Linguaggio del cinema
L'immediato e largo successo popolare del cinema, accompagnato dal bisogno da parte di alcune élites intellettuali di legittimarne la presenza sul piano estetico, contribuirono fin dagli anni Dieci allo sviluppo di un vivace dibattito critico-teorico, che tra i grandi temi da trattare pose anche quello della 'linguisticità' del cinema. Com'è facile intuire, la presenza costante di questa linea di ricerca di fronte al continuo mutare degli orientamenti critici ha prodotto storicamente un insieme di risultati difficili da sintetizzare nella loro singolarità. Ciò, tuttavia, non esclude la possibilità di riconoscere e isolare all'interno di questa 'storia' multiforme una serie di tendenze grazie alle quali riordinare la pluralità degli approcci al problema del linguaggio.Il primo grande tema su cui si sono concentrati gli interventi è stato quello del confronto tra immagine e parola. Il cinema, se è linguaggio, lo è in forza di elementi di base diversi da quelli utilizzati dal linguaggio verbale: raffigura oggetti, non dà concetti; designa, non rievoca; esibisce, non simbolizza. Ne deriva una forte particolarità nei meccanismi di significazione e di comunicazione: nel cinema la realtà sembra 'parlare' da sé e di sé, al di fuori di ogni processo di astrazione, in parallelo con una 'apprensione' del mondo apparentemente senza mediazioni.Il secondo tema su cui si è fissata l'attenzione degli studiosi è stato quello dell'organizzazione del discorso filmico. Mentre un discorso verbale procede per frasi, strutturate in modo ricorrente e sulla base di uno schema che ha larghi tratti comuni alle diverse lingue, il cinema sembra proporre degli andamenti più liberi, in cui non è possibile riconoscere, per es., il coordinarsi di un soggetto, di un predicato e di uno o più complementi. Se il cinema non possiede segni paragonabili a quelli delle lingue tradizionali, non possiede neppure la stessa sintassi o la stessa struttura logica. In cambio possiede un principio costruttivo che ricorre in tutti i film, e cioè il montaggio , che consente di collegare le singole inquadrature in un insieme il cui senso eccede la semplice somma delle sue componenti. Proprio il montaggio fu al centro di un serrato dibattito, che ebbe i suoi picchi durante gli anni Venti e Trenta in Unione Sovietica, per opera di registi-teorici come Dziga Vertov, Vsevolod I. Pudovkin e soprattutto Sergej M. Ejzenštejn. Ciò che venne messo in luce fu la diversità dei possibili metodi di montaggio, ma anche la possibilità di collegare il montaggio stesso da un lato ai processi cognitivi che stanno alla base dell'apprensione e della comprensione della realtà, dall'altro ai procedimenti narrativi di molte altre arti, compresa la letteratura.Il terzo tema su cui si è concentrato il dibattito è quello del confronto tra il cinema e altri ambiti estetici: non solo la letteratura, ma anche la pittura, la pantomima, l'architettura ecc. Ciò che ha animato questo confronto non è stata solo la volontà di ricostruire un possibile 'sistema delle arti' (per es. distinguendo le arti dello spazio e le arti del tempo, e collocando il cinema alla loro confluenza, come fece Ricciotto Canudo; o distinguendo le arti sulla base del loro dispositivo tecnico, e sottolineando la capacità del cinema di 'derealizzare' il reale, come accade in qualche modo nell'elaborazione di Rudolf Arnheim); nel confronto, appare messa in gioco anche un'esplorazione comparativa dei mezzi espressivi tipici di ogni ambito artistico e vengono fatte emergere le possibilità che il cinema può utilizzare e le regole interne a cui esso deve sottostare.Questa, a grandissime linee, la 'mappa' delle questioni affrontate dal dibattito sulla 'linguisticità' del cinema. In questo dibattito, all'inizio degli anni Sessanta, irruppe un elemento di rottura, rappresentato dalla pubblicazione nel 1964 di Le cinéma: langue ou langage? di Christian Metz. Il saggio di Metz costituì una svolta perché la riflessione sul linguaggio filmico