Lingue a rischio di estinzione
Le lingue del mondo
Non c’è accordo tra gli specialisti su quale sia il numero effettivo delle lingue del mondo. Le valutazioni brutalmente numeriche variano da un minimo di circa 4000 a un massimo di 11.000 lingue. Il forte divario tra le fonti dipende dalle difficoltà connesse con la definizione stessa di ‘lingua’ e, soprattutto, dalle valutazioni di ordine extra-linguistico sottese alle nozioni, talvolta artatamente polarizzate, di ‘lingua’ e ‘dialetto’. Come spesso avviene in casi di sensibile divergenza di opinioni, la ‘verità’ si colloca probabilmente nel mezzo e, a proposito del numero delle lingue parlate oggi nel mondo, pare ragionevole pensare che esse oscillino tra 6500 e 7000 unità: il database di Ethnologue. Languages of the world, il sito ove è in un certo senso ‘depositata’ la conoscenza relativa al patrimonio linguistico dell’umanità, ne elenca per la precisione 6912. Di tali lingue, circa 3000 (pari a circa il 43% del totale) sono parlate in Asia e nell’area dell’Oceano Pacifico; circa 1900 (pari a circa il 27% del totale) sono parlate in Africa; circa 900 (pari a circa il 13% del totale) sono parlate nelle tre Americhe; solo 275 lingue (poco meno del 4% del totale) sono parlate in Europa e nel Medio Oriente. Cosa ancora più importante dei meri dati numerici e percentuali relativi alla distribuzione delle lingue nei cinque continenti, è bene ricordare che circa 5000 lingue sono concentrate in soli 22 Paesi: ad alta concentrazione di lingue sono – per citare i Paesi primi in classifica – il Papua-Nuova Guinea con 820 lingue; l’Indonesia con 742 lingue; la Nigeria con 516 lingue; l’India con 427 lingue; gli Stati Uniti d’America con 311 lingue; il Camerun con 280 lingue; l’Australia con 275 lingue; il Messico con 297 lingue; la Repubblica Popolare Cinese con 241 lingue; la Repubblica Democratica del Congo con 216 lingue; il Brasile con 200 lingue. Nel mondo esistono circa 180 Stati indipendenti. Se ognuno di essi decidesse di avere un’unica lingua nazionale, si avrebbero soltanto circa 180 lingue nazionali. Tale numero, tuttavia, è puramente teorico ché, in conseguenza delle politiche linguistiche di stampo imperialista, le maggiori lingue europee di matrice (ex) coloniale – l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese – sono lingue ufficiali (o co-ufficiali) in un certo numero di Paesi: allo stato attuale, l’inglese è lingua ufficiale (o co-ufficiale) in 45 Paesi; il francese in 30 Paesi; lo spagnolo è lingua ufficiale (o co-ufficiale) in 20 Paesi e il portoghese lo è in 6 Paesi. L’arabo, unica lingua ‘coloniale’ non europea, è ugualmente lingua ufficiale (o co-ufficiale) in 20 Paesi. Più di 3800 lingue contano meno di 10.000 locutori e, se si ammette – come soglia utile a che una lingua sopravviva – il numero di 100.000 individui in grado di parlarla e di trasmetterla alle giovani generazioni, soltanto 1239 lingue (poco meno del 18% del totale delle lingue del mondo) presentano tale requisito.
Parametri d’analisi e questioni definitorie
In base a quali parametri alcuni sistemi linguistici possono/devono essere riconosciuti lingue diverse piuttosto che dialetti di una stessa lingua? Prescindendo da una definizione vagamente provocatoria (anche se non del tutto fuori luogo) tale per cui una lingua altro non sarebbe se non un dialetto ‘che ha fatto fortuna’ o, anche, un dialetto ‘con esercito e marina’, normalmente viene evocato il criterio della ‘mutua intelligibilità’: un ‘dialetto’ (di una lingua) diventa ‘lingua altra’ e, quindi, ‘lingua’ autonoma e a pieno titolo nel momento in cui l’impianto strutturale che vi risulta sotteso ai vari livelli di analisi – fonologico, morfo-sintattico, lessicale – si discosta nettamente da quello della lingua di riferimento. Ovviamente il processo di distanziamento tra i due poli può essere facilmente ‘manipolato’ – esasperato o ridotto – secondo che i locutori delle due varietà linguistiche in esame abbiano intenzione di evidenziarne o di ridurne i tratti differenzianti. Il nodo del problema risiede essenzialmente nelle modalità con cui si operano tagli e cesure entro continua linguistici, con la conseguenza che il parametro ‘mutua intelligibilità’ è qualcosa di intrinsecamente graduale e, soprattutto, dipendente dalla volontà dei locutori di trovare situazioni di compromesso. Per es., dissoltasi la ex Iugoslavia, sono sorte, dalle ceneri del continuum serbo-croato, tre lingue autonome: il serbo, il croato e il bosniaco (e una quarta, forse, è in via di gestazione: il montenegrino), tutte per altro reciprocamente intercomprensibili ma volutamente ‘distanziate’ per mere ragioni di ordine politico, e quindi per considerazioni squisitamente extra-linguistiche. Ugualmente, il continuum dell’area linguistica scandinava è stato ritagliato nel corso del 19° secolo, e sempre per ragioni di natura politica e culturale, in modo da prevederne l’articolazione in tre lingue autonome: il danese, lo svedese e il norvegese, lingue tutte reciprocamente intercomprensibili. Un altro esempio, relativo all’Asia questa volta, è quello del continuum della lingua hindi (la maggiore lingua pracrita dell’India), dal cui corpo, per ragioni di natura meramente politica e religioso-culturale, è stata separata e resa autonoma la lingua urdu: la lingua hindi, fedele alla forma di scrittura devanagarica, ereditata direttamente dal sanscrito, è la lingua della maggiore comunità indiana di religione induista; l’altra, la lingua urdu, resa mediante l’alfabeto arabo-persiano, è la lingua della maggiore comunità indo-musulmana. Entrambe le lingue in questione, al di là delle differenze che interessano specificatamente i rispettivi patrimoni lessicali, sono strutturalmente la stessa cosa e l’intercomprensione tra i loro locutori è pressoché totale.
Lingue e nomi di lingue
Non va poi trascurato il fatto che la grande maggioranza dei sistemi linguistici del mondo è legata al piano della oralità, non è cioè fissata da una norma scritta, e, proprio la mancanza di una stabile fissazione grafematica e del riconoscimento di una norma canonica, rende ancora più difficile il compito definitorio. Le cose sono ulteriormente complicate dal fatto che, talvolta, singole lingue possono essere note sotto denominazioni diverse. Tale circostanza non tocca, evidentemente, le grandi lingue, riconosciute come tali da una consolidata tradizione: tutti sono d’accordo che, con le dizioni ‘Deutsch’, ‘allemand’, ‘german’, ‘nemets’, ‘tedesco’, ‘deguo’, ‘doitschu’ presenti alla competenza linguistica di locutori di lingue quali, rispettivamente, il tedesco, il francese, l’inglese, il russo, l’italiano, il cinese e il giapponese, ci si riferisce solo e soltanto al quadro linguistico della più diffusa lingua germanica parlata in Europa: il tedesco, appunto. Ma il problema si fa davvero spinoso nel caso di lingue meno ‘stabili’: i parlanti di una lingua possono definirla con nomi ‘altri’ rispetto a quelli che a essa vengono attribuiti da gruppi sociali circostanti; una lingua può essere chiamata con il nome di uno dei suoi dialetti; alcune denominazioni di lingue, usate da altri riferendosi a una lingua, risultano talvolta offensive per i loro locutori e, quindi, paiono negativamente connotate. ‘Aakwo’, ‘bella’, ‘coola’, ‘blood’, ‘bok’, ‘deerie’, ‘grawadungalung’, ‘i’, ‘kukukuku’, ‘lule’, ‘araawarree’, ‘mimica’, ‘ngqeq’, ‘nupe’, ‘ok’, ‘ron’, ‘santa’, ‘tzotzil’, ‘u’ e, infine, ‘yangman’ sono tutti nomi di lingue esotiche, certamente ignote o poco note non solo all’uomo della strada ma anche agli stessi specialisti. Si tenga conto che di tali nomi ne sono stati raccolti più di ventiduemila, e tale semplice dato permette di cogliere, intuitivamente, la complessità del problema. Molte comunità linguistiche, specialmente in aree del mondo ove sono parlate lingue poco conosciute, non hanno un nome specifico per la loro lingua ma utilizzano, per definirla, espressioni del tipo ‘la nostra lingua’ o ‘il nostro popolo’: così il termine bantu, che in Africa indica una grande famiglia linguistica, significa semplicemente «popolo», esattamente come, in ambiente amerindiano centro-meridionale, il termine carib, indicatore di lingue locali, significa ugualmente «popolo». D’altro canto, sempre in ambito amerindiano, esistono lingue chiamate tapuya (ossia «nemico»), macu (ossia «tribù della foresta») e, ancora, denominazioni non propriamente amichevoli di tribù amerindiane quali chichimecatl (ossia «stirpe di cani»), chontalli (ossia «stranieri»), popoloca (ossia «barbari») sono sottese a nomi di lingue amerindiane quali il chichimeca, il chontal e il popoloca. In alcune lingue aborigene dell’Australia il nome di una lingua coincide semplicemente con il pronome dimostrativo «questo»: le nove lingue australiane della famiglia yuulnga sono dette rispettivamente ‘dhuwala’, ‘dhuwal’, ‘dhiyakuy’, ‘dhangu’, ‘dhay’yi’, ‘djangu’, ‘djinang’, ‘djining’ e ‘nhangu’ (tutte forme del pronome dimostrativo «questo»): e ciò deriva dal fatto che, quando i ricercatori chiesero ai locutori di quelle lingue quale fosse la ‘loro’ lingua, la risposta data dagli interrogati fu, invariabilmente, «questo», «noi parliamo ‘questo’». Come singole lingue possono avere, per le ragioni più diverse, nomi diversi, così pure singole popolazioni possono essere variamente denominate: per indicare una stessa popolazione si ha sempre un ‘autonimo’ (il nome con cui una popolazione chiama sé stessa) ma, accanto a esso, possono esistere numerosi ‘esonimi’ (i diversi nomi con cui altri gruppi indicano quella stessa popolazione). Il processo di proliferazione nomenclatoria può poi complicarsi ulteriormente: vecchie denominazioni (paleonimi) possono assumere connotazioni spregiative ed essere quindi abbandonate ed eventualmente sostituite da nuove denominazioni (neonimi). Non è rara anche l’eventualità in cui molti nomi di lingue risultino usati indifferentemente sia in senso stretto, riferiti cioè a una specifica lingua, sia in senso lato, riferiti a un gruppo intero di lingue: è il caso, per es., del termine kachin utilizzato in senso stretto per indicare un’importante lingua tibeto-birmana, il jingpho (lingua parlata da circa 630.000 locutori stanziati nella parte settentrionale del Myanmar e nella provincia cinese dello Yunnan); in senso medio il termine kachin è esteso anche a lingue territorialmente prossime, quali lo hkauri e lo hka-hku; in senso lato il termine kachin è utilizzato per definire il quadro linguistico proprio di parlanti altre lingue tibeto-birmane (nello specifico: le lingue di gruppi etnici quali gli Atsi-zaiwa, i Maru e i Lashi le cui lingue sono tuttavia, tipologicamente, ben distinte rispetto al jingpho). Non da ultimo va ricordato che componenti di piccoli gruppi sociali, pur avendo una propria specifica lingua, esitano talvolta a rivelare ai ricercatori (o ai responsabili di inchieste mirate al censimento della popolazione) la propria identità linguistica e, per ragioni di mero mimetismo antropologico-culturale, si definiscono locutori di una lingua ‘altra’, che appare ai loro occhi dotata di maggiore prestigio.
La nozione di ‘sistema linguistico’
In prospettiva squisitamente linguistico-generale e in relazione alla straordinaria differenziazione che caratterizza il manifestarsi – ‘in superficie’ – di lingue storico-naturali nei diversi punti linguistici del globo, non esiste ovviamente alcuna differenza formale tra varietà linguistiche utilizzate da un’ampia comunità di parlanti e varietà proprie di una ridotta comunità di locutori: quanto a struttura, tutte le varietà linguistiche, diatopicamente distribuite, sono in pari misura caratterizzate da precipui tratti, peculiari e propri dei loro livelli fonologico, morfo-sintattico, lessicale; ogni varietà linguistica è dotata ovviamente di una grammatica, di una morfo-sintassi e di un lessico capaci, potenzialmente (magari, per il lessico, attraverso un’opportuna operazione di lessicopoiesi), di assolvere i più diversi ambiti comunicativi. In termini linguistico-generali, conseguentemente, non esiste alcuna gerarchia tra le diverse lingue storico-naturali: i linguisti generali, proprio per superare questioni definitorie, tendono a utilizzare il termine sistema linguistico, nozione che non risulta connotata da valutazioni extra-linguistiche, e ad applicare tale termine sia a grandi lingue di cultura sia a varietà dialettali utilizzate entro comunità linguistiche sostanzialmente marginali dal punto di vista socio- ed economico-culturale.
Il ‘peso’ delle lingue e la loro gerarchia
Diversa è l’ottica assunta da chi ha il compito di analizzare, in prospettiva socio- e storico-linguistica, la funzione esercitata, in diversi momenti della sua vicenda storica, da un qualsiasi sistema linguistico considerato nelle sue relazioni con altri sistemi linguistici. In tale prospettiva assume un ruolo importante il ‘peso’ che singole varietà linguistiche hanno nei confronti di altre varietà linguistiche: un sistema linguistico (una lingua) dotato di un numero consistente di parlanti, di una tradizione scritta (secolare quando non, in certi casi, addirittura millenaria) e di una normazione codificata è cosa ovviamente ben diversa, in prospettiva socio- e storico-linguistica, rispetto a sistemi che, privi (spesso) di tradizione scritta, siano unicamente utilizzati all’interno di ristrette comunità di parlanti e solo per scopi comunicativi legati alla contingente quotidianità. Pertanto, quando si considera in prospettiva socio- e storico-linguistica il problema della molteplicità dei sistemi linguistici e della loro reciproca posizione, entra in gioco, e automaticamente, il ‘peso’ gerarchico dei sistemi linguistici. Ciò comporta l’adozione di specifiche categorie socio-linguistiche: ‘lingua’, ‘dialetto’, ‘varietà linguistica’, ‘bilinguismo’, ’plurilinguismo’, ‘diglossia’ e, naturalmente, la discussione relativa alla distinzione-base tra ‘lingua’ e ‘dialetto’. Tale distinzione deve, per altro, essere assunta con opportuna cautela, secondo il quadro geolinguistico ove si collocano i diversi sistemi linguistici in esame poiché tale dicotomia assume valori diversi in situazioni linguistiche diverse. A titolo di puro esempio, un ‘dialetto’ romanzo (ossia ogni singola continuazione del latino volgare in qualsiasi punto della Romània) è cosa ben diversa da un dialect di ambito anglosassone (coincidente con le varietà diatopiche della lingua nazionale), così come i ‘dialetti italiani’ (ossia le continuazioni del latino volgare nei diversi punti dell’Italo-Romània) sono cosa diversa rispetto ai ‘dialetti dell’italiano’ (ossia le realizzazioni, arealmente marcate, dell’italiano comune: in altre parole, i cosiddetti italiani regionali).
Lingue con molti locutori
Un semplice sguardo a una qualsiasi tabella elencante, in qualsiasi buon manuale di Linguistica generale, dati statistici relativi alla diffusione e al peso delle lingue del mondo mostra inequivocabilmente tre cose:
a) esiste un insieme di lingue – una ventina in tutto – caratterizzate da un numero consistente di locutori (superiore ai 100 milioni). Tra tali lingue vanno ricordate, in ordine decrescente, le seguenti ‘prime in classifica’: il cinese mandarino e l’inglese (singolarmente, con circa un miliardo di locutori, sia nativi sia non nativi); le lingue hindi e urdu (insieme, congiuntamente, con circa 900 milioni di locutori, nativi e non nativi); lo spagnolo (con circa 450 milioni di locutori, nativi e non nativi); il russo (con circa 320 milioni di locutori, nativi e non nativi); l’arabo e la lingua bengali (singolarmente, con circa 250 milioni di locutori, nativi e non nativi); il portoghese (con circa 200 milioni di locutori, nativi e non nativi); il malay-indonesiano (con circa 160 milioni di locutori, nativi e non nativi); il giapponese (con circa 145 milioni di locutori, nativi e non nativi); il francese e il tedesco (singolarmente, con circa 125 milioni di locutori, nativi e non nativi). A titolo di pura curiosità, l’italiano, con i suoi circa 63 milioni di locutori (distribuiti tra Italia, Stato della Città del Vaticano, Repubblica di San Marino, Confederazione Elvetica, nei Cantoni Ticino e Grigioni, così come nelle numerose comunità italofone dell’emigrazione) non è compreso tra la ventina di lingue che risultano più parlate al mondo;
b) le lingue che contano più di 100 milioni di locutori coprono complessivamente i bisogni comunicativi del 50% dell’intera popolazione mondiale;
c) le lingue che contano più di 100 milioni di locutori, in grande maggioranza, sono proprie di comunità linguistiche ‘dominanti’ dal punto di vista politico ed economico-culturale.
