Lingua
di Luis J. Prieto
Lingua
sommario: 1. Introduzione. 2. Lingua e parole. 3. Lingua e codice non linguistico. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il primo problema che si presenta quando si cerca di determinare che cosa sia la lingua è quello d'isolarla all'interno del complesso fenomeno costituito dall'atto di comunicazione verbale, cioè il problema, posto da F. de Saussure, della distinzione tra ‛lingua' e ‛parole'.
I criteri che consentono di riconoscere ciò che, nell'atto di comunicazione verbale, spetta alla lingua ivi adoperata non hanno tuttavia nulla di specificamente linguistico; e, applicati all'atto di comunicazione non verbale, consentono ugualmente di riconoscere il ‛codice' di cui in esso ci si serve. Ora determinare ciò che costituisce la differenza tra una lingua e un codice non linguistico, cioè caratterizzare, all'interno del genere dei ‛codici', la specie che vi formano le ‛lingue', è anche un problema che un tentativo, come quello da noi qui intrapreso, di precisare la nozione di ‛lingua' non può lasciare da parte.
E quindi intorno a questi due problemi che si articolerà la nostra esposizione. Entrambi i problemi - l'uno perché non si pone in modo diverso per una lingua e per un qualsiasi codice non linguistico, e l'altro perché, proponendosi di definire una classe, non si può evitare di definire la sua classe complementare - si collocano, piuttosto che nel campo della linguistica, in quello della semiologia. La trattazione che ne faremo oltrepasserà però i limiti di questa disciplina - presa almeno in un senso stretto - e ci porterà a discussioni che investono il campo della teoria della conoscenza. La necessità di ciò non potrà evidentemente apparire se non nel corso di queste discussioni stesse. Vorremmo però cercare fin d'ora di convincere il lettore della legittimità della nostra maniera di procedere, citando un'affermazione di A. Gardiner, che dice che ‟il parlare è [... un'] attività che consiste nell'applicazione di una [...] scienza, la scienza cioè che chiamiamo ‛lingua'" (v. Gardiner, 19512, p. 62; corsivo nostro). Vedremo, infatti, come la problematica della linguistica contemporanea a partire da Saussure non sia, in massima parte, una problematica specifica, ma l'applicazione a un oggetto specifico di una problematica che riguarda la conoscenza in generale.
2. Lingua e parole
Di fronte alla realtà prima e naturale costituita dalla realtà materiale, l'attività conoscitiva, producendo conoscenze, ne crea un'altra, seconda e storica, costituita da queste conoscenze stesse. L'attività conoscitiva può esercitarsi poi su quest'ultima realtà e produrre nuove conoscenze, che saranno conoscenze di conoscenze. Il fatto che le conoscenze costituiscano una realtà, e siano perciò suscettibili di essere conosciute a loro volta, è stato riconosciuto, per quanto riguarda le conoscenze dette ‛scientifiche', fin da quando le epistemologie ne hanno fatto il loro oggetto di studio. Ci sono, però, anche conoscenze non scientifiche: in opposizione alle epistemologie, che studiano le conoscenze scientifiche, e in opposizione ovviamente alle scienze della natura, che studiano la realtà materiale, è l'avere come+ oggetto le conoscenze non scientifiche che, a parer nostro, caratterizza le discipline che si vengono chiamando, con una designazione che a rigore dovrebbe applicarsi a ogni scienza avente come oggetto una conoscenza e quindi anche alle epistemologie, le ‛scienze dell'uomo'.
Poiché una conoscenza non scientifica ha sempre come oggetto la realtà materiale, l'oggetto di una scienza dell'uomo è sempre costituito da una maniera determinata di conoscere la realtà materiale. Ora, una scienza della natura non lavora ‟su un mero ‛dato' oggettivo, che sarebbe quello dei ‛fatti' puri e assoluti", ma ‟su concetti esistenti" (v. Althusser, 1966; tr. it., p. 162). Non soltanto le scienze dell'uomo, dunque, ma anche le scienze della natura si costituiscono a partire da una conoscenza della realtà materiale - conoscenza che d'altra parte, nel caso delle scienze della natura, può essere una conoscenza scientifica come anche una conoscenza non scientifica. La conoscenza della realtà materiale, a partire dalla quale si costituisce una scienza dell'uomo, svolge però, in quest'ultima, un ruolo affatto diverso da quello che svolgono in una scienza della natura i ‟concetti [pre]esistenti" sui quali lavora una tale scienza. Mentre il lavoro teorico di una scienza della natura, infatti, deve approdare alla sostituzione della conoscenza che si trova al suo punto di partenza con un'altra conoscenza riferentesi alla stessa realtà e rispetto alla quale la prima è detta ‛ideologica', in una scienza dell'uomo non si tratta assolutamente di sostituire con un'altra la conoscenza che si trova nel suo punto di partenza, perché è questa conoscenza stessa che costituisce il suo oggetto e, di conseguenza, è il suo oggetto stesso che svanirebbe se si procedesse a una tale sostituzione. Saussure sembra aver intravisto questa differenza fondamentale che oppone le scienze dell'uomo e le scienze della natura quando, dopo aver osservato che ‟la relazione di identità [tra oggetti] dipende dal punto di vista ⟨variabile> che si decide di adottare" (v. Saussure, 1958, p. 26, col. 3), dice, che, mentre ‟in altri campi [cioè, secondo noi, nelle scienze della natura] si può parlare delle cose ‛da questo o quel punto di vista' con la certezza di ritrovare un terreno solido nell'⟨oggetto stesso>" (ibid., col. 5), in linguistica ‟neghiamo in linea di principio che ci siano oggetti dati, che ci siano cose ⟨che continuano a esistere quando si passa da un ordine di idee a un altro>" (ibid.): ‟in linguistica ci è vietato [...] parlare ‛d'una cosa' da differenti punti di vista [...] giacché è il punto di vista che a la cosa" (ibid.). La restrizione introdotta da Saussure nell'ultimo dei passaggi citati (‟in linguistica ci è vietato ...") permette di interpretarli, ci sembra, nel senso che una scienza della natura, poiché ha come oggetto la realtà materiale, può fissare essa stessa il punto di vista da cui la considera e da cui risulta la maniera in cui la conosce - punto di vista e maniera di conoscere che diventeranno poi l'oggetto dell'epistemologia corrispondente -, mentre in linguistica un tale modo di procedere è impossibile in quanto l'oggetto della disciplina è costituito non già dalla realtà materiale, ma da una maniera di conoscere la realtà materiale, e cioè da un punto di vista dal quale questa realtà vien considerata e dalle identità che ne risultano.
Un ostacolo, e forse il principale, che una scienza dell'uomo trova per costituirsi, è ciò che possiamo chiamare l'‛empirismo spontaneo' del soggetto della conoscenza non scientifica, che l'induce a considerare tale conoscenza come interamente determinata dal suo oggetto o, piuttosto, a non porsi assolutamente il problema di questa conoscenza, che rifietterebbe, per lui, l'oggetto ‛tale quale è'. L'identità sotto la quale il soggetto di una tale conoscenza conosce il suo oggetto gli appare quindi non come il risultato dell'applicazione di un punto di vista ‛che si decide di adottare', ma come l'identità naturale dell'oggetto, l'identità che l'oggetto possiederebbe ‛in sé'. Ora, si comprende male come una conoscenza così ‛naturalizzata' potrebbe diventare l'oggetto di un'altra conoscenza che non sia, rispetto alla prima, una semplice tautologia e non si confonda quindi con essa: è evidente che una conoscenza può apparire come costituente una realtà distinta dalla realtà del suo oggetto e quindi come suscettibile di diventare a sua volta l'oggetto di una conoscenza che non si confonda con essa solo in quanto è riconosciuta come ‛arbitraria', in quanto, cioè, si riconosce che quello che essa è non è la conseguenza necessaria di quello che è il suo oggetto. È nell'empirismo spontaneo del soggetto d'una conoscenza non scientifica e nella conseguente impossibilità in cui si trova un tale soggetto di ‛distaccare' la realtà di questa conoscenza dalla realtà del suo oggetto che si deve cercare, ci sembra, la ragione di ciò che è detto sopra, cioè che una conoscenza non scientifica si riferisce sempre alla realtà materiale e mai, quindi, a un'altra conoscenza. E inoltre quest'empirismo spontaneo della conoscenza non scientifica che spiega forse perché, se esistono discipline che riconoscono esplicitamente di avere come oggetto delle conoscenze, tali discipline sono le epistemologie, cioè le discipline che studiano le conoscenze scientifiche - il che non esclude affatto che le discipline scientifiche, epistemologie comprese, abbiano sofferto anch'esse dell'empirismo spontaneo della conoscenza non scientifica. È infine in quest'empirismo spontaneo che sta senza dubbio l'origine delle difficoltà incontrate dalle scienze dell'uomo nel definire il loro oggetto rispettivo e nel raggiungere così lo status di discipline epistemologicamente autonome.
Non ci sembra dunque affatto sorprendente che sia stato Saussure - cioè un linguista che riconosce esplicitamente come la relazione d'identità tra oggetti non sia data né derivi necessariamente dagli oggetti stessi, ma dipenda dal punto di vista adottato per considerarli - a porsi per primo, cercando di determinare che cosa sia la ‛lingua' nell'atto di parole, il compito di definire l'oggetto della linguistica. Al pari però di quello di qualsiasi scienza dell'uomo, l'oggetto della linguistica è una conoscenza, e l'atto di parole, nel quale si cerca di isolarlo, un atto conoscitivo di un tipo particolare. Per questa ragione noi pensiamo che la soluzione del problema posto da Saussure passi obbligatoriamente per la soluzione di un altro problema di portata più generale: soltanto una volta che si sarà stabilito come una conoscenza sia costituita e che cosa sia un atto conoscitivo si potrà, ci sembra, raggiungere la soluzione del problema saussuriano.
La conoscenza di cui qui si tratta è, beninteso, quella che si ha d'un oggetto quando gli si riconosce un'identità o, il che è lo stesso, quando lo si riconosce come membro di una classe. Poiché ‛concepire' un oggetto vuoi dire riconoscerlo come membro dell'estensione d'un concetto e poiché, d'altra parte, l'estensione di un concetto è null'altro che ciò che si chiama una ‛classe' (la cui ‛comprensione' è il concetto in questione), si può anche dire che la conoscenza cui qui ci riferiamo è quella che si ha d'un oggetto quando lo si concepisce. Quest'ultima formulazione ha sulle precedenti il vantaggio di far meglio apparire i limiti entro i quali ci collochiamo quando parliamo di ‛conoscenza', limiti che sono quelli del concetto e che lasciano fuori la proposizione (e di conseguenza anche il sillogismo). Circa la ragione di tale limitazione, essa risulta forse evidente già dalle considerazioni fatte sinora: la conoscenza che la linguistica prende come oggetto si situa al livello delle identità, e quindi dei concetti attraverso i quali la realtà materiale è colta (v. Prieto, 1972). Le cose, d'altronde, vanno probabilmente allo stesso modo per tutte le scienze dell'uomo. Osserviamo che un soggetto il quale riconosca un'identità a un oggetto, e lo riconosca dunque come membro di una classe, opera necessariamente con concetti. Non c'è di conseguenza nulla di urtante nel parlare di concetti a proposito d'una conoscenza non scientifica. È vero che il soggetto d'una tale conoscenza non esplicita i concetti con i quali opera, ma questo, evidentemente, è un problema tutto diverso.
Riconoscere l'appartenenza di un oggetto a una classe, ovvero concepirlo - il che, secondo quanto abbiamo vi- sto, è la stessa cosa - vuoi dire, da una parte, riconoscerlo come differente da altri oggetti, dei quali si dice che non appartengono alla classe di cui si tratta e che formano la classe ‛complementare' corrispondente; e, d'altra parte, riconoscergli le caratteristiche che presenta e in virtù delle quali differisce da questi ultimi oggetti, caratteristiche che definiscono ciò che si chiama la ‛comprensione' (o anche l'‛intensione') della detta classe. È importante osservare che non si tratta se non di due aspetti di una e medesima cosa. Non si riconosce infatti che un oggetto differisce da un altro oggetto senza riconoscergli una caratteristica che presenta e in virtù della quale differisce da quest'altro oggetto, e non si riconosce una caratteristica che un oggetto presenta senza riconoscere che questo oggetto differisce, in virtù della detta caratteristica, da un altro oggetto. Non si potrebbe dunque riconoscere che un oggetto differisce dagli oggetti componenti il complemento di una classe senza riconoscergli le caratteristiche che definiscono la comprensione di questa classe e, reciprocamente, non si potrebbero riconoscere a un oggetto le caratteristiche che definiscono la comprensione di una classe senza riconoscere che esso differisce dagli oggetti componenti la classe complementare corrispondente. Vale la pena di segnalare di passaggio che, data una classe, non è, secondo quanto abbiamo detto, la sua propria estensione, ma piuttosto quella del suo complemento, che consegue necessariamente alla sua comprensione, e viceversa. Bisogna, di conseguenza, abbandonare la definizione tradizionale di ‛estensione' e dire che l'estensione di una classe è determinata dagli oggetti rispetto ai quali i suoi membri sono riconosciuti come differenti, cioè dagli oggetti che formano il suo complemento? In ogni caso è soltanto così che la nozione di ‛estensione' diventa correlativa di quella di ‛comprensione' e che queste nozioni rispecchiano i due aspetti - si potrebbe dire ‛centrifugo' e ‛centripeto' - di una stessa operazione fondamentale, che sono, da una parte, il riconoscere un oggetto come differente da un altro oggetto e, dall'altra parte, il riconoscergli una caratteristica che presenta.
