lingua
In senso proprio, per l'organo della bocca: Cv I I 12 né denti né lingua ha né palato; If XVII 75 Qui distorse la bocca e di fuor trasse / la lingua, come bue che 'l naso lecchi; XXI 137 avea ciascun [dei nove diavoli] la lingua stretta / coi denti; XXVII 18, XXVIII 101, XXX 122, Pd XXXIII 108. In particolare come organo della fonazione: Vn XIX 2 la mia lingua parlò quasi per se stessa mossa; If XXV 133 la lingua, ch'avëa unita e presta / prima a parlar, si fende; XXVI 89 la cima qua e là menando, / come fosse la lingua che parlasse, / gittò voce di fuori.
In alcune espressioni tra loro affini: per indicare facilità e prontezza di linguaggio (lingua sciolta, in If XIV 27 e Pd XXVII 131; lingua pronta, If XXXII 114; lingua... presta, Fiore LVII 4; ‛ lingua scorta ', " spedita ", " franca a parlare ", Pg XIX 13) o il contrario (lingua stucca, " sazia fino alla stanchezza ", If XVIII 126; lingue... stanche, XXII 90; lingua muta, in Vn XXVI 5 3 e Pd XVII 87). Ancora in contesto figurato, in Vn VIII 8 6 Morte villana... di te blasmar la lingua s'affatica, dove per estensione con il termine 1. D. intende la sua poesia che impreca contro la morte; If XXVI 72 fa che la tua lingua si sostegna, " astienti dal parlare "; XXVIII 4 Ogne lingua... verria meno; XXXI 1 Una medesma lingua pria mi morse; Fiore CXXXIII 4 La vertude più sovrana / che possa aver la criatura umana, / sì è della sua lingua rifrenare, " moderare il proprio linguaggio ", " parlare a tempo e luogo ", come si deduce dai versi 9-11.
Nell'uso letterario, per estensione, il termine è assunto a indicare genericamente una persona: per i " poeti ", in Pd XXIII 55 Se mo sonasser tutte quelle lingue, e If XXVIII 4 Ogne lingua per certo verria meno / per lo nostro sermone; per i Bolognesi, coloro che abitano tra i fiumi Savena e Reno, i quali non sono ancora addestrati a dire ‛ sì ', in If XVIII 60 tante lingue non son ora apprese / a dicer ‛ sipa ' tra Sàvena e Reno; Fiore CXXXIX 7 una lingua fiera, / che qua entr'è, mi fa molto dottare.
Genericamente per " linguaggio ", in Cv III III 14 li miei pensieri... ‛ sonan sì dolci ', che la mia anima, cioè lo mio affetto, arde di potere ciò con la lingua narrare, e 15 la lingua non è di quello che lo 'ntelletto vede compiutamente seguace (cfr. Ep XIII 84 Multa... per intellectum videmus quibus signa vocalia desunt); IV 3 la lingua mia non è di tanta facundia che dire potesse ciò che nel pensiero mio se ne ragiona; ugualmente in Rime XLIV 8 è forte a lingua mia di ciò com parla, Vn XXVIII 2 e XXXI 15 62. Per il linguaggio dei " putti... che, per non poter esprimere l'erre, in luogo di ‛ madre ' dicono ‛ mamma ' et in luogo di ‛ padre ' ‛ babbo ' " (Vellutello), in If XXXII 9; per il linguaggio di Amore, in Vn XXIV 3. Per le " parole " aspre con cui si apostrofano i dannati, in If XI 72. Con il valore di " discorso ", in If XV 87 convien che ne la mia lingua si scerna; Pd VI 63 nol seguiteria lingua né penna; XI 23 hai voler che si ricerna / in sì aperta e 'n sì distesa lingua / lo dicer mio; XXXIII 70 fa la lingua mia tanto possente; da segnalare anche la variante se fior la lingua aborra (invece di la penna), in If XXV 144, su cui cfr. Petrocchi, ad locum.
L. indica anche il complesso delle parole e delle locuzioni usate come mezzo di espressione: il " latino ", la lingua nostra, come la definisce Sordello (Pg VII 17; Vn XXV 3); il " volgare italico ", la lingua di sì (Vn XXV 5; anche § 3); Pg XI 98 Così ha tolto l'uno a l'altro Guido / la gloria de la lingua, " dicendi in lingua materna " (Benvenuto); Cv I III 4 per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato; V 9, VI 10, VII 13, IX 2 (due volte) e 5, IV XXI 6 (due volte); il " provenzale ", cioè la lingua d'oco (Cv I X 11 e Vn XXV 4); la lingua di Adamo (Pd XXVI 124), parlata dai posteri sino alla confusione babelica a cui sembra riportare il clima di diverse lingue dell'Inferno (If III 25), di " vari e differenti linguaggi " poiché i dannati provenivano da diverse parti della terra (il termine è qui usato accanto a ‛ favella ' [v.] che ha una connotazione diversa). Ugualmente in Cv I XI 15 Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d'ingegno apprendere bene la lingua strana, e 16.
Le Teorie Dantesche Sulla Lingua. - Una riflessione sistematica e approfondita sui problemi del linguaggio si trova solo in un giro di anni e d'interessi preciso dell'attività dantesca: soprattutto, come ovvio, nel De vulg. Eloq. (e in parte nel contemporaneo Convivio), ma con un'importante ripresa in alcuni versi del XXVI del Paradiso. In linea di massima tale riflessione s'inserisce nelle linee portanti del pensiero linguistico medievale, quale, in modo raramente sistematico ma per lo più legato alla soluzione di singole questioni teologiche e filosofiche, si era venuto enucleando dalla tarda antichità nel solco di due filoni principali: l'esegesi di taluni luoghi biblici (in particolare del Genesi) e il commento a opere aristoteliche come il De Interpretatione (non sorprende che anche in questo caso, come tipico del pensiero medievale, una tradizione di pensiero si fissi in margine ad auctoritates da commentare). La conoscenza sempre più larga che si è venuta acquisendo del pensiero linguistico del Medioevo consente non solo di situare storicamente in modo più concreto le teorie dantesche, ma anche di moderare gli entusiasmi sul carattere e la portata di taluni aspetti di esse ritenuti, più o meno a torto, decisamente innovatori e anticipatori.
Ciò naturalmente non significa negare l'autonomia e, in vari casi, la sostanziale novità delle posizioni di D., che in generale tanto più si staccano dalla media concettuale del suo tempo quanto più scaturiscono dalla novità stessa dell'oggetto a cui si applica la riflessione dell'autore, vale a dire la realtà delle l. volgari: poiché, ad es., proprio dalla meditazione sul particolare carattere di queste ultime nasce la dottrina dantesca della costituzionale mutevolezza del linguaggio, evidentemente preclusa a chi continuava a fondare le proprie concezioni linguistiche sull'esperienza del latino letterario, per definizione stabile e sottratto alla dinamica dei mutamenti nel tempo e nello spazio. E nella stessa opera centrale di D. sul problema linguistico, il De vulg. Eloq., non tanto importa alla fine l'originalità e novità delle singole tesi, quanto la decisione preliminare d'investire d'interesse concettuale la realtà ancora fluida e non regolarizzata dei volgari e delle loro istituzioni letterarie, trasferendo a essi il bagaglio delle nozioni linguistiche e retoriche elaborate dalla tradizione per il latino: sicché, in concreto, la valutazione delle teorie dantesche di ‛ linguistica generale ' e storia del linguaggio va sempre rapportata a quelli che erano gl'interessi e gli scopi fondamentali del trattato, cioè la costruzione di una teoria e una precettistica dell'eloquentia volgare; in lui insomma la linguistica è sempre subordinata a una retorica e a una poetica.