Lingue con pochi locutori
Contrapposto a tale limitato numero di lingue, definibili senz’altro come lingue dominanti/forti, esiste un numero enorme di lingue, parlate da pochi locutori (poche migliaia quando non, talvolta, poche centinaia o poche decine di individui). Quando si diano tali circostanze si ha a che fare, generalmente e (assai) probabilmente, con ‘lingue in via di estinzione’, con lingue caratterizzate, cioè, da un più o meno marcato processo di obsolescenza linguistica: fenomeno in base al quale quelle lingue, cessando di essere attivamente usate, vengono abbandonate dai loro parlanti nativi a favore di un’altra lingua. Sinonimi di ‘obsolescenza linguistica’ sono ‘decadenza, declino, regressione, perdita di lingua’: tutti questi termini si riferiscono alla situazione in cui una lingua, fino a un certo momento storico usata normalmente all’interno di una comunità linguistica, perde una consistente parte delle sue funzioni tradizionali e, da condizioni di ‘fortuna’ linguistica, passa a una situazione di ‘sventura’ linguistica. Va da sé che fattori di natura strettamente extra-linguistica incidono sul destino e sulla fortuna delle lingue. Inoltre, è doveroso fare notare che, a livello mondiale, il potere economico, politico, così come quello socioculturale è concentrato nelle mani di parlanti le lingue più diffuse mentre, di contro, le molte migliaia di lingue a rischio di estinzione sono proprie di comunità linguistiche caratterizzate da un tessuto socioeconomico e culturale intrinsecamente debole quando non, di fatto, del tutto marginale.
Lo stato di salute di una lingua
Le lingue, quindi – proprio come qualsiasi organismo vivente –, godono di salute diversa e, per diagnosticarne lo stato di ‘benessere’, può essere utile tenere conto, sinteticamente, di una serie di parametri elencati di seguito secondo un ordine che non va inteso né come tassativo né come consequenziale:
a) trasmissione intergenerazionale: lo stato di salute di una lingua è solido quando gli adulti della comunità linguistica che la utilizzano sentono l’obbligo morale di trasmetterla alle giovani generazioni;
b) numero assoluto dei locutori: una lingua gode di buona salute quando essa è strumento di comunicazione corrente all’interno di una comunità linguistica numericamente consistente e tale, inoltre, da essere in condizioni di rapporto proporzionalmente favorevole rispetto al totale della popolazione dell’area ove tale lingua è parlata;
c) ampiezza dei domini sociolinguistici d’uso: lo stato di salute di una lingua è definibile buono quando i suoi locutori la utilizzano, oltre che come strumento di comunicazione corrente in ambito informale/quotidiano, anche quale mezzo atto a mediare contenuti alti, diversificati, settorialmente specifici (la lingua in questione è usata, per es., negli ambiti amministrativo, scientifico ecc.) e culturalmente sofisticati;
d) possibilità d’uso in nuovi domini sociolinguistici e nei media: lo stato di salute di una lingua si misura anche alla luce della capacità che essa ha di essere utilizzata efficacemente in domini sociolinguistici nuovi rispetto a quelli già sperimentati e, non da ultimo, quando essa è in grado di valere quale strumento capace di rispondere alle esigenze, mutevoli e non immediatamente prevedibili, sollecitate dalla comunicazione mediatica;
e) presenza di un sistema di scrittura riconosciuto: la fissazione grafematica di un sistema linguistico è strumento fondamentale per il processo della sua normazione/standardizzazione. Tanto più una lingua gode di una consolidata tradizione scritta, basata su una norma stabile, valida per i più diversi scopi comunicativi e utilizzata in ampi domini sociolinguistici, tanto migliore sarà il suo stato di salute;
f) presenza di strumenti pedagogicamente mirati a programmi di alfabetizzazione e all’insegnamento della lingua: il buono stato di salute di una lingua si misura anche alla luce della ricchezza di materiali didattici finalizzati al suo insegnamento, in vista di diversi obiettivi formativi (dalla prima alfabetizzazione ai livelli più alti dell’istruzione);
g) supporto di politiche linguistiche efficaci: una lingua può essere considerata in un buono stato di salute quando essa sia sostenuta da politiche linguistiche efficaci, promosse sia da governi sia da altre istituzioni (non ultime, le centrali di diffusione di ‘credi’ ideologici o religiosi);
h) atteggiamento dei componenti delle comunità linguistiche nei confronti della loro lingua: nulla può meglio valere quale indicatore del buono stato di salute di una lingua quanto l’atteggiamento dei suoi locutori nei confronti della lingua stessa: quando essa, cioè, sia sentita e intesa quale fattore fondante l’identità del gruppo di cui essa è espressione.
Va inoltre tenuto presente che il mero dato numerico relativo ai locutori di una lingua è fattore meno significativo rispetto alle classi di età proprie dei diversi segmenti generazionali in cui si articola la comunità ove tale lingua è parlata. Indicativo, a questo proposito, è il caso del bretone (Swiggers 2007): all’inizio del 21° sec. il bretone conta circa 500.000 locutori distribuiti in classi di età superiori ai 50 anni (cinquantenni, sessantenni, settantenni ecc.), mentre il numero dei parlanti il bretone che hanno meno di 25 anni è limitato alla soglia delle due migliaia. Conseguentemente è assai probabile che il bretone scompaia nei prossimi cinquant’anni. Situazione analoga si registra attualmente in merito ad alcune lingue indonesiane (Hajek 2006): anche in questo caso, molte sono le persone che le parlano (circa due milioni di indonesiani) ma l’età di questi locutori è avanzata e, cosa assai rilevante per le sorti di tali lingue, i loro locutori anziani non sentono il bisogno di trasmettere ai giovani il proprio patrimonio linguistico. Diametralmente opposto è il caso della lingua hawaiana: è vero che attualmente essa conta soltanto un migliaio di locutori (poca cosa, apparentemente, per la fortuna di una lingua), ma, dotata – com’è – di una norma ormai ben stabilizzata, essa è utilizzata nell’arcipelago delle Hawaii quale lingua dell’istruzione, dalla scuola per l’infanzia fino ai gradi più alti dell’istruzione (la stessa Hawaii university ha un ottimo programma di studi hawaiani, per altro particolarmente centrato proprio sul recupero della lingua locale) ed è, quindi, definibile come lingua in buona salute. L’esperienza hawaiana è stata ripresa del resto anche in Nuova Zelanda nel tentativo di rivitalizzare la lingua maori, già fortemente aggredita nel corso di tutto il 20° sec. dall’inglese coloniale, con competenza sia attiva sia passiva, presso la comunità Maori formata da circa 310.000 individui (Wurm 1991).
Situazione attuale
Parametri diagnostici
Dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, nell’arco temporale di soli sei decenni, si è assistito (e si assiste) a un accelerato processo di riduzione delle lingue autoctone, parlate dalle popolazioni locali, in particolare nelle tre Americhe e in Australia; meno vistoso, invece, tale processo è stato (ed è) – per una serie di ragioni cui si farà cenno nel paragrafo dedicato alle lingue a rischio di estinzione nelle macro-aree del mondo – in Europa, in Africa e in Asia. I parametri che permettono di riconoscere la fragilità di un sistema linguistico possono essere desunti, a contrario, dall’elenco dei parametri diagnostici che sono stati in precedenza segnalati quali indicatori della buona salute di un sistema linguistico. Di conseguenza, una lingua può essere considerata a rischio di estinzione quando:
a) gli adulti della comunità linguistica di cui è espressione non sentono la necessità (morale e/o materiale) di trasmettere la loro lingua alle giovani generazioni, ma, piuttosto, tendono a promuovere nell’ambito della comunicazione linguistica una lingua ‘altra’, sentita come strumento di maggiore prestigio. Ciò può avvenire quando nel territorio ove la lingua è parlata siano presenti – e con essa in competizione – lingue ‘altre’ utilizzate preferibilmente al fine di esprimere contenuti propri appartenenti a diversificati ambiti sociolinguistici;
b) risulta caratterizzata da un numero ridotto di locutori, sia in senso assoluto sia in relazione al numero complessivo di gruppi sociali che vivono nell’area ove tale lingua è parlata. La condizione di debolezza di una lingua è accentuata in particolare quando i suoi locutori, oltre a essere numericamente ridotti, siano prevalentemente adulti o anziani;
c) è utilizzata in ambiti e domini sociolinguistici limitati: per es., solo o prevalentemente quale mezzo di comunicazione entro il gruppo familiare o nelle interazioni quotidiane di carattere informale;
d) non ne viene promosso l’uso entro nuovi, ulteriori ambiti e domini sociolinguistici;
e) non è caratterizzata e rafforzata dalla presenza di un sistema grafematico ufficialmente riconosciuto, rispondente a un modello normato della lingua. Conseguentemente, debole, sporadico e, quindi marginale, è l’utilizzo di tale lingua nella sua forma scritta;
f) non è supportata da un sistema pedagogico che ne favorisca l’insegnamento e l’utilizzo all’interno di diversi ambiti formativi: dalla prima alfabetizzazione ai livelli più alti dell’istruzione;
g) non è tutelata da politiche linguistiche adeguate, promosse da centrali, istituzionalmente autorevoli: governi, accademie, centri di diffusione di ‘credi’ ideologici o religiosi ecc.;
h) il territorio ove la lingua è parlata è segnato da consistenti fenomeni migratori di popolazione da aree rurali verso spazi urbani. Tali fenomeni, interessando generalmente soprattutto le giovani generazioni, indeboliscono il tessuto sociale dell’area ove la lingua è parlata e, conseguentemente, rendono fragile anche il senso di appartenenza e di identità all’interno del gruppo dei suoi locutori.