L'identità che un soggetto riconosce a un oggetto è determinata dalla classe attraverso la quale lo conosce, vale a dire dagli oggetti rispetto ai quali lo riconosce come differente e dalle caratteristiche che di conseguenza gli riconosce. Due oggetti appaiono come identici a un soggetto quando questi riconosce loro la stessa identità, cioè quando li conosce attraverso la stessa classe, riconoscendoli quindi come rispettivamente differenti dai medesimi altri oggetti e riconoscendo loro, di conseguenza, le stesse caratteristiche. Le nozioni basilari, sulle quali si fonderà il trattamento che faremo del nostro problema, non sono quindi né quella di ‛classe' nè quella di ‛identità', ma la nozione di ‛differenza' e il suo correlativo, cioè la nozione di ‛caratteristica', dalle quali derivano le prime.
Un oggetto non può essere differente da se stesso né, di conseguenza, presentare una caratteristica in virtù della quale differisca da se stesso. La differenza, in altri termini, implica l'alterità, il che vuol dire che un oggetto può essere riconosciuto come differente soltanto in rapporto a un oggetto che sia un oggetto altro da lui. La differenza è d'altra parte un rapporto reciproco, vale a dire che se un oggetto è diverso da un altro oggetto, quest'ultimo è necessariamente diverso dal primo. Quando si riconosce dunque che un oggetto differisce da un altro oggetto, si riconosce necessariamente che quest'ultimo oggetto differisce a sua volta dal primo. La stessa cosa, beninteso, può essere formulata in termini di caratteristiche, dicendo che, se si riconosce a un oggetto una caratteristica in virtù della quale esso differisce da un altro oggetto, si riconosce necessariamente a quest'ultimo una caratteristica in virtù della quale esso differisce per parte sua dal primo. Ci sembra però che la reciprocità del rapporto di differenza, per quanto riguarda le caratteristiche che vi intervengono, non possa limitarsi a questo. Data una caratteristica in virtù della quale un oggetto è riconosciuto come differente da un altro, la caratteristica in virtù della quale, secondo quanto abbiamo detto sopra, quest'altro oggetto è riconosciuto a sua volta come differente da quello non può essere, ci sembra, se non una caratteristica determinata, che si definisce per rapporto alla prima. Il rapporto, s'intende, è reciproco, ciò che vuol dire che una caratteristica fa necessariamente parte di una coppia di caratteristiche correlative, e che dal momento in cui si riconosce a un oggetto una caratteristica in virtù della quale esso differisce da un altro oggetto, si riconosce necessariamente a quest'ultimo la caratteristica correlativa corrispondente, in virtù della quale esso differisce a sua volta dal primo. Ora, una coppia di caratteristiche siffattamente correlative non potrebbe, ci sembra, esser formata che da due caratteristiche l'una delle quali sia costituita dall'assenza di ciò la cui presenza costituisce l'altra, cioè da due caratteristiche che possono sempre essere rappresentate da a e à. Se, dunque, si riconosce che un oggetto differisce da un altro perché presenta una caratteristica a, si riconosce necessariamente che quest'ultimo oggetto differisce dal primo perché presenta a sua volta la caratteristica à. Certo, in taluni casi può sembrare che la caratteristica in virtù della quale un oggetto è riconosciuto come differente da un altro non sia quella che forma, stando a quanto precede, una coppia di caratteristiche correlative con la caratteristica in virtù della quale quest'ultimo oggetto è a sua volta riconosciuto come differente dal primo. Si tratta dei casi in cui si ha a che fare con quello che possiamo chiamare, generalizzando un termine che N. S. Trubeckoj adopera per un certo tipo di opposizioni foniche, una ‛opposizione equipollente'. Una tale opposizione si trova, per esempio, tra due suoni che si oppongano perché l'uno è ‛labiale' mentre l'altro è ‛apicale': ora non sembra infatti che la caratteristica ‛labiale', in virtù della quale uno di questi suoni è riconosciuto come differente dall'altro, possa essere considerata come costituita dalla presenza o dall'assenza di ciò la cui assenza o presenza costituisce la caratteristica ‛apicale', in virtù della quale quest'ultimo suono è a sua volta riconosciuto come differente dal primo. E, tuttavia, soltanto in apparenza, che questi casi contraddicono il nostro punto di vista. Quando si riconosce che un suono differisce da un altro suono perché l'uno è ‛labiale' e l'altro è ‛apicale', si riconoscono invero, tra questi oggetti, due differenze: l'uno è riconosciuto come differente dall'altro non soltanto perché è ‛labiale' (a), ma anche perché è ‛non apicale' (ï, e l'altro è riconosciuto come differente dal primo non soltanto perché è ‛apicale' (b), ma anche perché è ‛non labiale' (à) (e nulla cambiano alla cosa eventuali implicazioni sussistenti fra le caratteristiche di cui si tratta; per esempio il fatto che ‛labiale' implichi ‛non apicale', ecc.). Ora, per ciascuna delle differenze menzionate, il giuoco della reciprocità è esattamente quello spiegato sopra: la sola caratteristica che si riconosca necessariamente a un suono, rispetto al quale un altro è riconosciuto come differente in virtù della caratteristica ‛labiale', è infatti ‛non labiale', così come la sola caratteristica che si riconosca necessariamente a un suono, rispetto al quale un altro è riconosciuto come differente in virtù della caratteristica ‛non apicale', è ‛apicale'.
È possibile che, per la trattazione di certi problemi, sia indifferente considerare come costituente il termine positivo o il termine negativo l'una o l'altra delle caratteristiche che formano una coppia di caratteristiche correlative. Una presenza può infatti essere considerata come l'assenza di un'assenza, vale a dire che a può essere considerato come eguale a a e come costituito quindi dall'assenza di ciò la cui presenza costituisce à. Quando affermiamo però che una delle caratteristiche formanti una coppia di caratteristiche correlative è costituita dall'assenza di ciò la cui presenza costituisce l'altra pretendiamo rendere conto di qualcosa di più che un semplice giuoco formale. Una caratteristica che si riconosce a un oggetto, infatti, non può manifestarsi se non in ciò che chiameremo l'αἴσϑησις della porzione di realtà che costituisce tale oggetto, cioè nell'insieme delle modificazioni fisiologiche che la detta porzione di realtà provoca negli organi sensoriali del soggetto. Ora, è attraverso la presenza o l'assenza d'una stessa modificazione degli organi sensoriali che si manifestano rispettivamente, nell'αἴσϑησις, le caratteristiche che compongono una coppia di caratteristiche correlative. Da un punto di vista che, l'ammettiamo di buon grado, può essere qualificato come ‛sostanzialista', non è quindi una qualsiasi delle caratteristiche componenti una tale coppia che ne costituisce il termine positivo o il termine negativo, ma tali sono rispettivamente quella che si manifesta attraverso la presenza di una modificazione degli organi sensoriali e quella che si manifesta attraverso l'assenza di questa stessa modificazione. Vedremo che altri problemi, alcuni dei quali ci interessano in modo particolare in rapporto a quello della distinzione tra lingua e parole, possono essere trattati adeguatamente soltanto se sono abbordati da questo punto di vista ‛sostanzialista'.
Un oggetto appare come tale, e come non confondentesi quindi con il nulla, solo in quanto il soggetto riconosce, nell'αἴσϑησις della porzione di realtà che lo costituisce, la presenza di una determinata modificazione degli organi sensoriali. Ne segue evidentemente che, nell'αἴσϑησις della porzione di realtà che costituisce un oggetto cui si riconosce una caratteristica negativa, si riconosce sempre, oltre all'assenza di una determinata modificazione degli organi sensoriali, che manifesta la detta caratteristica, anche la presenza di un'altra determinata modificazione degli organi sensoriali, grazie alla quale l'oggetto in questione appare come tale. Questa conclusione, però, è valida anche per una caratteristica positiva, e per lo stesso fatto per cui è valida per una caratteristica negativa. Vale a dire che nell'αἴσϑησις della porzione di realtà che costituisce un oggetto cui si riconosce una caratteristica positiva si riconosce sempre, oltre alla presenza di una determinata modificazione degli organi sensoriali che manifesta questa caratteristica, anche la presenza di un'altra determinata modificazione degli organi sensoriali, e che è grazie a quest'ultima, e non grazie alla prima, che l'oggetto di cui si tratta appare al soggetto come tale. Una conseguenza che ci sembra derivare infatti dalla nozione stessa di differenza è che non si può riconoscere che un oggetto presenta una caratteristica e differisce dunque dagli oggetti che presentano la caratteristica correlativa corrispondente se non a condizione che si sia ammessa non soltanto, s'intende, la possibilità di ciò che si riconosce aver luogo, ma anche la possibilità opposta, vale a dire la possibilità che l'oggetto in questione presenti al contrario questa seconda caratteristica e differisca quindi dagli oggetti che presentano la prima. Il riconoscere che un oggetto presenta una caratteristica e differisce dunque da altri oggetti presuppone così una sorta di calcolo di due possibilità contraddittorie, e consiste propriamente nel constatare quale, di tali possibilità, sia quella che ha luogo effettivamente per l'oggetto di cui si tratta. Ora tali possibilità non sono affatto quella d'aver a che fare con un oggetto e quella di non aver a che fare invece con nulla, ma sono, come abbiamo detto sopra, la possibilità che un oggetto presenti una caratteristica determinata e la possibilità che presenti al contrario la caratteristica correlativa corrispondente. Il riconoscere l'oggetto come tale è dunque logicamente anteriore a ogni constatazione riguardante le dette possibilità, e non può quindi esserne la conseguenza, tanto se la constatazione conclude all'effettività della possibilità positiva quanto nel caso contrario. Rappresentando con a e à le caratteristiche correlative manifestate rispettivamente dalla presenza e dall'assenza di una modificazione a degli organi sensoriali, e con u la modificazione degli organi sensoriali grazie alla cui presenza un oggetto cui si riconosce una di queste possibilità appare come tale, si potrà dire che le possibilità previste nel calcolo presupposto da questo riconoscimento sono ua e uà cioè, da una parte, la possibilità d'aver a che fare con un oggetto riconosciuto come tale grazie alla presenza di u e presentante la caratteristica a e, dall'altra, la possibilità di aver a che fare con un oggetto, riconosciuto parimenti come tale grazie alla presenza di u, ma presentante al contrario la caratteristica à.
Abbiamo visto sopra che quando si riconosce a un oggetto una caratteristica che presenta lo si riconosce come differente da altri oggetti. Ora, questi ultimi oggetti sono semplicemente quelli che realizzano la possibilità contraria a quella che si constata verificarsi per esso. Ne segue che è sempre grazie alla presenza della stessa determinata modificazione degli organi sensoriali nelle porzioni di realtà che li costituiscono rispettivamente che un oggetto che è riconosciuto come differente da un altro oggetto e quest'ultimo oggetto appaiono come tali e come non confondentisi quindi con il nulla. Lo schema:
ua≠uà,
che ci permette di rappresentare il calcolo presupposto dal riconoscimento di una caratteristica che un oggetto presenta è, di conseguenza, anche lo schema secondo il quale si stabilisce ogni differenza, ciò che vuol dire che una differenza si stabilisce sì grazie a una presenza (a) e a un'assenza (à), ma pur sempre tra due oggetti che appaiono come tali grazie a una presenza (u).
Nel Corso di Saussure (v., 1916; ed. it., p. 106) si può leggere che ‟la lingua può contentarsi dell'opposizione di qualche cosa con niente". Malgrado ciò che può sembrare, questa affermazione non contraddice quanto abbiamo detto sopra, ma al contrario l'esempio col quale Saussure l'illustra mostra che già per lui una differenza che ‟risulta dall'opposizione di qualche cosa con niente" si stabilisce tuttavia fra termini che appaiono come facenti parte della realtà grazie a una presenza. L'esempio di cui si tratta è quello del genitivo plurale zæn della parola ceca che significa ‛donna', il quale s'oppone agli altri casi non per la presenza di una desinenza particolare, ma per l'assenza delle desinenze che manifestano questi ultimi. In un'opposizione come, ad esempio, quella del nominativo plurale zæna e del genitivo plurale zæn si ha dunque a che fare con termini che si oppongono certo per una presenza (quella della desinenza -a) e un'assenza (quella della stessa desinenza), ma che si manifestano tuttavia come facenti parte della realtà grazie a una presenza (quella del radicale zæn-). Un segno come quello dell'esempio, il cui significante è costituito unicamente da un'assenza, è ciò che si chiama un segno ‛con significante zero'. Ora è interessante osservare che quando un tal segno si trova a essere l'unico segno che una frase comporta e questa rischia dunque di non manifestarsi nel significante attraverso alcuna presenza, il segno in questione assume un significante positivo o, più esattamente, il suo significante viene rappresentato da una ‛variante' positiva. È questo il caso, ad esempio, del segno che significa, in italiano, l'affermazione. Il significante di tale segno si manifesta in generale attraverso l'assenza del significante (positivo, s'intende) del segno che significa la negazione: è così l'assenza di ‛non' che oppone il significante della frase ‛L'ho visto' al significante della frase ‛Non l'ho visto'. Quando però il segno in questione costituisce da solo una frase, il suo significante si manifesta con una variante positiva: ciò che oppone il significante della frase ‛Sì' al significante della frase ‛No' non è soltanto l'assenza di ‛no', ma anche la presenza di ‛sì'. Un'ultima conferma dei nostri punti di vista ci è fornita dai semi a significante zero, non comportanti quindi alcun segno a significante positivo, che si trovano in certi codici non linguistici. Si può ritenere, per esempio, che le luci dello ‛stop' di una vettura costituiscono il significante di uno dei due semi che, da soli, compongono un codice, l'altro avendo come significante l'assenza delle dette luci. Quest'ultimo sema, tuttavia, non viene riconosciuto ovunque non ci siano le luci dello ‛stop', ma soltanto quando la loro assenza venga constatata in una vettura in movimento. Si ha dunque a che fare, quando si riconosce il sema in questione, con un u (una vettura in movimento) che è a (che non accende le luci dello ‛stop') e che differisce dunque dagli u (dalle vetture in movimento) che sono a (che accendono le loro luci dello ‛stop').
