Linguaggio e realtà
Il ruolo centrale assunto dal linguaggio nell'analisi filosofica del 20° sec. ha posto in primo piano la questione della sua relazione con la realtà: in che modo parole, frasi, discorsi, 'riguardano' oggetti o aspetti del mondo? In quale modo, per es., la parola Isa è il nome di una particolare persona? Come fa l'enunciato "Ieri è nevicato" a descrivere un fatto realmente accaduto? Da tali esempi appare evidente che lo studio della relazione tra l. e r. passa attraverso l'analisi di concetti quali riferimento, significato, verità: 'Isa' funziona come nome di una particolare persona se l'utilizzo che se ne fa riesce a riferirsi a quella persona, un enunciato è vero se il suo uso riesce a descrivere un certo fatto, ed entrambi gli usi riescono a fare questo (quando ci riescono) perché quelle espressioni linguistiche sono significanti. Ne segue, per converso, che, qualora questi concetti si rivelassero privi di contenuto, la relazione tra l. e r. sarebbe inesistente, e la conoscenza umana si rivelerebbe impossibile, dipendendo quest'ultima dal possesso effettivo di un legame con la realtà da parte del linguaggio e della mente del soggetto conoscente. Allo scopo di evitare un simile esito scettico globale e fornire una caratterizzazione plausibile della conoscenza sono state proposte diverse interpretazioni dei concetti summenzionati, ciascuna motivata da una particolare posizione gnoseologica e metafisica.
Già negli anni Settanta H. Putnam e S.A. Kripke mettevano in evidenza come nomi propri, nomi di genere naturale e nomi di artefatti si riferiscano ai loro oggetti in virtù di legami causali, diretti o indiretti, tra l'uso dei nomi da parte dei parlanti e gli oggetti relativi, usi accompagnati dall'intenzione del parlante di riferirsi a quegli oggetti: affinché il nome 'Isa' venga impiegato da qualcuno per riferirsi a una determinata persona, occorre che chi lo usa abbia avuto in passato un'interazione causale con questa persona e intenda ora riferirsi a essa usando il nome; il legame causale è ovviamente 'diretto' quando si instaura in seguito a un'interazione personale, 'indiretto' quando si forma interagendo causalmente con un parlante che abbia avuto un'interazione diretta, e il cui uso del nome sia quindi referenzialmente corretto. Lo stesso discorso vale per le parole di genere naturale, come bue, o di artefatti, come sedia: in questo caso l'interazione causale, fisica e verbale, sarà tra un parlante e un membro della classe dei buoi e di quella delle sedie. A mediare tra l. e r. vi sarebbero perciò 'catene causali di comunicazione' i cui anelli estremi sono rappresentati da un uso linguistico e da un oggetto, rispettivamente. La posizione metafisica alla base della concezione causalista del riferimento è una forma forte di realismo: l'essenzialismo, secondo cui gli oggetti posseggono una natura intrinseca (un'essenza) indipendente dalla mente e dal linguaggio. Lo stesso concetto di causa rimanda a un'essenza parimenti indipendente: a tenere assieme gli anelli della catena di comunicazione vi sarebbe una relazione incastonata nella stessa struttura fisico-causale della realtà. La concezione causalista e l'essenzialismo hanno delle originali conseguenze relativamente alla nozione metafisica di necessità. Secondo i due autori, una volta che si sia instaurata una catena causale di riferimento per una parola, questa si riferirà al suo oggetto non solo nel mondo attuale ma anche in ogni mondo possibile; perciò, ogni enunciato empirico di identità a = b (dove a e b sono due parole che designano lo stesso oggetto) che è vero sarà vero in tutti i mondi possibili, e poiché la conservazione del proprio valore di verità in tutti i mondi possibili è un modo di caratterizzare un enunciato necessario, si ha che - contrariamente alla tradizione filosofica che sovrappone l'insieme degli enunciati necessari all'insieme degli enunciati a priori, intrecciando la nozione di necessità e quella di apriorità - un enunciato necessario può essere empirico, ossia a posteriori.