vi risulta legata a una scienza precisa, la semiotica, e dunque i problemi relativi alla 'linguisticità' del cinema vengono riportati a un campo disciplinare specifico. Ne derivano tre conseguenze rilevanti. Innanzitutto le nozioni utilizzate in questa esplorazione fanno riferimento al campo delle scienze del simbolico, e in particolare alla linguistica; concetti tradizionali come segno, o nozioni inedite come codice, sintagma ecc. appaiono meglio definiti. In secondo luogo l'analisi del cinema come linguaggio si collega in modo più organico ad altri campi di ricerca, di cui la semiotica è protagonista, come lo studio del racconto, o delle strutture folcloriche, o dei linguaggi animali, o delle forme dello spazio e del tempo: la comparazione può essere più ampia (in quanto investe tutti i territori in cui è in gioco una significazione e una comunicazione) e più controllata (in quanto utilizza concetti trasversali). Infine, lo studio del cinema come linguaggio finisce anche con il seguire i diversi temi che il dibattito più generale viene identificando: non è solo l'oggetto, e cioè il film, ma anche la disciplina, e cioè la semiotica, a decidere su che cosa porre l'attenzione.Questo nesso fra oggetto d'indagine e quadro disciplinare è essenziale. La semiotica, derivata dalla linguistica ma dotata di un raggio d'azione più ampio, è stata, e in qualche modo continua a essere agli inizi del 21° sec., la disciplina di riferimento per lo studio dei processi di significazione e di comunicazione cui può dar corpo il cinema. Nel corso della sua vita, essa ha messo a fuoco vari temi e questa evoluzione ha finito con il pesare anche sulle ricerche d'ambito cinematografico, che si sono evolute in buona parte in parallelo alle indagini sviluppate in contesti generali. In particolare, è possibile riconoscere tre grandi momenti interni alla 'fase' inaugurata da Metz. Il primo momento, influenzato dallo strutturalismo, ha proposto un'idea di linguaggio come facoltà generale da analizzare nei suoi tratti costitutivi: l'interesse si è rivolto a nozioni come segno, sintagma, paradigma, codice; il linguaggio è stato opposto alla lingua, e cioè al sistema generale che riassume le possibilità espressive e comunicative; il confronto tra lingue ha portato a mettere in luce l'esistenza di fenomeni come la doppia articolazione. Il secondo momento, coincidente con la cosiddetta seconda semiotica di impronta antistrutturalista, dominante negli anni Settanta e Ottanta, ha guardato al linguaggio come a un processo: punto centrale di interesse si è rivelato il percorso che consente al film di costituirsi come un oggetto capace di significare e di comunicare. Ne è deri-vata una particolare attenzione alle 'realizzazioni' compiute sulla base delle possibilità espressive del cinema: protagonista degli studi è stato il film, analizzato in quanto testo, e cioè in quanto luogo di un operare concreto sui materiali cinematografici, ma anche in quanto oggetto che dispone tali materiali in vista di uno scambio comunicativo. Il terzo momento, più mosso, è stato caratteristico degli anni Ottanta e Novanta: sotto l'influenza di nozioni come quella di enunciazione, si è cercato di gettare nuova luce sui processi di conversione del linguaggio in testo, aprendosi a una comprensione generale del fenomeno o appuntandosi su aspetti circoscritti come il punto di vista e il ruolo dello spettatore.La nascita della semiologia del cinema. ‒ Si è accennato a Le cinéma: langue ou langage? di Metz per il suo valore di testo fondativo della semiotica del cinema. Lo studioso francese, nel dare risposta al quesito che dà titolo al suo lavoro, giunge alla conclusione che il cinema è un linguaggio senza lingua perché di quest'ultima non possiede alcune caratteristiche essenziali. In primo luogo, similmente alle altre arti, il cinema non è un mezzo destinato all'intercomunicazione ma, piuttosto, all'espressione perché "comunica a senso unico", separando i momenti di relazione fra mittente e destinatario