Linguaggio
In senso generico, linguaggio è un termine che designa qualunque codice destinato a esprimere o comunicare significati. In senso più tecnico, il termine indica la facoltà, fondata biologicamente e tipica di talune specie animali (e in particolare quella umana), di collegare significati con determinati segnali fisici. Quanto all'uomo, il linguaggio è la facoltà che gli permette di esprimere, attraverso una varietà di canali (soprattutto le lingue verbali, ma anche codici gestuali e di altro genere), i significati che è in grado di elaborare.
sommario. Sistemi di comunicazione animale e linguaggio umano. Linguaggio e lingue. 1. Definizioni. 2. La variazione. 3. Il discrimine dell'arbitrarietà. 4. Hardware del linguaggio. 5. Software del linguaggio. 6. Risorse minime. 7. Fenomeni instabili. 8. Accuratezza strutturale ed efficacia predittiva. 9. Dispositivi di sicurezza. L'acquisizione del linguaggio. 1. Tappe di acquisizione delle lingue vocali. 2. Acquisizione della lingua dei segni. □ Bibliografia.
I segnali sono pacchetti di informazione trasmessi da un individuo a un altro, aventi la funzione di produrre uno stimolo. Molte specie animali hanno repertori più o meno complessi di segnali che ciascun individuo della specie è in grado sia di produrre sia di capire. I segnali possono essere di tipo molto vario: visivi, acustici, chimici ecc. Nel caso di quelli visivi, colui che produce il segnale compie certi movimenti con il proprio corpo oppure con parti di esso, in modo tale che questi movimenti possano essere visti da un altro individuo. Nel caso dei segnali acustici, i movimenti di particolari organi (fonoarticolatori nel caso degli esseri umani) si traducono in suoni che vengono uditi da un altro individuo. Per quanto concerne i segnali chimici, organi specializzati (per es. ghiandole) producono delle sostanze chimiche che, viaggiando nell'aria oppure nell'acqua, giungono ai recettori sensoriali (chimici) di un altro individuo.
Tanto la capacità di produrre i segnali appropriati nelle circostanze appropriate quanto quella di rispondere ai segnali nel modo appropriato emergono nel corso dell'evoluzione, in quanto gli individui in possesso di tali capacità tendono ad avere maggiori probabilità di sopravvivere e di riprodursi rispetto a individui che, al contrario, ne sono privi. Le due capacità sono in rapporto coevolutivo, in quanto nessuna delle due presa isolatamente risulta adattiva senza che evolva nello stesso tempo anche l'altra. Se è vantaggioso per un individuo produrre un certo segnale allo scopo di ottenere un certo comportamento da un altro individuo, il vantaggio si realizza effettivamente solo se questo ha a sua volta la capacità di capire il segnale per poter rispondere nel modo desiderato. Viceversa, un individuo, per il quale risulta vantaggioso avere la capacità di capire un segnale prodotto da un altro, realizza questo vantaggio unicamente se ci sono altri individui che siano in grado di produrre il segnale nelle circostanze appropriate. Il linguaggio è il repertorio di segnali peculiare della specie umana. Esso possiede una serie di proprietà specifiche che lo rendono unico come sistema di comunicazione e ne fanno una delle componenti centrali della definizione stessa di essere umano. È da considerare, tuttavia, che gli esseri umani posseggono anche sistemi di comunicazione non linguistica, come per es. la mimica facciale, che sono più simili ai repertori di segnali degli altri animali.
Riguardo alle proprietà specifiche che lo distinguono dai sistemi di comunicazione degli altri animali, bisogna osservare in primo luogo che il linguaggio è appreso dall'individuo nel corso dei primi anni di vita, mentre i sistemi di comunicazione animale sono in genere innati, cioè sono comportamenti e capacità codificati nel patrimonio genetico ereditato dai genitori (pur con eccezioni a questa regola, come i segnali acustici appresi di alcune specie di Uccelli). I segnali del linguaggio sono appresi dagli altri osservando quali segnali vengono prodotti dagli individui che già posseggono il linguaggio e in quali circostanze. Il fatto che il linguaggio venga appreso non toglie tuttavia che il suo sviluppo nel bambino sia possibile soltanto perché il patrimonio genetico della specie codifica specifiche predisposizioni ad apprendere un sistema di comunicazione con le caratteristiche del linguaggio. I tentativi di fare apprendere ad altri animali, per quanto geneticamente vicini a noi come le scimmie, sistemi di comunicazione aventi le caratteristiche essenziali del linguaggio umano ottengono risultati limitati, proprio perché il linguaggio può essere acquisito solamente sulla base di un patrimonio genetico che è posseduto soltanto dalla specie umana.
Poiché il linguaggio si trasmette da una generazione alla successiva per via culturale, cioè in quanto gli individui di ogni nuova generazione lo apprendono da quelli della generazione precedente, esso evolve culturalmente, diversamente dai sistemi di comunicazione animale che evolvono biologicamente. Negli animali i repertori di segnali emergono nel corso dell'evoluzione biologica, perché gli individui che sanno produrre e capire certi segnali hanno più probabilità di lasciare nella generazione successiva copie del loro patrimonio genetico in cui quei segnali sono codificati. L'evoluzione culturale, e più specificamente nel nostro caso l'evoluzione linguistica, si fonda sugli stessi meccanismi di base dell'evoluzione biologica, cioè la riproduzione selettiva di un insieme di varianti e l'aggiunta costante di nuove varianti, e tuttavia usa il canale di trasmissione dell'apprendimento invece che quello della trasmissione del materiale genetico.
In ogni determinato momento, il repertorio di segnali (quello che si chiama la lingua) di una popolazione di individui è composto di una serie di varianti per ogni particolare segnale o significato da comunicare. Alcune varianti tendono a essere riprodotte più di altre nella generazione successiva, in modo analogo a come, nell'evoluzione biologica, alcuni organismi hanno più figli di altri. Inoltre, per errori nel meccanismo di trasmissione o per invenzione di nuovi segnali o di nuovi accoppiamenti tra segnali e significati nel corso della vita degli individui, il repertorio di segnali di ogni generazione contiene nuove varianti che non esistevano nel repertorio di segnali della generazione precedente.
Questi meccanismi di aggiunta di nuove varianti svolgono un ruolo analogo a quello assolto nell'evoluzione biologica dalle mutazioni genetiche e dalla ricombinazione dei patrimoni genetici dei genitori nella riproduzione sessuale. Il risultato è che le lingue si modificano nel tempo, peraltro in modo più veloce di quanto accada per il patrimonio genetico nell'evoluzione biologica, e quindi per i sistemi di comunicazione degli animali.
Un'altra conseguenza della somiglianza tra evoluzione biologica ed evoluzione linguistica è che le lingue, trasformandosi nel tempo, si divaricano tra di loro. Popolazioni che originariamente parlavano una stessa lingua finiscono per parlare lingue diverse se due o più sottopopolazioni si separano o una sottopopolazione viene a ricevere varianti da altre lingue. Per questo, mentre la specie umana parla molte lingue diverse, i sistemi di comunicazione animale variano tra specie diverse, ma tendono a essere uniformi all'interno di una stessa specie.
In secondo luogo, il linguaggio differisce dai sistemi di comunicazione animale per l'impatto che esso ha sulle capacità cognitive dei singoli individui. Il linguaggio ha in comune con la comunicazione animale il fatto di servire come mezzo di coordinamento delle attività di più individui. Esso serve a informare altri individui, a domandare loro informazioni, a chiedere che svolgano determinate azioni, a impedire che ne svolgano altre e così via. Ma accanto a queste funzioni sociali, peraltro molto più complesse delle analoghe funzioni dei segnali animali, il linguaggio modifica in modo sostanziale le capacità cognitive del singolo individuo, cosa, questa, che non si verifica nei sistemi di comunicazione degli animali.
