militare, linguaggio
Non è facile trovare una collocazione precisa del linguaggio militare nell’ambito dei ➔ linguaggi settoriali. Meglio sarebbe parlare di un linguaggio settoriale composito poiché, come avviene anche per altri ambiti (ad es., l’architettura), in realtà nell’insieme di pertinenza specifico rientrano varie discipline. La difficoltà di delimitare il raggio entro cui collocare il lessico militare è evidente fin dai primi strumenti lessicografici, pubblicati tra Settecento e Ottocento. Ad es., nel 1824 Giuseppe Ballerini, nel suo Dizionario italiano scientifico-militare, indica nelle pagine introduttive i vari settori presi in considerazione, chiarendo l’ampio spettro di riferimento:
Abbigliamento. Algebra. Amministrazione. Approvvigionamento. Architettura civile. Aritmetica. Artiglieria. Casermamento. Cavalleria. Comune a tutte le armi. Costruzione navale. Disegno. Disciplina. Equipaggiamento. Evoluzioni. Fisica. Fortificazione, o Architettura militare. Geografia. Geometria. Giudizi. Guerra. Idraulica. Infanteria. Istruzione. Marina. Matematiche. Ottica. Topografia. Vestiario (Ballerini 1824: xvii).
Il raggio del linguaggio militare è naturalmente elastico, e cambia in funzione del pubblico e delle intenzioni di chi lo usa: nello stesso dizionario di Ballerini, che portava l’etichetta di scientifico-militare, una volta adattato a uso dei militari e diventato Dizionario teorico-militare nell’edizione compendiata del 1832, lo spettro di riferimento si ridusse ampiamente con la scomparsa di algebra, architettura civile, aritmetica, astronomia, disegno, fisica, geometria, idraulica, ottica (cfr. Ballerini 1832: xix).
Il linguaggio militare è comunque condizionato dalla lingua tecnico-scientifica (➔ scienza, lingua della; ➔ tecnica, lingua della): è un dato di fatto che molte delle scoperte tecniche e scientifiche muovano proprio dalla ricerca in campo militare, e questo sottopone il relativo lessico a una continua infiltrazione di termini che riguardano nuovi tipi di arma, congegni, meccanismi (➔ neologismi, quindi, che diventano sempre più ➔ forestierismi con la perdita di prestigio militare e scientifico dell’Italia). L’evoluzione della tecnologia militare non sempre si traduce nell’abbandono delle vecchie armi, che possono permanere a lungo negli eserciti con i termini relativi, la cui vitalità è peraltro assicurata anche dall’impiego in ambito storico.
Per questo motivo il linguaggio militare si caratterizza anche per una costante stratificazione diacronica: fionda, freccia, spada continuano a convivere nel lessico militare accanto a fucile mitragliatore, bomba, radar, caccia-bombardiere (➔ marineria, lingua della). Vari sottoinsiemi lessicali si affiancano in un unico serbatoio anche per l’avvicendarsi di nuovi tipi di formazione, di nuovi corpi, di nuove impostazioni tattiche o strategiche: con la cavalleria entrano nella sfera militare i termini legati alla gestione del cavallo; con l’avvento dei mezzi corazzati, al nucleo della cavalleria (che continua a essere operativa, in funzioni di rappresentanza legate alla tradizione) si aggiungono termini della meccanica; con la nascita dell’aviazione militare il repertorio si arricchisce di nuovi elementi, che si ricalibrano all’interno dello specifico ambito d’uso.