Se, come abbiamo proposto, si ammette che conoscere un oggetto equivale a riconoscerlo come membro di una classe, dalla definizione dell'espressione ‛riconoscere come membro di una classe' e dalla reciprocità del rapporto di differenza segue che la conoscenza d'un oggetto presuppone la conoscenza di altri oggetti. Un oggetto che si conosce, e tutti gli altri oggetti la cui conoscenza, in virtù della reciprocità del rapporto di differenza, deriva dalla conoscenza del primo, formano ciò che si chiama l'‛universo di discorso' in riferimento al quale quest'oggetto è conosciuto. L'universo di discorso in riferimento al quale un oggetto è conosciuto costituisce, per il soggetto di questa conoscenza in quanto soggetto di questa conoscenza, tutta la realtà; vale a dire che fuori di questo universo di discorso non ci sono oggetti che apparirebbero come tali al soggetto e che questi non prenderebbe in considerazione, ma soltanto il nulla ovvero ciò che, per lui, si confonde con il nulla. In una pubblicazione precedente (v. Prieto, 1969; tr. it., pp. 181-182) abbiamo denunciato il rovesciamento del processo della costruzione d'una conoscenza che l'empirismo compie quando postula una conoscenza dell'oggetto ‛concreto', vale a dire una conoscenza che ‛esaurirebbe' il suo oggetto e che, rispecchiandolo ‛così com'è realmente', sarebbe di conseguenza ‛naturale', a partire dalla quale si costruirebbero, ‛per astrazione', tutte le altre maniere, le maniere ‛astratte', di conoscere questo stesso oggetto. Abbiamo cercato di mostrare che l'oggetto che un soggetto pretende di conoscere ‛nella sua realtà concreta' è solo un oggetto che tale soggetto conosce attraverso il prodotto logico di tutte le classi attraverso le quali è capace di conoscerlo. Ciò che si pretende essere la conoscenza ‛concreta' d'un oggetto, lungi dal trovarsi all'inizio del processo della costruzione delle conoscenze ‛astratte', ne costituisce, di conseguenza, piuttosto un risultato secondario, una sorta di sottoprodotto. Ora, così come questo empirismo ‛in intensione', occorre evitare, ci sembra, l'empirismo ‛in estensione' (del quale d'altronde noi stessi eravamo vittima nella pubblicazione citata), che consiste nel supporre che la realtà sia dapprima riconosciuta come tale nei suoi limiti ‛naturali', e che sia all'interno di questa realtà ‛totale', e in rapporto a essa, che ogni conoscenza ritaglia poi ciò che costituirà il suo universo di discorso. Un tale empirismo compare tuttavia, in modo più o meno esplicito, nelle definizioni correnti di ‛universo di discorso'. Così si legge in Tarski (v., 19692, p. 68) che ‟in una teoria matematica particolare è talvolta [...] utile specificare esattamente ciò che viene considerato come oggetto individuale nel quadro della teoria; la classe di tutti questi oggetti [...] si chiamerà l'universo di discorso della teoria"; ora, si comprende male dove la specificazione di cui parla l'autore citato potrebb'essere fatta se non all'interno di un insieme più vasto dell'universo di discorso in questione, insieme i cui elementi sarebbero beninteso riconosciuti come facenti parte della realtà prima che la specificazione abbia luogo, e che non potrebbe essere altro, a meno di non spostare indefinitamente il problema, che la realtà nella sua totalità ‛naturale'. Anche Grize (v., 1967, p. 164) osserva da parte sua che quando si cerca di classificare degli oggetti in funzione delle loro diverse proprietà, c'è almeno una proprietà che possiedono tutti: quella di essere dati in un certo modo. [...] Si può dunque ammettere - seguita Grize - che gli oggetti dati costituiscano una classe [che viene chiamata ‛universo di discorso'] quella, precisamente, costituita dall'estensione della funzione proposizionale: ‛x è un oggetto dato nel compito attuale'. L'autore citato ha avuto in precedenza (ibid., p. 150) cura di precisare che in un'espressione come ‟x è un oggetto dato nel compito attuale", ‛x' designa un oggetto. Ora, delle due l'una: o x può designare soltanto un oggetto ‟dato nel compito attuale", e allora l'espressione citata è tautologica; oppure x può designare anche oggetti, riconosciuti come tali e quindi come facenti parte dalla realtà, che non sono oggetti ‟dati nel compito attuale", e allora ritroviamo un universo di discorso che si definisce in rapporto a un insieme più vasto, il quale, per le stesse ragioni indicate sopra, non potrebbe in definitiva essere altro che la realtà ‛totale'. Questa realtà ‛totale', in rapporto alla quale l'empirismo definisce l'universo di discorso e che l'empirismo pone quindi alla base stessa della costruzione d'una conoscenza, non è altro, tuttavia, che la somma logica degli universi di discorso ai quali si riferiscono tutte le conoscenze di cui il soggetto è capace. Lungi, dunque, dal trovarsi all'inizio del processo di costruzione di una conoscenza, la realtà ‛totale' ne costituisce al contrario, come l'oggetto ‛concreto', una sorta di sottoprodotto.
Abbiamo visto che un oggetto che viene riconosciuto come differente da un altro oggetto e quest'ultimo oggetto appaiono come oggetti, e come non confondentisi dunque con il nulla, grazie alla presenza, nell'αἴσϑησις delle porzioni di realtà che li costituiscono rispettivamente, di una stessa modificazione degli organi sensoriali. Ora, dalla definizione di universo di discorso segue che lo stesso può dirsi di tutti gli oggetti componenti l'universo di discorso in riferimento al quale un oggetto è conosciuto, vale a dire che tutti questi oggetti appaiono come tali grazie alla presenza, nell'αἴσϑησις delle porzioni di realtà che li costituiscono rispettivamente, di una stessa modificazione degli organi sensoriali. La presenza di questa modificazione degli organi sensoriali è la manifestazione di ciò che si chiama la ‛caratteristica universale' che definisce l'universo di discorso in questione. Una caratteristica universale, che è sempre positiva, che si manifesta sempre cioè attraverso una presenza, non ha, s'intende una caratteristica correlativa. L'assenza della modificazione degli organi sensoriali la cui presenza manifesta una caratteristica universale non potrebbe, infatti, essere la manifestazione di un'altra caratteristica, universale o no, poiché non potrebbe esserci alcun oggetto che la presenti in ciò che, per il soggetto della conoscenza in questione, costituisce tutta la realtà.
Un'eccezione, secondo noi soltanto apparente, a quel che abbiamo detto finora circa la presenza grazie alla quale un oggetto appare come tale e circa la caratteristica universale di cui questa presenza è la manifestazione, viene costituita da ciò che possiamo chiamare le caratteristiche universali ‛a manifestazioni sostitutive'. Si ha a che fare con una caratteristica universale a manifestazioni sostitutive quando ciò che permette di riconoscere come tali gli oggetti di un universo di discorso non è la presenza di una determinata modificazione degli organi sensoriali, ma la presenza di una tra parecchie determinate modificazioni di questi organi. Il caso è senza dubbio frequente, soprattutto per le conoscenze non scientifiche. Rappresenteremo una caratteristica universale a parecchie manifestazioni sostitutive per mezzo di lettere - ognuna delle quali rappresenterà una di queste manifestazioni - messe tra parentesi e separate dal simbolo ‛⋃' della somma logica. Una caratteristica universale a due manifestazioni sostitutive sarà dunque rappresentata da ‛(a ⋃ b)', volendo così intendere che gli oggetti dell'universo di discorso definito da questa caratteristica universale appaiono come tali grazie alla presenza, nell'αἴσϑησις delle porzioni di realtà di cui sono rispettivamente costituiti, o della modificazione a degli organi sensoriali, o della modificazione b di questi organi.
Non sembra che abbia senso parlare di parecchie manifestazioni sostitutive di una caratteristica universale se ciascuna di queste manifestazioni o, almeno, ciascuna di queste manifestazioni eccetto una, non è allo stesso tempo la manifestazione di una caratteristica (non universale). Ciò vuoi dire che, per poter avere, ad esempio, una caratteristica universale (a ⋃ b), bisogna che nell'universo di discorso da essa definito ci siano o oggetti la cui differenza si stabilisce secondo lo schema:
(a ⋃ b)a≠(a ⋃ b)à,
oppure oggetti la cui differenza si stabilisce secondo lo schema:
(a ⋃ b)b≠(a ⋃ b)ï,
oppure infine sia oggetti la cui differenza si stabilisce secondo il primo che oggetti la cui differenza si stabilisce secondo il secondo di tali schemi. Rispetto dunque al principio enunciato sopra, secondo il quale la modificazione degli organi sensoriali, la cui presenza manifesta una caratteristica (non universale) presentata da un oggetto, non è mai quella la cui presenza permette di riconoscere quest'oggetto come tale, una caratteristica universale a manifestazioni sostitutive non soltanto può costituire un'eccezione, ma addirittura ne costituisce necessariamente una. E però questa necessità stessa ciò che ci induce a pensare che si tratti di eccezioni solo in apparenza. Se si può riconoscere, infatti, una soluzione di continuità fra le parecchie manifestazioni sostitutive di una caratteristica universale - soluzione di continuità senza la quale, evidentemente, non si potrebbe parlare di più di una manifestazione -, ciò avviene, ci pare, appunto perché si traspone al livello del riconoscimento degli oggetti come oggetti un'elaborazione dell'αἴσϑησις che viene fatta al livello della differenziazione degli oggetti tra loro e della quale il soggetto non si serve se non a quest'ultimo livello. Le modificazioni degli organi sensoriali che costituiscono le parecchie manifestazioni sostitutive attribuite a una caratteristica universale non sono dunque determinate ciascuna in rapporto alle altre se non in quanto costituiscono anche le manifestazioni di caratteristiche (non universali), ed è di conseguenza sempre possibile distinguere una modificazione degli organi sensoriali in quanto manifestazione di una caratteristica universale e la stessa modificazione degli organi sensoriali in quanto manifestazione di una caratteristica (non universale).
I meccanismi che abbiamo esaminato finora sono quelli che sono in gioco quando si riconosce a un oggetto una caratteristica che esso presenta. Naturalmente, la conoscenza che si ha d'un oggetto non consiste sempre nel ricono- scergli una sola caratteristica. Quando si riconosce a un oggetto più di una caratteristica, il calcolo che questo riconoscimento presuppone diventa certo più complicato ma, quale che ne sia la complessità - che può essere grande -, esso è retto sempre dagli stessi principi che abbiamo stabilito per il caso più semplice. Abbiamo visto che in quest'ultimo caso il calcolo in questione può rappresentarsi per mezzo dello schema:
ua≠uà,
che si esplicita dicendo: ‟un oggetto, e cioè (poiché per la conoscenza di cui si tratta non c'è nessun oggetto che non sia u) un u può essere a e differire da un u che sia à o, al contrario, essere à e differire da un u che sia a". In casi più complicati si avrà a che fare con schemi come, per esempio:
uab≠uaï≠uà,
oppure:
uab≠uàb≠uaï≠uàï,
ecc. Ciascuna delle possibilità previste dal calcolo rappresentato da uno di questi schemi è la possibilità, per un oggetto, di presentare una o più caratteristiche determinate e differire quindi dagli oggetti che presentano una o più delle caratteristiche correlative corrispondenti. Ciascuna delle possibilità in questione può anche essere definita, tenendo conto di quanto è stato detto a proposito delle espressioni ‛appartenere a una classe' o ‛essere membro di una classe', come la possibilità, per un oggetto, di essere membro di una certa classe. Il calcolo presupposto dal riconoscere che un oggetto presenta una o più caratteristiche può dunque essere considerato come il calcolo di due o più classi o, più esattamente, poiché tali classi si trovano sempre in rapporto logico d'esclusione tra loro e la loro somma logica è per definizione eguale all'universo di discorso, può essere considerato il calcolo di quello che si chiama un ‛sistema di classificazione'.
Abbiamo visto che il riconoscere che un oggetto presenta una o più caratteristiche presuppone sì un tale calcolo ma consiste propriamente nel constatare quale, delle possibilità previste, abbia effettivamente luogo per l'oggetto in questione. Ora se il calcolo, che, per la definizione stessa di ‛universo di discorso', riguarda necessariamente tutti gli oggetti componenti l'universo di discorso, li riguarda tutti allo stesso modo, questa constatazione per contro ne riguarda uno direttamente e riguarda gli altri soltanto in modo indiretto. Se si constata, infatti, che un oggetto è a così da differire dagli oggetti che siano à; si constata anche, ma soltanto attraverso ciò che si constata a proposito del primo, che gli oggetti che siano a differiscono a loro volta da esso. E per questa ragione che riteniamo necessario distinguere tra la conoscenza ‛attuale' d'un oggetto e la sua conoscenza ‛virtuale'.