Putnam, in particolare, ha integrato questa interpretazione del concetto di riferimento con un'analoga interpretazione del concetto di significato. Elemento preponderante del significato di una parola di genere naturale sarebbe infatti proprio l'insieme di oggetti a cui essa si riferisce: la sua estensione. Così, il significato di 'bue' coinciderebbe in gran parte proprio con gli animali che designa, o, più precisamente, con la loro essenza (che, da un punto di vista fisico, si può identificare con il DNA); l'altra parte del significato è data invece da quello che Putnam chiama stereotipo, ossia un breve elenco di caratteristiche tipiche del bue (quadrupede, mammifero, dotato di corna ecc.), integrato dall'indicazione delle proprietà sintattico-grammaticali della parola. Lo stereotipo rappresenta pertanto l'aspetto 'mentalistico' della concezione semantica putnamiana che ogni parlante è tenuto a conoscere per poter usare la parola in modo significante, e insieme all'estensione forma i due poli della relazione semantica tra linguaggio e realtà. Putnam avrebbe in seguito attenuato l'essenzialismo inizialmente condiviso con Kripke, in favore di un realismo che combina elementi oggettivi ed elementi soggettivi; tuttavia, egli ha continuato ad attribuire all'estensione un'importanza preponderante rispetto allo stereotipo, assumendo una chiara posizione antimentalista - o, come anche viene chiamata, esternista - compendiata nello slogan "i significati non sono nella testa".
A tale slogan si è opposto, tra gli altri, J.A. Fodor, proponendo una lettura del rapporto tra l. e r. che privilegia i processi mentali e cognitivi del parlante, e in particolare i suoi atteggiamenti proposizionali (gli stati mentali corrispondenti alle locuzioni indirette come "credere che…", "desiderare che…", "temere che…" e simili, con una proposizione suscettibile di essere vera o falsa al posto dei puntini). Secondo Fodor la mente sarebbe dotata di un "linguaggio del pensiero" permesso da strutture cerebrali organizzate in moduli altamente specializzati e costituito di simboli combinati tra loro da regole sintattiche; tali simboli sarebbero rappresentazioni mentali il cui significato è dato dalla proposizione che funge da loro oggetto. A governare gli elementi del linguaggio del pensiero, da Fodor chiamato mentalese, vi sarebbero così sia regole sintattico-computazionali sia regole semantiche, esattamente come accade per le lingue naturali; anzi, la tesi di Fodor è proprio che queste ultime deriverebbero le loro proprietà sintattiche e semantiche dal mentalese. In particolare, ad assicurare un legame tra mentalese e realtà vi sarebbe l'intrinseco carattere intenzionale degli stati mentali, ossia la loro capacità di dirigersi verso qualcosa di esterno ed extramentale: sarebbe tale legame, di nuovo di tipo causale, a conferire un contenuto semantico-informazionale a ciascun simbolo del linguaggio del pensiero.
Un assunto che è implicito nelle posizioni sopra delineate è il rappresentazionalismo, ossia l'idea che il linguaggio (o la mente) riesce a connettersi alla realtà perché ne fornisce delle rappresentazioni di carattere mentale o logico-concettuale. Pur nelle loro differenze, pertanto, gli autori citati condividono il punto di vista secondo cui l. e r. costituiscono un dualismo (più o meno rigido a seconda degli autori) i cui poli, originariamente separati, trovano una connessione in virtù di una qualche relazione di corrispondenza: termini ed enunciati sono resi veri dagli oggetti e dalle situazioni reali a cui corrispondono.
Cercando di difendere una forma 'debole' di rappresentazionalismo che faccia a meno del riferimento, e partendo da premesse mentaliste - ossia da premesse che pongono la mente e le sue facoltà come base dello studio del linguaggio - N. Chomsky ha criticato l'immagine esternista della relazione tra l. e r. delineata da Putnam e Kripke. La teoria causale descritta sopra rappresenta un tentativo di combinare le esigenze di una rigorosa analisi filosofica con le istanze del senso comune, in particolare con le nostre intuizioni prefilosofiche sul riferimento e sul significato: tali intuizioni, e il senso comune che le esprime, troverebbero per i due autori uno sviluppo e una giustificazione all'interno della teoria. Chomsky ritiene al contrario che il senso comune sia irrimediabilmente vago e impreciso per poter ricoprire un ruolo nell'ambito di un'indagine scientifica; dunque, lo scienziato del linguaggio deve assolutamente farne a meno. È interessante notare che per Chomsky la separazione tra senso comune e scienza non ha tanto un carattere 'metodologico', quanto 'biologico': si tratterebbe di una distinzione reperibile nelle facoltà geneticamente determinate della nostra mente. Accanto alla facoltà del linguaggio - un organo mentale che, insieme ad altri sistemi cognitivi, presiede alla formazione dello schema concettuale innato del senso comune - vi sarebbe una facoltà di formazione della scienza che presiede alla formazione dello schema concettuale scientifico, dotato di un più elevato grado di rigore teoretico. Stando così le cose, la nozione di riferimento implicita nello schema concettuale del senso comune non è utilizzabile, data la sua vaghezza, per la costruzione di un'accettabile teoria linguistica.
