evenienze banali: nevralgie, stati febbrili, ecc. − in cui si glossano tecnicismi trasparenti (tachicardia [aumento della frequenza cardiaca]), ma non si interviene su tecnicismi impervi (sindrome di Stevens Johnson e necrolisi epidermica) e si inseriscono informazioni destinate non al paziente, ma al medico:
(24) La somministrazione di paracetamolo può interferire con la determinazione della uricemia (mediante il metodo dell’acido fosfotungstico) e con quella della glicemia (mediante il metodo della glucosio-ossidasiperossidasi)
Negli ultimi tempi lo stile espositivo dei foglietti è complessivamente migliorato, non solo per i ‘prodotti da banco’ (quelli che il cliente può acquistare senza ricetta medica), ma anche per farmaci destinati a patologie molto più impegnative. Ecco un esempio di foglietto efficacemente proiettato entro l’orizzonte linguistico del profano:
(25) 1. CHE COS’È ZYPREXA E A CHE COSA SERVE ZYPREXA fa parte di un gruppo di farmaci detti antipsicotici.
ZYPREXA viene usato per curare una malattia con sintomi come udire, vedere o provare cose che non esistono, convinzioni errate, sospettosità ingiustificata e ritiro sociale. Le persone che presentano questa malattia possono inoltre sentirsi depresse, ansiose o tese.
ZYPREXA è usato per curare una condizione caratterizzata da sintomi quali «sentirsi su di giri», avendo una carica eccessiva, avendo bisogno di meno sonno rispetto al solito, parlando molto velocemente con un rapido susseguirsi delle idee e talvolta grave irritabilità. È inoltre uno stabilizzatore dell’umore che previene il ripetersi di invalidanti variazioni estreme dell’umore verso l’alto e verso il basso (depressione) che si associano a questa condizione.
2. PRIMA DI PRENDERE ZYPREXA
Non prenda ZYPREXA
− se è allergico (ipersensibile) ad olanzapina o ad uno qualsiasi degli eccipienti di ZYPREXA ...
Dal punto di vista testuale, spicca la ripetizione del tema (ZYPREXA), dunque la scelta di un tipo di coesione estremamente elementare; il tema è rappresentato dal nome commerciale del farmaco − l’unico familiare al paziente − e non dalla molecola che lo costituisce (olanzapina). Rispetto alla tradizionale spersonalizzazione del linguaggio medico (mancanza di un apparente destinatario e ricorso a frasi nominali, con parallela riduzione dei parametri morfologici del verbo) si sceglie un interlocutore diretto, al quale rivolgersi individualmente: Non prenda ZYPREXA ... Nel lessico si evitano con cura tecnicismi, fino al punto di usare un’espressione del linguaggio quotidiano, debitamente virgolettata: sentirsi su di giri.
Anche il linguaggio giuridico (➔ giuridico-amministrativo, linguaggio), come quello medico, è un linguaggio settoriale che in parte coinvolge il profano in vari momenti della sua vita, si tratti di stilare un contratto di compravendita o di fruire di un lascito testamentario. In nessun altro linguaggio settoriale la lingua ha tanta importanza: dall’interpretazione di una legge o di una sentenza − dunque dalle scelte linguistiche messe in atto in quell’occasione − discendono conseguenze concrete che incidono sulla libertà o sul patrimonio del singolo cittadino. Il linguaggio giuridico usa meno tecnicismi del linguaggio medico e ricorre spesso alla tecnificazione di parole del lessico fondamentale, prestandosi così paradossalmente a equivoci: una «frase banalissima come “Ho lasciato la macchina in divieto di sosta e mi hanno fatto la multa: domani andrò a pagare la contravvenzione” contiene due errori dal punto di vista giuridico», dal momento che contravvenzione indica un tipo di reato, non la sanzione pecuniaria da pagare, «e la somma da versare in relazione a una contravvenzione è l’ammenda, non la multa» (Serianni 2007: 109).
