politica, linguaggio della
Tra i ➔ linguaggi settoriali una posizione preminente occupa il linguaggio della politica, le cui forme di realizzazione e diffusione dipendono da una vasta gamma di variabili congiunturali, quali la situazione nazionale e internazionale del momento, le condizioni socio-economiche, i rapporti tra le forze politiche e molte altre ragioni contingenti connesse alla gestione della res publica.
Indipendentemente dai principi che governano tutti gli atti di parola, forse è proprio nel linguaggio politico che si registrano, con maggiore evidenza rispetto agli altri tipi di linguaggi, regole intrinseche sia interne alla struttura del testo stesso, sia esterne e subordinate alle specifiche modalità di produzione, circolazione e ricezione dei messaggi. Infatti, tra i diversi tipi di linguaggi che attraversano il corpo sociale e di cui si ha una competenza più o meno attiva, quello politico, istituzionalizzato e variamente legittimato fin dai tempi più antichi, si è sempre avvalso di elaborate strategie e tattiche, finalizzate a conseguire quello che i latini definivano, con una locuzione molto sintetica, il fidem facere et animos impellere, cioè convincere razionalmente e persuadere emotivamente.
Il discorso politico, costruito grazie alla commistione di diversi livelli linguistici e di molteplici procedure semiotiche dell’azione verbale, mette infatti opportunamente in scena tratti fonetici e intonazionali, seleziona determinati moduli morfo-sintattici e semantici, sceglie figure retoriche e impianti argomentativi, opta per meccanismi pragmatici con lo scopo primario di suscitare e accrescere l’adesione dei cittadini alle tesi sostenute, a un certo progetto, a uno specifico programma elaborati da un movimento, da un partito, da un leader.
Verso i cittadini-destinatari quindi vengono organizzati e posti in essere complessi percorsi testuali, dove parole chiave, neologismi, formule a effetto, enunciati d’ordine vengono usati per attivare e/o riconfermare quei legami fiduciari con l’uditorio, con cui ogni politico deve fare i conti specialmente in occasione di campagne elettorali politiche ed europee, amministrative e referendarie.
Certamente i tipi di discorsi e di testi politici (Desideri & Marcarino 1980; Cortelazzo & Paccagnella 1981) sono molteplici: si va dall’allocuzione ufficiale nell’emiciclo parlamentare all’intervista, dal comizio alla conferenza stampa, dal dibattito televisivo all’articolo giornalistico e al comunicato di partito. Altrettanto numerosi e differenti sono i canali attraverso cui viene trasmessa e diffusa la parola, orale e scritta, dei leader interessati alla maggiore visibilità possibile sul palcoscenico del marketing politico, in pratica tutti i mass media oggi impegnati soprattutto sul versante della spettacolarizzazione politica che si avvale di nuovi ambienti tecnologici di comunicazione per l’attuale cittadino-spettatore-elettore (Bentivegna 2002).
Sebbene il nuovo vocabolario politico italiano nasca nel triennio rivoluzionario giacobino 1796-1799 (Leso 1991) e si sviluppi nel periodo postunitario anche in virtù dei nuovi movimenti di massa a cavallo tra Ottocento e Novecento (Leso 1994: 721-736; Gualdo 2006: 193-198), è nel Ventennio fascista che la retorica politica raggiunge il suo acme, alimentata soprattutto dalla propaganda futurista e dannunziana (➔ D’Annunzio), vitalistica e misticheggiante della prima guerra mondiale e dell’impresa di Fiume (➔ fascismo, lingua del).