Vanno poi considerati anche altri livelli di lingua: quella dei documenti prodotti in ambiente militare (regolamenti, disposizioni, ecc.), che può essere ricondotta alla lingua burocratico-amministrativa (➔ giuridico-amministrativo, linguaggio), e quella della comunicazione interna. In relazione a quest’ultimo aspetto è importante notare come la lingua sia centrale per il funzionamento di un esercito, e che lo diventi sempre più con l’evoluzione delle tecniche militari, fino a diventare fondamentale negli eserciti moderni. Spesso nei trattati militari, ma persino nelle prefazioni dei dizionari settoriali, si fa riferimento all’importanza della brevità dei comandi, proprio perché brevità, trasparenza ed efficacia risultano fondamentali per il buon esito delle operazioni. La brevità è così centrale da poter diventare anche elemento discriminante per la scelta di un termine, come emerge da questo passo tratto dalla prefazione al Dizionario teorico-militare dell’editore Celli (Firenze 1847-1849):
Diffatto nel quinto comando della carica nell’istruzione del fucile, la voce Amorcez, tradur si dovrebbe mettete esca al focone, ma con quale speditezza per il militare accento non vi si è supplito con la sola parola Innescate! (Dizionario teorico-militare 1847-1849: xi)
L’importanza di chiarezza e univocità emerge anche dai più piccoli particolari, come la denominazione delle lettere dell’alfabeto, di evidente utilità qualora si renda necessaria una compitazione o la precisazione di coordinate: da qui l’uso, invalso in tutti gli eserciti occidentali contemporanei, del sistema di indicazione dell’alfabeto fonetico della NATO: alpha per a, bravo per b, charlie per c, …, zulu per z.
Nel lessico militare è poi ampio il ricorso ai marchionimi (➔ nomi commerciali), a partire dal nome del costruttore e più spesso dal modello: difficilmente un fucile viene chiamato con il nome generico fucile, o fucile mitragliatore, ma quasi sempre Garand, M16, Kalashnikov. L’uso del marchionimo è funzionale alla densità e alla precisione dell’informazione: con carro armato non si fornisce la stessa informazione contenuta in Abrams, o Ariete; con aereo l’informazione è vaga, ma anche caccia non assolve il compito informativo di F-18, a fronte del quale un pilota, che ha una preparazione specifica, acquisisce in modo sintetico e rapido tutte le informazioni necessarie su armamento e sistema difensivo dell’avversario che si trova ad affrontare.
Sullo stesso piano vanno collocati i soprannomi che a certi tipi di arma o mezzi vengono assegnati dalle truppe in un processo di deriva gergale che emerge variamente nella lingua dei militari (ad es., cagnetta, antico nome dato al cannone da campagna da 75 mm; Camillino per il veicolo cingolato da combattimento VCC1 della OTO-Melara in servizio presso l’Esercito Italiano; bara volante era il nome in uso nell’Aeronautica Militare Italiana per il caccia Lockheed F-104 Starfighter, a causa dell’alta percentuale di incidenti in volo).
Gli aspetti gergali del linguaggio militare sono quelli che hanno attirato di più l’interesse degli studi, in particolare quelli di taglio sociolinguistico, in cui è frequente il ricorso all’ambito militare come serbatoio canonico per l’esemplificazione e la teoria sui gerghi (si veda, ad es., Beccaria 19922: 104-116; non mancano contributi più specifici: Renzi 1966a, 1966b, 1967; Cortelazzo 1971). Anche in questo caso è opportuno sottolineare il carattere composito e distinguere tra gergo di caserma, gergo di guerra, gergo operativo.
Alle caratteristiche dei gerghi, il ➔ gergo di caserma affianca specificità interessanti con ricadute sulla lingua comune. Il gergo di caserma (o meglio un gergo di caserma, in parte nazionale e in parte caratterizzato localmente) è stato infatti condiviso dalla quasi totalità della popolazione maschile dal 1861 al 1° gennaio 2005; la gergalità, variamente assorbita nel periodo di ferma, è stata quindi in parte esportata anche nella lingua comune, con una sedimentazione in diacronia che copre tutti i 144 anni di leva obbligatoria (o naia, appunto, come si dice a partire da un uso gergale diffuso tra gli alpini e poi divenuto popolare dopo la prima guerra mondiale).
Gli esempi di parole di caserma entrate nella lingua comune sono numerosi, con connotazioni locali evidenti soprattutto tra Ottocento e inizi del Novecento, quando era marcata la prevalenza di ufficiali piemontesi e napoletani provenienti dai principali eserciti preunitari: sono, ad es., piemontesismi battere la fiacca, cicchetto, marcare visita, piantare una grana, ramazzare, mentre più rari sono i napoletanismi, come arrangiarsi o fesso; ma varie sono anche le formazioni gergali con materiale linguistico italiano: mettere la firma, lavativo, pignolo, scalcinato, sfottere (Renzi 1966a).