Tuttavia, e questo è il fulcro della critica di Chomsky, nemmeno è utilizzabile la nozione di riferimento offerta dai filosofi esternisti, poiché le catene causali di comunicazione non permettono di identificare in modo univoco gli oggetti a cui pretenderebbero legarsi. Se gli esternisti affermano che il nome Londra si riferisce a Londra, alla città fisicamente esistente nella realtà esterna, Chomsky ribatte che vi sono innumerevoli modi differenti di riferirsi a Londra, troppi per poter essere tutti connessi a un unico oggetto dotato di una fisionomia rigorosamente riconoscibile. In più, le parole Londra, bue, Isa, sedia hanno una correlazione troppo debole con le presunte essenze a esse corrispondenti per poter conferire alla relazione di riferimento una capacità identificativa univoca. Data la polisemia e la dipendenza dal contesto delle espressioni linguistiche, quel che gli oggetti correlativi sono dipende da una rete di interessi e informazioni in continuo cambiamento, una rete talmente complessa che risulta vano tentare di trovare nel mondo delle cose identificate dalle espressioni in questione. Tutto ciò, continua Chomsky, non equivale a dire che il linguaggio non riguarda il mondo o che la relazione tra l. e r. è inesistente. Semplicemente, le espressioni linguistiche non funzionerebbero nel modo in cui ritengono gli esternisti, perché il riferimento - inteso come relazione stabile e sistematica tra gli usi di tali espressioni e gli oggetti nel mondo in virtù della quale le prime rappresentano i secondi - non esiste. La semantica allora, in quanto disciplina che si occupa della relazione tra l. e r., non può che avere un carattere 'internista': essa è parte integrante della sintassi e studia le proprietà di suono, forma e significato che le espressioni linguistiche posseggono intrinsecamente in quanto dipendenti dalla facoltà del linguaggio connaturata negli esseri umani. Secondo Chomsky sono tali proprietà che focalizzano l'attenzione su aspetti selezionati del mondo una volta che questi aspetti siano stati elaborati dai sistemi cognitivi innati. Se dunque per rappresentazionalismo si intende la tesi secondo cui linguaggio e mondo sono connessi tramite una relazione extramentale ed extralinguistica, abbiamo qui una forma debole di rappresentazionalismo basata sull'idea che le facoltà mentali posseggano capacità intrinseche e innate di collegarsi con il mondo, capacità poi ereditate dai vari linguaggi naturali.
Il rappresentazionalismo - con il suo dualismo di l. e r. e la conseguente relazione di corrispondenza - è stato invece radicalmente criticato da D. Davidson (1984, capitolo 13): in netta opposizione all'empirismo, Davidson sostiene che un dualismo del genere corre il rischio di dare luogo a posizioni dal pernicioso carattere relativistico e soggettivistico. Infatti, ammettere che la realtà è indipendente dal linguaggio e in attesa di venire verbalmente organizzata equivale ad ammettere che vi sono in linea di principio più modi di eseguire un simile compito organizzativo, dove ciascun modo è dettato dallo sche-ma concettuale legato al particolare linguaggio che, di volta in volta, si assume il compito organizzativo in questione; si avrà così virtualmente una pluralità di 'mondi' in corrispondenza alla pluralità di modi di organizzazione della realtà, dove ciascun mondo è relativo a uno sche-ma concettuale, con la conseguenza di una possibile irrimediabile inconfrontabilità tra schemi concettuali differenti. Il dualismo che concepisce l. e r. come elementi nettamente separati rischia perciò di portare a quella 'incommensurabilità' tra schemi concettuali (Th.S. Kuhn, P.K. Feyerabend) che tanto ha imbarazzato la riflessione epistemologica della seconda metà del 20° secolo. Al contrario, tra l. e r. Davidson ravvisa un nesso inscindibile, una mutua compenetrazione che impedisce di considerarli come elementi staccati e da connettere. La presunta relazione di corrispondenza perde così ogni giustificazione: anziché due poli, ne avremmo uno solo, un linguaggio e una realtà in connessione immediata, dove la seconda è determinata sin dall'inizio dalle categorie interpretative dello schema concettuale incorporato nel primo. Si noti che l'inesistenza di una realtà 'non interpretata' e rigorosamente oggettiva non equivale per Davidson a una ricaduta nel relativismo, non rende cioè la nozione di verità relativa a un determinato punto di vista: la verità dipende ovviamente dal mondo, ma questo è unico e comune a ciascun linguaggio. L'immagine del mondo può naturalmente differire da linguaggio a linguaggio, a seconda delle categorie interpretative in questo incorporate, ma il comprovato successo delle pratiche di traduzione interlinguistica ci porta a condividere quella che, sostanzialmente, è una stessa immagine: "la fonte ultima sia dell'oggettività che della comunicazione è il triangolo che, mettendo in relazione parlante, interprete e mondo, determina i contenuti del pensiero e del linguaggio. Data questa fonte, non c'è spazio alcuno per un concetto relativizzato di verità" (Davidson 2005, p. 75). Non solo: secondo Davidson l'immagine (in gran parte condivisa) del mondo è, di fatto, vera (nelle sue linee generali), altrimenti non potremmo nemmeno dare un senso all'errore e alla falsità: di qui l'idea che un modo per studiare la struttura metafisica della realtà consiste nello studiare la struttura generale del linguaggio.