Dalla fondazione dei Fasci italiani di combattimento a Milano nel 1919 all’incarico governativo nel 1922, dal regime instaurato nel 1925 fino alla fine nel 1943, passando attraverso le tappe dell’ascesa e della caduta della dittatura fascista, il linguaggio di Mussolini, profondamente persuasivo, esibisce tutti i suoi tratti più noti e tipici (Lazzari 1975; Desideri 1984; Simonini 1987). Ricordiamo il martellamento di ➔ slogan enfatici, alcuni dei quali diventati negli anni Trenta scritte murali («credere, obbedire, combattere»); le frasi lapidarie quasi formule incantatorie; l’aggettivazione roboante (fatidico, indomabile, ardente); le strutture accumulative binarie e ternarie («Italia grande, potente, temuta»); la sintassi paratattica molto semplificata (➔ paratassi); lo stile incisivo polemico o apologetico; la predilezione per le metafore medico-chirurgiche («la chirurgia fascista è veramente coraggiosa e veramente tempestiva»), religiose e militari; il frequente uso di artifici retorici, di iperboli e superlativi; le reiterate figure del suono, come assonanze e allitterazioni; la strategica abilità oratoria (tono, ritmo, pause mirate, accenti, volume di voce) accompagnata da ➔ interrogative retoriche allocutive rivolte alle folle oceaniche nelle grandi occasioni; la gestualità a effetto non senza esiti istrionici, soprattutto negli anni Trenta.
Fin dai discorsi mussoliniani dei primi anni Venti si notano quelle potenti strategie persuasive e manipolative, finalizzate a coinvolgere e a sedurre il popolo, strategie che tanta parte avranno per la progressiva adesione cieca e fideistica al duce e per il conseguente rafforzamento del totalitarismo, che, come tutti i totalitarismi, persegue l’immedesimazione acritica delle masse nella figura del capo carismatico, ai cui appelli, imperativi e parole d’ordine la risposta prevista è unica e corale. Pertanto Benito Mussolini rivolge agli italiani messaggi miranti a creare e mantenere un rapporto fiduciario intenso e interattivo, inneggianti alla condivisione degli stessi ideali e alla comune identità d’origine: un medesimo «essere» e «sentire» esaltati da valori particolarmente simbolici, quali quelli patriottici, religiosi, culturali.
Caduto il regime fascista e proclamata la repubblica il 18 giugno 1946, poco dopo il referendum tra l’istituto monarchico e quello repubblicano, la propaganda per le elezioni del 1948 apre un aspro scontro politico tra Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, i due capi dei maggiori partiti di massa contrapposti, la Democrazia cristiana e il Partito comunista italiano. Confrontati con la vicina magniloquenza mussoliniana e fascista in genere, gli idioletti dei due leader appaiono ancor più contrassegnati da severità e lucidità espositiva.
Lo stile dello statista democristiano, trentino ed erede della lezione di don Luigi Sturzo, è sobrio e misurato, spinto com’è dall’esigenza di riconciliazione del Paese, lacerato dalla seconda guerra mondiale e dalla Resistenza. È una parola quindi che, sebbene non priva di appelli emotivi soprattutto quando è finalizzata ad aggregare la collettività dei cittadini nella difesa dei principi democratici, è improntata all’assunzione di «responsabilità» e all’esaltazione della politica come «servizio», «impegno», addirittura come una «missione» nei confronti delle giovani istituzioni repubblicane (lemmi, questi, molto frequenti nei discorsi degasperiani). Il fondatore della DC tende ad adottare massime didascaliche e prescrittive, di cui si serve per imprimere ai propri enunciati una vis coinvolgente (Desideri 1984: 24-30), unitamente a diffusi traslati metaforici di chiara matrice biblico-evangelica, che connotano i discorsi di una valenza quasi sacrale (ad es., metafora della montagna, della sorgente, della luce, ecc.).