Si conosce attualmente un oggetto quando si constata la sua appartenenza a una delle due o più classi che compongono un sistema di classificazione. Tale conoscenza, per la reciprocità del rapporto di differenza, implica quella di tutti gli oggetti che il calcolo del detto sistema di classificazione riguarda. La conoscenza, però, di questi ultimi oggetti, che la constatazione fatta a proposito del primo riguarda solo in modo indiretto, è soltanto virtuale. Al carattere attuale o virtuale della conoscenza corrisponde rispettivamente quello del suo oggetto: non si può infatti constatare l'appartenenza d'un oggetto a una classe e averne dunque una conoscenza attuale se l'oggetto in questione non è anch'esso attuale nel senso che è ‛questo' oggetto, questo individuo determinato; e da parte sua la conoscenza virtuale non può, ci sembra, rimanere tale se non a condizione che il suo oggetto sia non questo oggetto, ma un' oggetto, indeterminato in quanto individuo.
Se vogliamo che gli schemi di cui ci siamo serviti finora per rappresentare il calcolo che ogni conoscenza presuppone permettano di rappresentare anche i due diversi gradi di attualità cui, secondo la distinzione fatta sopra, può attingere una conoscenza, bisognerà che essi diventino, ad esempio, nel caso più semplice e per il solo calcolo:
un ua≠un uà, (1)
e, per la constatazione fondata su questo calcolo:
questo ua≠un uà, (2)
schemi che si debbono leggere: (1) ‛un u che sia a differisce da un u che sia à', e, di conseguenza, (2) ‛questo u che è a differisce da un u che sia à'.
Si vede da questi schemi che, per un oggetto, l'essere indirettamente compreso nella constatazione che si fa a proposito di un altro oggetto non è diverso dal semplice essere compreso nel calcolo che tale constatazione presuppone: si riconosce, infatti, che ‛un u che sia à' differisce da ‛questo u che è a' esattamente come si riconosce che differisce da ‛un altro u che sia a'. Se dunque si dice, di un oggetto indirettamente compreso nella constatazione fatta a proposito di un altro oggetto, che lo si conosce virtualmente, si può dire la stessa cosa di ogni oggetto che venga semplicemente compreso nel calcolo che la detta constatazione presuppone. Possiamo dunque definire la conoscenza virtuale come quella che si ha di un oggetto quando questo oggetto sia compreso nel calcolo di un sistema di classificazione, e dire che questa conoscenza viene attualizzata quando si constati l'appartenenza del detto oggetto a una delle classi così calcolate.
Osserviamo d'altra parte che l'identità sotto la quale un oggetto è conosciuto non muta a seconda che tale conoscenza sia attuale o virtuale: è sotto la stessa identità che si conosce (virtualmente) ‛un u che sia a' e (attualmente) ‛questo u che è a'. Ciò non è d'altronde se non una conseguenza della definizione di ‛conoscenza virtuale' enunciata sopra e del fatto che, per quanto riguarda l'identità sotto la quale si conosce un oggetto, non c'è se non il sistema di classificazione sul quale si fonda questa conoscenza che possa essere determinante.
Affermando così che l'identità sotto la quale si conosce un oggetto dipende interamente dal sistema di classificazione sul quale questa conoscenza si fonda non entriamo affatto in contraddizione con l'affermazione di Saussure, citata sopra, secondo la quale l'identità di un oggetto dipende dal punto di vista adottato per considerarlo: l'identità sotto la quale si conosce un oggetto dipende dal punto di vista adottato per considerarlo perché il sistema di classificazione da cui, secondo quanto abbiamo detto, dipende questa identità, dipende esso stesso da tale punto di vista. Infatti, la ‛pertinenza' di un sistema di classificazione, e cioè il fatto che le caratteristiche che definiscono le classi che lo compongono, e queste caratteristiche soltanto, contano per l'identità che si riconosce agli oggetti che questo sistema riguarda, non potrebbe essere spiegata dalle caratteristiche stesse, ma soltanto da un punto di vista dal quale vengono considerati gli oggetti in questione. Si può anche dire, in altri termini, che la pertinenza di un sistema di classificazione consiste nel fatto che, per ognuna delle sue classi, tutti gli oggetti che ne sono membri, e questi oggetti soltanto nell'universo di discorso, sono equivalenti fra loro. Ma questa equivalenza non è, contro ciò che sembra pensare Grize (v., 1967, p. 149), la conseguenza del fatto che le caratteristiche che vengono riconosciute agli oggetti componenti una classe sono tutte comuni ed esclusive a questi oggetti: gli oggetti che compongono una classe non sono equivalenti fra loro perché le caratteristiche loro riconosciute sono ad essi comuni ed esclusive, ma, al contrario, è proprio perché questi oggetti, da un certo punto di vista dal quale vengono considerati, sono equivalenti fra loro, che vengono loro riconosciute le caratteristiche che sono ad essi comuni ed esclusive.
Ora questo punto di vista dal quale si considerano gli oggetti di un universo di discorso, e dal quale quindi dipende la pertinenza del sistema di classificazione cui questi oggetti vengono sottomessi e, di conseguenza, l'identità sotto la quale sono conosciuti, è sempre quello dei rapporti intercorrenti tra gli oggetti in questione da una parte e, dall'altra, una classe di oggetti appartenenti a un altro universo di discorso. Possiamo quindi dire che la pertinenza del sistema di classificazione cui vengono sottomessi gli oggetti di un universo di discorso deriva dal fatto che ognuna delle sue classi corrisponde a una classe rientrante in altro universo di discorso. Se, però, i membri d'una classe, ed essi soltanto nel loro universo di discorso, si trovano tutti in uno stesso rapporto rispetto a un'altra classe, tutti i membri di quest'ultima, ed essi soltanto nel loro universo di discorso, si trovano necessariamente, a loro volta, in uno stesso rapporto riguardo alla prima delle classi menzionate. Ne segue che le corrispondenze dalle quali risulta la pertinenza di un sistema di classificazione, sussistenti tra ognuna delle classi che lo compongono e una classe rientrante in un altro universo di discorso, sono necessariamente reciproche. Vedremo in seguito qualche conseguenza di questo fatto.
Può darsi - è il più semplice dei casi che dovremo esaminare - che le classi rientranti in un altro universo di discorso, alle quali corrispondono le classi componenti un sistema di classificazione, compongano a loro volta un sistema di classificazione, che cioè siano tutte in rapporto logico di esclusione tra loro e che la loro somma logica sia eguale all'universo di discorso in cui rientrano. Ognuna delle classi componenti quest'ultimo sistema di classificazione corrisponde allora, secondo quanto abbiamo detto, a una delle classi componenti il primo, e ne deriva la conclusione che, se un sistema di classificazione trae la sua pertinenza dalle corrispondenze delle classi che lo compongono con classi rientranti in un altro universo di discorso e formanti a loro volta un sistema di classificazione, quest'ultimo sistema di classificazione, possegga o no un'altra pertinenza da un altro punto di vista, possiede comunque quella che risulta dalle corrispondenze che uniscono necessariamente ognuna delle classi che lo compongono con una delle classi componenti il primo. Supponiamo ad esempio che un sistema di classificazione riferentesi a un universo di discorso u, e comportante due classi: ua e uà; tragga la sua pertinenza dal fatto che tali classi corrispondono rispettivamente alle classi, rientranti in un altro universo di discorso y, yn e yò:
ua ---- yn
ua ---- yò.
Queste ultime classi, trovandosi in rapporto logico di esclusione tra loro ed essendo la loro somma logica eguale all'universo di discorso y nel quale rientrano, formano a loro volta un sistema di classificazione, il quale, sia o no pertinente da un altro punto di vista, lo è comunque dal punto di vista delle corrispondenze necessariamente sussistenti tra le classi yn e yò che lo compongono, e le classi ua e uà che compongono il primo.
Il secondo dei casi da esaminare si presenta quando le classi rientranti in un altro universo di discorso, alle quali corrispondono le classi componenti un sistema di classificazione, non compongono a loro volta un unico sistema di classificazione, ma più sistemi di classificazione, il che si manifesta nel fatto che, pur se la somma logica delle classi in questione è eguale all'universo di discorso in cui rientrano, esse non si trovano tra loro sempre in rapporto logico di esclusione, ma a volte in rapporto logico d'inclusione, a volte in rapporto logico d'intersezione. Ognuna delle classi componenti uno di questi ultimi sistemi di classificazione, in ogni modo, corrisponde necessariamente, secondo quanto abbiamo visto, a una delle classi componenti il primo, da cui deriva che se un sistema di classificazione trae la sua pertinenza dalle corrispondenze delle classi che lo compongono con classi rientranti in un altro universo di discorso e formanti a loro volta due o più sistemi di classificazione, ciascuno di questi ultimi sistemi di classificazione, sia o no pertinente da un altro punto di vista, lo è comunque dal punto di vista delle corrispondenze che uniscono necessariamente ognuna delle classi che lo compongono con una delle classi che compongono il primo. Si avrebbe a che fare con un caso di questo tipo se, ad esempio, le classi che formano il sistema di classificazione cui vengono sottomessi gli oggetti di un universo di discorso u, e le classi rientranti in un altro universo di discorso y, alle quali corrispondono le prime, fossero quelle indicate dallo schema seguente:
uabc ---- yno
uabå ---- ynü
uaïc ---- yòo
uaïå ---- yòü
uàbc -------- yn
uàbå -------- yò
uàïc ------------ yo
uàïå ------------ yü.
Come si vede, le classi rientranti nell'universo di discorso y, alle quali corrispondono le classi formanti il sistema di classificazione a cui vengono sottomessi gli oggetti dell'universo di discorso u, non formano a loro volta un solo sistema di classificazione, bensì tre sistemi di classificazione (rappresentati, nello schema, dalle tre colonne in cui le abbiamo distribuite: le classi collocate nella stessa colonna, infatti, sono sempre tra loro in rapporto logico di esclusione - ciò che non sempre si verifica invece per classi collocate in colonne diverse -, e la loro somma logica è sempre eguale all'universo di discorso y in cui rientrano). E ciascuno di questi tre sistemi di classificazione riferentisi all'universo di discorso y, possegga o no una pertinenza da un altro punto di vista, ne possiede comunque una dal momento che ognuna delle classi che lo compongono corrisponde a una classe rientrante nell'universo di discorso u.
C'è in apparenza una terza possibilità, che si presenterebbe quando le classi rientranti in un altro universo di discorso alle quali corrispondono le classi componenti un sistema di classificazione, non compongono a loro volta un tale sistema perché, pur se sono tutte tra loro in rapporto logico di esclusione, la loro somma logica non è eguale all'universo di discorso in cui rientrano. Questa terza possibilità si presenta però soltanto in casi come quello rappresentato dal nostro ultimo schema per ognuno dei sistemi di classificazione che in esso si riferiscono all'universo di discorso y, e può dunque essere ridotta alla seconda.
Si ha di conseguenza sempre a che fare o con due sistemi di classificazione, riferentisi ognuno a un universo di discorso, i quali si forniscono reciprocamente la pertinenza, ovvero con un sistema di classificazione, riferentesi a un universo di discorso, il quale fornisce la pertinenza a più sistemi di classificazione, riferentisi a un altro universo di discorso, i quali la forniscono a loro volta al primo. Ci sono certo, tra queste due possibilità, differenze che ci interessano al massimo grado, vorremmo però sul momento mettere piuttosto l'accento su ciò che esse hanno in comune. Si abbia a che fare con l'una oppure con l'altra delle possibilità menzionate, diremo che i sistemi di classificazione che vi intervengono formano una ‛struttura semiotica'. Ogni sistema di classificazione, e di conseguenza ogni maniera di conoscere gli oggetti di un universo di discorso, presuppone una struttura semiotica, non essendoci classificazione senza un punto di vista che ne garantisca la pertinenza e questo punto di vista essendo, in definitiva, sempre quello di un'altra classificazione, riferentesi a un altro universo di discorso. La maniera in cui si conoscono gli oggetti di un universo di discorso si trova così a essere sempre ‛significativa', nel senso che presuppone sempre una maniera determinata di conoscere gli oggetti di un altro universo di discorso; e ogni classe e ogni concetto si trova a costituire in qualche modo una delle facce di un'entità bifacciale, la cui altra faccia è, beninteso, costituita ugualmente da una classe o un concetto. Nell'aver riconosciuto, più o meno esplicitamente, questi principi, e nell'averli sviluppati e adoperati per spiegare una maniera determinata in cui certi soggetti conoscono certi oggetti - la maniera in cui i soggetti parlanti conoscono i suoni della loro lingua -, consistono senza dubbio i più importanti contributi apportati rispettivamente da Saussure e Trubeckoj alla discussione dei problemi generali delle scienze dell'uomo (con l'aggiunta, per quanto riguarda il primo, dell'affermazione sopra citata che in linguistica è il punto di vista che fa l'oggetto). È interessante osservare però come le discipline vicine alla linguistica che hanno cercato ispirazione in questi autori abbiano avuto a volte la tendenza a concentrare piuttosto la loro attenzione sui rapporti di opposizione che collegano tra loro i fonemi d'una lingua e sulla struttura del tipo che si può chiamare ‛opposizionale' che è il sistema da questi fonemi costituito, trascurando i rapporti che si stabiliscono all'interno di una struttura semiotica fra entità appartenenti a due diversi universi di discorso, rapporti che non possono beninteso essere d'opposizione, poiché l'opposizione collega per definizione entità appartenenti a uno stesso ‛piano', cioè a uno stesso universo di discorso, ma che sono nondimeno i soli rapporti a poter dar conto della pertinenza delle strutture opposizionali. E forse questa tendenza che può spiegare certe forme assunte dallo ‛strutturalismo'.