Veramente già nella Vita Nuova si trova un accenno che sembra implicare una precisa concezione del linguaggio, e precisamente laddove D. osserva (Vn XIII 4): lo nome d'Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operazione sia ne le più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: Nomina sunt consequentia rerum. La massima deriva dalla più canonica tradizione giuridica: già nelle Institutiones giustinianee (II, tit. 7, De donat. § 3) si legge: " nos... consequentia nomina rebus esse studentes... "; la glossa accursiana interpreta qui consequentia con " alias convenientia ", e in altri luoghi rimanda alla stessa degnità, riportandola in varie formule affini come " nomina sunt consequentia rebus " (assai vicina a quella di D.) o " nomina sunt consequentia seu convenientia rebus " o " nomen consequens est rei " e così via; in un caso la massima si applica come in D. a un nome proprio, quando a proposito dell'imperatore Leone la glossa osserva: " Et nota quod nomen consequens est rei, nam leo fortissimus est bestiarum ". In seguito affermazioni del genere compaiono con frequenza in testi giuridici post-accursiani (e a volte anche nei canonisti), come ad es. in un passo particolarmente interessante della glossa al Liber Augustalis di Marino di Caramanico; e non sono neppure estranee alla tradizione filosofico-teologica (s. Tommaso). D'altronde ci si può chiedere se quella massima giuridica abbia un rapporto con la teoria, sostenuta in particolare da Eunomio, di una precisa corrispondenza tra i nomi e le cose voluta da Dio per rivelare il carattere delle cose stesse (ma tale posizione restò, nel pensiero cristiano, nettamente minoritaria).
La notorietà e autorevolezza del testo o dei testi cui D. si riferisce giustifica il semplice rimando sì come è scritto; ma si noti che al posto del dativo delle fonti in D. vi è un genitivo (rerum), con conseguente spostamento di valore del precedente participio, che non ha più funzione verbale-aggettivale, ma di sostantivo. Si è pensato (Nardi) a variante accidentale, o perché D. citasse a memoria, o perché nella sua fonte si fosse introdotta la lezione rerum, o infine per errore nell'archetipo della Vita Nuova; ma sembra più probabile che la sostituzione sia coerente allo spostamento che D. fa assumere al significato della massima, che non deriva più (come generalmente nei giuristi) da una preoccupazione di esattezza linguistico-giuridica, per cui i nomi devono adeguarsi con precisione alle cose cui si riferiscono, ma dall'idea che il nome non può non risentire delle qualità implicite nella cosa (persona) che designa, mentre a sua volta le adombra e contiene: " sono le cose che, in virtù delle caratteristiche concrete da cui sono accompagnate, influenzano il segno che le designa ", e " i nomi finiscono con l'essere partecipi nel loro valore delle qualità della cosa designata " (Pagliaro). Si tratta allora di un'applicazione del principio giuridico in questione alla diffusissima abitudine medievale dell'interpretatio nominis, per cui il nome proprio rivela l'essenza della persona cui è attribuito, quale D. stesso ha più volte ormeggiato nella Vita Nuova (particolarmente a proposito del nome di Beatrice) e oltre (ad es. in Rime CVI 150 ss., e in Pd XII 79-81). Non conviene comunque caricare il passo in questione di troppi significati: circoscritto com'è, e limitato a un nome proprio, nonché isolato anche nel tempo rispetto al momento delle vere e proprie meditazioni linguistiche di D., non se ne può certo inferire una concezione globale della natura del linguaggio e tanto meno una contraddizione rispetto alla tesi, sostenuta più tardi e comune al pensiero medievale, della significazione ad placitum, ossia del legame convenzionale tra i nomi e le cose.
Nel I libro del Convivio D. affronta non tanto questioni generali sulla natura del linguaggio, quanto il problema concreto, e per lui urgente, del rapporto e paragone tra latino e volgare e della dignità culturale di quest'ultimo (v. GRAMATICA). Da quest'angolo visuale tuttavia D. può già toccare temi di portata più ampia, come soprattutto in un passo (Cv I V 8-10) che anticipa chiaramente un argomento centrale nella riflessione del De vulg. Eloquentia. Opponendo la stabilità e incorruttibilità del latino al volgare non stabile e corruttibile, D. osserva che il latino delle scritture antiche de le comedie e tragedie è quello medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta. Onde vedemo ne le cittadi d'Italia, se bene volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se 'l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì ch'io dico, che se coloro che partiron d'esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante. Argomento ed esempio torneranno di lì a poco nel De vulg. Eloq., e come qui anche nel trattato latino la tesi dell'intrinseca mutevolezza dei volgari sarà collegata a quella del loro carattere di strumento comunicativo plasmato liberamente dalla volontà dell'uomo (a piacimento risponde esattamente alle formule ad placitum, a nostro beneplacito). Anzi è giusto a questo proposito che D. annuncia l'imminente composizione del De vulg. Eloq., terminando il passo citato con le parole: Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza. Il che indica pure che proprio nella dottrina in questione era uno dei perni concettuali intorno a cui D. intendeva costruire la sua opera.
Notevole anche il passo (Cv I VII 14-15) sull'impossibilità di tradurre adeguatamente in altra I. testi poetici: E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia. E questa è la cagione per che Omero non si mutò di greco in latino come l'altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d'armonia; ché essi furono transmutati d'ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno. La fonte del passo è stata indicata (v. A. Marigo, in " Atti e Mem. Acc. Scienze Lett. ed Arti in Padova " n.s., XXXI disp. II [1914-15] 241-246) nella lettera dedicatoria di s. Girolamo alla sua versione e rielaborazione del Chronicon di Eusebio (Migne, Patrol. Lat. XXVII 34), dove sono addotti gli stessi esempi di Omero e del Salterio; e riflessioni sulla difficoltà del tradurre conservando nella nuova l. senso e bellezza dell'originale non mancano in pensatori del tempo di D., come s. Tommaso (citato da Busnelli e Vandelli, Convivio, ad l.) o Ruggero Bacone (Compendium studii, ediz. Brewer, pp. 433 e 466). Nel Convivio l'osservazione è inserita in una delle giustificazioni del fatto che il commento alle canzoni sia volgare e non latino: un commento latino avrebbe portato il loro messaggio a gente di altra l., ma solo quanto alla sentenza, non alla bellezza (cfr. poi Cv I VII 13), tutta perduta nella traduzione. Pertanto essa s'inserisce nella teoria della poesia (dottrinale) come congiunzione di bontade e bellezza che restano tuttavia partite e diverse, e nella relativa concezione della bellezza come ‛ ornato ' (v.): ma di questa concezione il passo in questione rappresenta anche un approfondimento implicito in senso formale, per l'insistenza sulla nozione della poesia come musicalità regolata (musaico vale " musicale ": " Lingua Nostra " XXX [1969] 33-34); siamo già quindi sulla via della definizione della poesia come fictio rethorica musicaque poita di VE II IV 2.
Ripercorriamo ora le tappe della riflessione linguistica di D. nel De vulg. Eloquentia. Come nel Convivio il punto di partenza è la nozione di lingua volgare, subiectum del trattato, in sé e nel suo rapporto differenziale con le l. artificiali o gramaticae. Di qui, secondo una mentalità eziologica ed esaustiva tipicamente medievale, il passaggio a una serie di questioni sulla natura, l'origine e la storia del linguaggio che occupano, specie di ampio piedistallo dottrinale, i capp. II-IX del primo libro dell'opera. D. incomincia a porsi (VE I II) il problema se il linguaggio, in senso proprio, possa appartenere anche ad altri esseri al di fuori dell'uomo, e conclude che no: solo all'uomo fu necessario, non agli angeli, comunicanti per mezzo di una forma di rispecchiamento intellettuale che li rende trasparenti l'uno all'altro, in sé stessi o attraverso lo Speculum comune, Dio; né, per altre ragioni, agli angeli caduti e agli animali. (In VE I IV 5-6, esplicando ciò che già qui era implicito, si preciserà che Dio, rivolgendosi ad Adamo, non si è espresso in un linguaggio di tipo umano: v. LINGUA DI DIO). Nel successivo cap. III, riprendendo queste nozioni in modo più serrato, D. mette meglio a punto la diversità della posizione dell'uomo rispetto ad animali e sostanze separate: rispetto ai primi, per il fatto che l'uomo è dotato di attributi razionali che si diversificano nei singoli sicché, com'è detto suggestivamente, fere quilibet sua propria specie videatur gaudere, e alle seconde perché, gravato dallo spessore della corporeità, non è capace di una spiritualis locutio. Donde la conclusione: Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere; quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit. Quare, si tantum rationale esset, pertransire non posset; si tantum sensuale, nec a ratione accipere nec in rationem deponere potuisset. Hoc equidem signum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur: nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare videtur ad placitum.