I segnali linguistici sono, in condizioni di normalità, segnali acustici, anche se la predisposizione biologica degli esseri umani ad apprendere comunque un linguaggio fa sì che possano essere appresi e utilizzati linguaggi che hanno tutte le caratteristiche essenziali del linguaggio verbale, ma si avvalgono non di segnali acustici bensì gestuali-visivi, come accade per le lingue dei segni usate e trasmesse culturalmente nelle comunità di persone sorde (v. oltre). I segnali linguistici possono essere prodotti da un individuo per un altro individuo, come avviene per i segnali animali, ma possono essere anche rivolti da un individuo a sé stesso, come invece non accade nella comunicazione animale. Nel caso dei segnali acustici, il segnale per sé stesso può essere prodotto vocalmente o subvocalmente. Questo parlare a sé stessi cambia radicalmente l'attività cognitiva e le stesse capacità cognitive degli individui umani. Tutta l'esperienza risulta filtrata dal linguaggio.
Il passato diventa un passato ricordato attraverso il linguaggio che lo descrive e lo racconta, il presente diventa un presente analizzato e categorizzato nelle categorie suggerite dal linguaggio, il futuro diventa un futuro previsto e immaginato con le parole del linguaggio. Ciò accresce di molto la capacità di conoscenza e controllo dell'ambiente da parte dell'individuo, e può aver costituito una pressione selettiva importante per l'evoluzione delle basi biologiche del linguaggio nella specie umana, accanto a quella più ovvia e comune ai sistemi di comunicazione animale, costituita dai vantaggi dal punto di vista del coordinamento sociale. Un'altra conseguenza cognitiva del linguaggio è che un essere umano, quando apprende una lingua, apprende anche i modi di categorizzare la realtà che sono impliciti nei segnali costituenti la lingua stessa. Categorizzare la realtà significa che il sistema nervoso dell'organismo ricodifica internamente gli stimoli che formano l'esperienza dell'individuo, in modo da rendere più simili tra loro gli stimoli a cui l'individuo deve rispondere in uno stesso modo e rendere più diversi tra loro quelli a cui deve rispondere in modo diverso. Tuttavia, gli stimoli che giungono agli organi sensoriali di un organismo possono essere categorizzati in una varietà di modi. Apprendendo una particolare lingua, un essere umano impara anche quali sono le categorizzazioni trasmesse culturalmente che sono appropriate per il particolare ambiente e per la particolare cultura in cui vive, senza dover scoprire queste categorizzazioni con una lunga e anche rischiosa esperienza individuale.
Una terza differenza fondamentale rispetto ai sistemi di comunicazione degli animali risiede nella complessità strutturale del linguaggio umano. I sistemi di comunicazione animale sono repertori i quali contengono soltanto un numero molto limitato di segnali e sono repertori chiusi, cioè non estendibili in modo creativo quando si incontrano esperienze nuove. Al contrario il linguaggio umano costituisce un sistema aperto, o - come anche si dice - generativo, di segnali.
l. Definizioni
Occorre distinguere preliminarmente tra due nozioni che spesso si confondono: quella di linguaggio e quella di lingua. Il linguaggio (come chiarì F. de Saussure) consiste nella facoltà di associare due ordini di entità del tutto eterogenee tra loro: il significato (che è interno e mentale, e dunque non percepibile all'esterno) e il significante (un sistema di segnali sensoriali quali i suoni, i gesti, la scrittura ecc.). Come facoltà, il linguaggio ha un fondamento biologico e si può supporre uguale presso tutti i membri della specie Homo sapiens.
Le lingue sono invece le specifiche forme nelle quali il linguaggio si presenta nella storia, e sono tra loro diverse. Il linguaggio, dunque, si manifesta nelle lingue, le rende possibili e impone a esse talune caratteristiche. Ma tra l'uno e le altre esistono importanti differenze:
1) il linguaggio, essendo una facoltà biologicamente determinata, è relativamente immutabile nel tempo e nello spazio, mentre le lingue variano;
2) il linguaggio non si impara con l'apprendimento ma si sviluppa con la maturazione, mentre le singole lingue devono essere imparate e possono essere dimenticate;
3) la facoltà di linguaggio non è esclusiva dell'uomo, ma è diffusa tra le specie animali, che la concretizzano in specifici sistemi di comunicazione più o meno complicati; le manifestazioni umane del linguaggio (e in particolare le lingue verbali) sono le più complesse, ma la loro natura non può essere considerata isolata;
4) la facoltà di linguaggio è indifferente alla specifica lingua nella quale si manifesta: se la possibilità di utilizzare la lingua verbale è danneggiata (per es. per una forma di sordità grave), la facoltà di linguaggio non va dissipata, ma si può 'riorientare' verso un altro sistema di comunicazione (per es. un codice gestuale evoluto, come quelli utilizzati dai sordi).
Del linguaggio si possono dare diverse definizioni, secondo le proprietà su cui si intende porre l'accento. Nella linguistica di oggi un parametro essenziale è il peso che si attribuisce all'utente umano. Abbiamo allora da una parte una definizione 'fredda' (che esclude, cioè, l'utente), come quella proposta da Saussure, secondo la quale il linguaggio è costituito dall'associazione di significato e significante. Una definizione 'calda', all'opposto, assegna una posizione cruciale all'utente: il linguaggio è sì un'associazione di significato e significante, ma fatta in modo da soddisfare le necessità comunicative dell'utente umano e da riflettere le sue particolari limitazioni. L'utente ha potenzialità finite quanto a memoria, capacità di discriminazione dei segnali, attenzione e così via, e il linguaggio deve rispecchiare questi limiti; inoltre, gli utenti hanno necessità pragmatiche specifiche e in parte universali, e il linguaggio deve permettere di soddisfarle, qualunque sia la lingua concreta in cui si manifesta. La definizione calda è più soddisfacente dell'altra, perché permette di dar conto di aspetti cruciali: per es. del fatto che tutte le lingue, quali che siano l'epoca e il luogo in cui vengono utilizzate, presentano tratti comuni (gli 'universali linguistici'), i quali non possono essere spiegati se non come dovuti al fatto che esse devono poter essere usate da utenti dotati delle stesse proprietà, necessità pragmatiche e limitazioni biologiche.
Per esplicare le sue funzioni, però, il linguaggio ha bisogno di una collettività numerosa di parlanti, la quale conviene che una determinata forma linguistica è accettata e altre possibili non lo sono, 'licenzia' solo le forme ammesse e mediante il linguaggio svolge determinate azioni sociali. La 'massa parlante' (per usare un'espressione di Saussure) è insomma indispensabile perché il linguaggio si crei, si stabilizzi e funzioni. Per questo, il linguaggio va sì considerato come un prodotto fondato biologicamente, ma legittimato dai suoi usi sociali.
Alla facoltà di linguaggio non abbiamo accesso diretto. Possiamo osservare il linguaggio solamente studiando le sue manifestazioni concrete, che sono le lingue. Anzi, più propriamente, si accede al linguaggio osservando il comportamento linguistico di utenti singoli, attraverso cui formuliamo ipotesi sulla natura dei codici che chiamiamo lingue. Il linguaggio è dunque un'entità 'ricostruita' a partire da dati indiretti. La nostra osservazione del linguaggio avviene per giunta mentre le lingue cambiano; ciò è inevitabile perché il cambiamento è in un certo senso una loro caratteristica intrinseca. In linguistica questo fatto si chiama variazione.