Quando si hanno conflitti tra sistemi linguistici co-presenti in un territorio, si creano normalmente situazioni instabili di bi-/multi-linguismo che, nel giro di una o due generazioni, possono avere come risultato la scomparsa di una lingua ‘debole’ e, quindi, possono determinare il fenomeno definito dai linguisti come morte di lingua. Con tale termine si indica il punto finale del (di norma, relativamente) lento processo di obsolescenza di un sistema linguistico, anche se in alcuni casi – come si dirà oltre – tale processo può verificarsi in tempi rapidissimi. Il termine morte di lingua si riferisce pertanto a situazioni in cui una lingua non è più usata come mezzo di comunicazione all’interno di una comunità (Crystal 2000; Hagège 2000; Nettle, Romaine 2000; Language diversity endangered, 2007). Per ragioni diverse, gli adulti (e, più in particolare, i genitori) non insegnano più la lingua ai bambini; talvolta – come nel caso delle lingue amerindiane, soprattutto nell’America Settentrionale – il processo che ha portato molte lingue a morire è stato il frutto di una decisione volontaria. Valga il ricordare che, nei primi tempi del contatto tra indiani d’America ed europei, molti autoctoni amerindiani furono separati dal loro gruppo linguistico e obbligati spesso a vivere nelle ‘riserve’, a stare cioè in veri e propri ghetti posti anche a centinaia di miglia lontani dai loro territori originari. Ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso, moltissimi bambini amerindiani venivano allontanati dalle loro famiglie e inseriti nelle cosiddette boarding schools allo scopo di ‘socializzare’. Si sa che, in quelle scuole, i piccoli amerindiani erano regolarmente puniti qualora avessero usato la loro lingua madre ed è ugualmente noto che molti genitori parlanti varietà amerindiane tendevano a celare la loro lingua nella speranza di poter tenere i loro figli con sé. Per riportare un significativo esempio dell’esito di simili aberranti politiche sociolinguistiche, risulta ndicativo il fatto che negli Stati Uniti d’America, ai tempi della boarding-school-policy, la percentuale di bambini cherokee (già) bilingui (cherokee/inglese) precipitò dal 75% al 5%, con la conseguenza che il 70% dei piccoli della etnia Cherokee, una volta persa la competenza della loro lingua madre, divenne progressivamente ed esclusivamente anglofono.
I prodromi della ricerca
L’interesse sistematico degli ambienti scientifici per le sorti delle lingue a rischio di estinzione è cosa relativamente recente: si deve infatti a linguisti quali Kenneth L. Hale, Michael Krauss, Akira Yamamoto e Colette Grinevald, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, l’avere posto per primi la questione delle lingue a rischio di estinzione intesa nella sua complessità, quale problema sia scientifico sia politico-culturale e, più ampiamente, civile. Importanti contributi – sia di taglio specialistico sia, più ampiamente, nell’ambito di una efficace opera di divulgazione rivolta al grande pubblico – sono stati offerti da un altro manipolo di studiosi quali, tra gli altri, David Crystal, Daniel Nettle, Suzanne Romaine, Leonore Grenoble, Lindsay Whaley e Andrew Dalby. M. Krauss, in termini radicali e in un saggio seminale apparso nel 1992 (The world’s languages in crisis, «Language», 1992, 68, 1, pp. 6-10), pronosticava che nel corso del 21° secolo il 90% delle lingue del mondo sarebbe scomparso. Più recentemente, Raymond G. Gordon Jr (Ethnologue, 200515) ha previsto che la percentuale di lingue destinate a sparire nei prossimi cento anni potrà raggiungere comunque il 50% e che, quindi, in termini numerici, nel corso del 21° sec., più di 3000 lingue cesseranno di essere usate: in termini di dinamiche linguistiche, si è di fronte a uno scenario completamente nuovo, senza precedenti nell’intera storia dell’umanità e della sua evoluzione (Swiggers 2007).
L’importanza del mantenimento della diversità linguistica
L’estinzione di una lingua ha come conseguenza diretta la riduzione della diversità linguistica. Se è vero che uno dei principali obiettivi delle scienze del linguaggio è definire ciò che è invariabile entro i sub-sistemi – fonologici, morfologici, sintattici – delle singole lingue storico-naturali, in modo da poter fondare i parametri essenziali di una ‘grammatica universale’ (The world atlas of languages structures, 2005), è evidente che la riduzione della diversità linguistica limita profondamente tale obiettivo. Ciò che i linguisti conoscono delle lingue del mondo è, allo stato attuale, ancora davvero poca cosa: di fatto, soltanto la punta dell’iceberg della straordinaria complessità attraverso la quale si manifestano ‘in superficie’ le lingue storico-naturali. Il quadro della diversità linguistica, assolutamente indispensabile per la ricerca sia tipologica sia neurolinguistica e linguistico-acquisizionale, appare allo stato attuale della ricerca ancora insoddisfacente, basato com’è soltanto su dati tratti da lingue note in quanto dotate (in qualche modo) di una tradizione scritta (Language diversity endangered, 2007). È evidente però che teorizzazioni che vogliano essere credibili in merito al funzionamento generale delle lingue del mondo e ai principi che vi sono sottesi richiedono l’esame di dati tratti da un numero di lingue quanto più possibile ampio: solo la raccolta di dati sistematici provenienti da lingue le più disparate, infatti, può permettere ai linguisti – necessariamente operanti insieme a studiosi di altre discipline – di dare risposte concrete a tre essenziali, interconnessi nodi problematici: a) quali sono i meccanismi sottesi all’organizzazione delle lingue storico-naturali; b) quali sono i processi neurobiologici propri della capacità segnica mediata per il tramite delle lingue storico-naturali; c) quale è l’origine stessa della capacità del linguaggio e delle lingue storico-naturali. Teorizzazioni scientifiche che siano costruite sulla base di dati tratti esclusivamente (o prevalentemente) da lingue dotate di tradizione scritta, fissata da una norma e che non tengano conto della diversità linguistica, così come essa si manifesta in lingue esotiche, sono in rebus insoddisfacenti. Un atteggiamento euristico del genere, intrinsecamente limitato in quanto non interessato a prendere in considerazione lingue esotiche, è paragonabile all’eventuale (e certamente bizzarro, ascientifico) atteggiamento di uno studioso di botanica che voglia, unicamente basandosi sulle caratteristiche formali di fiori e di altri vegetali fatti crescere in serre riparate, compiere generalizzazioni che siano valide per il complesso di tutte le forme botaniche. In altri termini, nessuna lingua è ‘troppo piccola’ per non essere oggetto di protezione e di studio: per il linguista tutte le lingue hanno pari dignità quali terreni d’indagine e, programmaticamente, tutte le lingue sono degne di tutela, di rispetto, di studio.
Fattori che determinano la scomparsa di lingue
Vita artificiale di alcune lingue
Delle lingue esistite nel mondo alcune godono ancora oggi di una sorta di pseudovita, utilizzate come sono in ambiti fortemente ristretti, prevalentemente connessi con pratiche religiose: è la situazione attuale in cui versano, per es., il sanscrito (ancora oggi utilizzato nel subcontinente indiano all’interno di ambienti brahmanici), il latino, il greco ecclesiastico, lo slavo ecclesiastico, il copto, il ge’ez (sistemi linguistici ancora oggi tutti utilizzati, rispettivamente, come lingue ufficiali di diverse confessioni cristiane: la cattolico-romana, la greco-ortodossa, la slavo-ortodossa, la copto-egiziana, l’etiopico-cristiana). Molte lingue usate in passato hanno avuto un ruolo enorme in diversi segmenti temporali e all’interno di spazi linguistici spesso assai ampi: è il caso di lingue quali l’antico egiziano, l’elamita, il sumero, l’etrusco, il gotico, l’ittito e, tra le altre, ancora, l’antico prussiano. Molte delle lingue usate in passato sono giunte a noi in modo frammentario, attestate, come sono, per il tramite di testimonianze scritte asistematiche o semplicemente cursorie, redatte da chi, in tempi spesso remotissimi, di quelle singole lingue faceva uso. La grande maggioranza delle lingue del passato sono scomparse tuttavia senza lasciare alcuna traccia; di molte si conoscono a mala pena i nomi, tramandati da fonti storiche o documentarie; di molte si sono persi persino i nomi. Attualmente, in una fase socioculturale caratterizzata da fenomeni di globalizzazione su scala planetaria e di accelerazione delle dinamiche comunicative, il processo di disgregazione delle comunità più fragili appare ancora più rapido, con conseguenze importanti anche sull’assetto linguistico delle comunità che da tale processo sono toccate. La stragrande maggioranza delle lingue del mondo è investita, all’inizio del 21° sec., da una vera e propria ‘tempesta’ devastatrice i cui venti impetuosi sono rappresentati proprio dall’azione delle lingue dotate di maggior forza: la conseguenza immediata è un processo accelerato di fragilizzazione delle comunità linguistiche meno strutturate. Tale deplorevole condizione appare determinata da una serie di fattori che, di seguito, ancorché in forma sintetica, pare opportuno richiamare: si tratta di elementi ampiamente interconnessi e relativi a questioni tipicamente extra-linguistiche quali sono, appunto, le dinamiche demografiche interessanti la vicenda dei gruppi sociali, l’insieme dei problemi rientranti nella nozione (molto articolata) di ‘ecologia linguistica’, i fattori economici sottesi alla vita dei gruppi sociali e, infine, ultimi nell’elencazione ma non certamente ultimi per importanza, i fattori culturali che risultano sottesi alle vicende dei singoli gruppi sociali.