L’uso gergale non è uniformemente distribuito negli ambienti militari, ma differisce da arma ad arma, da corpo a corpo: in generale ovunque si incontrano parole gergali ma solo in alcuni corpi (ad es., gli alpini) o in particolari ambienti (le accademie: si vedano, ad es., milite ignoto «polpetta», o aria fritta «ciambella inconsistente» in uso tra i cadetti dell’Accademia Navale di Livorno), si hanno veri e propri gerghi. Da sempre, anche storicamente, va rilevato un più deciso radicamento del gergo militare tra gli ufficiali, vale a dire tra coloro che hanno una maggiore permanenza nell’esercito, e che quindi in passato hanno trasmesso le parole gergali di scaglione in scaglione, e dal 2005 iniziano al sistema gergale i nuovi militari di professione. Anche per le formazioni di ambito militare si attivano i procedimenti gergali tipici (Renzi 1967): utilizzazione adattata dei termini tecnici (attivare, inquadrare, al pezzo, orientare) o loro deformazione (anfibio, tanica); procedimenti di tipo metaforico (albergo / hotel, baffo, cazziare, a cranio «per ciascuno», frana, imboscato, lavativo, manfrina, puttanata, universitario), metonimie (firma, mosche, sbracarsi, strizza); giochi di parole (copertone, farsi il mazzo, naia, pacchia, sergente / serpente).
Accanto alle parole di caserma vanno poi considerate le parole di guerra, vale a dire quelle formazioni lessicali sviluppate in un preciso contesto storico all’interno delle dinamiche di condivisione stretta di un luogo e di una situazione (ad es., confetti «proiettili» e bambino «grosso proiettile d’artiglieria», in uso durante la prima guerra mondiale; Pipetto «mitragliatrice» e Pippo «aeroplano incursore nemico», durante la seconda). Queste formazioni hanno necessariamente una natura più effimera, ma in certi casi si solidificano nel gergo di caserma, e a volte, proprio per l’ampio grado di condivisione (non solo tra i soldati coscritti, ma anche tra la popolazione), nella lingua comune. Ad es., è durante la prima guerra mondiale che si affermano fifa, imboscato, naia, sbobba, scattare, tanica; mentre molto meno proficua è stata da questo punto di vista la seconda guerra mondiale, che lascia in eredità al lessico comune poche parole, come imbranato o abbuffarsi, a cui vanno aggiunti termini politico-militari di grande fortuna come rastrellare e partigiano (cfr. Renzi 1966b). Il passaggio all’uso comune di parole di guerra, in misura minore quelle di caserma, è stato spesso favorito dall’uso letterario: in particolare in scrittori con una spiccata attenzione militare (come, ad es., ➔ Carlo Emilio Gadda, che fornisce tra le prime attestazioni a imboscato e sbobba, o Piero Jahier, con pignolo, scalcinato, sfottere, per limitarsi alle parole sopra citate); ma più in generale anche in molti altri che hanno condiviso come il resto degli italiani esperienze di leva o di guerra, disponendo però di una cassa di risonanza maggiore per il lessico acquisito, sia gergale che tecnico-specialistico (basti pensare a tutto il filone della letteratura risorgimentale, o neorealista).
Il gergo operativo, infine, affonda le sue radici nel bisogno di brevità e univocità, e si muove entro dinamiche più vicine a quelle del linguaggio specialistico: proprio per sveltire la comunicazione durante le azioni, ma anche per usare un codice non trasparente, in tutti gli eserciti della storia, e del mondo, si sono sviluppate forme di comunicazione gergali, con neoformazioni che dal piano orale si spostano anche sullo scritto, in rapporti o altri documenti (ad es., bandito, dall’ingl. bandit, usato dai piloti dell’aeronautica militare per indicare un aereo nemico identificato).