Le lingue variano almeno ai seguenti livelli:
1) nello spazio: è esperienza comune che popoli diversi abbiano lingue diverse, e che, anche in seno a un popolo che si può considerare unitario, esistano forme diverse di una stessa lingua o addirittura lingue diverse;
2) nel tempo: nel corso del tempo (o, come si dice gergalmente, in diacronia) le lingue cambiano in tutti i loro aspetti, e il cambiamento può essere talmente radicale che due fasi diacronicamente diverse di una stessa lingua possono essere non comprensibili tra loro;
3) nello stesso individuo: ciascun parlante è in grado di usare forme diverse della sua lingua secondo le circostanze sociali in cui si trova e si adatta alla situazione secondo parametri precisi; ma nello stesso individuo le lingue variano anche perché i parlanti sono in possesso di diversi gradi di conoscenza (o 'competenza') della propria lingua, e non sempre sono capaci di controllare consapevolmente l'uso che ne fanno; si danno cioè gradi diversi di sicurezza linguistica;
4) nell'esecuzione: uno stesso parlante può pronunciare la stessa parola in moltissimi modi diversi e non associa allo stesso messaggio sempre esattamente lo stesso significato; ogni volta che si produce un atto linguistico individuale (la parole, secondo Saussure), il messaggio che si emette è per più aspetti diverso da ogni altro precedente, anche se prodotto dalla stessa persona.
Data questa ricchezza di forme di variazione, come riescono gli utenti a comunicare tra loro con (relativa) efficacia, se non ci sono due soli segnali linguistici che siano fisicamente identici, né due soli sensi che si somiglino tra loro? Un problema simile era già stato posto nell'Ottocento da W. von Humboldt, che tentò di risolverlo in una maniera che ci appare ancora oggi molto profonda. È la mente dell'uomo, sosteneva Humboldt, che definisce i limiti entro cui le lingue possono variare, e che è in grado di estrarre aspetti costanti e comuni (cioè invarianze) dalla molteplicità dei fenomeni a cui è esposta. Una posizione analoga a questa fu presa da Saussure agli inizi del Novecento: se la parole (cioè la maniera individuale e irripetibile di eseguire gli atti linguistici) è ogni volta diversa da qualunque precedente esecuzione, esiste nella mente dei parlanti un sistema astratto (la langue), una sorta di 'filtro', che scarta le variazioni non significative e riconduce i singoli comportamenti entro una stessa classe a condizione che abbiano la stessa funzione. La linguistica successiva ha adottato una risposta somigliante: in molti suoi lavori N. Chomsky ha distinto tra la 'competenza' della lingua da parte del parlante e l''esecuzione' che egli fa delle conoscenze in suo possesso. In altri termini, le lingue possono variare anche fortemente pur continuando a restare efficienti perché i parlanti riescono, in forza del funzionamento della mente, a cogliere aspetti costanti al di sotto delle variazioni.
Una tradizione antichissima (che risale perlomeno ad Aristotele) vuole che le lingue (dette anche 'verbali' o 'storiche' o 'naturali') siano sistemi di segni arbitrari. Ciò vuol dire che tra il significante (cioè l'insieme di suoni usati per esprimersi) e il significato che esso rende manifesto non esiste alcuna somiglianza, nessun nesso necessario e naturale. Il segno linguistico si fonda insomma su una radicale eterogeneità semiotica. È per ragioni di arbitrarietà, per es., che il cane si chiama dog in inglese, Hund in tedesco, perro in spagnolo e kalbi in arabo. Se le lingue non fossero arbitrarie, si argomenta, le 'cose' dovrebbero chiamarsi dappertutto nella stessa maniera. In realtà esistono valide ragioni per dubitare che le lingue siano del tutto arbitrarie. Come abbiamo già visto, infatti, esse sono conformate secondo le proprietà imposte dal linguaggio, e sono fortemente interconnesse con il parlante, le sue caratterizzazioni e limitazioni biologiche e fisiche e le sue necessità pragmatiche. Per conseguenza, le lingue sottostanno a taluni principi vincolanti:
1) principio del determinismo fisico: essendo l'utente linguistico un elaboratore di informazione limitato, le lingue sono fatte in modo da non eccedere i suoi limiti fisici e psicologici (per es. non può esistere una lingua troppo complicata perché gli utenti possano usarla);
2) principio di adeguatezza rappresentativa: le lingue sono fatte per rappresentare in qualche modo la realtà esterna, e quindi deve esistere una qualche somiglianza di struttura tra i messaggi linguistici e gli stati di cose a cui essi si riferiscono; in particolare, siccome nelle azioni che rappresentiamo con il linguaggio intervengono svariati componenti (uno o più attori, una o più azioni, un beneficiario, un oggetto, dei luoghi in cui le azioni e gli eventi si svolgono ecc.), le lingue devono essere in grado di offrire analoghi verbali di ciascuno di questi componenti;
3) principio di funzionalità pragmatica: le lingue, essendo fatte per rispondere a necessità pragmatiche che sono comuni a tutti gli uomini (per es. dare ordini e comandi, porre domande, descrivere situazioni ed eventi, narrare storie, usare forme di cortesia di diverso livello, mentire, interrogare, formulare ipotesi ecc.), devono avere risorse adeguate a svolgere tutte queste funzioni;
4) principio di variazione limitata: essendo limitate le capacità di elaborazione degli utenti umani, la gamma di variazione che le lingue possono avere non è infinita; nel loro variare, esse devono necessariamente restare entro un campo determinato e specificabile, dal quale non possono uscire.
Il linguaggio è nato in un'epoca che viene datata tra i 100.000 e i 20.000 anni fa, per una profonda motivazione evolutiva. Esso infatti serviva a due funzioni cruciali: comunicare significati e accumulare e trasmettere le conoscenze acquisite. Con questa risorsa, la specie non fu più costretta a rifare a ogni nuova generazione lo sforzo di impadronirsi delle tecniche, procedure e informazioni che le sono necessarie per vivere: poté ritrovare tutto questo patrimonio accumulato sotto forma di messaggi linguistici, realizzando così un enorme vantaggio di tempo ed efficienza. Il processo di trasmissione del sapere per mezzo del linguaggio (che dovette aver luogo già in epoca remota, quando il linguaggio era solo parlato e le conoscenze dovevano essere conservate nella memoria dei singoli che le trasmettevano a voce alle nuove generazioni) si è enormemente accresciuto con l'invenzione della scrittura, della stampa e dell'informatica.
Le proprietà specifiche del linguaggio sono esaltate in particolare dalla specifica forma da esso assunta nella specie umana, cioè quella verbale, che a sua volta fu selezionata per il vantaggio evolutivo che permetteva. Bisogna tener presente che il linguaggio verbale non fu la prima forma comunicativa che la specie umana abbia adoperato, ma fu per così dire selezionato tra le diverse possibilità che essa aveva a disposizione. Talune di queste (come i gesti) sono sopravvissute come supporto al linguaggio parlato stesso. Questa storia evolutiva è rivelata dal fatto che nessuna parte dell'apparato fonatorio (polmoni, laringe, bocca, lingua, naso) serve soltanto per produrre suoni. Al contrario, i polmoni servono anzitutto per la respirazione, la laringe per chiudere la trachea proteggendola dal rischio di intrusione di materiali estranei, la bocca e la lingua per l'ingestione e la masticazione del cibo e il naso come via di immissione dell'aria e di percezione degli odori. La produzione dei suoni di cui la lingua verbale è fatta (cioè la fonazione) è dunque una funzione secondaria e in un certo senso parassita, perché si è installata accanto ad altre funzioni fino a coabitare con esse.