Non mancano in questo complesso di argomentazioni spunti o aspetti più personali rispetto alla cultura ufficiale del tempo. Così la spiegazione del perché i demoni non hanno bisogno di linguaggio, che non si ritrova nei principali teologi (VE I II 4 ipsi daemones ad manifestandam inter se perfidiam suam non indigent nisi ut sciat quilibet de quolibet quia est et quantus est: quod quidem sciunt; cognoverunt enim se invicem ante ruinam suam). Oppure l'enunciazione dei motivi per cui anche gli animali sono privi di linguaggio (§ 5 omnibus eiusdem speciei sunt iidem actus et passiones , et sic possunt per proprios alienos cognoscere; inter ea vero quae diversarum sunt specierum, non solum non necessaria fuit locutio, sed prorsus dampnosa fuisset, cum nullum amicabile commertium fuisset in illis), cui segue la replica a eventuali obiezioni fondate su auctoritates (bibliche e pagane: Ovidio) o su dati dell'esperienza erroneamente interpretati (qui con argomenti ed esempi perfettamente simili al passo di Cv III VII 8 in cui pure è negato un linguaggio agli animali). Cfr. tuttavia, per indicazioni che almeno in parte si avvicinano all'impostazione dantesca, quello che dicono, sulla traccia del De Anima aristotelico, ad es. Alberto Magno (De Anima II III 22) o s. Tommaso (Sum. theol. I II 13 3 ad 3) o Vincenzo di Beauvais (Spec. Nat. XXVI 56) Ma nel complesso la trama concettuale e anche verbale dei due capitoli rimanda a precisi testi anteriori (v. soprattutto la voce ANGELO: Lingua degli A.): in particolare, il ragionamento intorno al carattere insieme razionale e sensibile del signum linguistico e alle ragioni di questa duplicità, s'inserisce in una tradizione continua, dal De Trinitate agostiniano a s. Bonaventura (cfr. Sent. II 10 3 1) ecc.; più direttamente le formulazioni dantesche risentono di varii passi tomistici, come tomistico (Commento alla Politica aristotelica, I lect. I 36) è il generale inquadramento concettuale dei due capitoli.
A maggior ragione si deve riconoscere che nulla di nuovo afferma D. sostenendo la teoria della significatio ad placitum, cioè secondo la libera volontà razionale dell'uomo, e senza che tra nome e cosa esista un predeterminato rapporto naturale: nozione già puntualmente aristotelica (cfr. in particolare De Interpr. I I 16a " nomina rebus ad placitum imponuntur "), trasmessa presto alla cultura medievale da Boezio, commentatore dello Stagirita (cfr. Opera, Basilea 1570, 308, 559, ecc.; ma v. già ad es. Arnobio Adv. Nat. I 59), e divenuta poi di dominio comune, proprio con il modulo ad (secundum) placitum, tanto da entrare in formule banali di scuola, più tardi prese di mira da Rabelais (Le tiers livre, cap. 19 " les voix, comme disent les Dialecticiens, ne signifient naturellement, mais à plaisir ").
Largamente debitrici verso la cultura patristica e medievale (anche se non necessariamente quella più specialistica, come nel caso di Adamo primo parlante) sono pure le successive argomentazioni con cui nei capp. IV-VI D. sostiene che il primiloquium fu appannaggio di Adamo, che la l. da lui usata fu ‛ concreata ' con lui, in tutta la sua struttura, da Dio, e che essa coincide con l'ebraico, in quanto solo i discendenti di Eber, gli Ebrei, sottrattisi all'empia costruzione della torre di Babele, ereditarono quel linguaggio di grazia che fu poi di Cristo (v., per maggiori particolari, ADAMO: La lingua di A.; Ebraico). Anche qui sono tuttavia da sottolineare alcune modulazioni concettuali, se non proprio originali, diverse dalla più diffusa cultura del tempo. Anzitutto l'affermazione, che esplicitamente contraddice in base alla ragione (rationabilius... est ut... credamus) la lettera della scrittura e dei testi autorevoli, secondo cui non fu la ‛ praesumptuosissima Eva ', ma Adamo a parlare per primo (VE I IV 3); e la stessa concezione della l. adamitica come dono divino, forma locutionis già organizzata nei suoi elementi (Dico... ‛ formam ' et quantum ad rerum vocabula et quantum ad vocabulorum constructionem et quantum ad constructionis prolationem, VI 4), laddove il pensiero medievale era generalmente orientato verso la tesi del linguaggio come creazione autonoma del primo parlante in base alla facoltà di parlare in lui infusa da Dio. Tuttavia proprio questa concezione della lingua adamitica come l. di grazia, quindi perfetta e inalterabile, sottratta all'azione perturbatrice del libero uso umano, questa dottrina di sapore nettamente teologico, fa implicitamente difficoltà all'interno stesso della nozione più laica e sperimentale di linguaggio che D. va elaborando, e pertanto sarà, più tardi, rimossa.
Come in tutto il pensiero cristiano, sulla traccia del Genesi, anche per D. è l'episodio della torre di Babele a rappresentare il nodo centrale della storia linguistica dell'umanità. Con accenti vibrati D. descrive in VE I VII l'empia impresa della torre, terza colpa fondamentale dell'incurabilis homo dopo il peccato originale e la universalem... luxuriem et trucitatem in seguito a cui Dio decretò il diluvio: peccato di stolta superbia, con cui l'uomo, istigato dal gigante Nembrot, presumette arte sua non solum superare naturam, sed etiam ipsum naturantem, qui Deus est, e che provocò la punizione divina, benigna ma insieme esemplare e memoranda (perché non fu estinto il genere umano, ma gli effetti del castigo perdurano ancora).
Sui modi concreti con cui si esercitò la punizione divina, e l'immediata confusione delle l., né la Scrittura era esplicita né lo è in genere l'esegesi patristico-medievale, sicché restava spazio per personali congetture. Quella di D. ci appare allo stadio attuale delle conoscenze (e anche dopo l'imponente summa del Borst) sostanzialmente originale (lo ha negato, ma senza argomenti, il Guerri): poiché egli, applicando il criterio del contrapasso, istituisce un preciso rapporto tra gruppi linguistici formati nella confusio e gruppi di lavoratori che attendevano alla costruzione della torre. Come essi erano uniti nell'infame lavoro dalla comunanza di l., così ora è nel lavoro stesso che si realizza la punitrice confusione linguistica, rendendo impossibile, assieme alla continuazione dei rapporti reciproci, anche la prosecuzione dell'opera: caelitus tanta confusione percussi sunt, ut qui omnes una eademque loquela deserviebant ad opus, ab opere multis diversificati loquelis desinerent et nunquam ad idem commertium convenirent. E D. continua: Solis etenim in uno convenientibus actu eadem loquela remansit: puta cunctis architectoribus una, cunctis saxa volventibus una, cunctis ea parantibus una, et sic de singulis operantibus accidit. Qiot quot autem exercitii varietates tendebant ad opus, tot tot ydiomatibus tunc genus humanum disiungitur: et quanto excellentius exercebant, tanto rudius nunc barbariusque locuntur. Dove il contrapasso è chiaramente funzionante non solo nella corrispondenza tra gruppi di lavoranti e gruppi linguistici (quot quot... tot tot: e cfr. Isidoro di Siviglia Etym. IX I 1 " Initio autem quot gentes, tot linguae fuerunt "), ma soprattutto nel rapporto inversamente proporzionale tra importanza del lavoro e barbarie del linguaggio ricevuto. Come osservato dal D'Ovidio, è in base a questo principio che D. in If XXXI 67 ss. farà parlare un linguaggio ch'a nullo è noto a Nembrot, principale responsabile dell'impresa, che come re e capo " costituiva ei solo la classe cui apparteneva ". Lo stesso D'Ovidio ha argutamente suggerito una motivazione dell'interpretazione, per così dire, sociologica che D. dà della confusione babelica, estendendo ad essa l'osservazione sperimentale sul legame tra comunità di lavoro e abitudini linguistiche comuni: " A un fiorentino di quel tempo la trovata di affidare alle Arti la confusione delle lingue dové balenare assai naturalmente e parer felicissima ".