in due sequenze indipendenti (mittente-testo; testo-destinatario). La constatazione che il cinema sia "più un mezzo di espressione che non di comunicazione" si traduce anche nell'idea che in esso, a causa della natura iconica dei suoi materiali, il senso si sviluppi direttamente dall'immagine e dunque sia in qualche modo immanente. In positivo, l'assenza della seconda articolazione caratteristica del linguaggio verbale e la forte aderenza fra significante e significato tipica dei materiali segnici del cinema, spiegano, secondo Metz, la dimensione di universalità di questo linguaggio. In secondo luogo, il cinema manca di segni veri e propri, porzioni discrete e virtuali assimilabili alle parole: il piano, ossia la più piccola unità isolabile nella catena filmica, somiglia semmai a una frase, ma non tanto per il suo "quantitativo di senso" quanto, piuttosto, per il suo statuto assertivo. Infine, il cinema non è una lingua perché non possiede un'organizzazione in forma di sistema: non è composto di termini enumerabili e interdefiniti e non è strutturato secondo regolarità d'ordine sintagmatico e paradigmatico. Insomma, il cinema non possiede un lessico e una sintassi in senso tradizionale. Dall'altra parte, osservando alcuni principi di organizzazione ricorrenti nei film, è però possibile rintracciare qualcosa di simile a una "grammatica" che presiede ai processi di concatenamento delle inquadrature in sequenze.Quest'ultima idea porterà in seguito Metz a teorizzare una "grande sintagmatica" del film, ossia una tipologia dei modi di strutturare i segmenti che compongono i film di finzione. Egli ne individua otto tipi: i) il piano autonomo, che fa eccezione rispetto agli altri perché è formato da un solo piano (per es., il piano-sequenza); ii) il sintagma parallelo, destinato a produrre valori simbolici grazie all'accostamento di due o più 'motivi' privi fra loro di un qualsiasi rapporto spazio-temporale (per es., scene della vita dei ricchi e scene della vita dei poveri); iii) il sintagma a graffa, composto di brevi scenette autonome, che presenta come campioni di un medesimo ordine di realtà allo scopo di rendere evidente una categoria di fatti (l'esempio citato da Metz è tratto da Une femme mariée, 1964, Una donna sposata, di Jean-Luc Godard, dove la successione delle evocazioni erotiche con cui si apre il film va considerata come un "abbozzo per via di variazioni e di ripetizioni parziali di un significato globale inteso come 'amore moderno'"); iv) il sintagma descrittivo, fondato sulla simultaneità di tutti i motivi presentati e sulla loro coesistenza spaziale (per es., la descrizione di un paesaggio: "dapprima un albero, poi una veduta parziale di questo albero, poi un piccolo ruscello che si trova lì accanto, poi una collina in lontananza ecc."); v) il sintagma alternato, dove il montaggio presenta alternativamente due o più serie di avvenimenti in modo tale che, mentre all'interno di ciascuna serie i rapporti temporali sono di consecuzione, i rapporti fra le serie siano di simultaneità; vi) la scena, primo dei sintagmi narrativi lineari, caratterizzata da continuità a livello spazio-temporale e diegetico (dunque, di significato), ma non a livello dei significanti (la scena può essere composta di più piani); vii) la sequenza a episodi, dove la consecuzione temporale della narrazione è discontinua perché il sintagma si presenta come una serie di brevi scenette disposte in ordine cronologico, dove ciò che conta è l'effetto di senso prodotto dal loro insieme (Metz cita in proposito la sequenza di Citizen Kane, 1941, Quarto potere, di Orson Welles, in cui si mostra il progressivo deterioramento dei rapporti fra Kane e la prima moglie); viii) la sequenza ordinaria, che si presenta come una successione di scene fondata sull'unità d'azione e sviluppata tramite "salti" d'ordine spazio-temporale privi di valore diegetico (a differenza di quanto spesso accade con la dissolvenza) perché destinati semplicemente a escludere il "non interessante".