Gli esempi di struttura semiotica che si presentano immediatamente alla nostra attenzione sono naturalmente le strutture semiotiche formate dai significanti e dai significati delle lingue e, in generale, dei codici. Le classi di segnali che sono i significanti dei semi di un codice (linguistico o no) compongono infatti un sistema di classificazione, il quale deriva la sua pertinenza dal fatto che ognuna delle classi che lo compongono corrisponde a una delle classi di sensi che sono i significati ; e questi ultimi compongono a loro volta uno o più sistemi di classificazione, la cui pertinenza risulta dalla corrispondenza in cui ogni significato si trova rispetto a un significante. Oltre ai codici si trovano strutture semiotiche meno istituzionalizzate di questi e perciò meno agevoli da citare come esempio. Ve ne è tuttavia qualcuna abbastanza chiara perché la sua menzione sia utile. Abbiamo visto, ad esempio, come un soggetto che si serve di utensili li distribuisce in classi, da noi chiamate ‛operanti' (v. semiologia). Ora, tali operanti formano un sistema di classificazione, la cui pertinenza risulta dal fatto che ognuna delle classi che lo compongono corrisponde a una classe di operazioni chiamata ‛utilità', le utilità formando a loro volta uno o più sistemi di classificazione, la cui pertinenza risulta dal fatto che ogni utilità corrisponde a un operante.
I significanti dei semi di un codice, come abbiamo visto, formano sempre un unico sistema di classificazione, e lo stesso vale per gli operanti nei quali un soggetto distribuisce gli utensili di cui si serve. Ciò vuol dire che se nella struttura semiotica costituita da un codice, o in quella che formano gli operanti in cui vengono distribuiti determinati utensili insieme alle utilità corrispondenti, si ha a che fare non con due sistemi di classificazione riferentisi ciascuno a un universo di discorso, ma con un sistema di classificazione riferentesi a un universo di discorso da una parte e più sistemi di classificazione riferentisi a un altro universo di discorso dall'altra, non saranno mai i significanti né gli operanti a formare questi ultimi ma sempre i significati o le utilità. Ora non è questa la sola asimmetria sussistente tra i sistemi di classificazione che si forniscono reciprocamente la pertinenza nelle strutture semiotiche menzionate. L'uno o più sistemi di classificazione formati dai significati di un codice presuppongono infatti un altro sistema di classificazione riferentesi al loro medesimo universo di discorso, al quale sono subordinati e che, di conseguenza, li precede logicamente: si tratta di quello che abbiamo chiamato il ‛sistema di intercomprensione' (v.semiologia). Ora, nulla di simile si verifica per l'unico sistema di classificazione formato dai significanti corrispondenti, vale a dire che il sistema di classificazione formato dai significanti d'un codice non presuppone mai un altro sistema di classificazione che si riferisca al suo stesso universo di discorso e al quale sia subordinato. Le cose vanno allo stesso modo, rispettivamente, per l'uno o più sistemi di classificazione formati dalle utilità degli utensili di cui si serve un soggetto e per l'unico sistema di classificazione formato dagli operanti nei quali questi utensili vengono distribuiti: il primo, infatti, o i primi, sono sempre subordinati a un altro sistema di classificazione che si riferisce al loro stesso universo di discorso, cioè il sistema formato dalle classi in rapporto alle quali le operazioni vengono determinate (v. semiologia), mentre l'unico sistema di classificazione formato dagli operanti non presuppone alcun altro sistema di classificazione che si riferisca anch'esso all'universo di discorso degli utensili.
Chiameremo un sistema di classificazione rispettivamente ‛notativo' o ‛connotativo' a seconda che non presupponga o al contrario presupponga un altro sistema di classificazione, riferentesi allo stesso universo di discorso e al quale sia subordinato. Chiameremo parimenti ‛notativa' la maniera in cui si conosce un oggetto quando essa si fondi su un sistema di classificazione notativo, e ‛connotativa' la maniera in cui si conosce un oggetto quando essa si fondi su un sistema di classificazione connotativo. Possiamo dire di conseguenza che, nella struttura semiotica costituita da un codice o in quella formata dagli operanti e dalle utilità corrispondenti, si ha sempre a che fare, da una parte, con uno e un solo sistema di classificazione notativo: quello che formano i significanti o gli operanti; e, dall'altra parte, con uno o più sistemi di classificazione connotativi: il sistema o i sistemi formati dai significati o dalle utilità. Ora queste asimmetrie che constatiamo nelle strutture semiotiche esaminate a titolo d'esempio non costituiscono affatto una loro particolarità, ma si ritrovano in ogni struttura semiotica, il che vuoi dire che in una struttura semiotica c'è sempre un unico sistema di classificazione notativo, riferentesi a un primo universo di discorso, e uno o più sistemi di classificazione connotativi, riferentisi a un altro universo di discorso. Queste asimmetrie d'altronde permettono, per analogia con quanto si verifica in un codice, di caratterizzare ciascuno in rapporto all'altro i due universi di discorso che intervengono in una struttura semiotica: diremo quindi, a proposito dell'universo di discorso cui si riferisce un sistema di classificazione notativo, che esso svolge, nella struttura semiotica da cui risulta la pertinenza di questo sistema di classificazione, il ruolo di universo di discorso significante; e, a proposito dell'universo di discorso cui si riferisce un sistema di classificazione connotativo, che esso svolge, nella struttura semiotica da cui risulta la pertinenza di questo sistema di classificazione, il ruolo di universo di discorso significato. La sostituzione, da noi compiuta, del termine ‛notativo' al tradizionale ‛denotativo' ci sembra opportuna per ragioni di vario ordine. Da una parte, il termine ‛denotativo' si accorda assai male con un uso generalizzato della nozione di struttura semiotica come quello da noi proposto; ma, soprattutto, ci sembra che la coppia formata dai termini ‛notativo' e connotativo', rispetto a quella formata dai termini ‛denotativo' e ‛connotativo', metta meglio in evidenza il carattere sussidiario proprio di tutto ciò cui è applicabile l'aggettivo ‛connotativo' nel senso da esso assunto nella linguistica e nella semiologia contemporanee.
Bisogna osservare che un sistema di classificazione connotativo - riferentesi quindi all'universo di discorso che, nella struttura semiotica da cui risulta la sua pertinenza, svolge il ruolo di universo di discorso significato - non è connotativo in rapporto al sistema di classificazione notativo, riferentesi al corrispondente universo di discorso significante, dal quale trae la sua pertinenza, e neppure in rapporto ad altri sistemi di classificazione connotativi che eventualmente partecipino alla stessa struttura semiotica e traggano quindi la loro pertinenza dallo stesso sistema di classificazione notativo, bensì in rapporto a quell'altro sistema di classificazione riferentesi allo stesso universo di discorso - e non partecipante alla struttura semiotica in questione - che esso presuppone e al quale è subordinato. Così ciascuno dei vari sistemi di classificazione che supporremo formati dai significati dei semi di un codice è connotativo, non in rapporto al sistema di classificazione notativo formato dai significanti, dal quale trae la sua pertinenza, né in rapporto agli altri sistemi di classificazione formati dai significati e traenti anch'essi la loro pertinenza dal sistema di classificazione formato dai significanti, bensì in rapporto al sistema di intercomprensione, cioè al detto sistema di classificazione, riferentesi anch'esso all'universo di discorso dei sensi, al quale vengono subordinati i sistemi di classificazione formati dai significati.
Da quanto viene detto segue che la pertinenza del sistema di classificazione cui è subordinato un sistema di classificazione connotativo non risulta mai dalla struttura semiotica da cui deriva la pertinenza di quest'ultimo. Essa risulta dunque da un'altra struttura semiotica. Il sistema di classificazione cui è subordinato un sistema di classificazione connotativo non presuppone mai d'altronde un altro sistema di classificazione riferentesi allo stesso universo di discorso e al quale sarebbe subordinato. Vale a dire che il detto sistema di classificazione è sempre un sistema di classificazione notativo e che l'universo di discorso cui si riferisce svolge sempre, nella struttura semiotica onde risulta la sua pertinenza, il ruolo di universo di discorso significante. Ne segue, poiché un sistema di classificazione connotativo e il sistema di classificazione cui esso è subordinato si riferiscono tutti e due allo stesso universo di discorso, che l'universo di discorso che svolge, in una struttura semiotica, il ruolo di universo di discorso significato, partecipa sempre - e in modo logicamente anteriore - a un'altra struttura semiotica, e lo fa sempre nel ruolo di universo di discorso significante. In linea di principio quindi l'universo di discorso significato di una struttura semiotica è sempre al contempo l'universo di discorso significante di un'altra struttura semiotica. E poiché, sempre in linea di principio, l'universo di discorso significato di quest'ultima struttura semiotica è allora a sua volta l'universo di discorso significante di ancora un'altra struttura semiotica, e così via, avremmo a che fare con l'assurdo di una regressio ad infinitum a meno di non raggiungere un universo di discorso che costituisca un'eccezione e che, pur essendo l'universo di discorso significato in una struttura semiotica, non sia al contempo l'universo di discorso significante in un'altra. Ora che un tale universo di discorso ci sia ci sembra indubbio, anche se lo stato attuale dell'elaborazione del problema non permette di precisarne la natura. Forse esso è costituito, per ognuno, dal proprio universo soggettivo (o da uno dei propri universi soggettivi se ce n'è più di uno); ma, s'intende, questa non può essere che un'ipotesi, la cui validità soltanto un'epistemologia del soggetto sarebbe in grado di mettere alla prova.
Circa la subordinazione che rende tale un sistema di classificazione connotativo, essa consiste o piuttosto si manifesta nel fatto che nessuna differenza e quindi nessuna caratteristica che non sia pertinente per il sistema di classificazione sovraordinato, può esserlo per il sistema di classificazione subordinato (v. semiologia). Nello stato attuale delle nostre conoscenze non sapremmo dire nulla di più. Ci sembra però non essere dubbio che questa subordinazione entri in qualche modo nel fatto che un sistema di classificazione connotativo può non essere il solo a fornire la pertinenza al sistema di classificazione notativo da cui trae la propria: se, ad esempio, i significati dei semi di un codice possono formare non un unico sistema di classificazione, ma più sistemi, ciò accade, ci sembra, perché la conoscenza dei sensi acquisita attraverso i significati è necessariamente ‛orientata' verso quella acquisita attraverso le classi componenti il sistema di intercomprensione, e quest'ultimo sistema può in tal modo costituire una sorta di principio unificatore di quella eventuale pluralità di sistemi connotativi.
Ordunque la conoscenza d'un oggetto, se da una parte, in virtù della reciprocità del rapporto di differenza, presuppone, secondo quello che avevamo già visto, la conoscenza degli oggetti formanti con l'oggetto in questione l'universo di discorso cui essa si riferisce, d'altra parte, in virtù di ciò che possiamo chiamare la ‛semioticità' di ogni conoscenza, essa presuppone anche la conoscenza degli oggetti componenti un altro universo di discorso e, se si tratta di una conoscenza connotativa, ancora un'altra conoscenza degli oggetti componenti lo stesso universo di discorso. Ciò però, come si verificava già nel caso della reciprocità del rapporto di differenza, è valido soltanto al livello del calcolo che ogni conoscenza presuppone, vale a dire soltanto al livello della conoscenza virtuale, e non al livello della constatazione che la fa diventare attuale. Infatti, se si vuol essere precisi riguardo a questo aspetto della questione, ciò che occorre dire è che il calcolo di un sistema di classificazione presuppone il calcolo di uno o più altri sistemi di classificazione, riferentisi a un altro universo di discorso, dai quali il primo trae la sua pertinenza; e che, se si tratta del calcolo di un sistema di classificazione ‛connotativo,' esso presuppone anche il calcolo di un altro sistema di classificazione, riferentesi allo stesso universo di discorso, al quale il detto sistema di classificazione connotativo è subordinato. Circa le constatazioni che, fondandosi sui sistemi di classificazione così calcolati, si possono fare a proposito di oggetti rientranti in questi universi di discorso, ci sembra che esista una dipendenza non reciproca della constatazione fatta fondandosi su un sistema di classificazione connotativo rispetto a quelle fatte fondandosi sui sistemi di classificazione con i quali il primo è in rapporto. Ci sembra, infatti, da una parte che non si possa constatare l'appartenenza di un oggetto a una delle classi componenti un sistema di classificazione connotativo senza constatare anche l'appartenenza di un altro oggetto alla classe corrispondente del sistema di classificazione, notativo, da cui il pnmo trae la propria pertinenza; e, dall'altra parte, che non si possa constatare l'appartenenza di un oggetto a una delle classi compollenti un sistema di classificazione connotativo senza constatare anche l'appartenenza dello stesso oggetto a una delle classi componenti il sistema di classificazione, notativo anch'esso, cui il primo viene subordinato e in rapporto al quale è connotativo. Nulla, invece, induce a pensare che la constatazione dell'appartenenza di un oggetto a una delle classi componenti un sistema di classificazione notativo presupponga un'altra constatazione di tal sorta a proposito di questo stesso oggetto o di un altro. In particolare, la constatazione dell'appartenenza di un oggetto a una delle classi componenti un sistema di classificazione notativo non presuppone la constatazione dell'appartenenza di questo stesso oggetto a una delle classi componenti un sistema di classificazione connotativo che sia eventualmente subordinato al primo; e non presuppone neppure la constatazione dell'appartenenza d'un altro oggetto a una delle classi componenti il sistema di classificazione connotativo, o uno dei sistemi di classificazione connotativi, da cui il primo trae la sua pertinenza.