Sulla meccanica della confusio, della formazione di nuovi idiomi e del rapporto fra questi e la l. comune unitaria D. non entra nel merito né qui né altrove. Qualcosa si può dubitosamente dedurre da passi successivi, e soprattutto da VE I IX 6, dov'è detto che omnis nostra loquela, fuorché quella adamitica, è a nostro beneplacito reparata [cioè ‛ rifatta '] post confusionem illam, quae nil fuit aliud quam prioris oblivio. Da questo, e dal passo appena citato di VE I VII, sembra potersi dedurre da una parte che con la confusione fu dimenticata totalmente la l. originaria, dall'altra che fin dall'inizio i gruppi di lavoratori furono in possesso di loquelae certo più o meno ‛ barbare ', ma di loquelae appunto, non di disordinati frammenti linguistici; per cui D. rifiuterebbe di fatto l'opinione abbastanza corrente secondo la quale la confusio non consistette nella creazione da parte di Dio di nuovi linguaggi, ma in una distorsione formale e funzionale delle categorie della l. preesistente (tale interpretazione conseguiva alla difficoltà teologica di ammettere nuovi atti creativi da parte di Dio dopo i giorni della creazione); anzi, come ha giustamente osservato il D'Ovidio, qualsiasi residuo della protolingua unitaria, sia pure in forme distorte, nelle varie l. di confusione, sembrerebbe esclusa dalla decisa affermazione fatta da D. nello stesso capitolo (§ 2), che ogni convenientia di elementi linguistici fra gli idiomi nati con Babele repugnat alla nozione stessa di confusione babelica. D'altra parte l'opinione secondo cui i linguaggi post-babelici sono stati ‛ reparati ' secondo il ‛ beneplacitum ' umano, e quindi anche in un lento processo, parrebbe in contrasto con le affermazioni precedenti di l. " ricevute " (da Dio ovviamente: in vindice confusione recepto, VIII 3) e unitarie a principio confusionis (IX 2). Probabilmente sarebbe astratto chiedere a D. assoluta coerenza nella formulazione di intuizioni-concetti su materia così fluida e scottante, ed evidentemente non elaborata a fondo né centrale nello sviluppo del suo discorso; ma è anche vero che la contraddizione può essere solo apparente, nel senso che si può ammettere, contemporaneamente, sia la nozione delle l. postbabeliche come organismi. in sé compiuti largiti da Dio, sia la tesi che essi, in quanto non più l. di grazia, ma di punizione, vengano immediatamente coinvolti nei processi alterativi cui sono sottoposte tutte le cose umane, e regolati dall'arbitrio umano.
Alla confusione babelica D. attribuisce, ortodossamente (cfr. Gen. 11, 9), la dispersione dell'umanità per universa mundi climata climatumque plagas incolendas et angulos (VE I VII 1), con la formazione di raggruppamenti etnici fondati su quelli linguistici (secondo Isidoro, spesso ripetuto nel Medioevo, " ex linguis gentes, non ex gentibus linguae ortae sunt "). Il cap. VIII del primo libro è dunque occupato dall'analisi della situazione linguistica europea quale si è venuta delineando a partire da quell'episodio.
Il gruppo dei transfughi da Babele pervenuti in Europa vi porta un ydioma... tripharium, cioè una l. unitaria successivamente differenziatasi in tre rami, e questi poi a loro volta in molteplici parlate di ambito più ristretto. La carta linguistica dell'Europa che D. disegna è la seguente. Un ramo dei titolari dell'ydioma... tripharium occupa l'Europa ‛ settentrionale ', dalle foci del Danubio alla Germania e Inghilterra comprese: è il gruppo ‛ germanico ', in cui la l. comune di origine si è poi ramificata per Sclavones, Ungaros, Teutonicos, Saxones, Anglicos, et alias nationes quamplures (v. JO). Un altro gruppo, quelli quos nunc Graecos vocamus, si è stanziato su quanto resta dell'Europa in direzione di oriente a partire dai confini ungheresi, e si è spinto anche oltre, in territorio asiatico (v. GRECIA: Lingua). Ciò che resta dell'Europa, e precisamente la sua zona meridionale, è occupato da un terzo idioma, che ora appare triforme, in quanto alcuni dicono oc, altri oïl, altri sì, cioè rispettivamente i Provenzali qui chiamati Jspani (v. ISPANI), i Franci e i Latini, o Italiani.
Per comprendere con esattezza la distribuzione geografica di D. bisogna tener conto delle rappresentazioni geo-cartografiche del tempo, in virtù delle quali anche la Francia poteva risultare appartenente a una zona ‛ meridionale ' dell'Europa, e tutto il mondo germanico, Sclavones compresi, veniva a situarsi nella fascia settentrionale del continente. Vi si aveva infatti una sorta di forte rotazione in senso ovest-est e di spostamento verso l'alto di varie regioni, per cui ad es. la Germania appariva piuttosto nord-orientale che semplicemente orientale rispetto alla Francia, la zona balcanica era fortemente rialzata tanto che gli Sclavones venivano a trovarsi decisamente a nord dell'Italia, ecc. È interessante che l'unità originaria di due fra questi tre gruppi non sia semplicemente enunciata, ma in qualche modo dimostrata in base a osservazioni empiriche: così per le l. germaniche il signum della comunità di origine sta nella generale presenza dell'affermazione jo (VE I VIII 4), per quelle ‛ romanze ' nel fatto che esse condividono gran parte del vocabolario: Deum, caelum, amorem, mare, terram, est, vivit, moritur, amai, alia fere omnia (I VIII 6, e anche I IX 2-3).
Con tutte le approssimazioni che contiene (‛ errori ' a proposito delle 1. germaniche, esclusione di parte almeno della Spagna, non nominata, dall'ydioma tripharium romanzo, ecc.), la descrizione linguistica dell'Europa schizzata da D. resta di notevole interesse, benché tutt'altro che isolata nella cultura tardo-medievale: v. in particolare, oltre ad es. alle osservazioni di Ruggero Bacone sulla diversità di l. e dialetti nei territori di ‛ l. latina ' (Linguarum cognitio, ediz. Bridges, pp. 81, 89-90), l'accurata quanto precoce partizione delineata dallo storico spagnolo Rodrigo Ximenez de Rada (c. 1175-1247), su cui cfr. G. Bonfante, in " Cahiers d'histoire mondiale " I (1953-54) 680-681. Punti forti dei sondaggi danteschi rispetto a queste e simili descrizioni, e più nei confronti delle linee stabilite molto genericamente da testi canonici come le Etymologiae di Isidoro di Siviglia e derivati, sembrano particolarmente due: l'esigenza di non limitarsi a nominare le popolazioni di I. diversa, ma appunto di fornire un minimo di documentazione linguistica; e soprattutto il tentativo di saldare direttamente la confusione babelica col problema della genesi delle l. europee.
Col cap. IX la riflessione linguistica di D. entra in una fase nuova, trattandosi ora di spiegare le differenziazioni succedutesi a catena all'interno di un medesimo idioma di origine, e le loro ragioni generali; come dice lo stesso autore: Nos... oportet quam nunc habemus rationem periclitari, cum inquirere intendamus de hiis in quibus nullius auctoritate fulcimur, hoc est de unius eiusdemque a principio ydiomatis variatione secuta: il che conferma anche che le tesi fino a questo punto svolte si basavano in linea di massima sull'opinio communis dei testi autorevoli.
Nel presupposto che ciò che vale per un fenomeno vale anche per quelli analoghi, D. passa senz'altro all'ydioma tripharium, e lo asserisce (§ 2) unum... a principio confusionis per il fatto che convenimus in vocabulis multis, velut eloquentes doctores ostendunt; quae quidem convenientia ipsi confusioni repugnat, quae ruit caelitus in aedificatione Babel. In altre parole, il largo accordo lessicale fra i tre idiomi dimostra che essi rimontano a un'unica l. babelica, altrimenti parlanti l. diverse si sarebbero potuti intendere, ciò che contraddice manifestamente alla nozione stessa di confusione babelica.