Caratteristico il tradizionalismo dei testi giuridici, «a qualsiasi classe o sottoclasse appartengano»: un «frutto, abnorme e resistente, dell’assuefazione a una stereotipia tramandata come un marchio di fabbrica» (Mortara Garavelli 2001: 154); per es. (Mortara Garavelli 2001: 163 segg.): posposizione del soggetto non rematico (ritiene la Corte); participio presente con funzione verbale (misure colmanti l’abrogazione di un certo articolo); preferenza per l’uso di astratti (ogni rilievo della carenza di coscienza dell’antigiuridicità della condotta). A tale tradizionalismo si collega anche la scarsa penetrazione di ➔ anglicismi: anche prestiti noti al largo pubblico attraverso i media (legge sulla privacy, sullo stalking) non trovano conferma nel dettato legislativo, che parla rispettivamente di «protezione di dati personali» e di «atti persecutori reiterati».
La dislocazione sull’asse diafasico (➔ variazione diafasica) dei vari prodotti scritti dipende dall’incrocio di vari fattori: dal grado d’istruzione dello scrivente, ma anche dalla sua abitualità nel servirsi della penna (un errore sintattico sarà più prevedibile in chi redige un verbale di condominio, fungendo da occasionale segretario della seduta, che in un giornalista: vedi gli esempi 17, 18, 19); dal carattere intrinseco della scrittura (un conto è l’sms scambiato tra due adolescenti, un conto è un impegnativo saggio stampato da una grande casa editrice e concepito per restare come punto fermo di una certa disciplina); dal tipo di supporto di scrittura; dal destinatario (che può essere un singolo amico, ma anche una folla ignota e indeterminata dislocata nel futuro, insomma i ‘posteri’ a cui idealmente si destina un’opera d’ingegno).
In particolare, per il supporto occorre notare che la tradizionale distinzione tra scrittura manoscritta e a stampa è ora complicata dalla scrittura elettronica, che può veicolare messaggi di media formalità ma anche confidenziali: la scarsa pianificazione e l’immediatezza comunicativa tipiche delle e-mail possono comportare comunicazioni di registro imprevedibilmente disinvolto e confidenziale, per es. da parte di studenti che si rivolgono ad autorevoli docenti universitari, con formule come Buongiorno, professore fino «a un più spigliato Salve professore o a un ancora più economico Salve!» (Prada 2003: 161).
Riunendo tutti questi parametri, ne risulta il quadro esposto nella tab. 1 (di ogni fattore implicato, contrassegnato da un numero, si distingue mediante lettere dell’alfabeto la relativa tipologia).
Si può provare a verificare la tenuta di questo schema applicandolo ad alcuni dei testi che abbiamo avuto occasione di passare in rassegna nei paragrafi precedenti.
Il caso più chiaro è costituito dagli esempi di prosa saggistica (6, 11, 15, 16), manualistica (12), letteraria (21). In tutti i testi, pur di portata e ambizione così diverse, si è di fronte a prodotti di scriventi esperti (1C), destinati a un pubblico tendenzialmente largo e protratto nel tempo (2C, 4C), affidati al supporto a tutt’oggi più stabile e duraturo, la stampa (3C). Gli articoli di costume, anche se acuti e brillanti (esempi 22, 23) non sono destinati a durare oltre i tempi del giornale: quindi 1C, 2C, 3C, 4B. Al polo opposto si situa l’sms riprodotto in (5): lo scrivente, giovane e verosimilmente istruito, non è certo uno scrittore abituale e subisce più o meno inerzialmente le convenzioni e i capricci grafici suggeriti dal mezzo (1B); il messaggio è confidenziale e ha un destinatario preciso (2A, 3A, 4A).
Più fluida la collocazione di altri testi che, se si scegliessero altri esempi della stessa tipologia, diventerebbe diversa da quella qui proposta. Il verbale della riunione di condominio (17) potrebbe essere rappresentato dalla seguente formula: 1B (lo scrivente ha scarsa dimestichezza con la scrittura, come si ricava anche da alcune ingenue ridondanze: «il rag. L[...] a suo dire sostiene»), 2B, 3A, 4B; il foglietto illustrativo del medicinale (25) dalla formula: 1C (è scritto con piena consapevolezza pragmatica e ottima padronanza espressiva; in altri casi, in verità, ci si dovrebbe fermare a 1B), 2C, 3C, 4B. Quanto alle prove scolastiche mediocri (1, 2, 13, 14) ci si trova di fronte a un prodotto artificiale, specie per quanto riguarda il destinatario: un destinatario ben individuato nei fatti (l’insegnante che correggerà il compito), ma non nella finzione della prova (in molti casi l’alunno scrive immaginando un lettore fuori dal tempo e dallo spazio dell’aula scolastica). Lasciando impregiudicato l’ultimo parametro, sono chiari gli altri: 1A o 1B (a seconda della capacità dell’alunno), 2B, 3A.