L'invito metziano "a fare la semiologia del cinema" su cui si chiude Le cinéma: langue ou langage? inaugurò immediatamente un fecondo dibattito internazionale. La prima fase della riflessione ruotò soprattutto attorno al problema della doppia articolazione e dello statuto segnico del cinema e trovò in Italia alcuni dei suoi protagonisti principali.Fra questi, Gianfranco Bettetini in Cinema: lingua e scrittura (1968) sostiene l'esistenza di una doppia articolazione anche nel cinema, in particolare nella relazione fra piano figurativo e piano tecnico: il primo appare infatti composto di unità significanti (gli "iconemi") che raffigurano una certa situazione, secondo un'articolazione più simile a quella del discorso in frasi che non in parole; il secondo ha invece a che fare con i singoli elementi tecnici, dotati di un significato che preesiste al piano figurativo e che può essere assimilato all'articolazione fra parole, più che fra suoni. Come si vede, per parlare di doppia articolazione nel cinema è dunque necessario "spostare" di livello le grandezze in gioco: dalle parole alle frasi, dai suoni alle parole.
Umberto Eco intervenne nel dibattito (1968) proponendo di distinguere fra sistemi a una sola articolazione (per es., i numeri degli autobus) e sistemi a più articolazioni. Il cinema, in particolare, sembra possederne tre: le prime due si manifestano all'interno del singolo fotogramma e si compongono di "semi iconici" (unità immediatamente decodificabili come, per es., "gangster che indossa un impermeabile"), e di unità, dette figure, che fungono da puri significanti (angoli, curve, linee ecc.). La terza organizza invece il passaggio dal fotogramma all'inquadratura, trasformando i 'cinemi' (frutto dell'articolazione fra semi e figure) in 'cinemorfi', unità complesse prodotte dalla relazione fra singoli 'cinemi' all'interno dello scorrimento temporale.La posizione di Eco era direttamente in polemica con quella di Pier Paolo Pasolini, che in Il cinema di poesia (relazione d'apertura alla Prima mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro, 1965, poi pubbl. in Empirismo eretico, 1972) individuò la possibilità di una doppia articolazione cinematografica nella relazione fra singoli 'cinemi', assimilati ai fonemi della lingua verbale e intesi questa volta come l'insieme degli oggetti 'reali' che occupano lo schermo, e spazio unificante dell'inquadratura, assimilato al morfema linguistico. Il cinema, secondo Pasolini, non costituisce un sistema di codificazione ma, più semplicemente, un luogo di "messa in forma" della realtà: ne deriva che "leggere un film equivale a leggere il mondo" perché le due dimensioni "parlano" la stessa lingua. La differenza risiede semmai nelle modalità di appropriazione di questo patrimonio comune: il cinema si comporta nei confronti del reale alla stregua della scrittura che assume e fissa la parola viva. Esso non agisce tanto da "traduttore" o "codificatore" quanto da supporto di registrazione per lo "spettacolo" intrinsecamente cinematografico del mondo.
Al contrario, secondo Eco il cinema, proprio in quan-to linguaggio, è un sistema altamente codificato: intenderlo semplicemente come specchio fedele del mondo significa non accorgersi delle forti determinazioni culturali di cui è agente e testimone. Eco (1968) sviluppa questa idea formalizzando una tassonomia dei codici all'opera nei messaggi iconici: richiamandosi a Ch.S. Peirce, egli ne distingue in tutto dieci, da quello percettivo a quello dell'inconscio, valorizzando in tal modo la complessità delle convenzioni che pesano sulla produzione di immagini e che, al tempo stesso, le differenziano dai loro referenti reali.Il passaggio da una semiotica del segno, interessata in particolar modo all'analisi del 'sistema' e dell'articolazione del linguaggio cinematografico, a una semiotica dei codici, rivolta piuttosto a esplorare la varietà dei materiali che compongono il linguaggio del cinema, il loro "stare insieme" e il loro collaborare alla realizzazione di costrutti dotati di senso e di potere comunicativo (i film), trovò nel dibattito sullo statuto analogico del segno filmico un suo tema-ponte. In proposito, il percorso compiuto dalla riflessione metziana è esemplare.