Ma è evidente che a rigor di logica il ragionamento non corre bene perché unum all'inizio della confusione non è la l. triforme ‛ romanza ', ma quell'altro ydioma tripharium di cui questa rappresenta una delle tre ramificazioni, come detto da D. stesso nel cap. precedente, § 2: D. ha dunque saltato un passaggio logico, unificando due stadi diversi dell'evoluzione linguistica da lui delineata (anche se nel luogo ora citato la tripartizione del primo ydioma tripharium era presentata come in qualche modo già incipiente). Non per ciò appare veramente accettabile l'emendamento proposto dal Vinay: quod unum fuerit a principio, 〈 non autem a principio > confusionis: col quale diverrebbe superfluo e incongruo il passo successivo quae quidem convenientia... Babel (ancor meno accettabile è l'interpretazione offerta dal Panvini). Si tenga pure conto che se D., più correttamente, avesse fatto riferimento all'unità originaria del primitivo gruppo germanico-greco-romanzo avrebbe dovuto portare esempi di una concordanza lessicale fra le l. dei tre rami, cosa che manifestamente non era in grado di fare. Insomma unum a principio va inteso come " partecipe di un'unità originaria ".
Ma questa triplice ramificazione non è che la prima differenziazione nel seno dell'unità originaria, perché quaelibet istarum variationum in se ipsa variatur, come in Italia la l. della metà di ‛ destra ' rispetto a quella di ‛ sinistra ', quella di una regione nei confronti di una regione vicina, nell'ambito di una stessa regione i dialetti di due diverse città, e perfino la parlata di due differenti quartieri della medesima città (v. BOLOGNA): VE I IX 4-5. Tutte queste differenze, continua D., sono spiegabili una eademque ratione, risalgono a una stessa causa: Cum igitur omnis nostra loquela (praeter illam homini primo concreatam a Deo) sii a nostro beneplacito reparata post confusionem illam, quae nil fuit aliud quam prioris oblivio, et homo sit instabilissimum atque variabilissimum animal, nec durabilis nec continua esse potest, sed sicut aia quae nostra sunt, puta mores et habitus, per locorum temporumque distantias variari oportet (VE I IX 6). È caratteristico che, dei due assi su cui si svolge il mutamento linguistico, quello spaziale e quello temporale, D. insista maggiormente sul secondo, e non solo perché la varietà nello spazio gli appare come naturale conseguenza di quella nel tempo, ma certo anche perché ha coscienza che nell'accentuazione del fattore temporale consiste la parte più importante e più nuova della sua concezione della lingua. L'osservazione della varietà geografica dei linguaggi era infatti, come si è accennato, di portata abbastanza comune; molto meno, per quanto a noi possa parere curioso, la consapevolezza della costituzionale mutevolezza delle l. nel tempo, cui ostava anzitutto la quotidiana esperienza del latino quale idioma permanente e stabile nelle sue strutture, come dimostrano chiaramente le stesse pagine sull'argomento del I libro del Convivio: mentre è sintomatico che in questo stesso capitolo del De vulg. Eloq. alla dottrina del necessario variare delle l. faccia immediatamente seguito quella della convenzionalità del latino, in tal modo sottratto alla legge che governa tutti gl'idiomi naturali. Vero è che già nella tradizione retorica antica non mancano spunti precisi in merito, da Quintiliano (Inst. orat. VIII III 26) a s. Girolamo (Comm. in Ep. ad Gal. II 3 " latinitas ipsa et regionibus quotidie mutatur et tempore ") a Isidoro di Siviglia Etym. IX II 38-39 (benché limitato ai vocaboli indicanti le gentes), e celebri passi dell'Ars poetica oraziana sull'argomento (vv. 60-62, 70-72) sono esplicitamente ripresi da D. in Pd XXVI 137-138 e già in Cv II XIII 10: ma in nessuno di questi si passa, come invece in D., dall'osservazione empirica alla formulazione di una ‛ legge ' generale e assoluta, sicché egli può bene far precedere le sue affermazioni in merito dalla formula orgogliosa audacter testamur. Dunque, riprende D., non c'è da nutrir dubbi sulla tesi della variazione linguistica nel tempo, perché in tutte le nostre cose ci differenziamo più dai nostri antichissimi concittadini che dai contemporanei anche più lontani, e se risorgessero gli antichi Pavesi si troverebbero a parlare una l. diversa da quella dei Pavesi antichi (cfr. Cv I V 9). E di questo non c'è de stupirsi più di quanto ci stupisca il fatto che non ci accorgiamo del processo di crescita di una persona, poiché le cose che variano lentamente ci appaiono stabili: così avviene anche per la l. di una stessa città, che si muta a poco a poco, in una lunga successione di tempo, mentre la vita umana è per sua natura brevissima; e perciò non c'è da meravigliarsi se gli uomini qui parum distant a brutis ritengono che la stessa città abbia avuto sempre la medesima l. (analoga polemica in VE I VI 2 contro chi s'illude che la parlata del proprio luogo di nascita, fosse pure una qualsiasi Pietramala, sia la stessa che fu di Adamo). Se dunque la l. di una stessa gens si muta nel tempo, ne consegue che varii anche tra chi è separato nello spazio, come i mores e gli habitus, che non sono resi stabili né dalla natura né da una legge (consortio), ma si formano secondo l'arbitrio umano (humanis beneplacitis) e la ‛ localis congruitas ', cioè (come va rettamente inteso) la vicinanza nello spazio (VE I IX 7-10). Nel paragrafo successivo, che chiude il capitolo e tutta questa parte, il discorso torna circolarmente, con abile procedimento costruttivo, alle premesse del proemio: cioè al tema delle l. convenzionali, create appunto come rimedio all'infinita variazione linguistica nel tempo e nello spazio, stabili e regolamentate, e perciò tali da permettere lo scambio coi contemporanei geograficamente lontani e la continuità culturale con gli antichi (v. GRAMATICA).
A questo punto la lunga introduzione di teoria e storia generale del linguaggio è conclusa, e D. passa a un confronto fra le tre l. dell'l'ydioma tripharium e a un'enumerazione dei vari dialetti italiani (VE I X); quindi all'elaborazione della sua teoria del volgare illustre, dapprima nella sua pars destruens, mostrando che nessuna parlata italiana s'identifica con esso (I XI-XV), poi nella sua parte costruttiva (I XVI-XIX). E v. ancora, in particolare, OC; OIL; SÌ; TRIPHARIUS.
Occorre tener presente che tutta l'ampia trattazione dei capp. I-IX del De vulg. Eloq. obbedisce sì a un gusto enciclopedico tipicamente medievale, e facilmente comprensibile in un ‛ filosofante ' di fresche acquisizioni culturali com'era D. al tempo del trattato; ma anche che essa ha una precisa funzione nell'economia concettuale dell'opera e che molteplici sono i legami sostanziali che l'uniscono a taluni nodi fondamentali della concezione dantesca del volgare, quali sono svolti nella sezione successiva. Intanto si comprende come D. sentisse il bisogno di un piedistallo teorico tanto più largo quanto più fluida e sfuggente, e nuova alla riflessione, appariva la realtà su cui egli opera, quella cioè del volgare o dei volgari: da questo punto di vista il fatto che tutti i prolegomeni in questione si dipanino a partire dalla nozione di volgare, subiectum su cui si fonda il trattato, ma che a sua volta dev'essere teoreticamente fondato, appare molto più che una contingenza dell'argomentazione, e ha ben altro che il carattere di una mera digressione erudita. Di più: la nozione stessa di naturalità dei volgari come fatto in sé non negativo, ma positivo (nobilior est vulgaris...), che sintomaticamente si affaccia sulla soglia del trattato, non consente soltanto la fondazione di una retorica del volgare, in tensione agonistica e in emulazione verso il latino, stabile e perfetto ma artificiale, bensì risponde anche, riscattandola, alla constatazione che sorgeva dall'analisi della preistoria dei volgari, e cioè che essi erano pur sempre il prodotto di un processo storico di segno negativo, una conseguenza della peccaminosa pagina storica di Babele. E d'altra parte, come il latino appariva a D. una prima riparazione degli effetti di quella punizione, così la nozione di volgare illustre, regolamentabile e stabilizzabile secondo norme affini a quelle che reggevano la gramatica, e anzi costituite sulla loro imitazione (v. in particolare VE II IV 3), per problematica che appaia di fatto, certo risponde anche a quella stessa esigenza di reparatio, obbedisce alla necessità ben medievale di stabilità e immutabilità.