Lo sviluppo del linguaggio verbale comportò peraltro nell'Homo sapiens una serie di profonde modificazioni anatomofisiologiche, soprattutto riguardo all'apparato respiratorio. Anzitutto la discesa della laringe, che originariamente si trovava (come è attualmente nello scimpanzé e nel neonato umano) allo stesso livello della radice della lingua, e gradualmente si abbassò al livello della quarta vertebra. Da questo processo fu toccata la lingua stessa: in origine doveva essere piatta, con una radice poco profonda, incapace di staccarsi dal pavimento della bocca e di lunghezza limitata. Nell'uomo moderno, al contrario, essa è libera di estendersi anche al di là del limite dei denti, la sua radice si è fatta più profonda, la sua massa può cambiar forma, posizione e volume secondo il suono che sta articolando. Nello stesso momento dovette cambiare la capacità discriminatoria dell'udito: questo era originariamente incapace di distinguere differenze fisiche minime dell'onda sonora, mentre nell'uomo moderno è fatto in modo da percepire con maggior nettezza proprio la gamma di vibrazioni in cui rientra l'insieme dei suoni verbali.
La nascita del linguaggio verbale produsse anche capitali trasformazioni dell'encefalo. Secondo un'interpretazione largamente accettata, infatti, l'aumento della massa del cervello che permise all'Homo di diventare sapiens venne attivato proprio dallo sviluppo del linguaggio. Non va dimenticato, infatti, che per produrre i suoni verbali il cervello deve governare un enorme repertorio di micromovimenti muscolari delle diverse parti dell'apparato fonatorio (i movimenti volontari più fini che l'uomo sia in grado di compiere), e a questo scopo deve essersi sviluppata una complessa rete di vie nervose per collegare cervello e muscoli. D'altro canto, l'aumento di massa e di complessità del cervello dev'essere andato di pari passo con la capacità di elaborare significati via via più complessi. Dal nostro punto di vista, tutta questa serie di trasformazioni significa che il linguaggio si è gradualmente creato una raffinata base fisica, una sorta di hardware proprio e specializzato. Il mutamento è stato talmente importante che non sorprende che le tracce dello hardware siano ancora impresse nel modo in cui le lingue sono fatte e funzionano, e che queste risentano in molti modi delle proprietà della 'macchina fisica' che le elabora. L'interconnessione si può formulare dicendo che lo hardware linguistico ha contribuito a modellare il software e viceversa.
Per capire i principi secondo cui sono fatte le lingue, bisogna tenere presente che esse sono sistemi semiotici sviluppati in una condizione di drastica penuria di mezzi. Ciò discende dai limiti dell'utente di cui si è già parlato, che impedirebbero di usare sistemi troppo complicati. A queste limitazioni la specie ha però risposto con una geniale trovata: creando un insieme di meccanismi formali che permettono alle lingue di operare malgrado la scarsità di risorse. Di questi meccanismi illustriamo i principali.
a) Combinazione. Le lingue sono strutturate in livelli disposti gerarchicamente, tali che il livello inferiore fornisce il materiale a quello superiore. Per es., i segmenti fonici servono a creare unità morfologiche, queste compongono le parole, le parole formano le frasi e le frasi si organizzano in strutture complesse chiamate testi. Il numero degli elementi aumenta passando da un livello all'altro (fonologia, morfologia, sintassi, testo), perché le lingue mettono all'opera sistemi combinatori per cui, concatenando elementi semplici in base a un numero relativamente piccolo di regole, si ottengono entità via via più complesse che fanno anch'esse parte della lingua.
b) Ripartizione in classi omogenee. Se prendiamo le parole di una lingua (lasciando del tutto intuitiva la nozione di 'parola'), verifichiamo che esse non sono l'una completamente diversa dall'altra, ma tendono a distribuirsi in classi omogenee, i membri di ognuna delle quali hanno un comportamento in tutto o in parte somigliante. La classificazione tradizionale in 'parti del discorso' è stata molto arricchita (ma non sconfessata) dalla riflessione moderna. Questa per es. distingue i nomi in 'numerabili', 'di massa' e 'collettivi', secondo la loro natura semantica. I numerabili si riferiscono a entità che possono essere 'contate' (fratello, gatto, tavolo, libro), quelli di massa a entità non articolate, che quindi non sono composte di individui (latte, grano, fauna), quelli collettivi a entità fatte di individui singoli, cioè a totalità discrete (folla, gregge, gruppo). Pur essendo tutte composte da nomi, le tre categorie si comportano in modi parzialmente diversi. Per es., i nomi di massa tendono a non avere un plurale. Numerose partizioni sono state riconosciute inoltre tra i verbi: per es., si distinguono gli impersonali, i verbi atmosferici (che in molte lingue hanno un comportamento a sé), i transitivi, gli intransitivi, i medi, gli stativi (rimanere, stare ecc.), i verbi psicologici (pensare, credere ecc.), gli 'inaccusativi' (che hanno un soggetto posposto: "Arrivano i ragazzi", "Passa il treno") e così via.
c) Ri-uso. Le unità di cui le lingue sono fatte sono ricorrenti, cioè sottoposte a frequenti reimpieghi sia nel sistema delle lingue stesse sia nell'uso di esse. In morfologia, per es., le unità (i cosiddetti morfi) sono riadoperate una varietà di volte in combinazioni diverse. Il morfo ri- appare in risalire, ripetere, rivolgere ecc., e, nella forma re-, in resistere, recuperare, replicare ecc. Il principio del riuso vale non solo nel sistema linguistico, ma anche nell'uso che i parlanti fanno delle lingue. Infatti questi riadoperano di continuo parole, frasi, sequenze già adoperate da altri e memorizzate come tali. Il sapere linguistico e l'esecuzione sono costituiti almeno in parte da 'moduli', 'pezzi' belli e fatti rimessi in uso di continuo.
d) Segmentazione. La catena linguistica (sia nella sua forma parlata sia in quella scritta), pur presentandosi come un 'treno' continuo di elementi, contiene, oltre che una struttura, anche una serie di segnali indicanti il confine tra un'unità e l'altra. I confini tra le unità sono di diversa natura e coesione. Di questi confini il parlante ha consapevolezza (come rivela l'indagine psicolinguistica) e li adopera per analizzare il messaggio e per gestirlo. In sostanza, il linguaggio si manifesta sotto forma di unità discrete: sono unità i segmenti fonici, le sillabe, i morfi, le parole, i sintagmi, e così via. Siccome tra un'unità e l'altra passano confini di diverso peso, la catena linguistica è scandita da un gran numero di confini: è cioè segmentabile.
e) Struttura sintagmatica. Nell'enunciato le parole non sono slegate, ma sono in qualche modo connesse tra loro, tendendo a collegarsi in gruppi, ciascuno dei quali, benché costituito da più parole, si comporta sintatticamente come un tutto. Tali 'gruppi' sono chiamati tecnicamente sintagmi: si dice allora che gli enunciati sono costituiti da parole combinate tra loro in sintagmi. I sintagmi a loro volta sono composti di unità di due tipi: la testa (la parola o l'insieme di parole che dà al resto del sintagma il suo comportamento sintattico) e il complemento (tutto il resto). Per es., in una sequenza come "Ho letto il libro", la testa è 'ho letto', 'il libro' è il complemento. La linguistica moderna ha svolto un imponente lavoro sulla tipologia dei sintagmi, arrivando ad alcune formulazioni di grande generalità. Anzitutto, nelle lingue i sintagmi sono di pochi tipi, quali che siano le concrete parole che li compongono. In secondo luogo, la loro struttura, quale che sia il tipo, è più o meno sempre la stessa. Per es., la struttura del sintagma verbale "Ho letto il libro" è identica a quella del sintagma nominale "Il libro dello zio", dove 'il libro' è testa e 'dello zio' è complemento. Ciò vuol dire che sotto la grande varietà superficiale dei fenomeni sintattici vi è una sorprendente omogeneità di struttura.