In Le cinéma: langue ou langage? l'immagine cinematografica è ancora concepita come una traduzione letterale della realtà, una "pseudo-presenza di ciò che essa stessa contiene". Ne deriva una forte opposizione fra messaggio e codice, con quest'ultimo che, riferito alla sola organizzazione sintagmatica, sembra sovrapporsi al precedente per ridefinirne (e in parte corromperne) la "naturalità". A quattro anni di distanza, in Problèmes de dénotation dans le film de fiction (pubblicato in Essai sur la signification au cinéma), Metz volle rivedere il rapporto fra analogia e codici, rintracciando questi ultimi "perfino nel cuore" della prima. Il fatto che l'analogia stessa sia soggetta a una codificazione non impedisce tuttavia il suo funzionamento "autenticamente come analogia in rapporto ai codici di livello superiore". Si tratta dunque di distinguere fra gradi diversi di codificazione; in quest'opera egli oppone dei codici culturali a dei codici specializzati: i primi, come quelli percettivi e iconologici, non hanno bisogno di un apprendimento particolare e il loro funzionamento avviene "al di sotto" dell'analogia fotografica e fonografica; i secondi, al contrario, come quelli relativi al montaggio o ai movimenti di macchina, per quanto "facili", richiedono comunque una forma di apprendimento e funzionano "al di sopra" dell'analogia fotografica e fonografica.L'idea portata qui a definitiva maturazione è insomma quella del cinema come linguaggio sincretico, composto di una pluralità di codici più o meno specifici. Una definitiva descrizione di questi ultimi è stata offerta da Francesco Casetti e Federico di Chio (1990), che distinguono fra codici tecnologici di base, relativi al supporto, allo scorrimento della pellicola, alle caratteristiche dello schermo; codici visivi, relativi all'iconicità (con riferimento ai processi di denominazione, riconoscimento, trascrizione e composizione iconica), alla fotograficità (organizzazione prospettica, margini del quadro, modi della ripresa, forme di illuminazione e colore), alla mobilità (movimenti profilmici e movimenti filmici); codici grafici, relativi a tutte le forme scritte che possono comparire assieme al film (titoli, sottotitoli, didascalie, scritte profilmiche); codici sonori, relativi alle tipologie sonore (voce, rumori, musica) e alla loro posizione in rapporto all'immagine (suoni in, off, over); codici sintattici, relativi ai processi di montaggio fra le immagini (montaggio per identità, analogia/contrasto, prossimità, transitività, accostamento).L'ultima declinazione metziana della nozione di codice, elaborata nel successivo Langage et cinéma (1971), oltre a testimoniare di un progressivo allontanamento dell'autore dallo strutturalismo 'ortodosso' di Cinéma: langue ou langage?, parla più in generale delle trasformazioni occorse nel frattempo all'interno della semio-tica del cinema. Al sistema dei codici cinematografici, inquadrato con un nuovo rigore e con una nuova attenzione al problema dello 'specifico', si affianca adesso l'idea del lavoro su di essi. Ne deriva che il singolo film non è più visto come l'attualizzazione di una serie ordinata di elementi virtuali ma, al contrario, come un processo di scrittura originale e singolare su questi stessi elementi, un gioco di trasformazioni e di tensioni, un campo di interazioni il cui "risultato provvisoriamente fermato è il testo".
Dalla struttura alla scrittura, dal sistema al testo, dal virtuale all'attualizzato: Langage et cinéma si colloca per molti aspetti dentro il paradigma teorico caratteristico degli anni Settanta. Un decennio di allargamento ma anche, al contempo, di dispersione del dibattito attorno al linguaggio, dove si verificò, fra l'altro, una moltiplicazione delle linee di ricerca. Così, accanto alla centralizzazione della nozione di testo e alla forte attenzione per i processi di scrittura, organizzazione e comunicazione testuali, si deve registrare la prosecuzione del dibattito attorno allo statuto segnico del cinema (grazie anche al fondamentale apporto della semiotica peirceana) e ai rapporti fra immagine e realtà; più datate e circoscritte alla prima "reazione" semiologica le ricerche relative ai codici cinematografici, alle "retoriche" filmiche (continuate, in forma diversa, nel "neo-stilismo" americano), alle strategie d'analisi, alla dimensione 'sistemica' del linguaggio.In questo orizzonte mosso e sfuggente, è tuttavia possibile riconoscere il progressivo affermarsi di un orientamento di studio che ha spostato l'analisi del linguaggio verso il testo filmico. Ciò significa, in concreto, considerare con maggiore attenzione il 'lavoro' autoriale compiuto sui materiali che compongono il testo, le modalità di organizzazione dell'unità testuale, i processi di relazione fra testo e contesto. Significa, in altre parole, assumere il testo ora come campo di forze in tensione, ora come insieme coerente e strutturato in vista di un processo di comunicazione, ora come parte di un più complesso evento comunicativo.