In questa prospettiva è anche possibile comprendere meglio le ragioni che hanno indotto D., a notevole distanza di tempo dall'epoca del De vulg. Eloq., a riprenderne uno dei motivi concettuali più importanti, rettificando le proprie tesi in un punto sostanziale. Già nello stesso trattato latino la concezione dell'idioma adamitico come inalterabile, in quanto opera divina, appariva in latente contrasto con la teoria generale, cara a D., della mutevolezza di ogni l. di natura: come sembrano rivelare lo stesso uso del verbo ‛ fabricare ' in VE I VI 7 e soprattutto, nel brano citato di I IX 6, l'introduzione parentetica e quasi frettolosa dell'eccezione adamitica (v. ADAMO: Lingua). Negli anni tra il De vulg. Eloq. e il Paradiso D. ha evidentemente rimeditato il problema, forse anche riapprofondendo certi testi (a cominciare da Aristotele), ed è giunto a sanare quella contraddizione, estendendo la legge della variabilità delle l. naturali anche a quella di Adamo. E - commenta il Nardi - " gli stava così a cuore, che si risapesse questa nuova conquista della sua mente, che, incontratosi nel cielo stellato col vecchio padre Adamo, ne coglie l'occasione per mettergli in bocca la nuova dottrina ". Infatti, in Pd XXVI, Adamo, interrogato fra l'altro sulla l. da lui usata (v. 114), risponde (vv. 124 ss.): La lingua ch'io parlai fu tutta spenta / innanzi che a l'ovra inconsummabile / fosse la gente di Nembròt attenta: / ché nullo effetto mai razionabile, / per lo piacere uman che rinovella / seguendo il cielo, sempre fu durabile. / Opera naturale è ch'uom favella; / ma così o così, natura lascia / poi fare a voi secondo che v'abbella. In questi ultimi versi è stato notato lo stretto rapporto con una formulazione del De Regimine principum di Egidio Colonna (nel volgarizzamento del 1288 pubblicato da F. Corazzini, Firenze 1858, 266): " naturale cosa è che l'uomo favelli, e la natura lo 'nsegna all'uomo; ma la favellatura, qual sia tedesca o francese o toscana, la natura non la 'nsegna, anzi conviene che l'uomo la 'mpari da sé o per altrui " (cfr. F. Mazzoni, Contributi di filologia dantesca. Prima serie, Firenze 1966, 122); e in genere è evidente il legame con i concetti e la terminologia del De vulg. Eloq. (piacere = placitum, beneplacitum, la lingua come effetto razionabile, ecc.). Da queste premesse discende la correzione di un'altra affermazione del trattato: il nome del sommo bene usato all'epoca di Adamo era I - comunque lo si interpreti -, e solo in seguito diventò El, cioè la denominazione ebraica di Dio che nel De vulg. Eloq., coerentemente alla tesi ivi sostenuta, era identificata con quella usata da Adamo: in altre parole, l'ebraico non coincide con l'adamitico, ma ne è uno sviluppo successivo, ed è significativo che a questo proposito D. introduca la parafrasi dei versi oraziani sull'uso d'i mortali che è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene (Pd XXVI 133-138). Si noti che, come prima l'affermazione dell'incorruttibilità del primiloquium adamitico discendeva dalla tesi della sua natura divina, così ora, per sostenerne il carattere perituro, è necessario rimuovere quella tesi: ciò che D. non fa esplicitamente, ma sì implicitamente, parlando di una l. non più solo fabricata da Adamo, ma da lui ‛ fatta ' (l'idïoma ch'usai e che fei, v. 114, cioè - si potrebbe parafrasare - ‛ la lingua che io non solo usai, ma creai ').
Com'è stato osservato, allo stesso modo che l'opinione espressa nel De vulg. Eloq. sulla parlata di Adamo non riposava su alcuna affermazione cogente dei testi sacri, né sulle concezioni prevalenti nei padri e nei teologi, così quella avanzata più tardi poteva appoggiarsi su taluni passi scritturali e su punti di vista di posteriori esegeti (il Nardi ha richiamato la posizione di Filastro o Filastrio da Brescia - seconda metà del IV sec. - per cui era eretico ritenere che la l. di Adamo fosse l'ebraico, essendosi già avuta in realtà una diaspora linguistica prima di Babele). L'eventuale appoggio di determinate auctoritates, o la stessa intrinseca forza concettuale che possedeva la teoria dantesca della mutevolezza delle l. - tale da far apparire naturale che D. ne traesse tutte le necessarie conseguenze -, non bastano tuttavia a spiegare le ragioni del passo, e soprattutto il fatto che D. abbia sentito il bisogno d'inserire questa sua palinodia come hors-d'oeuvre all'interno della stessa Commedia, e tra ben più gravi questioni dottrinali. E se è vero che le teorie linguistiche del De vulg. Eloq. vanno viste in sostanza quali impalcature di una costruzione che mira a giustificare una concreta prassi letteraria e culturale, allo stesso modo ora, secondo l'acuta osservazione del Contini (Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi, Torino 1970, 343), i versi sulla l. di Adamo vanno interpretati alla stregua di " una sorta di blasone interno alla Commedia, ad autogiustificare il paradosso del poema sacro in una lingua peritura ". Con essi, la battaglia a favore del volgare, che già si valeva nel De vulg. Eloq. della nozione positiva e privilegiante della sua ‛ naturalità ' (ma ostacolata dall'altra dell'origine peccaminosa della variazione linguistica), registra un'altra vittoria, assai più decisiva di quanto non possa sembrare: poiché ora la mutevolezza delle l. non è più una conseguenza della punizione babelica, ma semplicemente un corollario naturale della loro essenza di prodotti liberi dell'attività razionale dell'uomo, tanto che la stessa protolingua di Adamo si è trasformata e spenta. Per cui quei versi suonano anche (sempre con le parole del Contini) come prosecuzione di un tema fondamentale dell'opera e della riflessione dantesca, l'" agonismo del mutabile volgare all'immutabile gramatica ".
Per esprimere il concetto di l., e nozioni affini, D. usa sia in latino che in volgare una tastiera piuttosto ricca ma, a quanto pare, senza tentativi di differenziazione e specializzazione terminologica precisa; in linea di massima ha ragione il Marigo a osservare, per il De vulg. Eloq.; che " Sermo, loquela, lingua, ydioma, vulgare [e va aggiunto locutio] ricevono significati mutevoli anche in passi poco lontani l'uno dall'altro: ora quello generico, ora lo specifico di parlata di popolo, o di lingua letteraria ". Ciò non meraviglia, date le fluttuazioni normalmente presenti sia in latino classico che medievale e la lentezza con cui le l. europee hanno acquisito una terminologia specifica in materia (basti pensare alla tarda apparizione di ‛ dialetto ' e dei termini corrispondenti in altre lingue); e anche oggi voci come ‛ lingua ' o ‛ linguaggio ' hanno conservato una notevole elasticità e polivalenza. Bisognerà poi tener conto, soprattutto per il De vulg. Eloq. e il I libro del Convivio, dell'esigenza stilistica di variatio che promuove la rotazione e intercambiabilità di termini che designano un concetto continuamente ricorrente. Di conseguenza, non pare neppure significativa l'assenza di certi termini altrove comuni in una determinata opera, o la loro presenza solo in questa (per es. il francesismo linguaggio è soltanto nella Commedia, If XXVII 14, XXXI 78 e 80), oppure la ragione ne sarà di carattere stilistico: che idioma, frequente nel De vulg. Eloq., non compaia mai nelle opere ‛ minori ' volgari, ma solo, e qui soltanto nel Paradiso (XV 122, XXVI 114), nella Commedia, potrà essere dovuto al fatto che D. ne sentiva il carattere di voce spiccatamente dotta. Naturalmente la polivalenza semantica dei termini non è proprio assoluta: lo stesso ydioma è adoperato per la l. adamitica e l'ebraico (VE I IV 1, VI 1 e 7, VII 8), o, al plurale, per le varie l. in cui è tuttora divisa l'umanità e per quelle che si formarono all'epoca della confusione babelica (VE I VI 1, VII 7), oppure per idiomi postbabelici poi variamente frazionati (VE I VIII 2 e 6, IX 1), oppure ancora per indicare gruppi linguistici, come quelli germanico e ‛ romanzo ' (VE I VIII 4 - vi si contrappongono i diversi vulgaria in cui esso è franto -, 5 e 6, IX 1 e 2, ecc.): ma non indica mai ciò che noi diremmo un ‛ dialetto '. Altro caso di specializzazione è quello di eloquium (non esiste in D. il corrispondente volgare), che, nei pochi casi in cui appare (Mn II VIII 14, III IV 11, X 3; contestato l'eloquiis di Ep VI 3 - la '21 legge elogiis -), indica sempre, come in latino ecclesiastico, la parola divina affidata alla Scrittura: il che mostra anche, se ce ne fosse bisogno, l'assurdità del titolo De vulgari eloquio attribuito al trattato retorico dai due codici G e T e accettato a lungo per buono.