I meccanismi illustrati sono strumentali a un fine diverso e in un certo senso eterogeneo, che è quello proprio del linguaggio: esprimere significati e permettere di compiere operazioni pragmatiche. Nel compito di esprimere significati, le varie categorie delle lingue svolgono funzioni diverse. Una parte delle parole designano oggetti (i 'referenti'), sia esterni sia mentali: questa è tipicamente la funzione dei nomi; altre servono per assicurare coesione tra le parole referenziali: è la funzione delle preposizioni e soprattutto delle congiunzioni; altre per 'ancorare' i discorsi nel tempo e nello spazio: così alcuni avverbi e pronomi (qui, ora, lui ecc.: i deittici). Altri tipi di significato convogliano le frasi, i complessi di frasi e i testi nel loro insieme. Oltre che designare referenti e stati di cose, il linguaggio deve avere risorse per riflettere le strutture d'azione complesse del mondo extralinguistico, e strumenti semantici per creare rappresentazioni: poter designare gli attori che intervengono, le azioni che svolgono, la natura di queste, la loro localizzazione nello spazio e nel tempo, il grado di 'controllo' che l'attore può esercitare sull'azione alla quale partecipa, le principali operazioni logiche e pragmatiche che può svolgere ecc. Le lingue possono dare risposte diverse a questi problemi, ma non possono essere prive di risorse per ciascuno di essi, e con la varietà delle soluzioni che hanno a disposizione organizzano globalmente la loro grammatica.
Le 'forme' grammaticali che le lingue possono assumere non variano illimitatamente, ma solo entro una scala determinata. Importanti ipotesi sono state avanzate per definire entro quale ambito la grammatica delle lingue può variare, qual è il livello di equipaggiamento minimo al di sotto del quale esse non riescono a funzionare. Non tutti i meccanismi contemplati dalla linguistica teorica sono infatti ugualmente necessari per il funzionamento di una lingua. Non sembra, per es., che per le lingue sia indispensabile avere una morfologia; ce ne sono svariate (a partire dal cinese) che ne usano una molto ridotta, altre che probabilmente non ne hanno alcuna. Secondo una delle ipotesi avanzate, le lingue non possono fare a meno di talune risorse (come i pronomi personali, una preposizione locativa di uso generale o una particella per trasformare una frase in una relativa), mentre possono esser prive di altre (la morfologia verbale o derivazionale). Tra i diversi meccanismi di una lingua sembra esistere quindi una 'gerarchia', di cui anche l'utente ingenuo ha qualche percezione. La struttura del linguaggio sarebbe allora paragonabile a una 'cipolla', fatta di strati più profondi (quelli che si imparano per primi e vengono toccati per ultimi dal cambiamento linguistico) e di altri via via più superficiali (che si imparano più tardi e sono toccati prima dal cambiamento). Su questa base è stato persino proposto un repertorio 'minimo' di risorse che esse conservano in ogni circostanza, e rispetto al quale tutto il resto è un'aggiunta. Sebbene sulla composizione di questo repertorio non ci sia accordo, si può ridurre questo modo di ragionare al principio generale per il quale le lingue coincidono nei minimi, mentre differiscono nei massimi, e variano entro un campo definito. Ciò comporta anche che, per rispondere a un dato problema, le lingue hanno a disposizione un numero limitato di opzioni, e sono quindi libere di scegliere tra l'una e l'altra ma non di fare qualunque cosa.
La competenza linguistica consiste nella conoscenza delle regole della propria lingua e nella capacità di applicarle, ma anche nella capacità di correlare la conoscenza della lingua con quella del mondo esterno. È sorprendente che le regole linguistiche per lo più non vengano imparate in modo esplicito, ma siano acquisite in modo tacito e inconsapevole. Anche chi abbia studiato a scuola la 'grammatica' della propria lingua, nell'uso linguistico reale adopera una varietà di meccanismi e di regole che non può avere incontrato sui libri e della cui complessità non si rende neanche conto. Ora, le regole che il parlante impara non sono sempre di vasta applicabilità, ma si riferiscono anche a fenomeni marginali e periferici della lingua. Basta pensare alle frasi idiomatiche: siccome il loro significato non si ottiene dalla composizione delle parti, esse non sembrano riducibili a regole generali. Nondimeno il parlante è in grado di impararle e di dominarle nell'uso. Nelle lingue, quindi, attorno a un nucleo organizzato come si è detto, si estende una vasta frangia di fenomeni instabili, a volte anche isolati, che non sembrano riconducibili a regole e tuttavia fanno parte della competenza dei parlanti e sono perfettamente adoperabili. Questi fenomeni sono talmente numerosi da contribuire in modo decisivo a caratterizzare e differenziare le diverse lingue. Fa comodo al riguardo, anche se non risolve affatto il problema, distinguere nella competenza linguistica due classi di strutture: quelle generabili e quelle memorizzate. Le prime, rispondendo a regole semplici e potenti, possono essere generate ogni volta che servono applicando quelle regole: per es. il plurale dei nomi maschili italiani risponde per lo più alla regola che scambia una -o con una -i. Le seconde, non rispondendo a regole, devono essere memorizzate una per una come entrate separate: la reggenza di taluni verbi non deriva da alcuna regola riconoscibile, ma deve semplicemente essere imparata a memoria: "Cercare di riuscire" e non "Cercare a riuscire"). È ovvio che per la memoria sono più comode le regole generabili. Resta perciò inspiegato il fatto che la mente dell'utente sia da un lato una formidabile cercatrice di economia e dall'altro una ugualmente formidabile dissipatrice di risorse.
Le lingue pullulano di fenomeni 'instabili', che anzi contribuiscono in modo potente a dare a esse un effetto di 'realtà', che non avrebbero se funzionassero solo in base a regole di massima generalità. Per es., nelle forme parlate, si violano tranquillamente diversi dei principi che abbiamo presentato sopra. Bisogna allora concludere che le varietà 'informali' sono scorrette o agrammaticali rispetto a quelle 'formali'? Quest'affermazione non si può sostenere quando si osserva che quelle 'scorrettezze' vengono prodotte e accettate non da singoli individui, ma da intere comunità. Bisogna pensare perciò che gli usi formali e quelli informali del linguaggio seguano sistemi di regole parzialmente differenti e mirino a risultati distinti. Si sono ricercate diverse soluzioni per dar conto di questa divergenza, che, se fosse portata fino alle ultime conseguenze, spingerebbe a concludere che le regole e le regolarità postulate dalla linguistica semplicemente non esistono. Una possibile maniera di spiegare la divergenza consiste nel dire che mentre le varietà di lingua formali puntano all'accuratezza strutturale, quelle informali privilegiano l'efficacia predicativa e pragmatica: quello che importa, cioè, è che l'enunciato 'dica quello che voleva dire' e 'funzioni' nell'interazione sociale. Ciò significa che l'obiettivo a cui si tende con gli usi informali delle lingue non è quello di produrre strutture chiaramente ricostruibili e soggette a regole chiare, ma quello di farsi capire nel modo più rapido e semplice possibile, di enunciare le 'predicazioni' che si hanno in mente, sia pure con messaggi di dubbia qualità strutturale. Molti fenomeni a prima vista scorretti mirano in realtà a ottenere una 'predicazione' pragmaticamente efficace, senza preoccuparsi dell'accuratezza strutturale. Per dirla in termini intuitivi, gli usi informali delle lingue sono molto più 'tolleranti' (cioè instabili) di quelli formali e non hanno bisogno di strutture ben architettate e chiaramente segmentabili: messaggi incompleti e poco articolati vengono accettati dagli interlocutori e sono compresi perfettamente. Quindi bisogna ricercare un livello più profondo di spiegazione, per il quale diventi accettabile un numero di enunciati molto maggiore di quelli che accetterebbe una teoria puramente formale.