La prima prospettiva, inaugurata dal Metz di Langage et cinéma e influenzata dal poststrutturalismo barthesiano, dal decostruzionismo derridiano e dalle ricerche di Julia Kristeva sull'intertestualità e sull'écriture, ha le sue parole chiave in scrittura e processo: in essa la valorizzazione del 'momento' testuale permette di cogliere il di-slocamento (per dirla con Metz) dei diversi codici cinematografici, il loro incontrarsi e scontrarsi, la loro 'processualità' non ordinata ma, al contrario, come ha messo in luce Marie-Claire Ropars (1976, 1981), ogni volta particolare, fonte di nuovi sistemi di organizzazione costruiti sulla differenzialità, vale a dire sull'idea che ogni singolo elemento si qualifichi fondamentalmente in virtù dei suoi conflitti con gli altri. Negli Stati Uniti questa impostazione data al problema del linguaggio ha trovato in Steven Heat il suo maggiore divulgatore: a partire dalla metà degli anni Settanta egli ha promosso un'idea di testo come 'operazione' e una nozione di codici come 'sistemi di possibilità'.
La seconda prospettiva interna alla svolta testualista si rivela invece influenzata dal pensiero di quei linguisti, fra cui János S. Petöfi e Teun A. van Dijk, che hanno lavorato negli stessi anni alla definizione di una 'linguistica testuale' (Textlinguistik). La ricerca interessa questa volta le regole che presiedono alla costruzione del testo in quanto costrutto coerente e compiuto, attraverso cui si realizzano delle strategie comunicative. Questi tre aspetti (coerenza, compiutezza e comunicatività) si possono cogliere a più livelli: il primo, come ricorda Casetti (1979), è quello di una certa organizzazione interna, che si manifesta innanzitutto come coesione fra i vari costituenti del film ed è fondata ora sull'anticipazione e sulla ripresa di certi elementi, ora sull'analogia formale o contenutistica, ora sulla ripetizione e la ridondanza. Regole di coesione, queste, che presiedono anche all'avanzamento del testo e, in definitiva, rivelano l'esistenza di una struttura profonda e di un 'programma'. Lavora in questa direzione anche Karl-Dietmar Möller (1978) quando, al termine della sua analisi della sequenza filmica, avanza l'ipotesi che la sua compattezza e sensatezza dipendano, in ultima istanza, dalla presenza di un programma profondo che mima quelli che sono gli andamenti dell'azione umana.
A un secondo livello, Casetti (1979; Pragmatique et théorie du cinéma aujourd'hui, 1989) verifica i concetti di coerenza, completezza e comunicatività in termini di condizioni pragmatiche, allargando la prospettiva d'analisi al rapporto fra testo e contesto. L'identità di un film, infatti, non dipende soltanto dalla sua 'superficie' testuale ma anche dal contesto che lo accompagna e in cui appare: vale a dire, in dettaglio, i) dalle circostanze spazio-temporali di presentazione del film (data e ora della proiezione, coincidenza con certi eventi politici o culturali, tipologia di sala o manifestazione in cui si svolge ecc.); ii) da tutto quello che rileva della produzione e della ricezione del testo (dalle intenzioni d'autore all'orizzonte d'attesa dello spettatore); iii) da tutti i testi che 'accompagnano' il testo in questione, sia in quanto 'paratesti' (recensioni, trailers, materiali pubblicitari ecc.), sia in quanto testi 'richiamati' (attraverso la citazione, l'omaggio, il rifacimento ecc.).
L'approccio pragmatico ha avuto grande fortuna lungo tutti gli anni Ottanta, dando vita a due ipotesi di ricerca affini ma contrarie nella loro logica di fondo: si riconoscono così, da una parte, una linea testo-contesto, dove l'attenzione è portata sulle modalità con cui il primo influenza il secondo (Casetti 1986; Dayan, 1983, 1984); dall'altra parte, una linea contesto-testo, dove la ricerca si concentra sull'analisi dei processi di trasformazione e definizione del secondo a opera del primo (in particolare, Odin 1983).