Diversamente, il capo del PCI usa spesso i toni della polemica aspra e sferzante, specialmente quando deve replicare alle accuse e sfidare i suoi avversari politici. Una delle costanti dello stile togliattiano è certamente quella di utilizzare un impianto argomentativo ben strutturato, una dispositio di tipo quasi giuridico, uno schema logico rigidamente coerente, alla cui solennità contribuiscono iterate citazioni classiche, filosofiche, anche letterarie. Queste ornano un’esposizione spesso asettica, precisa, tesa a dimostrare la giustezza delle tesi sostenute attraverso la tattica retorica – alquanto maieutica ed efficace per la progressione testuale e la forza comunicativa – di porre a climax brevi domande, seguite da lunghe risposte contenenti affermazioni irreversibili. In tali spazi enunciativi, dove viene collocata costantemente la ripetizione strategica di una parola o di un sintagma chiave che fungono da leit-motiv del concetto guida, il locutore può prendere posizione, confutare le contro-tesi e sostenere l’uditorio nella fatica interpretativa dei propri discorsi politici (Paccagnella 1975; Desideri 1998a: 72-76).
Una voce di spicco della politica del primo dopoguerra è anche quella di Pietro Nenni, esponente storico del Partito socialista italiano, il cui linguaggio preferisce i toni pungenti dell’attacco diretto, più consoni alla grande oratoria da comizio, pratica comunicativa nella quale il leader del PSI si è sempre distinto. Nenni, da brillante giornalista, spesso conia locuzioni inedite, entrate poi nel sottocodice politico, quali per es. «stanza dei bottoni», «politica delle cose», «vento del nord» (quest’ultima metafora ripresa poi dalla Lega Nord prima maniera), come pure attinge da forestierismi francesi, tedeschi e soprattutto angloamericani, modernizzando così in maniera originale il linguaggio severo dei primordi della Prima Repubblica (un esempio per tutti, la suffissazione un po’ ardita di «Stato chiesastico»).
Negli anni a venire i linguaggi della politica assumono sempre più i tratti iniziatici e quasi incomprensibili del cosiddetto politichese e, sotto questo aspetto, gli idioletti degli statisti e dei leader protagonisti della Prima repubblica sono particolarmente complessi, portatori di ideologie molto differenti tra loro ed espressione delle mutevoli contingenze del panorama politico italiano.
Passiamo a esaminare le peculiarità discorsive degli esponenti politici più autorevoli nel panorama italiano degli anni 1960-1980, anni in cui la televisione, entrando progressivamente nelle case degli italiani e legittimando la supremazia dell’immagine, comincerà ad assumere un ruolo sempre più importante per gli effetti manipolativi della propaganda via etere.
Unanimemente ritenuto il modello del politichese per antonomasia è lo stile di Aldo Moro (Desideri 1998b), il cui celebre ossimoro degli anni del centro-sinistra, «convergenze parallele», è passato alla storia della lingua politica italiana quale esempio di oscurità e ambiguità. Alle famose «convergenze parallele» si accompagnano altri sintagmi neologici ermetici: ad es. «equilibri bilanciati», «cauta sperimentazione», «pace creativa», «progresso nella continuità», «flessibilità costruttiva», «alleanze organiche», «accordo programmatico», «strategia dell’attenzione». Sono formule che, insieme ad alcuni lemmi chiave (da confronto e dialogo di matrice conciliare a emergenza e flessibilità dell’ultimo periodo caratterizzato dall’apertura ai comunisti), rappresentano la cifra apparentemente più vistosa e criptica del linguaggio dello statista, dall’elezione alla Costituente per la DC nel 1946 fino al tragico 1978.
Profondamente attento alla scelta lessicale e al rapporto semantico-pragmatico tra la parola e la sua referenza, Moro ha sempre corredato i suoi lunghi discorsi di glosse e puntualizzazioni metalinguistiche sul significato contestuale e sull’uso dei termini impiegati, necessari per esprimere le difficili, spesso contraddittorie, realtà del Paese. Inclini alla mediazione e alla negoziazione, i trentennali discorsi e scritti politici morotei sono costruiti con un solido apparato argomentativo; essi spesso si avvalgono strategicamente della retorica dell’attenuazione con il ricorso a eufemismi e soprattutto alla litote (non + Nome o non + Aggettivo), figura principe per mitigare le conflittualità (per es. non opposizione, non sfiducia, non preclusione, non usuale, non ostile, non tradizionale, non banale).