Ma in genere i vari termini appaiono nel De vulg. Eloq. polivalenti. Si veda il caso di locutio, che nei capitoli preliminari ha il valore di " lingua " (quella volgare e quella artificiale in I I, quella primitiva comune a tutti gli uomini in I VII 8), o più latamente di " linguaggio " come facoltà generale (I II-VI, passim), e più avanti, accanto a questi significati, assume quello più limitato di parlata localmente determinata, delle due metà d'Italia (I IX 4) e addirittura di una gens circoscritta (i " Genovesi ", I XIII 5). Similmente si dica per lingua e loquela, ma d'altra parte anche sermo non viene mai propriamente usato in accezione corrispondente a quella moderna di " dialetto ". I tre termini lingua, loquela, sermone ricorrono anche (mentre vi è assente locuzione) nelle opere volgari di D., dalla Vita Nuova (in cui però non compare ancora loquela) al Convivio alla Commedia, con vario significato, ma s'intende con escursione più ristretta, poiché in sostanza in esse non entra veramente in gioco la nozione di dialetto; a questi va aggiunto, ma solo per la Commedia, favella (v. specialmente If V 54, Pd XVI 33). È da segnalare infine, già nella Vita Nuova (cfr. in particolare il cap. XXV) e poi nel De vulg. Eloq. e nel Convivio, la continua presenza di vulgaris / volgare sia come aggettivo (che determina per es. lingua o locutio, come poi in Ep XIII 31, ma anche sostantivi quali poeta, parlatore: cfr. Vn XXV), sia come sostantivo, accompagnato a sua volta da aggettivi (patrium, illustre, cardinale, ecc.) o da determinazioni (volgare di sì, Cv I X 12; in vulgari oc, VE II XII 3); interessante la formula vulgaris eloquentiae (doctrina), I I 1, ecc., da cui anche vulgaris eloquentes (I X 3). Donde poi il frequente avverbio vulgariter (" in volgare " e simili) e anche l'astratto ‛ vulgaritas ', " natura di volgare ", in VE I X 2.
Bibl. - Gli argomenti sopra esposti sono in genere presenti in tutti i lavori complessivi sul De vulg. Eloq., e in particolare nell'Introduzione e nelle note del Marigo, passim. Si vedano inoltre, almeno: F. D'Ovidio, D. e la filosofia del linguaggio, in Studii sulla D.C., Palermo 1901 (poi in Opere, II, Napoli 1931, 291-325); ID., L'ultimo volume dantesco, Roma 1926, 347-365, 373-418; D. Guerri, Di alcuni versi dotti della D.C., Città di Castello 1908; C. Guerrieri Crocetti, Intorno ad alcuni passi del ‛ De vulg. Eloq. ', Teramo 1920, 5 ss. (= Studii di Critica Letteraria, ibid. 1921, 5 ss.); ID., La natura del linguaggio adamitico secondo la Bibbia, S. Tommaso e D., in " Giorn. d. " XXIV (1921) 35-39; ID., La razionalità del linguaggio secondo S. Tommaso e D., ibid. XXV (1922) 135-137; ID., Divagazioni sul De vulg. Eloq., in Miscellanea di studi danteschi, Genova 1965 (poi in Nel mondo neolatino, Bari 1969, 361-377); B. Nardi, Due capitoli di filosofia dantesca, II. Il linguaggio, in " Giorn. stor. ", suppl. 19-21, Torino 1821 (poi, modificato, in D. e la cultura medievale, Bari 1949, 216-247); F. Di Capua, Insegnamenti retorici medievali e dottrine estetiche moderne nel ‛ De vulg. Eloq. ' di D., Napoli 1945 (poi in Scritti minori, II, Roma 1959, 268 ss.); A. Pagliaro, I " primissima signa " nella dottrina linguistica di D., in " Quaderni di Roma " I (1947), poi in Nuovi saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1956, 215-238; A. Pézard, D. sous la pluie de feu, Parigi 1950, passim; B. Terracini, Natura ed origine del linguaggio umano nel ‛ De vulg. Eloq. ', in Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, 237-246; G. Vinay, Ricerche sul De vulg. Eloq., in " Giorn. stor. " CXXXVI (1959), passim e particolarmente 382-388; ID., La teoria linguistica del ‛ De vulg. Eloq. ', in " Cultura e Scuola " 5 (1962), 31 ss.; A. Schiaffini, Interpretazione del ‛ De vulg. Eloq. ' di D., Roma 1963, 38-62; U. Palmieri, Appunti di linguistica dantesca, in " Studi d. " XLI (1964) 45-53; G. Favati, Osservazioni sul De vulg. Eloq., in " Annali Fac. Lettere Filosofia e Magistero Univ. Cagliari " XXIX (1961-65) 151-213, passim; P.V. Mengaldo, Preistoria e componenti di una tesi dantesca (De vulg. Eloq., I, II 3; III 1-2), in " Rivista di Cult. Class. e Medioev. " VII 1-3 (1965) 679-709; B. Panvini, Origine e distribuzione dei volgari europei secondo il ‛ De vulg. Eloq. ', in " Siculorum Gymnasium " XIX (1966) 174-197; ID., Introduzione a D.A., De vulg. Eloq., Palermo 1968, 16-31. Si integri inoltre con l'ulteriore bibliografia indicata soprattutto sotto le voci Adamo: Lingua; Ebraico; Gramatica. Per il passo di Vn XIII, in aggiunta ad alcuni titoli già citati (in particolare B. Nardi): P. Fiorelli, Nomina sunt consequentia rerum, in Studi del Congresso internazionale di Diritto romano e di Storia del diritto, Verona 1951, I 309 ss.; A. Pézard, op. cit., pp. 355-364; A. Pagliaro, Nuovi saggi, cit., pp. 239-246. Per le concezioni linguistiche medievali cfr. almeno: P. Rotta, La filosofia del linguaggio nella Patristica e nella Scolastica, Torino 1909; F. Manthey, Die Sprachphilosophie des hl. Thomas von Aquin und ihre Anwendung auf Probleme der Theologie, Paderbon 1937; A. Borst, Der Turmbau von Babel. Geschichte der Meinungen über Ursprung und Vielfalt der Sprachen und Völker, Stoccarda 1957-63, II. Per la terminologia si ha un punto di riferimento particolarmente in H.-G. Koll, Die franzosischen Wörter ‛ langue ' und ‛ langage ' im Mittelalter, Ginevra-Parigi 1958.
La lingua di Dio. - Il problema del linguaggio divino, particolarmente in relazione all'esegesi di passi scritturali (specie vari luoghi del Genesi), è spesso affrontato nella tradizione teologica patristica e medievale, tanto da entrare di regola anche nel bagaglio dei temi proposti da opere a carattere enciclopedico-divulgativo (ad es. Isidoro Etym. IX I 11-12; Onorio d'Autun Elucid., ediz. Lefèvre, pp. 363 ss.); e uno dei contesti privilegiati per la discussione di tale problema è, come nel De vulg. Eloq., quello delle modalità di comunicazione tra Dio e Adamo.