Allargando l’esame a tipologie testuali qui non considerate, si potrebbe osservare che la gran parte dei testi a stampa presuppone un’adeguata capacità di scrittura e che tutti si rivolgono a una molteplicità di lettori. Solo il requisito 4 discrimina, dal nostro punto di vista, una lirica di Eugenio Montale o un romanzo di Umberto Eco (1C, 2C, 3C, 4C) da tipologie testuali ben più umili e anguste, come una ricetta di cucina o un messaggio pubblicitario: in casi del genere, infatti, a 1C, 2C, 3C si opporrebbe 4B.
Molto più di quanto è avvenuto per altre tradizioni culturali, la lingua italiana si è formata e si è trasmessa nel corso dei secoli − in assenza di unità politica − grazie a modelli scritti. La struttura tosco-fiorentina dell’italiano, senza trascurare altri moventi di linguistica esterna e interna (vivacità economica dei banchieri fiorentini medievali; minore distanza strutturale dal latino rispetto ad altri dialetti italoromanzi), si deve a precisi eventi di carattere letterario.
Riassuntivamente: il prestigio della ➔ Scuola poetica siciliana, diffusasi quasi esclusivamente attraverso la mediazione dei grandi canzonieri toscani; la fortuna immediata delle «tre corone», ➔ Dante, ➔ Francesco Petrarca e ➔ Giovanni Boccaccio (precocissima nel caso di Dante, un sonetto del quale viene trascritto da un notaio bolognese nel 1287, quando il poeta era appena ventiduenne); la codificazione cinquecentesca ad opera di ➔ Pietro Bembo, che addita espressamente un modello acronico e immutabile, quello dei classici trecenteschi, collegando strettamente l’uso della lingua scritta all’esistenza di una tradizione letteraria: non si può dire che sia veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore», proclama il letterato veneziano in un passo notissimo delle Prose della volgar lingua (I, 14), enunciando un assioma che non è solo suo, ma di tutto il classicismo cinquecentesco.
Ciò spiega l’importanza che nella storia della lingua italiana hanno avuto i due tradizionali strumenti per l’apprendimento di una lingua scritta: i vocabolari e le grammatiche. Quanto ai primi, nasce in Italia il più antico esempio di vocabolario storico di una lingua europea, il Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), il cui modello sarebbe poi messo variamente a frutto in altri paesi (➔ accademie nella storia della lingua). Quanto alle seconde, che fioriscono intensamente dai primi decenni del Cinquecento, è notevole la precoce stesura di una Grammatichetta del volgare da parte del grande umanista ➔ Leon Battista Alberti (intorno al 1440; l’opera rimase inedita fino al XX secolo): un’iniziativa che avrebbe fatto da battistrada al «movimento di ‘difesa e illustrazione’ delle diverse lingue nazionali che dalla fine del Quattrocento in poi trovò interpreti e sostenitori in tutta Europa» (Patota 1999: 58).
È ben vero che qualsiasi «scrittura vive di continui rapporti con l’oralità: da questa attinge in continuazione temi, motivi, moduli, a questa tende in definitiva, in molte sue direzioni» (Cardona 1983: 100). Ma è significativo che la svolta decisiva verso l’italiano moderno si debba ad ➔ Alessandro Manzoni, proprio nel solco di uno svecchiamento in direzione del parlato fiorentino: dunque, ancora una volta, a uno scrittore.