Coerentemente con la tradizione linguistico-didascalica di matrice marxista, il linguaggio di Enrico Berlinguer è ordinato e disadorno, dominato dall’uso della forma impersonale, con marcata assenza di toni interattivi ed emozionali verso l’uditorio, al quale il segretario del PCI espone le proprie tesi simmetricamente disposte in una controllata argomentazione a catena di tipo tecnico-scientifico secondo la successione causa-effetto. Permeato di una sorta di oggettività enunciativa, nell’assidua riconferma del patrimonio di valori condivisi dalla base comunista, il vocabolario berlingueriano abbonda di parole e sintagmi chiave come analisi, solidarietà, rigore morale, intelligenza delle cose, senso dello Stato, espressioni che indirizzano appunto all’osservazione obiettiva dei fatti e dei problemi, la cui soluzione impegna il politico non in vista di scopi individuali, ma per contribuire alla «costruzione di un nuovo assetto del mondo».
Del tutto opposto, e decisamente innovativo sul versante del politichese, è lo stile di Bettino Craxi, uno stile caratterizzato da opzioni semantiche, strategie pragmatiche e tattiche retoriche alquanto originali (Desideri 1987). Infatti, il leader socialista fu il primo a sfruttare le risorse di amplificazione del mezzo televisivo, costruendo il proprio personaggio politico di ‘uomo comune’ secondo quel rapporto dialogico e quelle forme colloquiali, attivate tra sé e i cittadini-elettori, che tanta parte avranno in futuro per lo sviluppo, forse irreversibile, della politica-spettacolo. Di conseguenza, per evitare i toni aulici e affettati di certa oratoria politica distante dai cittadini, il linguaggio craxiano, proprio come quello dell’uomo della strada nel quale si rispecchia, predilige il registro parlato-informale, i moduli della lingua comune, citando copiosamente proverbi, detti, locuzioni popolareggianti, e dando così luogo a enunciati comprensibili tesi a «chiamare le cose con il loro nome». Due esempi degli anni Settanta tra i tanti: «E quando si passerà dal dire al fare, nasceranno difficoltà. Insomma, le lucciole restano lucciole, le lanterne lanterne»; «… l’eurocomunismo è un po’ come l’araba fenice, che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa».
Anche Marco Pannella è considerato a pieno titolo un precursore della spettacolarizzazione televisiva della politica. Infatti, nella famosa “Tribuna politica” per il referendum del 1978, mette in opera per la prima volta quella strategia del silenzio, in seguito più volte adottata dai radicali, infrangendo provocatoriamente la regola di pronunciare l’appello agli elettori (Cortelazzo 1981; Desideri 1989: 14-15). Il linguaggio politico del Pannella della Prima repubblica è sempre caratterizzato da toni profetici e apocalittici, con tendenza all’eccesso e alla drammatizzazione, non soltanto a livello di messa in scena, ma anche nella scelta lessicale. Il capo del PR predilige lessemi di forte impatto, come truffa, sfascio, ammucchiata, sceneggiata; opta per verbi come sgovernare, scippare, imbavagliare, per sintagmi come elezioni rissa, rivolti ai partiti dell’area governativa. Egli trasgredisce il codice ed esaspera le regole delle convenzioni discorsive politiche attraverso iperboli, paradossi, antitesi che traducono, a livello linguistico, le battaglie per i diritti civili condotte dal Partito radicale dell’epoca.
Anche Giorgio Almirante, segretario del Movimento sociale-Destra nazionale, è un esempio eclatante di discorso politico polemico, dove però gli accenti provocatori sono più misurati di quelli pannelliani. Il capo del partito all’opposizione, nato dalle ceneri del fascismo, utilizza soprattutto la figura retorica dell’ironia e del sarcasmo per esprimere il dissenso nei riguardi dell’assetto istituzionale e per marcare di continuo le differenze tra il proprio partito e il quadro politico governativo. A livello pragmatico-enunciativo, l’opposizione pronominale noi / loro è il modulo ricorrente impiegato per sottolineare con efficacia i rispettivi e contrastanti universi ideologico-politici.