La conclusione di quanto precede è che soltanto una conoscenza notativa può essere attuale in modo autonomo, senza essere, cioè, necessariamente accompagnata da altre conoscenze attuali dello stesso o di un altro oggetto. Per questa ragione riteniamo che soltanto la conoscenza notativa possa definire l'atto conoscitivo, e diremo pertanto che ha luogo un atto conoscitivo ogni volta che un soggetto constata l'appartenenza d'un oggetto a una delle classi componenti un sistema di classificazione notativo. Quest'oggetto, appartenente per definizione all'universo di discorso che, nella struttura semiotica da cui risulta la pertinenza del sistema di classificazione menzionato, svolge il ruolo di universo di discorso significante, costituisce l'oggetto dell'atto conoscitivo in questione. La conoscenza notativa attuale che definisce l'atto conoscitivo trae certo la propria pertinenza da un'altra conoscenza, riferentesi al corrispondente universo di discorso significato. Abbiamo visto però che questa conoscenza connotativa può rimanere virtuale, e che d'altronde essa, se diviene attuale, presuppone un altro atto conoscitivo, poiché la conoscenza notativa cui è subordinata diviene in questo caso necessariamente attuale anch'essa. È d'altra parte possibile che alla conoscenza notativa attuale che definisce l'atto conoscitivo sia subordinata un'altra conoscenza, connotativa, riferentesi allo stesso universo di discorso. Questa conoscenza connotativa può però rimanere virtuale e, se è attuale, presuppone parimenti un altro atto conoscitivo, poiché la conoscenza notativa, riferentesi a un altro universo di discorso, da cui si deriva la pertinenza della conoscenza connotatiya in questione, è in questo caso, come abbiamo visto, necessariamente anch'essa attuale.
Forse ogni atto umano è anzitutto un atto conoscitivo, la sua specificità derivandosi da quella del suo oggetto. È in ogni caso questo punto di vista che abbiamo avuto in mente quando ci siamo fondati, per definire l'atto di comunicazione o ‛atto semico', sulla definizione di ‛segnale' (v. semiologia). Questa definizione di ‛atto semico' non impedisce dunque ma, al contrario, esige che esso venga considerato prima di tutto come un atto conoscitivo o, piuttosto, poiché l'attività ivi esercitata è un'attività sociale, come due atti conoscitivi, che hanno come comune oggetto il segnale e i cui soggetti rispettivi sono l'emittente, che produce il segnale, e il ricevente, che ne è il destinatario. E appunto la conoscenza che l'emittente e il ricevente hanno del segnale nell'atto semico - conoscenza che, in linea di principio, è la stessa per entrambi (v. semiologia) - ciò che costituisce l'oggetto della semiologia e, in particolare, quando l'atto semico di cui si tratta è un atto di parole, l'oggetto della linguistica.
Che la conoscenza che si ha di un oggetto sia una certa conoscenza determinata e non una qualsiasi altra, non ci sembra possa dipendere se non, da una parte, dalla maniera in cui si conosce il detto oggetto, vale a dire l'identità sotto la quale lo si conosce, e, d'altra parte, da ciò da cui risulta la pertinenza di questa maniera di conoscerlo. Ora, abbiamo visto che la maniera in cui si conosce un oggetto dipende dal sistema di classificazione che questa conoscenza presuppone, e che tale maniera di conoscere e il sistema di classificazione da essa presupposto traggono la loro pertinenza da un altro o altri sistemi di classificazione, che formano con il primo una struttura semiotica. Tutto ciò che determina una conoscenza si trova quindi nella struttura semiotica sulla quale questa conoscenza si fonda. Poiché, del resto, in una struttura semiotica non può esserci nulla che non sia determinante per una conoscenza su di essa fondata, possiamo ritenere che lo studio di una conoscenza determinata in quanto conoscenza determinata sia indiscernibile dallo studio della struttura semiotica su cui questa conoscenza si fonda.
L'oggetto della linguistica, abbiamo detto, è la conoscenza che l'emittente e il ricevente d'un atto di parole hanno del segnale prodotto dal primo. Ora ciò che si chiama la ‛lingua' adoperata in un atto di parole è appunto la struttura semiotica sulla quale si fonda la conoscenza che l'emittente e il ricevente hanno del segnale. Secondo l'equivalenza sopra stabilita, è quindi studiando le strutture semiotiche costituite dalle diverse lingue adoperate negli atti di parole che la linguistica studia il suo oggetto.
Dell'oggetto virtuale d'una conoscenza virtuale non si puo affermare nulla salvo quel che si ritrova in questa conoscenza stessa, salvo cioè quel che, nell'oggetto, è pertinente per la struttura semiotica sulla quale essa si fonda: così di ‛un u che sia a', per esempio, non può affermarsi se non che è un u che è a; di un suono dell'italiano che appartenga al fonema /r/, per esempio, non può affermarsi se non che è un suono dell'italiano che è /r/, vale a dire, un suono ‛vibrante'.
L'oggetto attuale d'una conoscenza attuale, per contro, non si confonde con questa conoscenza, il che vuol dire che è possibile affermare al suo riguardo la presenza di caratteristiche che non sono pertinenti per la struttura semiotica sulla quale la conoscenza in questione si fonda. Così, a proposito di ‛questo u che è a', cioè a proposito di un u che venga conosciuto attualmente come a, si può certo affermare che è a, ma anche, se è il caso, che è, ad esempio, b, pur se b non è una caratteristica pertinente per la struttura semiotica sulla quale la conoscenza in questione si fonda. Similmente, a proposito di un suono effettivamente pronunciato in un atto di parole, il quale venga conosciuto attualmente come un suono dell'italiano che è /r/, si può certo affermare che è ‛vibrante', ma anche, se è il caso, che è per esempio ‛uvulare', pur se questa caratteristica del suono in questione non è pertinente per la struttura semiotica costituita dall'italiano.
Ora, è appunto da questa particolarità dell'oggetto della conoscenza attuale, dal fatto cioè che tale oggetto non si confonde con la conoscenza che si ha di esso, che deriva il problema di delimitare ciò che, nell'atto di parole, spetta alla lingua, e ciò che in esso spetta invece alla parole. Naturalmente, si può dire che spetta alla parole tutto ciò che nel segnale e eventualmente nel senso, quando sia anch'esso l'oggetto di una conoscenza attuale, non è pertinente per la lingua. È, però, soltanto a una certa condizione che si può riconoscere, nell'oggetto di una conoscenza attuale, una caratteristica che non sia pertinente per la struttura semiotica sulla quale questa conoscenza si fonda. Non si può infatti riconoscere in un oggetto nulla che non sia pertinente per almeno una delle strutture semiotiche con cui si sia capaci di operare. Un soggetto può dunque riconoscere, nell'oggetto di una conoscenza attuale, una caratteristica che non sia pertinente per la struttura semiotica sulla quale questa conoscenza si fonda, soltanto se la detta caratteristica è pertinente per un'altra struttura semiotica con la quale lui è ugualmente capace di operare. Così, se un soggetto può riconoscere, ad esempio, che un suono /r/ dell'italiano è non soltanto ‛vibrante', ma anche ‛uvulare', ciò accade perché il detto soggetto è capace di operare non soltanto con la struttura semiotica costituita dall'italiano, ma anche con un'altra struttura semiotica, per la quale la caratteristica ‛uvulare' è pertinente: quella, ad esempio, che distingue uno stile ‛affettato' e uno ‛normale' in corrispondenza, fra altre, della distinzione tra r ‛uvulare' (‛erre moscia') ed r ‛dentale'.
Anche se crediamo che l'utilità della nozione di parole, nel senso di attività conoscitiva fondata sulla lingua, non possa essere messa in dubbio, tuttavia il fatto che la possibilità di riconoscere caratteristiche del segnale o del senso che, non essendo pertinenti per la lingua, spettano alla parole, sia sottomessa alla condizione che sopra dicevamo, condanna, secondo noi, al fallimento ogni tentativo di elaborare una ‛linguistica' della parole (v. Saussure, 1916; ed. it., pp. 28-30). Da una parte, infatti, la ‛linguistica' della parole non potrebbe essere lo studio di ciò che, nel segnale e nel senso, non è pertinente per la lingua, e neppure lo studio del segnale e del senso considerati indipendentemente da ogni pertinenza: una disciplina che si proponesse di affrontare lo studio di una realtà senza una pertinenza che le sia propria, senza cioè un punto di vista il quale, determinando positivamente ciò che per essa conta nell'oggetto, le permetta di attribuire a questo un'identità, non sarebbe altro, per essere conseguente con la meta assegnatasi, che una corsa indefinitamente ricominciata verso il particolare. La fonetica, così come viene a volte concepita, mostra bene come queste discipline che si autodefiniscono ‛descrittive' siano impraticabili e come esse, nei fatti, finiscano sempre con l'accettare pertinenze non esplicitate. D'altra parte, però, la ‛linguistica' della parole non potrebbe essere neppure uno studio del segnale e del senso fondantesi su di un punto di vista determinato dal quale considerare questi oggetti: non si vede infatti, fra tutti gli innumerevoli punti di vista da cui gli oggetti in questione, come d'altronde ogni oggetto, sono suscettibili di essere considerati, quale più degli altri meriterebbe di definire questa ‛linguistica' della parole che verrebbe a fare da pendant alla linguistica della lingua.
Naturalmente, anche se ne fossimo capaci, non si tratterebbe per noi di formulare qui un metodo per la descrizione di quelle particolari strutture semiotiche che sono le lingue. Ci sembra tuttavia interessante segnalare che soltanto le caratteristiche che definiscono la comprensione delle classi comportate da una struttura semiotica, vale a dire le caratteristiche dalle quali risultano le differenze che si riconoscono tra gli oggetti quando si opera con essa, possono essere stabilite in modo preciso e, in un certo senso, definitivo. Le caratteristiche universali che definiscono i due universi di discorso che intervengono in una struttura semiotica, per contro, non possono essere stabilite se non nella misura in cui le modificazioni degli organi sensoriali che le manifestano costituiscono anche la manifestazione di caratteristiche (non universali) pertinenti per questa stessa struttura semiotica o per un'altra. È, dunque, soltanto in dipendenza dalle strutture semiotiche di cui il descrittore dispone e, quindi, soltanto in modo provvisorio poiché egli può in ogni momento acquisirne altre, che possono essere stabilite le caratteristiche universali che definiscono gli universi di discorso che intervengono in una struttura semiotica da descrivere. Solo un accesso, beninteso impossibile, alla realtà ‛totale', in intensione e quindi in estensione, permetterebbe di fare altrimenti, cioè in modo ‛oggettivo'.
Da quanto viene detto sopra non consegue però che le caratteristiche universali, che definiscono gli universi di discorso intervenenti in una struttura semiotica, non siano pertinenti per questa struttura semiotica. È per questa ragione che non seguiamo Martinet quando rimprovera a Trubeckoj di aver identificato pertinenza fonologica e lingua saussuriana (v. Martinet, 1955; tr. it., p. 14 e nota 1), e che noi rimprovereremmo piuttosto a nostra volta a Martinet aver identificato funzione distintiva e pertinenza fonologica. Se, infatti, la fonologia d'una lingua dev'essere lo studio del sistema di classificazione formato dai significanti dei semi di questa lingua e, soprattutto, lo studio dei sistemi di classificazione, formati dai fonemi, nei quali il primo si risolve (v. semiologia; v. Prieto, 1972, p. 36), bisogna considerare come fonologicamente pertinente tutto quello che conta per i menzionati sistemi di classificazione: non soltanto, dunque, le caratteristiche che definiscono le classi da essi comportate, ma anche, qualunque difficoltà possa derivarne, le caratteristiche universali che definiscono gli universi di discorso cui essi si riferiscono. Ora, le varianti combinatorie dei fenomeni d'una lingua, sulla cui esistenza Martinet fonda la sua critica a Trubeckoj, contribuiscono alla manifestazione, senza dubbio complessa, della caratteristica universale che definisce l'universo di discorso in cui rientrano i significanti di questa lingua, e posseggono quindi, pur essendo ‛per definizione non distintive', la pertinenza fonologica. Così se nel francese ‛normale' una vocale in fine di parola è necessariamente breve (v. Martinet, 1955), una fonia che presenti in tale posizione una vocale lunga non appartiene a rigore all'universo di discorso nel quale rientrano i significanti del francese ‛normale'. La brevità delle vocali in fine di parola contribuisce dunque a definire i limiti di questo universo di discorso, e perciò, pur non essendo distinti- va, è fonologicamente pertinente.