Per queste ragioni, una rappresentazione globale del linguaggio non può essere offerta solo da sistemi di regole stabili ma occorre prevedere insiemi di regole instabili, che rendano conto del fatto che la comunicazione funziona anche con enunciati fonologicamente malarticolati, sintatticamente disordinati e semanticamente approssimativi: se il modello 'regolare' dell'organizzazione delle lingue può essere considerato soddisfacente per spiegarne i meccanismi fondamentali, per gli altri occorrono modelli più sfumati. La difficoltà di dar conto della convivenza di aspetti regolari e aspetti marginali nelle lingue è dovuta a una loro particolarità molto sfuggente. Esse godono infatti di una proprietà sorprendente: più da vicino le si guarda, più esibiscono nuove dimensioni che, a uno sguardo generale, erano rimaste del tutto invisibili. Secondo un'immagine metaforica (ma non poi del tutto) le lingue possono essere intese come 'oggetti frattali' in senso proprio, perché il grado di dettaglio dei loro meccanismi (e quindi delle regole che occorre conoscere per farli funzionare) aumenta via via che le si guarda più da vicino.
Nella lingua si registra dunque una convivenza di aspetti regolari e di fenomeni non riconducibili a regole. I primi si acquisiscono imparando appunto le regole di una lingua, i secondi invece 'pezzo per pezzo', senza riferirsi a nessun sistema ordinato. Occorre domandarsi come mai in questo modo le lingue non si 'sgretolino', diventando inadoperabili. Devono esistere quindi dei dispositivi di sicurezza per evitare che l'instabilità produca la dissipazione dei sistemi linguistici. A costituire una barriera di sicurezza intervengono almeno due ordini di fattori:
1) il carattere biologicamente insopprimibile del software di cui si è parlato, il quale non permette che, nel rendere 'generici' e 'approssimativi' (fonologicamente, sintatticamente, semanticamente) gli enunciati, si superino certi limiti (per ora indefiniti) che li porterebbero a non funzionare affatto;
2) l'azione continua di un monitoring collettivo, che in molte società si esercita in forma perentoria con vari sistemi: l'educazione, il 'controllo' di gusto e appropriatezza, l'effetto stabilizzante esercitato da grammatiche pratiche e dizionari, la retroazione delle forme scritte su quelle parlate, l'influsso della classe dei colti o degli anziani come modello di comportamento linguistico ecc. Quando le lingue entrano nell'uso sociale, quindi, al modellamento esercitato dalla mente si somma quello svolto dalle pressioni e dai controlli collettivi. Questi fattori interagiscono facendo sì che la libertà del parlante sia sempre vigilata, e le rappresentazioni che questo si fa della propria lingua siano sempre 'controllate'. Perfino l'elaborazione, diffusa in molte culture riflesse, di regole pratiche di comportamento linguistico (per es. la regola italiana che dice "Bisogna dire 'capace di fare' e non 'capace a fare'") esercita un effetto-barriera nei confronti della naturale tendenza delle lingue (più propriamente, dei parlanti) all'instabilità e alla variazione.
A questo effetto-barriera può essere ricondotta anche un'altra misura che chiameremo 'proiezione sociale della variazione'. I comportamenti linguistici che le comunità tendono a considerare errati, impropri, imprecisi e perfino inaccettabili non vengono mai espulsi dalla lista dei comportamenti possibili, ma vengono 'salvati' con lo stratagemma di attribuirli a livelli d'uso socialmente via via meno pregiati. Le regole, nella loro varietà (da quelle stabili a quelle massimamente instabili), si dispongono su una scala sociale: la regola più stabile viene attribuita ai livelli d'uso considerati più alti (per es., classi sociali elevate, oppure registri formali, come lo scritto), quelle via via meno stabili ai livelli gradualmente più bassi. In questo modo, la stratificazione sociale 'salva', collocandoli a livelli diversi di accettabilità, la gradazione di regole e di comportamenti che possono essere prodotti in una lingua. Per dirla in maniera più intuitiva, le lingue 'non gettano via nulla', ma allocano ai livelli sociali più bassi i comportamenti che vengono sentiti come di bassa qualità. Così anche le varietà più 'estreme' delle lingue trovano il modo di esser recuperate nel sistema, e questo riesce a preservare sé stesso da variazioni destabilizzanti che potrebbero perfino distruggerlo. Le diverse forme di instabilità a cui le lingue danno luogo possono essere considerate, diacronicamente, come colpi di sonda con cui la collettività dei parlanti esplora continuamente i punti deboli e quelli forti della struttura della propria lingua, ricercando in questo modo le aree di possibile cambiamento.
Lo studio dell'acquisizione del linguaggio si è rivelato una delle branche più affascinanti e complesse della linguistica. Le ricerche sul linguaggio infantile hanno attirato l'interesse di studiosi di discipline diverse, specie intorno a questioni riguardanti la sua origine e la sua evoluzione. Secondo alcuni autori, lo studio dello sviluppo del linguaggio nel bambino potrebbe fornire indizi sullo sviluppo filogenetico del linguaggio stesso nella razza umana. Acquisire una lingua è, infatti, una capacità che solo i piccoli della specie umana sembrano possedere: una delle facoltà che differenzia gli esseri umani da tutte le altre specie. Entro i primi due anni di vita tutti i bambini imparano, senza alcun insegnamento specifico, la lingua cui sono esposti. Lo sviluppo del linguaggio dipende in primo luogo dalla maturazione di strutture e processi fisiologici in parte comuni ad altre capacità, in parte specifici del linguaggio. Per realizzarsi, però, questi processi richiedono un ambiente linguistico. Il bambino porta come suo contributo all'apprendimento del linguaggio una serie di potenzialità e di modi di analisi e di elaborazione degli elementi linguistici, ma ha bisogno degli stimoli ambientali per realizzare tale potenzialità.
Grazie a questa particolare interazione si sviluppa nel bambino un sistema di regole e conoscenze linguistiche che egli userà durante tutta la sua vita per parlare e capire gli altri quando parlano. La capacità di acquisire una lingua è, dunque, innata, anche se coinvolge una riconfigurazione di sistemi mentali e neurali che esistono in altre specie e continuano a svolgere anche alcune funzioni non linguistiche. Quindi nel bambino, almeno inizialmente, il linguaggio viene acquisito attraverso processi mentali e neurali che condivide con altri domini, percettivi, cognitivi e affettivi; solamente in un secondo tempo, il linguaggio, ma soprattutto alcune sue abilità particolari, possono 'modularizzarsi', venendo a costituire domini separati e molto specifici.
l. Tappe di acquisizione delle lingue vocali
L'acquisizione del linguaggio si presenta come lo snodarsi di una serie di fasi che si succedono in un determinato ordine, condiviso da molti bambini indipendentemente dalla particolare lingua che stanno imparando. Al tempo stesso, questo processo appare caratterizzato da grandissime variabili individuali che riguardano non soltanto i tempi, ma anche i modi e le strategie di apprendimento.
