PUBBLICITA, LINGUAGGIO DELLA
PUBBLICITÀ, LINGUAGGIO DELLA. – Narrare è persuadere? Il messaggio pubblicitario. Nuovi codici semiotici. Bibliografia
Narrare è persuadere? – Nel mondo della pubblicità è possibile scoprire un potenziale narrativo straordinario, una densità di storie senza pari. Siano esse ‘vere’ – autobiografie e racconti autoreferenziali veicolati dai testimonial – o del tutto immaginose, come le affissioni metalettiche in uso negli Stati Uniti (per es., quando una vernice gialla deborda dallo spazio cartaceo dell’affiche sopra un’automobile reale, parcheggiata al di sotto dell’affiche), le narrazioni dell’advertising hanno il compito di mantenere accettabilmente contigui i due demarcatori del noto e dell’ignoto, della norma e della trasgressione.
Va detto che la pubblicità rischia di diventare fondamentale per il configurarsi del nostro senso comune. Se si segue sino in fondo Jerome Bruner, i grandi brand, le semiosfere narrate dalle multinazionali sempre più dominanti, i banner e gli spot andrebbero considerati quasi come unità neuropsichiche elementari. Questo significa che quando ci nutriamo di narrazioni pubblicitarie non ci limitiamo ad abbandonarci a una forma light di intrattenimento ludico, ma preveniamo l’inatteso, addestriamo la nostra capacità di adattamento alle incognite del futuro: è per questo che le storie narrateci dall’advertising ogni giorno possono essere affrontate dal punto di vista della retorica aristotelica e della narratologia (Bruner 2002, 20062).
Se la retorica – vecchia, nobile primogenita dei new media – conosceva molto bene i segreti del movere, ossia la capacità di trasmettere le passioni e di lasciare le impronte digitali sulle passioni del destinatario, si comprende bene come attualmente la pubblicità retorizzata in senso persuasivo riprenda il codice epidittico, facendolo ruotare verso passioni più regressive e infantili quali l’angoscia, il narcisismo primario, la necessità di perfondersi in un oggetto che è estraneo e insieme connesso con il nostro corpo (Reboul 1984; trad. it. 2004, pp. 84-86).
Facciamo un esempio. È stato Umberto Eco a dire che la figura retorica più ricorrente in pubblicità è l’antonomasia e che ne esistono due tipi. Posso sostituire il nome proprio di un individuo con il nome comune di una specie o una perifrasi, come quando dico ‘l’Avvocato’ e intendo Gianni Agnelli, o dico ‘l’Eroe dei due mondi’ e intendo Giuseppe Garibaldi; al contrario, posso sostituire un nome comune con un nome proprio, come quando definisco i libertini dei ‘Don Giovanni’ o dei ‘Casanova’, oppure un ipocrita un ‘Tartufo’. Ebbene: se chiamo tutti i rotoli di carta uso cucina ‘Scottex®’ o definisco ‘Scotch®’ ogni nastro adesivo, adotto senza dubbio questo secondo tipo di antonomasia, che costituisce dunque l’apice di una strategia di marketing. Dalla pubblicità, gli strumenti formali e argomentativi della retorica si sono spostati in aree contigue, e negli ultimi anni si è diffuso il branding, l’arte di fare parlare un marchio, di dare un volto discorsivo al logo, regalandogli un’identità simbolica e sociale che altrimenti non avrebbe: la marca come istanza semiotica svolge, infatti, molteplici funzioni discorsive di identificazione, orientamento, garanzia, simbolizzazione.
Ma quale futuro dell’advertising possiamo immaginare dal momento in cui le immagini acquisiscono lo stesso spazio riservato per secoli alle parole? Che la pubblicità sia entrata a pieno titolo nel genere retorico epidittico al pari del la letteratura (a propria volta coniugatasi con il cinema e il giornalismo), non c’è nessun dubbio: sempre più elegante e raffinata, orientata a stabilire cosa possa essere bello o brutto, offerta alla gestione creativa di fotografi, registi e scrittori di grande notorietà, essa sembra tuttavia sfuggire alle maglie soffocanti del marketing. Linguaggio target-oriented, cioè mirato a uno scopo di vendita, la pubblicità sta costruendo un’autocosmesi che la rende più libera e insieme più fragile (Groupe Marcuse 2004; trad. it. 2006, pp. 115-30).