Lo 'spostamento' qui presentato nello studio del linguaggio cinematografico avrebbe aperto la strada a nuovi filoni di ricerca esplorati successivamente soprattutto nel corso degli anni Novanta. In particolare, la valorizzazione della 'linguisticità' del cinema in termini di dispositivo concreto e 'idiosincratico' in cui si riconosce la presenza di qualcuno che dice qualcosa a qualcun altro, avrebbe condotto la ricerca a indagare il testo e le sue dinamiche con particolare riferimento ai due 'poli' coinvolti nei processi di significazione e di comunicazione, ora lavorando sul dialogo fra i due, ora esplorando in particolare le modalità di manifestazione del primo, ora concentrandosi soprattutto sui procedimenti di lettura del secondo.
Le tre modalità indicate non si sovrappongono automaticamente ai tre filoni di ricerca cui è dedicata questa parte conclusiva (teoria dell'enunciazione, ricerca sulla narrazione, analisi dei processi cognitivi): essa, piuttosto, si incrocia con questi ultimi specificando di volta in volta la prospettiva da cui è affrontato il problema della 'visione'.La teoria dell'enunciazione, in particolare, a partire dalla metà degli anni Settanta ha volto la sua attenzione al testo assumendolo come il risultato finale di un processo di appropriazione linguistica da parte di un soggetto locutore. L'idea di enunciazione, mutuata dai lavori di Émile Benveniste, inquadra dunque il problema del linguaggio nei termini di un passaggio da un insieme di virtualità a una manifestazione concreta: il testo diventa così il luogo dove cercare le tracce di un soggetto che si appropria di una lingua e costruisce un discorso spazializzato, temporalizzato e attorializzato a partire da sé e in vista di uno scambio comunicativo. Detto altrimenti, si tratta di studiare il costituirsi, il situarsi e l'eventuale autoreferenzialità del testo filmico.
La pratica degli studi enunciazionali, rilanciata dalla pubblicazione dello speciale di "Communications" dedicato a Énonciation et cinéma (1983) dopo i lavori pionieristici di Jean-Paul Simon sul comico (1979) e di Jackie Collins sul musical (1979) ha trovato in Francia e in Italia i suoi maggiori interpreti.
Jacques Aumont (1983) e André Gardies (1984) si sono interrogati in particolare sulla figura del narratore e sul modo in cui, a partire dal suo sguardo, si dispiega e ordina la complessità del mondo rappresentato. Il primo sottolinea come l'immagine sia sempre un "dare a vedere" e un "dare a capire": essa non si limita a rappresentare una porzione di mondo, ma la predica e la soggettivizza a partire dal punto di vista di un'istanza narrativa. Il film appare dunque ad Aumont come una donazione a tre livelli: esso offre anzitutto una veduta, ossia uno spazio immaginario coerente (mostra qualcosa allo spettatore); in secondo luogo, costruisce un percorso narrativo (racconta qualcosa allo spettatore); infine, inscrive dei significati autonomizzabili all'interno della riproduzione analogica (impone un senso alla rappresentazione filmica e al suo spettatore).
Gardies (1984), rifacendosi al concetto genettiano di focalizzazione, osserva anzitutto come questa, al cinema, perda ogni valore metaforico per il fatto di costituirsi realmente (materialmente) come passaggio attraverso un focolaio ottico (la macchina da presa). Ne deriva che il racconto filmico, a differenza di quello scritto, non può enunciare un sapere ma solo produrre effetti di sapere. Proprio la questione del sapere, incrociata a quella della rappresentazione dello spazio diegetico, consente di distinguere fra una focalizzazione interna (tutto accade come se il focalizzato fosse visto da un personaggio), una focalizzazione esterna (allo spettatore è negata una conoscenza completa dello spazio cinematografico) e una focalizzazione zero (lo spettatore gode di un vedere/sapere ottimale).Bettetini (1984) ha allargato il campo d'osservazione per ritrovare, inscritte nel film, le tracce di una conversazione fra un enunciatore e un enunciatario. Egli, in particolare, nel suo studio passa in rassegna sia le modalità con cui il primo porge un racconto al secondo, magari figurativizzando il suo 'gioco' interlocutorio per mezzo di narratori e narratari diegetici, sia le modalità di adesione e reazione del secondo al testo (per es., attraverso la costruzione di un enunciatore modello, prodotto dal destinatario nel suo impatto con la superficie significante del film).