Alla fine degli anni Ottanta, con il terremoto di inchieste su Tangentopoli e la stagione giudiziaria di Mani Pulite, scompare il vecchio sistema partitico. Escono di scena molti esponenti di spicco dell’antica partitocrazia e quasi tutti i partiti tradizionali modificano la loro identità con inedite aggregazioni. Il fenomeno più eclatante è l’affermazione di nuovi movimenti e di nuove leadership, portatori di nuovi linguaggi (Antonelli 2000; Dell’Anna & Lala 2004; Gualdo & Dell’Anna 2004); due in particolare: la Lega Nord e Forza Italia con i loro rispettivi indiscussi capi carismatici, Umberto Bossi e Silvio Berlusconi.
Con le elezioni politiche del 1994 si sanciscono definitivamente il rafforzamento della Lega e la «discesa in campo» (abusata metafora calcistica) del Cavaliere. Questi stili comunicativi esibiscono subito sia la natura antipolitichese dei nuovi soggetti politici, sia l’enorme potenza mediatica, molto simile a quella pubblicitaria, idonea a potenziare la personalizzazione, il leaderismo nell’accesa competizione elettorale.
Umberto Bossi, fondatore della Lega Nord, che fin dai primi anni Ottanta si è fatto portavoce della protesta settentrionale antistatalista, agisce come supremo custode dei valori etnico-autonomistici della cosiddetta Padania, facendo copioso uso del linguaggio dell’aggregazione e della mobilitazione (Allievi 1992; Desideri 1993 e 1994), declinato attraverso una messe di slogan coloriti di immediato impatto (il più noto «Roma ladrona / la Lega non perdona») e una serie di elementari dicotomie semantiche alla base della struttura discorsiva (noi / loro, schiavi / padroni, autonomia / statalismo, produttività / parassitismo). Tuttavia, è soprattutto dai raduni di Pontida che, con un lessico trasgressivo incline all’irriverenza verbale e al turpiloquio, il leader del Carroccio sferra i suoi attacchi più veementi contro i «partiti di Roma», senza escludere il capo dello Stato, apostrofandoli con epiteti e intimidazioni a climax. Una volta divenuta la Lega partito di governo, nel corso del tempo, si nota da parte di Bossi una progressiva attenuazione linguistica, salvo recuperare, in particolari momenti di tensione politica e allo scopo di riaccorpare l’elettorato, quei gesti scomposti e quel lessico tipico del cosiddetto celodurismo da indirizzare agli avversari di turno.
Altrettanto ‘contro’ è il linguaggio berlusconiano degli esordi nel 1994, una sorta di neolingua che dimostra subito la potente efficacia comunicativa del fondatore di Forza Italia, ben più vicina al mondo delle marche che a quello della politica. Le enfatiche strategie incitative e appellative sono continue in tutta la produzione oratoria di Berlusconi (Forconi 1997; Amadori 2002 e 2003; Bolasco, Galli de’ Paratesi & Giuliano 2006; Desideri 2006: 186-189), dominata da abili costanti linguistiche. Si riscontrano l’uso, ossessivamente autocelebrativo, del pronome io rappresentato come una sorta di capo guerriero salvatore; il ricorso a periodi brevi e privi di subordinate, più simili a slogan pubblicitari; un lessico passionale esagerato e patetico («l’Italia è il paese che amo»; «partito dell’amore»); l’esaltazione del proprio totale impegno («la politica del fare» opposta alla «politica delle parole»); il dileggio degli avversari (definiti «professionisti della politica», «politicanti senza mestiere»), dei magistrati e dei giornalisti, visti come nemici personali e di quell’«Azienda Italia», sulla cui scena il Cavaliere è stato, per più di quindici anni, il testimone del potere delle parole e della seduzione incomparabile che esse esercitano.
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