Il messaggio pubblicitario. – Affinché funzioni, un messaggio pubblicitario deve essere congruente con il prodotto e con l’immagine legata al prodotto, deve risultare comprensibile, privo di inutili giri di parole e interpretazioni forzate, accattivante se non addirittura coinvolgente (Testa 2006). Le sue componenti essenziali sono le seguenti:
a) Il visual. Si tratta dell’elemento iconico che viene mostrato – astratto o graficamente realistico, grafico o fotografico, policromatico o in bianco e nero. I visuals più interessanti sono quelli che suscitano la curiosità del lettore e lo spingono a leggere il testo per scoprire di cosa si parla; un visual efficace deve avere continuità tematica con il prodotto o creare un rimando sematico, simbolico o anche semplicemente associativo a esso, ma sta di fatto che il visual tende ormai a dominare l’intero spazio a disposizione dell’advertising.
b) La headline. Si tratta della sequenza verbale che campeggia in alto, nella fascia superiore al visual o in quella immediatamente inferiore (la disputa è tuttora in atto, ma negli ultimi dieci anni le headlines sembrano assestarsi preferibilmente al di sotto del visual, cui offrono un significato che non sia apparso subito chiaro al consumatore), ma che di fatto costituisce il punto nevralgico della creatività verbale: è nelle headlines che trovano ospitalità figure retoriche e azzardi linguistici, gesti di coraggiosa onomaturgia e neoconiazioni, ma in forma necessariamente breve, e con un ricorso assai parsimonioso all’interpunzione (Ogilvy 1983; trad. it. 19903, p. 71).
c) La bodycopy. Si tratta di un testo verbale di lunghezza variabile, ma redatto in forma sintatticamente articolata (al contrario delle headlines, spesso in stile aforistico e nominale), contenente tutte le informazioni tecniche relative al prodotto; in corpo assai esiguo proprio in quanto viene letta solo da chi è autenticamente interessato all’acquisto del prodotto, la bodycopy accompagna più di frequente la presentazione di ambiti merceologici a elevato impatto tecnologico (dai computer alle automobili e agli elettrodomestici), mentre è del tutto inutile se riferita al mondo della moda e del design.
d) Il packshot. Si tratta della rappresentazione visiva del prodotto, spesso costituita dall’immagine fotografica della confezione in modo da rendere il prodotto ben riconoscibile all’atto dell’acquisto; il packshot è spesso necessario nelle forme di advertising più metaforiche e perifrastiche – si pensi ai profumi, in cui molto spesso il visual è costituito dall’immagine di una donna o di un paesaggio esotico –, in cui è necessario riportare il consumatore al target della comunicazione.
e) Il logotipo. Si tratta del nome del brand che firma la pubblicità secondo un preciso lay-out, scrupolosamente indicato nella cosiddetta brand bible, in modo da contraddistinguere un prodotto rispetto agli altri (per es., il nome Ferrari per indicare le celebri automobili prodotte a Maranello).
f ) Il trademark. Si tratta del marchio visivo di un brand o di un’azienda (nel caso delle Ferrari, un cavallino rampante nero su campo giallo), soggetto a un processo di semplificazione progressiva quanto più il brand ottiene notorietà e si impone sul mercato (si pensi alla mela di Apple, inizialmente policromatica e poi sempre più astratta in una lunare fluorescenza).
g) Il payoff. Si tratta di una sequenza verbale assai breve che, al contrario della creatività esteticamente rilevante delle headlines, deve coagulare la mission aziendale o il programma narrativo di un brand (si pensi a «Think different» per Apple, o a «Dove c’è Barilla c’è casa» per Barilla); un brand si lega per un tempo medio-lungo a un payoff e tende a stabilizzarlo, perché repentini mutamenti sarebbero letti dai consumatori quali segni di instabilità.
Quasi sempre lo spazio percettivamente più di valore viene considerato quello nella parte inferiore destra dello spazio grafico, in quanto si ritiene che il nostro sguardo proceda sempre dall’alto al basso e da sinistra a destra (secondo le procedure di lettura invalse per noi occidentali, mentre per il mondo arabo le cose vanno diversamente): per questo logotipo, trademark e payoff – qualora presenti – tendono a sistemarsi segnatamente nell’angolo inferiore destro. Ogni annuncio, inoltre, è inserito in un format che organizza testo e immagini in una reciproca relazione (Testa 2007, p. 71), istituendo le gerarchie di lettura e fornendo all’occhio l’orientamento corretto per la decodifica del messaggio. Una buona composizione aiuta infatti la lettura del messaggio: le headlines più leggibili sono, per es., quelle scritte in minuscolo, senza punto alla fine della frase, e ciò avviene in quanto «l’occhio è creatura dell’abitudine» (Ogilvy 1983; trad. it. 19903, p. 96), per cui, abituato a leggere riviste e quotidiani dove i titoli non hanno il punto finale e lo stampatello non viene utilizzato, l’occhio del destinatario ne tollera più facilmente il formato tipografico. Più precisamente: le maiuscole rallentano la lettura perché, non avendo elementi ascendenti o discendenti che aiutino a identificare le parole, tendono a essere lette lettera per lettera, mentre i punti fermi sono chiamati così proprio in quanto rallentano la lettura.