Le stesse riserve ci ispira la distinzione ‛tripartita' di sistema', ‛norma' e ‛parole', proposta da Coseriu in sostituzione di quella di lingua e parole (v. Coseriu, 19692; tr. it., pp. 79 ss.). A partire dalla ‛parole', che sarebbe costituita ‟dagli atti linguistici concretamente registrati nel momento stesso della loro produzione", eliminando tutto ciò che in essa è ‟variante individuale, occasionale o momentanea", si otterrebbe la ‛norma'; e a partire da questa, eliminando ‟tutto ciò che è ‛variante facoltativa' normale o ‛variante combinatoria'", si otterrebbe infine il ‛sistema', nel quale rimarrebbe così soltanto ciò che è ‛opposizione funzionale', vale a dire, se comprendiamo bene, ciò che Martinet chiama ‛distintivo'. Ciò che Coseriu elimina, nella parole, per passare alla norma, manca certamente di pertinenza, e di questa è invece senza dubbio fornito ciò che, della norma, egli trattiene per farne il sistema. Il problema si pone dunque a proposito della ‛norma'. Coseriu vi include, secondo la citazione fatta sopra, da una parte le varianti combinatorie, le quali, essendo, come abbiamo visto, la manifestazione di caratteristiche universali, sono a nostro parere pertinenti per la lingua; e, dall'altra le varianti facoltative ‛normali', le quali, in quanto normali, sono certamente pertinenti per un'altra struttura semiotica, ma, in quanto facoltative, mancano sicuramente di pertinenza per la lingua. Ora noi continuiamo a credere che frattura fondamentale sia quella che, passando attraverso la norma di Coseriu, separa da una parte ciò che, universale o no, è pertinente per la lingua e, dall'altra, ciò che non lo è.
Di tutt'altra natura è la distinzione tra lo ‛schema' e l'‛uso', con cui Hjelmslev pensa debba sostituirsi la distinzione saussuriana tra lingua e parole, che non ne sarebbe altro che ‟una prima approssimazione, storicamente importante, ma teoricamente imperfetta" (v. Hjelmslev, 1959, p. 81). Nello ‛schema' si avrebbe a che fare con la lingua in quanto ‟forma pura", con la lingua, cioè, considerata indipendentemente dalla realizzazione dei suoi elementi, i quali verrebbero definiti soltanto dal loro ruolo nella ‟rete di rapporti sintagmatici e paradigmatici". Nell'‛uso', per contro, si avrebbe a che fare con l'‟insieme di abitudini adottate in una società data" per quanto riguarda la realizzazione materiale degli elementi della lingua (ibid., p. 72). Per Hjelmslev è lo schema che costituisce la lingua propriamente detta e, secondo lui, è soprattutto in questo modo che Saussure l'avrebbe concepita (ibid., pp. 74-75).
Non è nostro scopo riprendere qui le critiche suscitate da questa posizione ben nota di Hjelmslev, che bandisce dalla lingua propriamente detta ogni ‛sostanza'; vorremmo soltanto esaminarla dal punto di vista del principio, che ci sembra a questo proposito fondamentale, secondo il quale non si riconosce un oggetto come termine di una differenza senza riconoscergli una caratteristica che presenta, e viceversa non si riconosce a un oggetto una caratteristica che presenta senza riconoscerlo come termine di una differenza. Certo, dei rapporti la cui rete permette a Hjelmslev di definire le entità linguistiche al livello dello schema, solo i rapporti ‛paradigmatici', cioè la ‛commutazione' e la ‛sostituzione', sono rapporti di differenza (corrispondendo la ‛commutazione' a ciò che noi chiamiamo la ‛differenza pertinente' e la ‛sostituzione' a ciò che noi chiamiamo la ‛differenza non pertinente'; ibid., p. 71). Due osservazioni sono però da fare a questo riguardo. Da una parte, l'essere termine di almeno un rapporto di commutazione è condizione necessaria della costituzione stessa d'una entità linguistica (il che, un'entità linguistica essendo una classe di oggetti, dev'essere inteso nel senso che i membri di una tale entità sono sempre in rapporto di differenza pertinente rispetto ai membri di almeno un'altra). Tra i rapporti che definiscono un'entità linguistica al livello dello schema ve n'è quindi sempre almeno uno che è un rapporto di differenza. D'altra parte, i significanti e i significati dei semi di una lingua, i quali, insieme con i semi stessi, ci sembrano essere le sue entità fondamentali, non sono mai termini di rapporti sintagmatici, e la loro definizione, di conseguenza, non può fondarsi se non sulle commutazioni - quindi su rapporti di differenza - di cui sono termini. Il principio richiamato sopra riguarda dunque la definizione, al livello dello schema, di ogni entità linguistica, e in modo particolare la definizione delle più importanti fra esse.
Una delle illusioni tipiche dell'empirismo più ingenuo consiste nel credere, contro tale principio, che le caratteristiche che si riconoscono a un oggetto non dipendano in nulla dalle differenze di cui quest'oggetto viene riconosciuto come termine, e, di conseguenza, che sia sempre possibile riconoscere a un oggetto una determinata caratteristica che presenta quali che siano le differenze di cui viene riconosciuto come termine (e quindi persino se non viene riconosciuto come termine di nessuna). Ora ci sembra che lo schema di Hjelmslev si basi sull'illusione simmetrica consistente nel credere che si può riconoscere un oggetto come termine di una determinata differenza quali che siano le caratteristiche che gli vengono riconosciute (e quindi persino se non gliene viene riconosciuta nessuna). Non avrebbe senso, infatti, parlare di una commutazione che definisca un'entità linguistica, se la differenza che costituisce questa commutazione non fosse una differenza determinata. Se si dicesse, ad esempio, che ciò che definisce l'r francese, oltre alle tre categorie sintagmatiche alle quali, secondo Hjelmslev (ibid., p. 72), appartiene questa entità, è l'essere termine di una qualunque commutazione, cioè di un qualsiasi rapporto di differenza, la definizione di r e quella di l si troverebbero a coincidere perfettamente. È evidentemente l'essere termine di una determinata commutazione, vale a dire di una determinata differenza, che, oltre alle categorie sintagmatiche, mette in grado di definire l'entità in questione. Ma, così come il riconoscere a un oggetto una determinata caratteristica da esso presentata presuppone il riconoscerlo come termine di una determinata differenza, allo stesso modo il riconoscerlo come termine di una determinata differenza presuppone il riconoscergli una determinata caratteristica da esso presentata. Il riconoscere che un oggetto è termine di una determinata differenza e il riconoscergli una determinata caratteristica sono, per dirlo altrimenti, la stessa e identica cosa, e non è quindi se non in apparenza che si evita la ‛sostanza' nella definizione di un'entità linguistica parlando soltanto di differenze o, se si vuole, di commutazioni. In ciò, d'altronde, se si ammettono le nostre riserve circa la definizione tradizionale di ‛estensione', non abbiamo a che fare con nient'altro che con un modo di manifestarsi della vecchia correlazione fra l'estensione e la comprensione d'una classe...
Rimangono nondimeno le famose frasi del Corso che affermano che la ‟combinazione [‟del pensiero con la materia fonica"] produce una forma, non una sostanza", e che ‟la lingua è una forma, non una sostanza" (v. Saussure, 1916; ed. it., pp. 137 e 147-148). Basta tuttavia ricollocare queste frasi nel loro contesto e leggere le fonti da cui i redattori del Corso le hanno estratte perché, ci sembra, sparisca ogni dubbio circa il senso che Saussure ha voluto dare loro. ‟Il ruolo caratteristico della lingua di fronte al pensiero non è creare un mezzo fisico materiale per l'espressione delle idee, ma servire da intermediario tra pensiero e suono, in condizioni tali che la loro unione sbocchi necessariamente in delimitazioni reciproche di unità" (ibid., p. 137). ‟Fuori di queste divisioni, di queste unità, si fa della psicologia pura o della fonologia" (v. Saussure, 1958, p. 254, col 4; Saussure chiama ‛fonologia' ciò che oggi si chiama ‛fonetica'). Ora, si comprende male per quale ragione, se la lingua fosse ‛forma pura' con esclusione di ogni ‛sostanza', perdendo di vista tale forma pura si farebbe appunto della psicologia e della fonetica (della ‟fonologia"), piuttosto che della fisiologia o della meteorologia, della grafica o della cromatica o non importa che altro. Ci sembra dunque chiaro che Saussure concepiva la linguistica come lo studio della maniera in cui le ‛sostanze' psichica e fonica si organizzano e si ‛formano' in virtù della loro associazione, e che considerava tale maniera di organizzarsi e di ‛formarsi' inseparabile dalle sostanze stesse. Certamente, ‟una sequenza di suoni è linguistica soltanto se è il supporto di una idea", e i concetti, dal canto loro, ‟diventano entità linguistiche soltanto per associazione con immagini acustiche" (v. Saussure, 1916; ed. it., p. 125). Ma dal momento in cui le sequenze di suoni sono supporto di un'idea e i concetti sono associati a immagini acustiche, è con pieno diritto che le une e gli altri diventano entità linguistiche. Vorremmo accostare queste conclusioni alla definizione di ‛scienze dell'uomo' da noi proposta all'inizio di questo capitolo. Secondo tale definizione una scienza dell'uomo avrebbe come oggetto non una sostanza, ma una maniera di conoscere una sostanza. Ma una maniera di conoscere una sostanza è inseparabile da questa sostanza stessa: noi non arriviamo a comprendere che cosa potrebbe essere una maniera determinata di conoscere una sostanza qualsiasi, a cui pure conduce in definitiva lo schema hjelmsleviano contro quella che ci sembra essere l'essenza stessa del materialismo dialettico.
3. Lingua e codice non linguistico
Non possiamo pretendere d'aver definito, nel capitolo precedente, niente di più che il codice in generale, fissandone i confini nell'atto semico: il codice di cui ci si serve in un atto semico è la struttura semiotica sulla quale si fonda la conoscenza che l'emittente e il ricevente di quest'atto semico hanno del segnale ivi prodotto. Neppure i problemi che abbiamo discusso in seguito, riguardanti le distinzioni con le quali si è cercato di sostituire quella, stabilita da Saussure, tra lingua e parole, hanno alcunché di specificamente linguistico, e potrebbero essere ridiscussi in termini perfettamente analoghi mettendo semplicemente ‛codice' e ‛attività comunicativa' in luogo di ‛lingua' e ‛parole'. Certamente, noi abbiamo parlato degli atti di parole come di un tipo particolare di atti semici, il che ci ha permesso poi di caratterizzare una lingua come il codice adoperato in un atto semico quando questo è un atto di parole. Ma questa caratterizzazione era del tutto provvisoria nel migliore dei casi, cioè nella misura in cui faceva appello alle conoscenze pratiche del lettore; è, nel peggiore, circolare, poiché un atto semico è un atto di parole appunto quando il codice ivi adoperato è una lingua.
In quest'ultimo capitolo ci proponiamo di uscire da questa circolarità e provvisorietà precisando quando il codice di cui ci si serve in un atto semico è una lingua e quando dunque l'atto semico in questione costituisce un atto di parole. Circa il modo di affrontare questo problema, ci si offrono due possibilità: possiamo tracciare una tipologia semiologica, e decretare poi che i membri della tale o tal'altra categoria di codici che avremo così stabilito devono essere chiamati ‛lingue'; oppure partire al contrario dal fatto che certi codici vengono tradizionalmente chiamati ‛lingue' e cercare di determinare delle caratteristiche che essi presentino tutti e in virtù delle quali differiscano dagli altri codici. Ora, nello stato attuale della nostra disciplina, il secondo di questi procedimenti ci sembra preferibile e sarà dunque quello adottato qui. Esiste senza dubbio più di una caratteristica che tutte le lingue - s'intende, tutti i codici tradizionalmente così chiamati - e soltanto le lingue presentano, ed esiste perciò più di una caratteristica che ci basterebbe determinare per assolvere il nostro compito. Non si tratta, però, per noi, di determinare una o più di una caratteristica qualunque che sia comune ed esclusiva alle lingue, bensì quali sono, tra le caratteristiche che soddisfano queste condizioni, quelle la cui presenza implica differenze funzionali profonde tra le lingue e gli altri codici, e che proprio per questo sono suscettibili di spiegare anche la presenza delle altre.
Ora, in questa prospettiva, la prima delle particolarità dei codici chiamati ‛lingue' che, ci sembra, occorre menzionare, è il fatto che, diversamente dai significati dei semi di un codice non linguistico, i quali probabilmente formano sempre un unico sistema di classificazione, i significati dei semi d'una lingua ne formano sempre più d'uno. Dei due tipi di struttura semiotica di cui si è parlato nel capitolo precedente, un codice non linguistico appartiene quindi sempre al primo, e una lingua sempre al secondo, ciò che, come si ricorderà, si manifesta tra l'altro nel fatto che i significati di due semi appartenenti a un codice non linguistico si trovano sempre tra loro in rapporto logico d'esclusione, mentre in una lingua ci sono sempre sia semi i cui significati sono tra loro in rapporto logico d'esclusione, che semi i cui significati sono tra loro in rapporto logico di inclusione, che, infine, semi i cui significati sono tra loro in rapporto logico di intersezione.