Nel corso del primo anno di vita, prima di imparare a parlare, il bambino compie una serie di sviluppi indispensabili alla successiva acquisizione del linguaggio: esercita i suoi organi fonoarticolatori, sviluppa la capacità di usare simboli, impara a comunicare intenzionalmente. A partire dai 3 mesi circa, il bambino impara ad ascoltare, volge gli occhi oppure la testa quando una persona gli parla e la voce altrui diventa uno stimolo per le sue vocalizzazioni. È da questo momento, infatti, che il bambino diviene capace di controllare la sua attività fonoarticolatoria attraverso il feedback acustico, cioè ascoltando i suoni che egli stesso produce, e gradualmente impara a imitare i modelli intonazionali degli adulti. Gli effetti di questa imitazione cominciano a essere visibili già a 6-7 mesi, età della lallazione che durerà fino agli 8-9 mesi. In questa fase gli scambi vocalici con l'adulto, che coinvolgono anche aspetti motori e visivi, sono indispensabili perché il bambino impari a rispettare l'alternanza dei turni, su cui si basano sia la capacità di dialogo sia la conversazione. Anche se il bambino fin dalla nascita mette in atto una serie di comportamenti sia vocali sia gestuali che fungono da segnali comunicativi per gli adulti, è solo verso i 9 mesi che si può parlare di una vera comunicazione intenzionale. L'inizio della comunicazione intenzionale avviene attraverso l'uso di una serie di gesti, e precisamente: la richiesta ritualizzata (il bambino tende il braccio verso un oggetto, talvolta aprendo e chiudendo ritmicamente la mano), il mostrare, il dare e l'indicare. Questi gesti deittici possono essere prodotti da soli o, più frequentemente, accompagnati da vocalizzazioni e sono considerati i precursori delle prime parole. I gesti deittici, pur essendo convenzionali, esprimono unicamente l'intenzione comunicativa del bambino, mentre il referente della comunicazione è offerto interamente dal contesto extralinguistico cui il bambino si riferisce.
Verso gli 8-13 mesi compaiono anche i primi segni sistematici di comprensione di parole, comprensione che crescerà vertiginosamente nei mesi immediatamente successivi. A questa età si tratta di una comprensione altamente ritualizzata che avviene solo in contesti molto familiari e particolari, dove il bambino riceve oltre all'input propriamente linguistico anche una serie di indizi di tipo situazionale e non verbale. Circa nello stesso periodo, verso i 12-13 mesi, compare la cosiddetta denominazione. Il bambino comincia dunque a usare i suoni vocalici per riconoscere, categorizzare, nominare oggetti. Ma non denomina soltanto mediante le parole, spesso fa ricorso anche ai gesti: in primo luogo attraverso l'indicazione, che diventa in questo periodo un gesto usato con notevole frequenza sia per richiedere sia per denominare; in secondo luogo attraverso un altro tipo di gesti, che compaiono in questo stesso periodo insieme alle prime parole, chiamati referenziali o rappresentativi, ovvero gesti che non si limitano a indicare qualcosa presente nel contesto (come i gesti deittici), ma lo rappresentano tramite un''etichetta' o un 'simbolo' gestuale.
Il significato di questi gesti è 'convenzionalizzato' dal bambino e dai suoi interlocutori e il loro contenuto semantico non muta al variare del contesto. Alcuni di questi gesti nascono all'interno di situazioni di routine (giochi e abitudini) con l'adulto, progressivamente si decontestualizzano fino ad arrivare a essere usati anche in assenza di contesti particolari. Per es., "Ciao" (il bambino commenta che qualcuno è uscito o richiede di uscire); "Più" (qualcosa è finito, o non c'è più, o non si vede). Altri gesti referenziali nascono invece dalle azioni dei bambini sul mondo fisico. Per es., "Telefonare" (il bambino racconta che nell'altra stanza qualcuno sta telefonando, portando la mano all'orecchio come se tenesse la cornetta del telefono, o richiede con lo stesso gesto il suo telefono giocattolo); "Aprire" (il bambino chiede all'adulto di aprire una porta, o una scatola, facendo il gesto nel vuoto). Anche le prime parole, come i gesti, subiscono un graduale processo di decontestualizzazione: da un uso molto legato a situazioni specifiche, ristrette e altamente ritualizzate, il bambino arriva a un uso simbolico e referenziale delle prime parole. Dunque in tale fase di sviluppo linguistico il bambino utilizza per comunicare segnali sia vocali sia gestuali. Le due modalità, vocale e gestuale, vengono quindi a costituire un unico sistema, povero di equivalenti, analogamente a quello che si verifica nella prima fase di sviluppo dei bambini bilingui. Tuttavia, la rilevanza che i genitori danno alla produzione vocale, interpretandola come sicuramente comunicativa, diventa discriminante per il successivo prevalere della modalità vocale su quella gestuale.
Tra i 16 e i 20 mesi si assiste a una notevole crescita del vocabolario e anche a una sua riorganizzazione. Si manifesta infatti il fenomeno che un'ampia letteratura ha definito di 'esplosione' del vocabolario: la produzione di parole passa da 20 a 200 e oltre, seppure presentando grandissime variazioni a livello individuale. A questa improvvisa crescita del vocabolario, corrisponde anche un cambiamento della sua composizione: nel periodo precedente è molto difficile distinguere i nomi dai verbi (per es. "Pappa" può essere usata tanto per denominare il cibo quanto l'azione stessa del mangiare); in questo secondo periodo invece appaiono notevoli distinzioni tra le varie categorie grammaticali, in particolare le parole relazionali o predicati (verbi e aggettivi) e quelle con funzione grammaticale (articoli, preposizioni, pronomi) tendono a divenire più frequenti. In tale fase, chiamata anche 'olofrastica', il bambino, pur pronunciando una sola parola alla volta, riesce a essere estremamente efficace da un punto di vista comunicativo grazie all'aiuto di gesti di vario tipo e appoggiandosi al contesto situazionale e linguistico.
Tra i 18 e i 24 mesi i bambini generalmente cominciano a combinare le parole in frasi. La capacità di combinare simboli appare strettamente collegata allo sviluppo del vocabolario verbale: esiste una 'soglia minima', cioè un numero minimo di parole, senza aver raggiunto il quale il bambino non è in grado di combinare. Tale numero minimo, che si colloca intorno alle 100 parole, non può essere però determinato con certezza, per la presenza di un'alta variabilità individuale. Come già accadeva a livello delle singole parole, anche le prime frasi hanno in realtà un significato molto più ampio. In genere, il bambino tende a esprimere gli elementi maggiormente informativi, e si aiuta con il contesto per comunicare quegli elementi che risultano evidenti dalla situazione.