È difficile cogliere tracce di una trasmissione orale, attraverso la trascrizione a memoria o la dettatura (e non attraverso la copiatura da un antigrafo scritto) di testi letterari antichi. Un esempio potrebbe essere il dugentesco Contrasto di Cielo d’Alcamo, secondo una suggestiva ipotesi (cfr. Pagliaro 1970: 11-12): «lo scriba (egli stesso o chi dettava, per via dei ‘disguidi’, non una probabile fonte), aveva a memoria il testo del componimento, per averlo udito ripetere tante volte da giullari siciliani o calabresi sulle piazze di questa o quella città toscana». Certamente implicata con la recitazione orale è la letteratura canterina, in ottave: un’eco arrivata fino al pieno Novecento − flebile, ma significativa anche dal punto di vista antropologico − è rappresentata dai poeti a braccio dell’Italia centrale; poeti spesso alle soglie dell’analfabetismo che pure riuscivano a improvvisare su temi vari, anche di attualità, sulla scorta di una straordinaria dimestichezza con i grandi poemi del passato (di ➔ Ludovico Ariosto, ➔ Torquato Tasso e persino di Giovan Battista Marino), ampiamente mandati a memoria (Cardona 1983: 72-75).
GRADIT 1999-2007 = De Mauro, Tullio (dir.), Grande dizionario italiano dell’uso, Torino, UTET, 8 voll.
Adamo, Giovanni & Della Valle, Valeria (2005), 2006 parole nuove, Milano, Sperling & Kupfer.
Antonelli, Giuseppe (2007), L’italiano nella società della comunicazione, Bologna, il Mulino.
Bonomi, Ilaria (2002), L’italiano giornalistico. Dall’inizio del ’900 ai quotidiani on line, Firenze, Cesati.
Bonomi, Ilaria, Masini, Andrea & Morgana, Silvia (a cura di) (2003), La lingua italiana e i mass media, Roma, Carocci.
Cardona, Giorgio R. (1983), Culture dell’oralità e culture della scrittura, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 15 voll., vol. 2° (Produzione e consumo), pp. 25-101.
Coletti, Vittorio (1993), Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi.
Dardano, Maurizio (2008), Capire la lingua della scienza, in Id. & G. Frenguelli (a cura di), Italiano di oggi. Fenomeni, problemi, prospettive, Roma, Aracne, pp. 173-188.
Dardano, Maurizio & Giovanardi, Claudio (2001), Le strategie dell’italiano scritto. Modelli di lingua, tecniche comunicative, esercizi e verifiche, Bologna, Zanichelli.
De Mauro, Tullio (1970), Tra Thamus e Teuth. Note sulla norma parlata e scritta, formale e informale nella produzione e realizzazione dei segni linguistici, «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani» 11, pp. 167-179.
Mortara Garavelli, Bice (2001), Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Torino, Einaudi.
Nencioni, Giovanni (1983), Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato, in Id., Di scritto e di parlato. Discorsi linguistici, Bologna, Zanichelli, pp. 126-179.
Pagliaro, Antonino (1970), Lingua parlata e lingua scritta, «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani» 11, pp. 7-47.
Patota, Giuseppe (1999), Lingua e linguistica in Leon Battista Alberti, Roma, Bulzoni.
Pistolesi, Elena (2004), Il parlar spedito. L’italiano di chat, e-mail e sms, Padova, Esedra.
Prada, Massimo (2003), Scrittura e comunicazione. Guida alla redazione di testi professionali, Milano, LED, vol. 1º (Comunicazione, testo, varietà di lingua).
Serianni, Luca (2003), I giornali scuola di lessico?, «Studi linguistici italiani» 29, pp. 261-273.
Serianni, Luca (2006), Prima lezione di grammatica, Roma - Bari, Laterza.
Serianni, Luca (2007), Italiani scritti, Bologna, il Mulino (1a ed. 2003).
Serianni, Luca (2008), Terminologia medica: qualche considerazione tra italiano, francese, spagnolo, «Studi di lessicografia italiana» 25, pp. 253-269.
Serianni, Luca & Benedetti, Giuseppe (2009), Scritti sui banchi. L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti, Roma, Carocci.
Voghera, Miriam (2005), La misura delle categorie sintattiche, in Parole e numeri. Analisi quantitative dei fatti di lingua, a cura di T. De Mauro & I. Chiari, Roma, Aracne, pp. 125-138.