In linea generale la domanda se a Dio si possa attribuire un verbum in senso specifico, umano, riceve naturalmente risposta negativa: basti riferirsi alla soluzione di s. Tommaso De Verit. IV 1, che ponendosi la questione " utrum verbum proprie dicatur in divinis ", risponde che " Verbum... vocis, quia corporaliter expletur, de Deo dici non potest nisi metaphorice ", assegnando al creatore solo un " verbum cordis sine voce prolatum ", ma non il " verbum exterius expressum " e neppure il " verbum interius " in quanto già è " exemplar exterioris verbi " e contiene " imaginem vocis "; oppure al modo tradizionale di chiosare il " Dixitque Deus " ecc., di Gen. 1, 3 ss. (ad es. Beda In Pentat. Comm., Gen. 2 " Verba Dei die sexto dicentis non sonabili voce prolata sunt, sed sicut in verbo eius creandi potentia "; Rabano Mauro Comm. in Gen. I 2 " Sed apud Deum purus intellectus est, sine strepitu et diversitate linguarum "). Resta però aperto il problema dei modi con cui Dio ha comunicato e comunica con le creature, in particolare con l'uomo, che ammette varie ipotesi e gradazioni, dalla pura ispirazione interiore, connessa per lo più al possesso di un particolare stato di grazia nella creatura ricevente, alla comunicazione per angelos, a quella per mezzo di elementi e segnali corporei (v. Isidoro, cit.: " Loquitur... Deus hominibus non per substantiam invisibilem, sed per creaturam corporalem, per quam etiam et hominibus apparere voluit, quando locutus est "): per un'articolata casistica cfr., tra i testi più diffusi e autorevoli, Gregorio Magno Mor. XXVII 2 ss. In questo ambito sono possibili anche oscillazioni e discordanze in uno stesso pensatore, come avviene tipicamente in s. Agostino (si paragonino per es. i passi del De Gen. ad litt. menzionati più avanti con Civ. Dei XI 2 e perfino con lo stesso De Gen. ad litt. XI 33).
In D. (VE I IV 5-6) la questione del linguaggio divino è toccata di scorcio e quasi incidentalmente. Posto che la prima parola pronunciata da Adamo è stata il nome di Dio, vel per modum interrogationis vel per modum responsionis (IV 4), sorge un quesito: se si è trattato di una risposta, rivolta a Dio, ne deriva che egli avesse in precedenza parlato, ciò che sembra contraddire alla tesi, sostenuta da D. nei precedenti capp. II-III, che il linguaggio sia prerogativa, fra tutti gli esseri, del solo uomo, con esclusione sia degli animali che degli angeli e demoni (a fortiori dunque di Dio). Ed ecco la soluzione dantesca: Ad quod quidem dicimus quod bene potuit respondisse [Adamo] Deo interrogante, nec propter hoc Deus locutus est ipsa quam dicimus locutionem. Quis enim dubitat quicquid est ad Dei nutum esse flexibile, quo quidem facta, quo conservata, quo etiam gubernata sunt omnia? Igitur cum ad tantas alterationes moveatur aer imperio naturae inferioris, quae ministra et factura Dei est, ut tonitrua personet, ignem fulgoret, aquam gemat, spargat nivem, grandines lancinet, nonne imperio Dei movebitur ad quaedam sonare verba, ipso distinguente qui maiora distinxit? Quid ni?
Il brano presenta precise rispondenze con luoghi agostiniani: anzitutto con De Gen. ad litt. III 10 " [aer] et commotus ventos, et vehementius concitatus etiam ignes et tonitrua, et contractus nubila, et conspissatus pluviam, et congelantibus nubilis nivem et turbulentius congelantibus densioribus nubilis grandinem, et distentus serenum facit [fin qui ripetuto quasi alla lettera da Isidoro Etym. XIII VII 1], occultis imperiis et opere Dei, a summis ad infirma universa quae creavit administrantis; unde in illo psalmo, cum commemorata essent: ignis, grando, nix, glacies, spiritus tempestatis, ne talia sine divina providentia fieri moverique putarentur, continuo subiecit: quae faciunt verbum eius " (cfr. Ps. 148, 8 " Ignis, grando, nix, glacies, spiritus procellarum, / quae faciunt verbum eius "). E da questa menzione del salmo è ben probabile che D. sia stato rimandato a meditare il relativo commento agostiniano, Enarr. in Ps., in Ps. 148, 10-12 " Multi stulti non valentes contemplari et discernere creaturam locis suis et ordine suo, sub nutu et iussu Dei agentem motus suos, visum est illis quia superiora omnia Deus gubernat, inferiora vero despicit, abicit, deserit, ut nec curet ista, nec gubernet, nec regat... Qui ergo disposuit membra vermiculi, non gubernat imbres?... Non tibi ergo videantur casibus moveri, quae verbo Dei in omni motu suo deserviunt. Quo vult Deus, illuc ignis, illuc fertur nubis, sive pluviam, sive nivem, sive grandinem portet ... Ergo, quemadmodum ignis, grando, nix, glacies, spiritus tempestatis, quae faciunt verbum eius, sic omnia quae vanis videntur in rerum natura temere fieri, non faciunt nisi verbum eius, quia non fiunt nisi iussu eius " (cfr. anche, eventualmente, De Trin. III 4, 10).
È notevole che agli evidenti ricalchi della lettera agostiniana faccia però riscontro un significato di fondo ben diverso: mentre s. Agostino interpreta metaforicamente il verbum del salmo come traslato dell'onnipresente volontà divina che determina anche i fenomeni atmosferici, D. propone un'interpretazione più letteralmente naturalistica: la natura, ministra di Dio, può esser stata mossa dalla sua volontà ad quaedam sonare verba, così come normalmente è mossa a produrre i vari fenomeni atmosferici. Si tratta perciò di autentici verba che Dio ha fatto intendere ad Adamo. In questo senso l'ipotesi dantesca appare certo non comune (si consideri anche il valore della chiusa Quid ni?), seppure non priva d'implicite autorizzazioni nella tradizione, per cui va forse un po' mitigata l'affermazione del Marigo che sia " opinione... in tutto personale ".
Uno spunto in direzione della tesi dantesca è tra l'altro reperibile proprio nello stesso De Genesi ad litteram agostiniano: a proposito della comunicazione di Dio con Adamo, s. Agostino si chiede dapprima se essa sia avvenuta " sine ullis corporalibus sonis vel corporalium similitudinibus rerum ", e risponde negativamente, perché è da credere " sic esse deum locutum homini in Paradiso, sicut etiam postea locutus est patribus ... id est in aliqua specie corporali " (VIII 18); più avanti, riproponendo il problema, afferma che una soluzione precisa è impossibile, ma che certo Dio ha parlato ad Adamo " aut per suam substantiam... aut per sibi subditam creaturam ", e che a quelli che non possono cogliere direttamente la sua locutio immateriale, " cum loquitur deus, nonnisi per creaturam loquitur aut tantummodo spiritalem sive in somniis sive in extasi in similitudine rerum corporalium aut etiam per ipsam corporalem, dum sensibus corporis vel aliqua species apparet vel insonant voces " (VIII 27).
Netta è, viceversa, la diversità della posizione di s. Tommaso (cfr. Sum. theol. II II 5 1 ad 3), secondo il quale per Adamo ancora in istato di grazia, come per i profeti, vale il rapporto d'ispirazione interna adombrato da Ps. 84, 9 " Audiam quid loquatur in me Dominus Deus " (e così ad es. Ugo di San Vittore De Arca Noe morali, prol. - secondo quanto sosteneva già Gregorio Magno, cit., cioè che Adamo dopo il suo peccato aveva perso l'originaria capacità di " in divinitatis substantia audire Dominum " - osserva: " Primus homo antequam peccaret non opus habuit, ut ei extrinsecus loqueretur Deus, qui aurem cordis intrinsecus habuit qua vocem eius spiritualiter audire posset, sed postquam foris aurem ad suasionem serpentis aperuit aurem intus ad vocem Dei clausit ").
Per La l. degli Angeli, V. ANGELO.
Bibl. - P. Rotta, La filosofia del linguaggio nella Patristica e nella Scolastica, Torino 1909, passim; C. Guerrieri Crocetti, La natura del linguaggio adamitico secondo la Bibbia, S. Tommaso e D., in " Giorn. d. " XXIV (1921) 35 ss.; D.A., Über das Dichten in der Muttersprache, a c. di F. Dornseiff e J. Balogh, Darmstadt 1925 (rist., ibid. 1966, 84-85); Marigo, De vulg. Eloq . 23-25; A. Pézard, D. sous la pluie de feu, Parigi 1950, 99-100; A. Borst, Der Turmbau von Babel. Geschichte der Meinungen über Ursprung und Vielfalt der Sprachen und Völker, Stoccarda 1957-63, passim; D.A., De vulg. Eloq., a c. di P.V. Mengaldo, I (Introduzione e testo), Padova 1968, XXXIV.