Una prospettiva chiaramente collocata su un piano logico-linguistico è quella di M. Dummett, secondo il quale una posizione metafisica non può emergere se non da una soddisfacente teoria del significato per le espressioni linguistiche del nostro linguaggio: è dunque da una teoria del genere che una caratterizzazione del legame tra l. e r. viene fatta dipendere. Nonostante secoli di importanti risultati, la sostanziale impasse della riflessione metafisica, costretta in definitiva a oscillare tra la Scilla del realismo e la Cariddi dell'antirealismo, starebbe infatti a dimostrare che non le intuizioni del metafisico sono da privilegiare, bensì quelle del logico e del filosofo del linguaggio: è un'attenta analisi dell'uso che facciamo delle espressioni linguistiche a rivelare se, dato un contesto, la corretta posizione metafisica da assumere sia di stampo realista oppure antirealista. Secondo Dummett, un aspetto mostrato da tale analisi è che un tipico atteggiamento realista è legato al sostegno di un principio cardine della logica classica, il principio di bivalenza, ossia la tesi secondo la quale un qualsiasi enunciato è vero o falso in-dipendentemente dalla nostra capacità di saperlo: è la realtà che fissa il valore di verità delle espressioni linguistiche, che noi si riesca ad appurarlo oppure no. Al contrario, un tipico atteggiamento antirealista sarebbe legato alla negazione di questo principio, in nome di una più stretta connessione tra il valore di verità degli enunciati e le facoltà conoscitive umane. Sostenere, per es., che un enunciato matematico p è vero oppure falso equivarrebbe per un antirealista a possedere, rispettivamente, una sua dimostrazione o una sua confutazione, mentre un realista sosterrebbe che p è vero o falso in virtù dell'esistenza o meno di oggetti e fatti appartenenti a una presunta realtà matematica indipendente dalla natura umana (p avrebbe quindi un determinato valore di verità del tutto a prescindere dal nostro riuscire a fornirne una dimostrazione o una confutazione). Parimenti, un antirealista sarà disposto a considerare vero o falso un enunciato della fisica qualora vi sia un metodo empirico-sperimentale per verificarlo o falsificarlo, mentre per un realista la sua verità o falsità è fissata dai corrispondenti fatti appartenenti alla realtà fisica, che si riesca a conoscerli o meno. Assumere l'uno o l'altro atteggiamento nei confronti degli enunciati dell'etica, dell'estetica, della psicologia e così via, comporta dunque implicitamente un sostegno o un rifiuto del principio di bivalenza e di un'altra legge fondamentale della logica classica, la legge del terzo escluso, secondo la quale, per ogni enunciato p, l'enunciato "p o non p" è logicamente vero. Ora, poiché rifiutare un principio alla base di un sistema di logica equivale a rifiutare il sistema stesso o a proporne sostanziali cambiamenti, e poiché un sistema del genere stabilisce tramite le proprie leggi i modi corretti in cui sviluppare ragionamenti e dimostrazioni, ne deriva che assumere un atteggiamento realista (e la logica classica) o un atteggiamento antirealista (e una qualche logica non classica come, per es., quella intuizionista) equivale ad accettare come validi certi tipi di ragionamenti anziché altri; e, poiché la validità di un ragionamento dipende dai significati attribuiti a premesse e conclusione, in ultima analisi tale validità presuppone una determinata concezione del significato delle espressioni linguistiche. Come riassume Dummett, "un disaccordo sulla validità di certe forme argomentative, come quello che segna, o dovrebbe segnare, il disaccordo tra realista e antirealista riguardo a questa o quella questione, necessariamente è anche un disaccordo riguardo ai tipi di significato posseduti da enunciati di una qualche classe, come gli enunciati sulla realtà fisica, quelli matematici, quelli sul futuro, o quelli di una teoria scientifica" (1991, p. 11). Il carattere di generalità e profondità di un simile disaccordo semantico mostrerebbe così che alla base giacciono immagini radi-calmente diverse del rapporto tra linguaggio e realtà.
bibliografia
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