Condizioni demografiche. Fattore primario di scomparsa di lingue è stato in passato (ed è ancora) il decrescere del numero dei loro locutori. Le cause possono essere varie: conseguenze di atti violenti (guerre, genocidi, pulizie etniche), di epidemie o di catastrofi naturali come carestie o alluvioni (Grimes 2001; Enfield 2005). Ma anche l’azione dell’uomo ha un peso nel processo di morte di lingue: intere comunità linguistiche sono state cancellate dalla faccia della Terra in conseguenza delle malattie diffuse dai ‘colonizzatori’ europei a danno di popolazioni indigene in varie parti del mondo in occasione dei primi contatti tra i nuovi (prepotentemente) arrivati dall’Europa e le popolazioni locali. Ulteriori cause di scomparsa di lingue sono state le migrazioni volontarie o le deportazioni di singoli gruppi sociali, come è avvenuto durante tutto il 20° sec. nel caso di numerosi gruppi indigeni in Africa, Asia e nelle tre Americhe. La fuga dalle zone rurali verso grandi centri urbani è attualmente una delle grandi cause di messa a rischio di lingue. Il fenomeno interessa tutti i continenti extra-europei, ma in particolare l’Asia e l’Africa. Per quello che riguarda l’Africa, per es., molte capitali di quel continente fungono da potenti attrattori per masse consistenti di popolazione rurale che, stanziate nella nuova dimensione urbana, abbandonano le loro lingue tradizionali a favore della lingua delle capitali. Pochi anni di residenza a Daar es Salaam o a Dakar – è stato dimostrato – possono essere sufficienti perché gruppi immigrati nelle due città da zone rurali dei relativi Paesi abbandonino completamente le loro lingue a favore rispettivamente del kiswahili e del wolof.
Condizioni di ecologia linguistica. Esattamente come avviene quando entro l’assetto ecologico di un territorio si inseriscono specie animali o vegetali a esso estranee, foriere di effetti devastanti su fauna e su flora locali incapaci di reggere l’urto di nuove specie pericolosamente aggressive, allo stesso modo, nel caso dell’assetto linguistico di un territorio, lingue indigene, intrinsecamente poco competitive in quanto strumenti di comunicazione all’interno di comunità numericamente limitate e socialmente marginali, possono scomparire per l’intrusione di lingue ‘altre’ (regionali, coloniali), che appaiono veicolo di realtà e di valori sentiti come ‘superiori’. I sistemi linguistici condividono, da questo punto di vista, molte cose con gli ecosistemi e, esattamente come questi, anche i sistemi linguistici vanno opportunamente tutelati nei confronti di elementi invasivi: la progressiva cancellazione di lingue indigene in varie parti del mondo è stata (ed è ancora) determinata soprattutto dalla mancanza di norme di tutela ecolinguistica.
Condizioni economiche. Le dinamiche economiche proprie di un territorio possono causare forti mutamenti anche negli assetti linguistici e, conseguentemente, possono determinare i destini di intere comunità linguistiche: in situazioni caratterizzate dalla presenza di gruppi sociali e linguistici economicamente squilibrati è frequente il caso che i componenti di gruppi sociali e linguistici economicamente meno avvantaggiati tendano a volere acquisire e a utilizzare, sentendola come più prestigiosa, la lingua del gruppo sociale economicamente più solido. Tale situazione, caratterizzata da un programmatico deprezzamento di singole lingue-madri da parte dei loro stessi locutori, ha toccato (e tocca) molte lingue indigene dell’Australia, in posizione di totale sottomissione rispetto all’espansione dell’inglese; simile è stata (ed è) la vicenda di molte lingue delle minoranze etniche di grandi realtà sovrannazionali quale è stata, per es., l’ex Unione Sovietica (e quale è la sua erede, la Confederazione degli Stati Indipendenti) e quale è, ancora oggi, la Repubblica Popolare Cinese. Anche se, formalmente, le due compagini statali in questione hanno incoraggiato e continuano a incoraggiare il mantenimento di lingue delle minoranze etniche presenti nei territori di loro competenza, la forza delle cose ha determinato/determina in quei territori l’espansione, rispettivamente, del russo e del cinese mandarino, veicoli dei valori irradiati dai rispettivi grandi centri del potere economico-politico – Mosca e Pechino, nell’ordine –, e la retrocessione delle lingue delle minoranze etnico-linguistiche. Più rara è la situazione inversa, quella cioè in cui l’influenza economica esercitata da comunità linguistiche ‘forti’ nei confronti di comunità linguistiche ‘deboli’ non abbia determinato/determini la riduzione d’uso o, addirittura, la scomparsa di lingue ‘deboli’. Tipici sono, a questo proposito, i casi dello swahili nell’Africa Orientale e del malay in Indonesia: swahili e malay, pur adottate come lingue nazionali rispettivamente in Tanzania e in Indonesia, non hanno comunque fatto regredire lingue meno prestigiose diffuse nelle due menzionate realtà politico-amministrative; anzi, proprio in tali realtà, vanno attualmente via via solidificandosi forme di forte e funzionale bilinguismo, condizione ritenuta indispensabile dai componenti di diverse comunità linguistiche (co-)presenti in quelle aree. Un altro caso, sostanzialmente simile, è quello del tok-pisin (pidgin della Nuova Guinea) il cui uso, meramente strumentale da parte dei componenti delle comunità linguistiche della Nuova Guinea, non ha in effetti mai messo (né mette attualmente) in seria discussione la grande vitalità delle lingue locali.
Condizioni culturali. Strettamente legati all’influenza delle dinamiche economiche sui destini delle lingue sono i connessi e conseguenti fattori culturali. Nel caso di forte squilibrio tra i ‘pesi’ di lingue diverse – diverse per tradizione, per prestigio culturale, religioso e, oggi, anche ‘tecnologico’ – la lingua più ‘forte’ esercita vistose pressioni sui parlanti lingue più ‘deboli’. Normalmente i parlanti una lingua ‘debole’ tendono ad adottare massicciamente una lingua ‘forte’ determinando o la scomparsa della lingua ‘debole’ o la sua progressiva trasformazione/semplificazione strutturale fino ad arrivare a forme di pidginizzazione (e, eventualmente, di creolizzazione). Per riferire un caso paradigmatico (non connesso con lingue esotiche) e ben noto nella storia delle lingue europee, nell’Europa del 18° sec. il prestigio culturale della lingua francese era talmente alto che la lingua delle élites parigine era considerata ‘la’ lingua per eccellenza della cultura e delle classi al potere in tutta Europa: a tal punto che un grande sovrano, Federico di Prussia, si vantava di avere dimenticato l’antico prussiano, sua lingua madre, e di averlo sostituito con il francese. Spostando l’attenzione su altre situazioni caratterizzate da forti squilibri tra lingue – squilibri determinati da complessi intrecci economico-politico-culturali – simile è il quadro che ha determinato in passato (e che pur attualmente determina) la scomparsa di molte lingue aborigene dell’Australia e delle tre Americhe e, in Giappone, la progressiva riduzione dell’uso dello ainu, la lingua della popolazione indigena dello Hokkaidō. Quando il processo di cancellazione della lingua ‘debole’ non giunge all’estremo grado e quindi, in un qualche modo, la lingua ‘debole’ resiste alla pressione della lingua ‘forte’, non è raro osservare tuttavia che la lingua ‘debole’ viene relegata a ruoli inferiori o appare limitata ad alcune funzioni speciali. Molte lingue delle minoranze etniche della ex Unione Sovietica e della Cina, per es., sopravvivono attualmente quali mere lingue della comunicazione domestica o folklorica: nell’area dell’ex Unione Sovietica, questo è oggi il caso, per es., di due lingue ugriche (il khanti-ostiaco e il mansi-vogulo) e di due lingue tunguse (il nanai-goldi e lo udege), nonché di alcune lingue paleo-siberiane, quale, per es., lo itelmen-khamchadal e altre ancora. In Cina, del tutto simile è il caso della lingua she (appartenente al gruppo miao-yao) e di molte lingue tibeto-birmane, quale, per es., il tujia, e di una lingua austro-tai (del gruppo daic), il gelao; a Taiwan, simile è il caso di molte lingue austronesiane. Il rapporto di forza e l’esito della pressione culturale di una lingua ‘forte’ nei confronti di altre lingue si manifesta in modo particolare nella sfera del lessico. Non è un caso che l’arabo – veicolo della diffusione dell’Islam e strumento essenziale della conversione all’Islam delle popolazioni sottoposte alle conquiste arabo-islamiche – abbia profondamente permeato, in Asia, il patrimonio lessicale del persiano, del turco e di buona parte delle lingue turciche dell’Asia centrale e, in Africa, il tesoro lessicale di lingue quali il somalo e lo swahili. La cultura arabo-persiana ha poi enormemente contribuito alla formazione del lessico (sia colto sia popolare) della lingua hindi a tal punto da aver dato origine a un’altra lingua, l’urdu, strutturalmente simile alla lingua hindi (entrambe sono lingue pracrite/neoindiane, derivate quindi dal sanscrito) ma nettamente differenziata da quest’ultima proprio in forza della presenza di peculiari lessemi di origine arabo-persiana. Del resto lo stesso sanscrito e i pracriti da esso derivati, in quanto strumenti della diffusione dello hinduismo e del buddhismo, hanno contribuito alla formazione del lessico colto delle lingue delle popolazioni via via sottoposte al processo di diffusione delle menzionate due religioni: come ben testimoniano i lessici del tibetano, del thai e, in misura minore, del giavanese antico.