Come è emerso sin qui, il linguaggio militare ha senza dubbio un forte carattere di internazionalità, che si accentua in certi periodi storici e che sicuramente caratterizza la contemporaneità. La necessità di una comunicazione efficace all’interno di eserciti compositi per nazionalità ha imposto spesso lingue franche, come, ad es., il francese nel Settecento e nell’Ottocento, o l’inglese ai giorni nostri; ma ha anche spinto alla ricerca di un lessico unitario nazionale, più o meno legato alle lingue egemoni del momento.
In Italia la formazione di un lessico nazionale unitario va collocata nel corso dell’Ottocento, a lato del processo di unificazione e con chiari collegamenti alle istanze risorgimentali (➔ Risorgimento e lingua). L’esercito italiano post-unitario nasce dall’assorbimento dell’esercito del Regno delle Due Sicilie (e degli altri eserciti regionali preesistenti) entro l’esercito piemontese (l’accorpamento avvenne ufficialmente il 4 maggio 1861, con decreto del ministro Fanti), ma un linguaggio militare italiano si era già andato formando nel corso della prima metà del secolo, grazie anche alla spinta della monarchia sabauda che, proprio in quell’esercito che poi avrebbe assorbito gli altri, aveva avviato un processo di ‘italianizzazione’. Con Vittorio Amedeo II e, dopo la parentesi napoleonica, con Vittorio Emanuele (1814), si avviò infatti un processo di affrancamento dal francese che si tradusse in una toscanizzazione del lessico militare sabaudo. Ne abbiamo notizia in varie prefazioni di dizionari militari, molti dei quali non a caso escono a Torino, a partire da quello di Grassi, del 1817. Il quadro è ben descritto nell’introduzione Al lettore benevolo del Dizionario di artiglieria di Carbone & Arnò (1835), in cui si trovano anche conferme di alcune caratteristiche intrinseche al linguaggio militare e alla conseguente necessità di chiarezza e trasparenza:
Vittorio Amedeo II, detto il Grande, vago di propagar l’uso della buona lingua fra noi, avea preveduto fin da’ suoi tempi il vantaggio, che grande saria tornato della compilazione di un Dizionario di Artiglieria per cui mezzo si venissero ad evitare gli equivoci, e gli sbagli, che nelle materie di questa special Milizia troppo facili nascono tra il nostro piemontese e la lingua scritta, e vi faceva suoi provvedimenti però (Carbone & Arnò 1835: III-IV)
L’attenzione alla definizione di un lessico tecnico condiviso si concretizza nella ricca produzione lessicografica (➔ lessicografia) che caratterizza l’Ottocento preunitario, con quattro dizionari militari – quelli di Grassi (1817), Ballerini (1824), Carbone & Arnò (1835), Medini, Collina & Minarelli (1836) – a cui vanno aggiunte le riedizioni, più o meno curate dagli autori: la seconda edizione del dizionario del Grassi (1833), la riduzione del Ballerini (1837), le libere rielaborazioni degli editori (come il Dizionario teorico-militare uscito a Firenze nel 1847-1849 presso l’editore Celli, citato sopra, che è basato su Ballerini senza che se ne faccia il nome, e che è prova di una forte esigenza del mercato; un’esigenza diffusa in tutto il territorio nazionale: ad es., l’edizione Grassi del 1833 esce a Torino seguita da un edizione napoletana del 1835). A questi vanno aggiunti i dizionari usciti dopo l’unità politica: il Dizionario militare di Carbone (1863), il Vocabolario militare italiano di Urangia (1893), il Vocabolario marino e militare di Guglielmotti (1889). Se i primi strumenti vanno nella direzione di un lessico tradizionale, recuperato dai grandi scrittori del Quattrocento e del Cinquecento (quando l’italiano era lingua di riferimento in Europa; ➔ italiano in Europa), il dizionario di Carbone & Arnò si sposta nella direzione di un lessico di base toscana verificato sull’uso effettivo nell’esercito, anche tenendo conto dei documenti ufficiali (come, ad es., avviene nel dizionario di Carbone), e senza le istanze puristiche dei primi autori (come Grassi), intenti soprattutto a reagire alla diffusione estrema di francesismi.