Casetti (1986) approfondisce invece lo studio della 'posizione' dello spettatore nel testo, soffermandosi in particolare sulle modalità con cui un film, nel suo farsi e darsi a vedere, prevede per lo spettatore una posizione ben precisa. In particolare, attraverso il richiamo all'enunciazione filmica, Casetti distingue quattro grandi configurazioni testuali che comportano altrettante collocazioni per lo spettatore: l'oggettiva, che lo pone in una situazione di testimone neutro; la soggettiva, che lo porta a coincidere con l'esperienza di un personaggio; l'oggettiva irreale, che lo trasforma in una specie di occhio libero e fluttuante, simile a quello della macchina da presa; l'interpellazione (per es., lo sguardo in macchina), che lo chiama invece a un ruolo di interlocutore ai margini della scena.Il tema dell'enunciazione è giunto ad arricchire anche l'ambito degli studi di ispirazione narratologica dove, fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, il problema del funzionamento linguistico del cinema era già stato spostato da Seymour B. Chatman (1978) e Nick Browne (1982) dall'analisi delle caratteristiche generali che trascendono le singole realizzazioni (la narratività), all'oggetto in cui queste caratteristiche si incarnano (il racconto) e soprattutto all'atto che dà corpo a questo oggetto (la narrazione). La nuova narratologia di André Gaudreault (1988) e François Jost (1987) ha proseguito questa ricerca ora concentrandosi sullo statuto della narrazione filmica, che appare al primo come un incontro fra diegesis e mimesis, con il film che mette in mostra e insieme racconta una storia grazie a un meganarratore che riunisce e combina in modo originale caratteristiche da narratore teatrale e da narratore romanzesco, ora esplorando il rapporto fra sguardo e rappresentazione, descritto dal secondo in termini di ocularizzazione (relativa alla dimensione visiva: ci si interroga sulla identità di chi guarda e sulle modalità di questo guardare), di auricolarizzazione (relativa alla dimensione sonora: chi dice e chi ascolta, e in che modo?) e di focalizzazione (relativa alla dimensione cognitiva: la domanda è dunque rivolta alle modalità di circolazione del sapere e alle forme della sua manifestazione).
Più interessata allo spettatore si è rivelata infine la prospettiva cognitivista di scuola americana, inaugurata dalla pubblicazione di Narration in the fiction film (1985) di David Bordwell. Ciò che interessa indagare è in che modo e perché lo spettatore comprende un film: emergono così in primo piano lo studio degli schemi (derivati dal contesto oppure dall'esperienza precedente) cui egli si rifà più o meno consapevolmente durante la visione del film; lo studio del modo in cui il film incanala questa attività di lettura in termini di intreccio e di stile; lo studio dei percorsi attraverso cui lo spettatore (ri)costruisce la storia narrata sullo schermo passando dall'intreccio alla fabula.Uno degli spunti di riflessione offerti dall'analisi dei processi cognitivi invita a cercare nel dispositivo cinematografico le tracce di una 'socialità' comune tanto ai materiali che, a diversi livelli, compongono il linguaggio cinematografico, quanto ai processi attraverso i quali il testo, visto come qualcosa di 'costruito' e 'in movimento' piuttosto che come qualcosa di dato una volta per tutte, viene decodificato durante la sua fruizione. Alla 'socialità' del linguaggio cinematografico si aggiunge infine anche l'idea di una sua 'storicità': da questo punto di vista, è dunque possibile raccontare l'evoluzione del cinema tenendo presente in particolare il modo in cui di volta in volta tale linguaggio ha definito le sue risorse, stabilizzato le sue grammatiche, configurato i suoi quadri comunicativi.
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