Fenomeni di erosione linguistica. La pressione di una lingua culturalmente ‘forte’ su lingue ‘deboli’ determina fatalmente un processo di erosione del patrimonio linguistico e cognitivo-culturale proprio della lingua ‘debole’. È, questo, un altro aspetto del già menzionato processo di ‘obsolescenza linguistica’, che comporta, nella struttura di sistemi linguistici, riduzione o perdita di tratti relativi ai livelli fonologico, morfosintattico, lessicale. Il contatto tra lingue gerarchicamente distinte e l’azione di una lingua dominante su una lingua dominata accelerano il formarsi, in quest’ultima, di fenomeni di ibridazione, di alternanze formali, di ipercorrettismi. I processi ricorrenti in situazioni di ‘obsolescenza linguistica’ sono: a) riduzione di opposizioni contrastive; b) perdita di regole e di principi generali; c) sovrageneralizzazione e/o sottogeneralizzazione di tratti (e di regole); d) libere alternanze e contaminazioni; e) tendenza a perdere strutture composte a favore di strutture analitiche; f) perdita di distinzioni semantiche e riduzione della polisemia; g) perdita di lessico nativo, sostituito da prestiti tratti da altre lingue. Interessanti osservazioni sono state compiute, a questo proposito, su fenomeni riguardanti il piano morfosintattico di lingue in via di estensione (Aikhenvald 2000). A livello stilistico-funzionale, il processo di obsolescenza di un sistema linguistico appare poi in modo marcato nella riduzione funzionale dei registri (o degli stili) espressivi, nella pervasività dei fenomeni di alternanza di codice e di contaminazione dovuta a un non equilibrato contatto tra lingue. Non è poi raro il caso che, per imitazione di modelli culturali mediati dalla lingua più aggressiva, la lingua ‘debole’ perda elementi salienti della propria tradizione. Singolare, a questo proposito, è il caso di molte lingue papua, lingue indigene del Papua-Nuova Guinea: tali lingue possedevano – stando a preziose descrizioni effettuate a metà degli anni Venti del Novecento – un sistema assai articolato di classi nominali, esito di peculiari visioni del mondo e di specifici modelli culturali; in particolare, il buna, lingua parlata nella parte settentrionale dell’odierna provincia Sepik Orientale del Papua-Nuova Guinea, prevedeva ben dodici classi nominali, marcate da interessanti fenomeni di accordo. Il contatto tra il buna e lingue papua ‘forti’ ha determinato la progressiva erosione e, poi, la sparizione di tali classi nominali e dei relativi sistemi di accordo così che, oggi, a distanza di quasi un secolo dai primi rilevamenti, nessun parlante il buna conserva memoria di tali classi nominali e del loro valore classificatorio. Uguale sorte è toccata, sempre nell’ambito di altre lingue papua, a sistemi di calcolo di esse peculiari, basati sul coinvolgimento di parti del corpo del locutore (dita, unghie, gomiti, mani, spalle, gambe, con più di 37 posizioni consecutive di computo e con i numerali di tali lingue derivati dalle rispettive parti del corpo coinvolte nell’azione del numerare/calcolare). A causa della diffusione e della progressiva adozione del sistema di calcolo astratto/decimale, proprio dell’inglese e del tok-pisin, alcune lingue papua hanno attualmente perso il sistema di computo tradizionale. In altro ambito linguistico si è registrato un ulteriore, interessante esempio di sostituzione di categorie linguistiche culturalmente determinate: nel khalkha, lingua del gruppo mongolo parlata nell’ex Unione Sovietica, esistevano tradizionalmente molte forme imperativali, variamente articolate – dall’ordine più rozzo all’invito più educato – secondo specifiche norme pragma- e sociolinguistiche. Attualmente, a causa del ruolo modellizzatore del russo, lingua ‘forte’, nel khalkha sono attestate solo due forme imperativali, costruite esattamente secondo lo schema della duplice categoria dell’imperativo russo.
Lingue a rischio di estinzione nelle macro-aree del mondo
L’importante silloge curata da Robert H. Robins ed Eugenius M. Uhlenbeck, Endangered languages (1991), uscita sotto gli auspici dell’UNESCO, è da considerarsi, per la ricchezza e l’affidabilità dei materiali ivi raccolti, imprescindibile punto d’avvio della ricerca e della documentazione intorno al quadro mondiale delle lingue in via di estinzione. L’UNESCO ha promosso inoltre la pubblicazione di due importanti strumenti di lavoro: l’Atlas of the world’s languages in danger of disappearing (apparso una prima volta nel 1996; ripubblicato nel 2001; dal 2005 ne esiste anche una versione on-line, avviatasi con la cartografazione delle lingue dell’Africa), e lo UNESCO red book on endangered languages, costantemente aggiornato anche grazie alla collaborazione della Tokyo international clearing house for endagered languages. Informazioni affidabili intorno al quadro delle lingue in via di estinzione sono rintracciabili nella recentissima silloge curata da Peter K. Austin e Andrew Simpson (2007). Importante fonte di notizie su lingue a rischio di estinzione è anche l’archivio di The linguist list, con sede presso la Eastern Michigan university e la Wayne state university (http://listserv.linguistlist.org/archives/ endangered-languages-l.html, 18 maggio 2009), uno dei più significativi luoghi di incontro telematico per chi si occupa di questioni linguistiche. Il grado di ‘criticità’ e della situazione di rischio cui sono sottoposte all’inizio del 21° sec. molte lingue del mondo è stato discusso anche nell’ambito di numerosi incontri scientifici. Tra le iniziative più significative si ricordano in questa sede le seguenti: il Colloquium on language endangerment. Research and documentation: setting priorities for the 21st century, svoltosi in Germania, a Bad Godesberg, nel 2000; la Kyoto conference on endangered languages, svoltasi a Kyoto sempre nel 2000; l’Experts meeting on safeguarding endangered languages, svoltosi nel 2003 a Parigi, sotto gli auspici dell’UNESCO; la 2th International conference on language development, language revitalization, and multilingual education in ethnolinguistic communities, svoltasi dal 1° al 3 luglio 2008 a Bangkok. Particolarmente meritoria quale fonte di iniziative di ricerca mirate alla documentazione e alla tutela delle lingue a rischio di estinzione è l’attività del Summer institute of linguistics (SIL) con sede a Dallas. Data la nota aleatorietà relativa alla attribuzione dello statuto di ‘lingua’ a moltissimi sistemi linguistici, si fa qui riferimento, in merito al quadro delle lingue in via di estinzione, ai dati di ordine statistico e documentale registrati da Ethnologue (200515): delle 6912 lingue ivi citate, 516 sono classificate come ‘quasi estinte’: di queste, 12 lingue sono in Europa, 46 in Africa, 78 in Asia, 170 nelle tre Americhe e, infine, 210 sono distribuite tra l’Australia e il vasto spazio dell’Oceano Pacifico. Di seguito, essendo ovviamente impossibile in questa sede trattare la situazione delle singole lingue a rischio di estinzione a livello mondiale, pare ragionevolmente utile richiamare l’attenzione del lettore su alcune situazioni specifiche, scelte per determinate caratteristiche tra le tante attestate nei diversi continenti.