Al normale afflusso di neologismi e forestierismi che, come abbiamo visto, caratterizza il linguaggio militare, si aggiunge un innesto particolare agli inizi del Novecento, quando il lessico militare italiano si arricchisce della terminologia legata all’aviazione, che aggiunge un’ulteriore specificità: la guerra aerea è spesso duello, e quindi la sua lingua a tratti confina e si sovrappone a quella sportiva e della competizione (da qui parole come asso, per indicare un pilota con un ampio numero di vittorie personali).
Andando ad analizzare il lessico militare contemporaneo emergono chiaramente le caratteristiche fin qui delineate. Nel GRADIT i termini ricondotti al linguaggio militare sono 1706 fra monorematiche e polirematiche (➔ polirematiche, parole; su un totale di 328.387 lemmi; per farsi un’idea dell’ordine di grandezza basti pensare che le parole dell’architettura sono 1070, quelle della medicina 19. 899); ma va notato che parole quali balestra e spada, ad es., non rientrano in questo numero perché assegnati ad altre categorie. Vi si trovano parole connotate in diacronia per la precoce comparsa nella nostra lingua: abbattuta («abbattimento di alberi per sbarramento e difese», 1348), accantonare («acquartierare», 1532); o per il carattere storico: falange, legionario. Ampio è anche il numero di parole legate alle specificità nazionali degli eserciti e delle armi: jäger («soldato di corpi speciali di fanteria austriaca o tedesca»), kaiten («tipo di siluro»), kassam («missile artigianale»). Ricca è la presenza delle polirematiche (678), come, ad es., aereo da caccia, da combattimento; aiutante di campo, di sanità, di volo, e tutta la serie connessa al nome artiglieria: campale, carrellata, contraerea, corazzata, costiera, da campagna, da montagna, pesante, someggiata. Prolifica è anche la formazione con accoppiamento di stampo anglosassone: aereo-radar, aria-aria, aria-acqua, aria-terra; quella coi composti imperativi: cacciacarri, cacciamine, cacciasommergibile; e infine quella sulla base di ➔ prefissoidi particolarmente produttivi: aerobersaglio, aerobrigata, aerotrasporto. La stratificazione è a volte solo semantica: corazza, dall’iniziale significato di «armatura protettiva», passa poi a indicare anche la «protezione d’acciaio per mezzi da combattimento» con tutta la prolifica serie legata a corazzato (carro, mezzo corazzato; artiglieria, barbetta, cintura, divisione corazzata).
Se si prendono in considerazione dizionari più specificatamente militari (ad es., Busetto 2004), agli elementi evidenziati fin qui va aggiunta l’enorme presenza di sigle. Ad apertura di pagina se ne rileva l’altissima densità: si tratta quasi sempre di acronimi di origine anglosassone, ma ampiamente diffusi nei documenti e nelle comunicazioni militari (si vedano, ad es., AA, aria-aria; AAA, anti air artillery; AAM air-to-air missile; AAV, amphibious assault vehicle; sulle sigle cfr. anche Renzi 1967: 30-31). Frequentissimi anche i nomi (o soprannomi) dei mezzi, terrestri e aerei, che, come abbiamo visto, nella comunicazione militare sostituiscono i nomi generici: Aardvark (soprannome del bombardiere F-111), Abbot («abate», soprannome di un obice semovente), Abrams (nome del carro armato statunitense A1M1/A2M3).
Collegato al più generale fenomeno di diffusione dei tecnicismi nell’italiano contemporaneo, in particolare attraverso i mass media, è il graduale passaggio – in certi casi effimero, in altri consolidato – di espressioni militari alla lingua comune, come, ad es., embedded («incorporato nelle unità militari», entrato nell’uso giornalistico durante il secondo conflitto in Iraq nel 2002), forza di interposizione, interdizione (ravvicinata, lontana, aerea; a cui si aggiungono fuoco d’interdizione e zona d’interdizione, polirematica portata all’attenzione comune dai media quando fu imposta all’aviazione militare irachena dopo il 1991), missione di pace, regole di ingaggio (impropria traduzione dell’ingl. rules of engagement, propriam. «regole di attacco»).