Verso i 2 anni, a partire dalla comparsa delle prime combinazioni di parole, ha inizio il periodo dello sviluppo della grammatica che dura fino ai 4 anni circa. Rispetto alle strutture frasali prodotte dal bambino, emerge una sequenza di acquisizione che permette di individuare tre periodi: un primo periodo in cui la frase passa da nucleare incompleta (per es. "Mamma apre") a nucleare completa (per es.: "Mamma apre porta"), in cui cioè il linguaggio si stacca gradualmente dal contesto e diventa autosufficiente; un secondo periodo in cui compaiono le strutture ampliate (modificatore e avverbiale; per es. "Io pulisco con questo") e le strutture complesse e binucleari senza la congiunzione (per es. "Deve prendere libri"); un terzo periodo in cui compaiono i connettivi nella produzione di strutture interfrasali (per es. "Gli spara al lupo poi è morto"). In questo stesso arco di tempo, parallelamente allo sviluppo della struttura frasale, assistiamo anche a un crescente arricchimento delle intenzioni comunicative con cui il bambino pronuncia parole e frasi. Inizialmente si trovano soprattutto richieste di azione (per es. "Apri questo") e più tardi richieste d'informazione (per es. "Dov'è nonna").
Per quanto riguarda le dichiarative, tendono a comparire prima le descrizioni di oggetti e di eventi esterni (per es. "Quella palla"), le descrizioni delle proprie azioni (per es. "Mangio pappa") e le espressioni di desiderio (per es. "Voglio ciuccio"), più tardi le espressioni di possesso (per es. "È mio il Lego"), i giudizi su sé stessi (per es. "Io bravo") e infine le massime generali (per es. "Non si rompe") e i racconti di eventi passati e futuri (per es. "Ho disegnato"; "Dopo vado a ninna"). Questa progressione rispecchia evidentemente il crescente decentramento del bambino, che tende a parlare sempre più di eventi e situazioni al di fuori del contesto immediatamente presente. Le prime frasi prodotte dal bambino sono in 'stile telegrafico', cioè sono prive di articoli, preposizioni e pronomi. Anche lo sviluppo morfologico, infatti, segue le sue tappe di acquisizione e, sebbene alcuni elementi grammaticali siano presenti nel linguaggio del bambino fin da età molto precoci, questi vengono veramente acquisiti (cioè usati sistematicamente e in modo corretto) solo in età successive, attraversano cioè un 'periodo di acquisizione' la cui durata varia da soggetto a soggetto e in rapporto ai diversi aspetti morfologici.
In termini generali, si può affermare che molti morfemi grammaticali iniziano a essere prodotti intorno ai 3 anni, mentre risultano acquisiti intorno ai 3 anni e mezzo o ai 4. L'acquisizione della morfologia legata (genere e numero, flessioni verbali ecc.) sembra precedere quella della morfologia libera (articoli, pronomi clitici ecc.), probabilmente perché nomi, verbi e aggettivi devono essere obbligatoriamente flessi, e non permettono strategie di evitamento (omissioni). Più in particolare, dagli studi emerge che le forme singolari sono prodotte e comprese più precocemente rispetto alle rispettive forme plurali. Per quanto riguarda la morfologia libera, risulta che la è il primo articolo a essere padroneggiato, mentre il risulta essere il più ritardato nella comparsa. Anche i pronomi clitici lo, la, gli, le risultano essere padroneggiati piuttosto tardi. Un altro dato emerso dalle ricerche sull'acquisizione morfologica è che, in un primo periodo, i bambini mostrano una maggiore abilità nel produrre determinate forme (in particolare i pronomi clitici e l'accordo fra nome e aggettivo), piuttosto che nel comprenderle, cioè prima che sia avvenuta un'evidente interiorizzazione di regole.
Verso i 4 anni di età il bambino mostra di utilizzare correttamente alcune delle principali regole morfologiche e anche sul piano sintattico sa utilizzare le principali strutture frasali. Lo sviluppo del linguaggio, tuttavia, non può certo dirsi totalmente concluso. Anche dopo questa età continuano a essere registrati importanti cambiamenti a livello del vocabolario, aumentano sia l'efficienza della grammatica sia la sua accessibilità e soprattutto migliorano sensibilmente le abilità conversazionali e di racconto.
2.
I bambini sordi non imparano spontaneamente a parlare a causa della loro sordità; essi infatti non possono udire la lingua vocale parlata attorno a loro, ma la loro capacità di acquisire una lingua è intatta. Se vengono esposti fin dalla nascita a una lingua dei segni, che viaggia nella modalità integra visivogestuale, la sua acquisizione avverrà in maniera spontanea e naturale, ricalcando le tappe e le età di acquisizione dei bambini udenti esposti alla lingua parlata, mentre per acquisire una lingua vocale dovranno ricevere un insegnamento formale e specialistico. In una prima fase, i bambini sordi iniziano a comunicare intenzionalmente attraverso i gesti deittici, facendo quindi grande riferimento al contesto; a 1 anno circa di età compare, come nei bambini udenti, un secondo tipo di gesti: i referenziali, e iniziano a comparire i primi segni, così come nel bambino udente le prime parole. Come per le lingue vocali, anche per quelle dei segni il padroneggiamento delle regole e caratteristiche 'fonologiche' - o più precisamente formazionali - dei segni richiede un graduale processo di acquisizione, dipendente dal sistema motorio del bambino. È possibile così rintracciare alcuni errori caratteristici nella produzione dei primi segni, paragonabili a quelli di semplificazione fonologica di bambini udenti. Questi errori sono di sostituzione di almeno uno dei parametri formazionali del segno con altri parametri, più semplici da eseguire da un punto di vista motorio.
Come nelle lingue parlate, sono stati inoltre evidenziati interessanti rapporti fra l'acquisizione di aspetti fonologici più complessi e quella di fattori morfologici. A circa 1 anno e mezzo, quando la capacità di usare simboli a scopo comunicativo si è consolidata sul piano gestuale e/o vocale, compaiono i primi enunciati di due elementi. Come nel bambino udente, nelle prime combinazioni prodotte uno dei due elementi sarà prevalentemente un gesto deittico, unito a un altro gesto o a un segno, e solo in un secondo momento compariranno le combinazioni di due segni. Questo passaggio dal segno singolo alla frase si verifica, come nei bambini che imparano a parlare, circa a metà del secondo anno di vita, quando già il bambino possiede un buon patrimonio lessicale che si sta rapidamente espandendo. Anche in questo caso si assiste a una sorta di trasformazione nella composizione del vocabolario: nei primi enunciati di più segni compaiono, infatti, consistentemente predicati che indicano azioni, possesso, qualità. Le prime frasi sono però, nella maggior parte dei casi, giustapposizioni di due o più segni prodotti nella loro forma citazionale, in cui è assente la morfologia flessiva e derivazionale. L'ordine dei segni è in un primo periodo il principale meccanismo sintattico per segnalare il ruolo dei segni contenuti nella frase. In altre parole, in una prima fase anche il linguaggio dei bambini che imparano una lingua dei segni si può definire telegrafico. È solo fra i 2 anni e mezzo e i 3 anni che assistiamo a una progressiva acquisizione di aspetti morfologici, alcuni dei quali compaiono saltuariamente e non vengono padroneggiati, né usati con una certa frequenza, prima dei 5 anni. Il primo aspetto a venire padroneggiato è la flessione del verbo, a partire dai 3 anni circa. Verso i 3 anni e mezzo circa inizia a essere controllata la distinzione fra nomi e verbi, ma è solo fra i 5 e i 6 anni che tale aspetto viene padroneggiato e usato in maniera produttiva. Le flessioni, invece, sia per gli aspetti temporali sia di numero, compaiono intorno ai 3 anni e la loro acquisizione procede fino a 5 anni circa.
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