Europa
In Europa, ove generalmente alta è la sensibilità per le tematiche linguistiche, anche da parte di singoli governi e istituzioni – si pensi che lo stesso Consiglio d’Europa ha, tra l’altro, varato una Carta europea per le lingue regionali e minoritarie, non ancora però ratificata da alcuni Paesi (Swiggers 2007) –, lingue a rischio di estinzione sono ritenute, alla soglia del 21° sec., lo slesiano (parlato da comunità distribuite tra la Repubblica Ceca, la Germania e la Polonia), il romanī (parlato da comunità di zingari in Grecia), il saami (parlato da comunità distribuite tra Norvegia, Russia, Svezia), il livone (parlato in Lettonia e Lituania) e il karaim (parlato in Lituania). Si tratta, nel caso delle lingue sopra menzionate, di sistemi linguistici utilizzati all’interno di comunità linguistiche dallo stato di salute problematico, certamente più grave di quello di altre lingue europee ugualmente considerate, da alcune fonti, come ‘lingue in pericolo’: ci si riferisce ai casi, per es., del bretone, del basco, dell’occitanico, del còrso, dell’alsaziano e del normanno, in Francia; alla situazione del basco, dell’aragonese e del leonese, in Spagna; alle vicende dell’aromeno, dell’arvanitico, dello tsakonico e del ladino/giudeo-spagnolo, in Grecia; alla condizione dell’istrorumeno, in Croazia; ai casi del franco-provenzale, del friulano, del grico, dello slavo-molisano, del giudeo-italiano, in Italia; alla situazione del cornico, del manx, del gaelico di Scozia, nel Regno Unito; alle vicende del frisone orientale e settentrionale, dell’alto e del basso sorabo, in Germania; a quelle del casciubo e del wymysorys, in Polonia; alla situazione del mordvino, dello erza, del votiaco e del moksha, in Russia; e, infine, al caso del romancio, in Svizzera.
Africa
I lavori di Matthias Brenzinger (Endangered languages in Africa, 1998) e i saggi raccolti nella silloge curata da Bernd Heine e Derek Nurse (African languages. An introduction, 2000) valgono come fonte preziosa intorno alla situazione delle lingue a rischio di estinzione nel continente africano tra la fine del 20° e l’avvio del 21° sec.: va ricordato come l’Africa (in ciò al pari dell’Asia) sia un continente in cui meno forti che altrove sono i casi di lingue a (gravissimo) rischio di estinzione. Ciò è dovuto al fatto che l’ancor sensibile grado di ruralizzazione proprio del continente vale quale efficace ‘rete’ protettiva a tutela di comunità linguistiche non ancora pienamente inserite nei meccanismi della globalizzazione (malgrado esistano – come si è accennato – aree dell’Africa segnate da un vistoso, recente processo di crescita di alcuni centri urbani e da conseguenti processi di ‘drenaggio’ di popolazione rurale verso realtà urbane). Il problema maggiore relativo alla tutela della diversità linguistica in Africa è dato generalmente dalla mancanza di documentazione affidabile in merito a molte lingue e al numero dei loro locutori: la quantità e la qualità dei dati varia sensibilmente da lingua a lingua (molte lingue sono state solo sommariamente descritte, parecchie sono documentate soltanto attraverso elenchi di parole). Il 70% delle lingue africane è parlato comunque da comunità di circa 100.000 locutori: sono quindi ancora numerose le lingue indigene africane che godono di soddisfacenti condizioni di vita malgrado che, nel corso degli ultimi duecento anni, le lingue europee – inglese, francese, portoghese e, in minor misura, olandese, tedesco, italiano – importate dagli (ex) colonizzatori si siano diffuse in ampie aree del continente. Va ricordato, comunque, che solo il 10% (o forse meno) della popolazione rurale africana ha piena competenza di una delle lingue europee importate, anche quando tali lingue siano lingue ufficiali (o co-ufficiali) di singoli Paesi. Se mai, a riprova della non totale ingerenza delle lingue dei colonizzatori sulle lingue indigene dell’Africa, sta il fatto che alcune lingue africane di minoranza sono state abbandonate e sostituite da altre lingue, pure africane, considerate comunque di maggior prestigio. In merito alla situazione linguistica dell’Africa, per quanto concerne lo stato di salute di singole lingue africane autoctone, si può prevedere la seguente tripartizione (Webb, Kembo 2000): a) lingue estinte; b) lingue in via di estinzione; c) lingue minacciate di estinzione. Difficile è però, per ragioni facilmente intuibili, tenere sempre ben distinte le lingue da collocare nel gruppo b) e c): per es., lo alagawa, lingua cuscitica della Tanzania, è, secondo le fonti, con i suoi 13.000 locutori, talvolta collocata tra le lingue del gruppo b), talvolta, addirittura, è data come estinta e inserita quindi tra le lingue del gruppo a). Spesso, poi, le fonti non specificano se i dati numerici relativi a una lingua si riferiscano ai suoi locutori o alla loro appartenenza etnica, categorie, queste, non sempre immediatamente coincidenti: così, per es., sembra che i 10.000 appartenenti alla etnia Alagawa abbiano buon dominio della sola lingua alagawa ma, stando ad altre ricerche, pare che quasi tutti gli Alagawa siano bilingui (in grado cioè di parlare correntemente sia lo alagawa sia il rangi) e che, in particolare, i bambini della etnia Alagawa tendano tra di loro a utilizzare prevalentemente il rangi. Ne consegue che l’identità culturale degli alagawa è messa progressivamente a rischio, con riflessi significativi anche sulla loro lingua. Appartengono sicuramente al gruppo a), invece, lingue quali lo ajawa (lingua chadica, parlata in una regione della Nigeria), sostituita dallo hausa, e il gafat (lingua afro-asiatica, parlata in Etiopia), sostituito completamente dallo amharico. Tra le lingue africane a forte rischio di estinzione agli albori del 21° sec., si ricordano qui: in Camerun, il dama, il luo, lo ndai, il twendi e lo zumaya; nella Repubblica Centroafricana, il bodo; nel Chad, le lingue berakou, goundo, mabire, massalat e noy; in Etiopia, il birale; in Guinea, le lingue baga-koga e baga-mboteni; in Kenya, le lingue omotico e yaaku; in Nigeria, il bete, il fali, il kiong, il kudo-camo, il labir, il njerep, lo odut e lo ziriya; in Somalia, il boon; in Sudafrica, lo nju, il tsotsitaal e lo xiri; in Tanzania, la lingua gweno.
Asia
L’Asia, al pari dell’Africa e a causa del permanere di una forte ruralizzazione di buona parte del suo territorio (i casi di forte crescita urbana interessano solo singole parti del continente: in particolare, alcune aree della Cina e dell’India), è caratterizzata da una situazione di relativa stabilità del quadro linguistico tradizionale e, quindi, da un certo qual mantenimento delle lingue autoctone. Ciò non significa, ovviamente, che non ci siano problemi. Di seguito si segnalano alcune specifiche situazioni. Particolarmente interessante è il caso dell’India dove, in base a norme costituzionali, la lingua hindi, in grafia devanagarica, è stata dichiarata lingua ufficiale dell’Unione Indiana (affiancata dall’inglese, in base all’art. 343). Un altro articolo della Costituzione indiana (art. 345) permette comunque ai singoli Stati indiani di adottare una o più lingue in alternativa all’inglese ma, fatta eccezione per le lingue bhutia, lepcha e nepali parlate nel Sikkim, per le lingue lushai/mizo parlate nei distretti di Aizwal e Lunglei nel Mizoram, per la lingua manipuri/meithei parlata nel Manipur e il nepali parlato in tre distretti del Darjeeling nel Bengala Occidentale, nessun’altra lingua ha in India un proprio statuto giuridico, con rischi evidenti per quanto concerne la sua sopravvivenza: tale è la situazione di lingue del subcontinente indiano quali il khamyang, il parenga, il ruga. In Nepal sono a rischio di estinzione il chukwa, il dumi, il lingkhim e il saam. In Afghānistān, è a rischio di estinzione la lingua tirahi. In una vasta area dell’Asia sud-orientale la situazione è ugualmente assai complessa: si hanno lingue quali il tibetano e lo khmer che, benché sottoposte a pressioni da parte di lingue ‘forti’ – rispettivamente, il cinese mandarino nei confronti del tibetano, il vietnamita nei confronti del khmer –, sono di fatto autotutelate e, quindi, destinate a sicura sopravvivenza a causa del numero consistente dei loro locutori. A rischio di estinzione sono invece, in Indonesia, tra le altre, il lengilu (lingua parlata nella regione del Kalimantan), lo amahai, lo hoti, lo hulung, il kamarian, il kayeli, il loun, il piru (lingue tutte parlate nella regione del Maluku). Nell’area papua dell’Indonesia sono a rischio di estinzione, tra le altre lingue, il bonerif, il burumakok, il kanum, il kapori, il kembra, il mapia, il mor, il tandia, lo usku e il woria. Nell’isola di Sumatra è a rischio la lingua lom. In Malesia sono a rischio di estinzione le lingue mintil e orang-kanaq; nell’area malese del Sarawak è a rischio di estinzione la lingua punan-batu. Nelle Filippine sono a rischio di estinzione, tra le altre, le lingue agta, arta, ayta e ratagnon. In Vietnam sono a rischio di estinzione le lingue arem e gelao. In Laos è a rischio di estinzione, come in Vietnam, la lingua arem. In Thailandia è a rischio di estinzione la lingua mok. A Taiwan sono a rischio di estinzione le lingue amis, babuza, kanakanabu, kavalan, saarona, thao. In Giappone è a rischio di estinzione la lingua ainu. Del tutto particolare (e in un certo senso atipico) è, infine, il caso di lingue quali lo hmong e il mien, il cui uso viene incoraggiato nelle relative comunità distribuite nelle rispettive diaspore (soprattutto negli Stati Uniti d’America), grazie all’utilizzo di materiali videoregistrati e alla crescente abitudine che gli appartenenti alle due etnie Hmong e Mien hanno di utilizzare le loro lingue, ancorché fissate mediante sistemi grafematici non ufficiali, nella corrispondenza scritta.