In campo militare l’italiano è stato un punto di riferimento internazionale tra Quattrocento e Cinquecento (sul lessico storico dell’artiglieria cfr. Castellani 1983), e numerosi sono gli ➔ italianismi militari presenti in varie lingue europee. Sfogliando le pagine del DIFIT, tra le basi di partenza per tecnicismi presenti in francese, inglese e tedesco, si incontrano termini come caporale, colonnello, granata, sentinella, soldato; a cui si aggiunge la nutrita serie legata all’architettura militare: casamatta, cittadella, rivellino, scarpa.
Ballerini, Giuseppe (1824), Dizionario italiano scientifico-militare, per uso di ogni arme, contenente le definizioni e gli usi delle diverse voci e comandi riguardanti il linguaggio tecnico delle militari scienze, e di tutte quelle che vi hanno rapporto, con l’equivalente francese accanto di ogni vocabolo e l’indicazione della scienza o arme, cui ogni voce appartiene, Napoli, Tipografia Simoniana.
Busetto, Riccardo (2004), Il dizionario militare. Dizionario enciclopedico del lessico militare, Bologna, Zanichelli.
Carbone, Gregorio (1863), Dizionario militare, compilato e dedicato alla maestà di Vittorio Emanuele II re d’Italia, Torino, V. Vercellino.
Carbone, Gregorio & Arnò, Felice (1835), Dizionario d’artiglieria de’ capitani Carbone e Arnò, Torino, Stamperia Ceresole e Panizza.
DIFIT (2008) = Stammerjohann, Harro, et al. (a cura di), Dizionario di italianismi in francese, inglese e tedesco, Firenze, Accademia della Crusca.
Dizionario teorico-militare (1847-1849) = Dizionario teorico-militare, contenente le definizioni e gli usi delle diverse voci e comandi coll’equivalente in francese accanto ad ogni vocabolo, arricchito d’istruzioni secondo la scuola moderna pei militari di ogni arma, Firenze, G. Celli, 2 voll.
GRADIT (2007) = Grande dizionario italiano dell’uso, diretto da T. De Mauro, ed. digitale, Torino, UTET.
Grassi, Giuseppe (1817), Dizionario militare italiano, Torino, vedova Pomba e figli, 2 voll.
Guglielmotti, Alberto (1889), Vocabolario marino e militare, Roma, C. Voghera.
Medini, Giacomo, Collina, Francesco & Minarelli, Mattia (a cura di) (1836), Gran dizionario teorico-militare, contenente le definizioni di tutt’i termini tecnici spettanti all’arte della guerra, con analoghe istruzioni e con una raccolta dei comandi adattati alla scuola moderna, Napoli, C. Cattaneo.
Urangia, Roberto (1893), Vocabolario militare italiano, compilato colla scorta dei migliori autori di opere scientifiche militari e dei vocabolari Guglielmotti, Bosi, Grassi, Fanfani, Petrocchi, Melzi, ecc., contenente notizie storiche, nozioni topografiche e tecnico-scientifiche, Milano, Brocca.
Beccaria, Gian Luigi (19922), Italiano antico e nuovo, Milano, Garzanti (1a ed. 1988).
Castellani, Arrigo (1983), Termini militari d’epoca rinascimentale: l’artiglieria, «Studi linguistici italiani» 9, pp. 31-55; 117-178.
Cortelazzo, Michele A. (1971), Voci “gergali” in un glossario militare del 1918, «Studi mediolatini e volgari» 19, pp. 33-49.
Renzi, Lorenzo (1966a), Parole di caserma, «Lingua nostra» 27, pp. 87-94.
Renzi, Lorenzo (1966b), Parole di guerra, «Lingua nostra» 27, pp. 127-131.
Renzi, Lorenzo (1967), La lingua di caserma, oggi, «Lingua nostra» 28, pp. 24-31.