Tale particolarità comporta una differenza fondamentale nel modo in cui l'atto semico si svolge per l'emittente a seconda che il codice adoperato sia una lingua oppure un codice non linguistico. I significati dei semi di un codice, infatti, coincidono sempre o con una delle classi componenti il sistema d'intercomprensione cui ci si riferisce quando ci si serve del codice, o con la somma logica di più di una di tali classi (v. semiologia). Se i significati dei semi di un codice si trovano tutti tra loro in rapporto logico di esclusione, non può esserci, di conseguenza, se non uno solo di loro che si trovi, rispetto a una classe determinata del sistema di intercomprensione, in un rapporto logico diverso dall'esclusione. Ora, poiché ciò che l'emittente ‛vuol dire' viene sempre determinato dalla sua appartenenza a una classe del sistema di intercomprensione, e poiché un sema, in linea di principio, serve a ‛dirlo' soltanto se il suo significato si trova rispetto alla detta classe in un rapporto logico diverso dall'esclusione (v. semiologia), ne deriva che in un codice non linguistico non c'è mai più di un sema che possa servire all'emittente per ‛dire' ciò che ‛vuol dire'. Se, invece, un codice comporta non soltanto semi i cui significati si trovano tra loro in rapporto logico di esclusione, ma anche semi i cui significati si trovano tra loro in rapporto logico d'inclusione e semi i cui significati si trovano tra loro in rapporto logico di intersezione, nel sistema di intercomprensione cui ci si riferisce adoperando questo codice ci sono necessariamente classi che si trovano in un rapporto logico diverso dall'esclusione rispetto ai significati di due o più semi. Infatti a trovarsi in un rapporto logico diverso dall'esclusione rispetto al significato di più di un sema sono sempre tutte le classi componenti il sistema di intercomprensione cui ci si riferisce adoperando un codice di questo tipo, cioè una lingua. La conseguenza è che, diversamente da quanto abbiamo visto verificarsi per un codice non linguistico, in una lingua c'è sempre più di un sema di cui l'emittente, in linea di principio, può servirsi per ‛dire' quel che ‛vuol dire'.
Quando il codice di cui ci si serve in un atto semico è un codice non linguistico, non resta quindi all'emittente, una volta determinato ciò che ‛vuol dire', alcuna scelta circa il sema da adoperare per ‛dirlo'. Quando il codice di cui ci si serve in un atto semico è una lingua e quest'atto è quindi un atto di parole, l'emittente può invece scegliere tra più semi, che sono tutti, in linea di principio, suscettibili di servirgli per ‛dire' ciò che ‛vuol dire'. Non entreremo qui nei particolari circa i fattori determinanti tale scelta, limitandoci a segnalare che il principale è senza dubbio la tendenza all'economia, la quale si manifesta nell'utilizzazione che l'emittente fa delle circostanze in cui l'atto di comunicazione si svolge (v. semiologia): salvo che ci siano interferenze di altri fattori, l'emittente sceglie il sema da adoperare in modo che l'indicazione fornita al ricevente dal segnale, pur sufficiente perché il ricevente ‛comprenda' ciò che ‛gli si vuol dire', non costituisca un doppione delle indicazioni che quest'ultimo può trarre dalle circostanze. Scegliendo il sema di cui si serve, l'emittente di un atto di parole risolve così una sorta di equazione nella quale l'incognita è il sema stesso e le costanti, fra le eventuali altre, sono la classe determinante ciò che ‛vuol dire' e le circostanze nelle quali l'atto semico deve svolgersi. Nulla di simile, evidentemente, si verifica in un atto semico non linguistico. In ciò sta, ci sembra, un fatto di primaria importanza per la semiologia, ma che, senza dubbio, interessa anche altri campi. Ci si può domandare, ad esempio, in quale misura il ruolo che l'esercizio della parole svolge nello sviluppo mentale sia una conseguenza del fatto summenzionato: la lingua è molto probabilmente la prima struttura semiotica maneggiata dal bambino che gli richieda di operare con classi che si trovano fra loro in rapporto logico di inclusione o in rapporto logico di intersezione.
Non ci sembra inutile far notare che la differenza di cui parliamo, che oppone le lingue ai codici non linguistici, non sta nello sfruttamento delle circostanze per ‛dire' ciò che si ‛vuol dire', ma nella possibilità di adattare il modo di ‛dirlo' all'apporto che queste sono suscettibili di fornire. Per il resto, sebbene i significati dei semi di un codice non linguistico coincidano generalmente con le classi del sistema di intercomprensione da cui questo codice dipende, il che esclude ogni ricorso alle circostanze, un tale ricorso non è del tutto estraneo a questo tipo di codice. Così, i significati dei semi del codice i cui segnali consistono nelle differenti posizioni delle lancette dei nostri orologi sono tutti eguali alla somma logica di due delle classi componenti il sistema di intercomprensione da cui questo codice dipende (v. semiologia). È, quindi, soltanto con l'aiuto delle circostanze che il ricevente può riuscire a ‛comprendere'. L'essenziale, tuttavia, non sta in questo, ma nel fatto che, servendosi del codice dell'esempio o d'un altro qualsiasi nel quale i significati dei semi siano tutti tra loro in rapporto logico di esclusione, ci si trova nell'impossibilità di evitare di fornire una indicazione che, nelle circostanze in cui l'atto semico si svolge, risulti ridondante o insufficiente. Se abbiamo detto, d'altronde, che è soltanto per l'emittente, e non per l'emittente e il ricevente, che l'atto semico si svolge in modo molto diverso a seconda che venga in esso adoperata una lingua o un codice non linguistico, è proprio perché, com'è provato dall'esempio, il ricorso alle circostanze non è interamente sconosciuto ai codici non linguistici. Infatti, per ciò che riguarda il ruolo svolto dalle circostanze, i processi attraverso i quali il ricevente arriva a ‛comprendere' non ci sembrano diversi in un atto semico in cui ci si serva di una lingua e in un atto semico in cui il codice adoperato sia, ad esempio, quello delle lancette dell'orologio.
Fra le caratteristiche che i codici tradizionalmente chiamati ‛lingue' presentano tutti e in virtù delle quali questi codici si oppongono agli altri, ce n'è, ci sembra, un'altra soltanto oltre a quella già studiata che meriti una simile attenzione. Si tratta della caratteristica chiamata da De Mauro l'‟onnipotenza semiotica" e consistente nel fatto che con i segni d'un codice che la presenta ogni senso è dicibile (v. De Mauro, 1971, p. 149). La prova dell'onnipotenza semiotica di un codice non può farsi, ci sembra, se non attraverso la ‛traducibilità', cioè ‟l'includibilità di un senso dato in due diversi segni appartenenti a codici diversi" (ibid., p. 141), la quale dev'essere illimitata se il codice di arrivo è semiologicamente onnipotente, e limitata in caso contrario. Se, infatti, un codice è semiologicamente onnipotente, un senso ‛incluso' in un segno appartenente a un altro codice dovrà essere necessariamente traducibile - cioè, nei termini di De Mauro, ‟includibile" - in un segno appartenente al primo. Se, invece, la potenza semiotica di un codice è limitata, c'è necessariamente un senso ‛incluso' in un segno appartenente a un altro codice che non è ‛includibile' in alcun segno appartenente al primo.
De Mauro da una parte propone di definire una lingua come un codice semiologicamente onnipotente, e dall'altra avanza l'ipotesi che tutti i codici tradizionalmente chiamati ‛lingue' soddisfino questa definizione (ibid., p. 149, ÈÈ 3, 4, 21 e 23). Certo, tanto l'utilità della sua proposta quanto la verosimiglianza dell'ipotesi ci sembrano evidenti. Non siamo però certi di seguire De Mauro nel modo ond'egli concepisce i ‛noemi lessicali', né nel rapporto che stabilisce tra la presenza, in un codice, di noemi di questo tipo e la potenza semiotica ditale codice (ibid., pp. 143 e 149).
Benché i due fenomeni siano senza dubbio collegati, l'onnipotenza semiotica non dev'essere confusa con il numero infinito di semi che certi codici comportano. Tutti i codici semioticamente onnipotenti, vale a dire tutte le lingue, comportano infatti un numero infinito di semi, ma esistono codici, ad esempio quello costituito dal nostro sistema di numerazione decimale, che, pur comportando un numero infinito di semi, possiedono una potenza semiotica evidentemente limitata.
Questa particolarità di certi codici, consistente nel comportare un numero infinito di semi, ne presuppone altre due. Da un lato, quella di presentare la ‛prima articolazione' (v. semiologia). Se, infatti, si riesce a operare con un codice comportante un numero infinito di semi, è perché questi risultano tutti dalla combinazione di un numero finito di monemi. Le lingue e, in generale, i codici comportanti un numero infinito di semi presentano quindi necessariamente la prima articolazione, ma ci sono anche codici comportanti un numero finito di semi che la presentano ugualmente. D'altro lato, il numero infinito dei semi comportati da un codice è collegato con ciò che è abitualmente chiamato la ‛creatività' dell'utente. Tale creatività non è nient'altro che la possibilità per un soggetto di operare sia come emittente sia come ricevente con un sema che per lui sia assolutamente nuovo in quanto sema, ma che venga costituito da una combinazione di monemi a lui noti, fatta secondo regole che gli sono ugualmente familiari. Ciò su cui si esercita la creatività d'un soggetto può essere dunque un sema appartenente a un codice qualsiasi, alla sola condizione che tale codice presenti la prima articolazione. Certo, soltanto in un codice comportante un numero infinito di semi la creatività si presenta necessariamente, ed è, se così si può dire, ‛inesauribile'. Non essendo però le lingue i soli codici a trovarsi in questa condizione la creatività, quand'anche sia necessaria e inesauribile, non può essere considerata come una delle caratteristiche che le definiscono.
Per Martinet, che è stato uno dei primi linguisti a porsi il problema, ciò che caratterizza le lingue di fronte agli altri ‟sistemi di segni arbitrari" è, da una parte, la ‟doppia articolazione", e, d'altra parte, il ‟carattere fonico dell'espressione" (v. Martinet, 1949, pp. 35 e 37). La ‛doppia articolazione' non è, beninteso, se non la prima e la seconda articolazione quando si presentano insieme. Poiché non si conosce, tranne le lingue, nessun esempio chiaro di codice che presenti la doppia articolazione (v. Mounin, 1970; tr. it., pp. 133-134), essa permette da sola, senza cioè l'aggiunta del carattere fonico dell'espressione, di delimitare abbastanza esattamente il campo che ci interessa circoscrivere. Osserviamo però che il fatto che le due articolazioni si presentino insieme in uno stesso codice non implica che in questo caso l'una o l'altra funzioni in modo diverso di quando si presenta da sola. Basare quindi la caratterizzazione delle lingue sulla doppia articolazione equivale a caratterizzarle per mezzo di un semplice cumulo di fatti funzionali che si ritrovano tutti sia pure isolatamente in codici non linguistici. Non vogliamo, s'intende, con questa osservazione, minimizzare il ruolo che le articolazioni svolgono nelle lingue. Tale importanza però risiede appunto nel fatto che, grazie a esse, le lingue possono presentare caratteristiche così specifiche e fondamentali come l'onnipotenza semiotica. Una prova, ci sembra, ne viene fornita dal fatto che sarebbe difficile non considerare come una lingua un codice che possegga tale onnipotenza - e presenti quindi, se non la doppia articolazione, almeno la prima -, mentre si può immaginare assai facilmente un codice a doppia articolazione che, non possedendo tale onnipotenza, nessuno sarebbe tentato di annoverare fra le lingue.
Il nostro disaccordo con Martinet circa la sua proposta di ‟includere la menzione del carattere fonico dell'espressione" nella definizione di ‛lingua' è di natura affatto diversa: noi sosteniamo che non occorre includere la menzione di questo carattere dell'espressione nella definizione di ‛lingua' perché le ‛lingue scritte', come ad esempio l'italiano scritto, ci sembra siano lingue di pieno diritto. La definizione d'un termine essendo sempre cosa convenzionale, sarebbe naturalmente ozioso impegnare una discussione per determinare se le lingue scritte siano o no effettivamente ‛lingue', e lo sarebbe ancor più porsi la questione se esse figurino o no tra i codici tradizionalmente designati da questo termine. Possiamo però esporre le ragioni che ci inducono a sostenere il nostro punto di vista, anche se ciò si riduce a esplicitare la convenzione da noi proposta a proposito del termine in questione: noi annoveriamo le lingue scritte fra le ‛lingue' semplicemente perché vi si ritrovano tutte le particolarità che riteniamo come caratteristiche di questo tipo di codice, in modo particolare l'onnipotenza semiotica e la presenza di semi i cui significati sono tra loro in rapporto logico di inclusione o di intersezione. Non sarebbe il caso d'altronde di rispondere qui agli argomenti - qualcuno più di due volte millenario, come quello secondo il quale ‟quando si legge, si sostituiscono i suoni della parola ai caratteri scritti, ed è a partire dalla parola che si passa alla significazione" (v. Buyssens, 1943, p. 49; cfr. Aristotele, De interpretatione, 16a 1-18) - che vengono branditi abitualmente quando ci si ingegna di rifiutare alle lingue scritte lo status di ‛lingue'. Vorremmo però qui osservare, da una parte, che in questi argomenti compaiono molto spesso, mescolate ai criteri sincronici, considerazioni di ordine diacronico - per esempio, quando si menziona l'apparizione relativamente tardiva delle lingue scritte per confermare lo stato di subordinazione in cui esse sarebbero rispetto alle lingue foniche -; e, dall'altra, che tali argomenti si fondano tutti su fatti che, a nostro parere, sono soltanto le conseguenze della ragion d'essere delle lingue scritte e dei rapporti che le uniscono alle lingue foniche (v. Alisedo, 1972; v. Prieto, 1968, pp. 137 ss.): ne risulta che i problemi che pone la scrittura, lungi dall'essere chiariti da tali argomenti, vengono da essi piuttosto oscurati. Notiamo per finire che, proponendo così di non menzionare nella definizione di ‛lingua' la natura della ‛sostanza' dell'espressione, non ci associamo affatto alla posizione di Hjelmslev che abbiamo messo in questione nel capitolo precedente: un codice può essere una lingua quale che sia la sua ‛sostanza' dell'espressione, ma una lingua determinata non può essere se non una maniera determinata di conoscere notativamente una ‛sostanza' dell'espressione e connotativamente una ‛sostanza' del contenuto, ‛sostanze' che sono necessariamente anch'esse determinate.
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