Nuovi codici semiotici. – Il discorso pubblicitario ha conosciuto un’autentica esplosione dopo la Seconda guerra mondiale grazie alla nascita e, in seguito, al capillare diffondersi della televisione. Ma proprio tale diffusione ha anche decretato l’ininfluenza della pubblicità, la cui efficacia è – come risulta da test rigorosi – inversamente proporzionale al numero degli spot di altri prodotti che si affiancano nelle medesime fasce orarie. Come sempre accade per ogni forma di espressione, la perdita di funzionalità ed efficacia ne determina una progressiva, libera estetizzazione, che la fa entrare nei campi elisi del discorso artistico (Bortolussi, Dixon 2003, pp. 48 e segg.). A questo punto il problema è costituito non più dai codici semiotici, bensì anche dai supporti materiali e tecnologici di tali codici. Ogni singola componente del messaggio pubblicitario – grafemi, fonemi, musica, colori, identità topologiche ed eidetiche – interagisce dinamicamente con le altre sino a creare una rete di significati, interpretabili secondo un’esperienza culturale condivisa. Nel 1982 Gerald Gorn pubblicò un pionieristico articolo in cui dimostrava come la musica di sottofondo negli spot pubblicitari influenzi il comportamento dell’acquirente. Studi sperimentali successivi (Marconi 2004, pp. 688 e segg.) hanno rivelato che gli elementi patemici, l’emotività tout court, hanno un valore superiore rispetto a quelli logico-discorsivi: se un commento musicale può svolgere funzioni narrative, simboliche o del tutto ancillari e addirittura svianti o antifrastiche rispetto alla narrazione pubblicitaria, a opinione di alcuni studiosi esso finirebbe per limitarsi alla duplice azione predicativa dello spettacolarizzare e del sorprendere.
La musica, dunque, ha valenze persuasive pari alla modellizzazione retorica della frase o alla scelta di un termine invece di un altro. Il fatto è che le cose sono assai complesse quando parliamo di media, o meglio di quelle grandi trasformazioni mediali ricostruite già da Marshall McLuhan in The Gutenberg galaxy (1962; trad. it. 1976, pp. 95 e segg.). Ma oggi?
Se per un verso l’ambito pubblicitario sta procedendo verso una progressiva diversificazione dei media, con un ruolo sempre crescente del web (ormai superiore alla radio negli investimenti pubblicitari), dall’altro i media tradizionali, e in particolare la TV, continuano a dimostrare di essere parte integrante delle pianificazioni comunicative delle imprese. Eppure, favorendo lo sviluppo di interazioni patemiche tra gli utenti Internet, si costituisce oggi come una fonte aggregativa di contenuti e informazioni, in grado di coinvolgere gli utenti in una relazione simile a quella che si genera all’interno di una comunità cosiddetta situata, dove i legami tra individui sono di tipo emotivo ed esperenziale; senza contare il fatto che saranno proprio questi utenti a influenzare a loro volta i processi di semiosi del brand, aumentandone in tal modo il valore intrinseco.
La natura frontale della pubblicità sta dunque lasciando il posto a una fluidità conversazionale e interattiva, abitata da prosumers (i consumatori/produttori, frutto di una contrazione lessicale tra producer e consumer) consapevoli e attivi, in grado di scegliere contenuti e messaggi, indirizzando le aziende e i brand nella configurazione dei prodotti e delle modalità attraverso cui proporli. Se oggi assistiamo a una perdita di controllo del marketing sui brand, ciò avviene proprio a causa della crescente influenza delle interazioni peer-to-peer, basate sul crowdsourcing (l’organizzazione volontaria ed esternalizzata di una comunità digitale in grado di narrativizzare un brand) o più semplicemente sulle affinità personali.
Bibliografia: B. Anderson, Imagined communities, London 1983 (trad. it. Roma 1996); D. Ogilvy, Ogilvy on advertising, London 1983 (trad. it. La pubblicità, Milano 19903); O. Reboul, La rhétorique, Paris 1984 (trad. it. Introduzione alla retorica, Bologna 2004); V. Codeluppi, Il potere della marca, Torino 2001; K. Keller, P. Kotler, A framework for marketing management, Upper Saddle River (N.J.) 2001 (trad. it. Il marketing del nuovo millennio, Milano 2007); J.S. Bruner, La fabbrica delle storie, Roma-Bari 2002, 20062; M. Bortolussi, P. Dixon, Psychonarratology. Foundations for the empirical study of literary response, Cambridge 2003; Groupe Marcuse, De la misère humaine en milieu publicitaire, Paris 2004 (trad. it. Miseria umana della pubblicità, Milano 2006); L. Marconi, Muzak, jingle, videoclip, in Enciclopedia della musica. I. Il Novecento, a cura di J.-J. Nattiez, Torino 2004, pp. 675-95; A. Arvidsson, Brands. Meaning and value in media culture, London-New York 2006 (trad. it. La marca nell’economia dell’informazione, Milano 2010); A. Testa, La parola immaginata, Milano 2006; A. Testa, La pubblicità, Bologna2007; M. Massarotto, Internet P. R., Milano 2008; D. Punday, From synesthesia to multimedia. How to talk about new media narratives, in New narratives. Stories and storytelling in the digital age, ed. R. Page, B. Thomas, Lincoln 2011, pp. 38-56.