Le tre Americhe
Negli Stati Uniti d’America (dove sono per altro vigenti i dispositivi di due Native Languages Acts, rispettivamente del 1990 e del 1992, a tutela dei diritti linguistici dei nativi – Swiggers 2007 – e dove è attiva una istituzione scientifica di rilievo, l’Indigenous Language Institute, con sede a Santa Fe, New Mexico) sono comunque a forte rischio di estinzione numerose lingue parlate degli indiani autoctoni. Simile è la situazione delle lingue amerindiane in Canada. Per quanto riguarda gli Stati Uniti d’America, a rischio di estinzione sono attualmente il kiowa e il lipan, entrambe lingue di tribù Apache; poi lo arikara, il chinook, lo eyak, il kansa, il karok, il miwook, il pawnee, il quapaw, lo snohomish, il tanaina, il washo, il wichita, il wintu, lo yokuts, lo yuchi e lo yurok, tutte lingue di tribù amerindiane. Per quanto riguarda la situazione del Canada, tra le lingue amerindiane a forte rischio di estinzione, si possono ricordare lo abnaki, il bella coola, il chinook wawa, lo haida settentrionale, lo haida meridionale, il salish, il sedani, lo squamish, il tagish, il tahitan e il tuscarora.
In Messico, lingue amerindiane a rischio di estinzione sono lo chiapanec, il kiliwa, il matlatzinca, lo opata, lo zapoteco, lo zoque; in Nicaragua, a rischio di estinzione è il rama; in Guatemala, lo itza; in Onduras, il lenca; a Panama, il creolo francese di San Miguel.
In Argentina sono a rischio di estinzione lo ona, il puelche, il tehuelche, il villa. In Bolivia lingue a rischio di estinzione sono il baure, lo itonama, il leco, il pacahuara, il reyesano e lo uru. In Brasile, a forte rischio di estinzione sono, tra le altre, lo amanayé, lo arikapú, lo arutani, il guató, il karahawyana, il katawixi, il kreye, il mapidian, il matipuhy, lo omagua, il puroborá, il sikiana, il tariano, lo xetá. In Venezuela a forte rischio di estinzione sono lo arutani, il mapoyo, il sapé, il sikiana e il tirahi. In Perù, problematico è lo stato di lingue quali il cahuarano, il chamicuro, lo iquito, lo isconahua, il muniche, il resígaro e il taushiro. Nel Suriname, a rischio di estinzione sono lo akurio e il sikiana. In Ecuador, è a forte rischio di estinzione lo záparo. In Colombia, difficile è la situazione di lingue quali il cabiyarí, il tariano, il tinigua, il totoro, il tunebo. In Cile, grave rischio corrono il qawasqar, lo yahghan e lo yamana e, in Guyana, a forte rischio sono il mapidian, il mawayana e il creolo olandese.
Australia
È recente (risale al 13 febbraio del 2008) la notizia che il primo ministro australiano ha ufficialmente chiesto scusa alle popolazioni aborigene dell’Australia per le politiche che, nei poco più di due secoli della presenza di europei (britannici, in particolare) nel continente, hanno duramente danneggiato i diritti delle popolazioni indigene e delle loro lingue. Delle poco più di 200 lingue australiane aborigene documentate, soltanto meno di una ventina sembrano essere attualmente in qualche modo vitali (McConvell, Thieberger 2001). Le altre sono state cancellate o vivono penosamente nella sola memoria di locutori anziani. Agli albori del nuovo secolo numerose sono le lingue aborigene australiane a forte rischio di estinzione: si ricordano qui, tra le altre, lo adynyamathanha, lo areba, lo atampaya, il badimaya, il bayungu, il dirari, il dyaabugay, il dyirbal, lo erre, il gugubera, il gungabula, il gunya, il kamu, diverse varietà del kuku, il kunggara, il lamu-lamu, il mara, lo mbabaram, il miwa, lo ngarla, lo ngarluma, il nyngali, lo nyangga, il pakanha, il pinigura, il pitta-pitta, lo uradhi, lo wagaya, lo warluwara, diverse varietà di wik, il worora, lo yawarawarga, lo yawuru, lo yinggarda e lo yir-yoront.
Area dell’Oceano Pacifico
In Micronesia, a forte rischio di estinzione è lo nguluwan; nella Nuova Caledonia, lo zire, lo haeke, il pwapwa; in Papua-Nuova Guinea, tra le molte lingue in pericolo, si ricordano qui lo abaga, il gorovu, il gweda, il kamasa, il kawacha, il laua, il magori, il makolkol, il mawak, il sene, il susuami, il tenis, il turaka. Nelle isole Salomone, a rischio di estinzione sono, tra le altre, lo asumboa, il laghu, il tanema, il tenau, lo zazao. Nelle isole Vanuatu, a rischio di estinzione sono lo aore, lo araki, il maragus e il nasarian.
Protezione e mantenimento delle lingue in via di estinzione
Occorre distinguere tra ‘revival’ e ‘rivitalizzazione’ di lingue: con il primo termine si indica la ‘resurrezione’ di una lingua morta, con il secondo la ‘rimessa in funzione’ di una lingua in via di declino. Nella recente storia delle lingue si è dato un solo caso di reale ‘resurrezione’ di una lingua: ci si riferisce alla fortuna dell’ivrit, l’ebraico moderno, lingua ufficiale in Israele progettata ‘a tavolino’ a partire dagli anni Venti del 20° sec. sulla base dell’ebraico classico/biblico e imposta a tutti gli ebrei della diaspora che, da varie parti del mondo, hanno via via fatto (e fanno) ritorno in Israele: oggi l’ivrit conta circa 5.500.000 locutori, l’81% dei quali residenti in Israele. Altri tentativi di rivitalizzazione di sistemi linguistici si riferiscono alla ripresa e alla promozione dell’uso dell’irlandese in Irlanda; del bielorusso in Bielorussia; del provenzale e del bretone in Francia; dello yiddish in centro Europa: operazioni di tal genere hanno richiesto una vera e propria pianificazione linguistica che ha condotto, sulla base di una particolare varietà diatopica di singole lingue, alla definizione di una varietà standard arricchita da nuove voci, adatte a rendere nuovi contenuti: mediante la formazione di neologismi o la messa in circolazione di estensioni semantiche di parole già attestate o mediante la formazione di calchi (semantici o lessicali). Nei processi di rivitalizzazione di una lingua gioca un ruolo decisivo il senso di stima che i locutori mostrano nei confronti della lingua stessa: esemplare, a questo proposito, è il caso di una lingua amerindiana, il navajo, che, già in forte declino negli anni Quaranta del secolo scorso, dopo essere stato usato come lingua segreta dai Servizi segreti statunitensi nel conflitto contro i nazisti e i giapponesi, è cresciuto enormemente nella stima dei suoi locutori, tanto da essere senza alcun dubbio dichiarabile, oggi, alle soglie del 21° sec., come lingua amerindiana in buono stato di salute. Realisticamente il processo di annullamento di fenomeni definibili latamente come di ‘obsolescenza linguistica’ può avere successo in situazioni in cui si crei un più o meno stabile bilinguismo, ove, cioè, due lingue siano utilizzate più o meno paritariamente: è il caso, questo, del rapporto tra guaraní e spagnolo in Paraguay (Swiggers 2007).
Importanti e significativi sono anche i tentativi di rivitalizzazione della lingua maya in Messico e Guatemala (England 2003). Dal processo di rivitalizzazione di una lingua in via di estinzione al fare di tale lingua il simbolo di un movimento politico-culturale il passo è, comprensibilmente, breve: in Papua-Nuova Guinea, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, i movimenti indipendentisti locali trovarono nello hiri motu, una lingua in via di estinzione (parlata a mala pena da circa 200.000 persone), una potente lingua-guida della contestazione in grado di contrastare il tok-pisin, lingua comune in quell’area e parlata da più di due milioni di locutori. Analogamente, in Nuova Zelanda, la lingua maori vale, attualmente, quale forte simbolo autoidentificativo del gruppo sociale autoctono. Del tutto particolare è il processo di rivitalizzazione di lingue, ancorché in forme rudimentali, utilizzate quali lingue ‘segrete’, ossia atte a comunicare informazioni e intenzioni ‘illegali’: molte lingue aborigene dell’Australia, ritenute scomparse negli anni Cinquanta del secolo scorso, sono state ritrovate ancora vitali in anni recenti, in quanto utilizzate per scopi segreti. Identica sorte hanno avuto (e pure hanno), in Gran Bretagna, lingue quali il gallese e il gaelico. Casi analoghi sono stati registrati anche in altri luoghi, in diverse aree del mondo.
Bibliografia e webgrafia
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