ˡlingue romanze e italiano
Lingua derivata dal latino, l’italiano fa parte della famiglia romanza (detta anche, meno spesso, neolatina) insieme a francese, spagnolo, portoghese, gallego, catalano, romeno e altre minori. A causa della comune discendenza, queste lingue presentano affinità tra loro e al tempo stesso caratteri comuni col latino (➔ latino e italiano). Nel corso della storia, infatti, ogni lingua romanza s’è distanziata dal latino non meno che dalle lingue sorelle, in parte per eventi peculiari (come incontri e contatti con altre lingue), in parte a causa di fenomeni di ➔ sostrato.
In base al grado di distanziamento dal latino, tra le lingue romanze si distinguono quelle più conservative e quelle più innovative. Si può dire schematicamente (e con qualche approssimazione) che italiano e spagnolo sono le più conservative, dato che conservano numerosi tratti propriamente latini, a livello sia superficiale che profondo. A confronto, il francese è la più eccentrica e si colloca per molti aspetti al margine della famiglia (o, secondo alcuni, addirittura fuori).
Naturalmente queste attribuzioni possono subire varie sfumature, secondo i livelli di analisi considerati: il francese, per es., lontanissimo dal latino dal punto di vista fonetico e fonologico (ha l’accento sull’ultima sillaba della parola, ha vocali nasali, ecc.), lo è meno per la morfologia; l’italiano è prossimo al latino per quanto riguarda taluni aspetti della morfologia (vedi oltre), molto meno per quanto attiene alla sintassi e per talune innovazioni lessicali (vedi oltre). Per altro verso (a causa di un lessico in larga parte di origine slava), il romeno è un’altra lingua relativamente distante dal latino.
Alla stessa maniera sarebbe bene distinguere le lingue romanze secondo che siano ‘più’ o ‘meno’ romanze, cioè che contengano un alto o basso numero di tratti comuni alla famiglia intera. Taluni (per es., Posner 1996) considerano l’italiano come il migliore esponente del ‘tipo’ romanzo, ma quest’attribuzione richiede sfumature: l’italiano, se è certo una delle lingue più tipicamente romanze per alcuni versi, lo è meno per altri, come si vedrà.
Alcuni tratti distintivi sono più curiosi che significativi, ma è ugualmente utile ricordarli; per es., l’italiano:
(a) è l’unica lingua romanza ad aver estratto dal latino de due preposizioni (di e da) invece di una, come tutte le lingue sorelle: quindi solo in italiano è possibile distinguere tra libro di viaggio e libro da viaggio, tra tazza di caffè e tazza da caffè, ecc.;
(b) è la lingua romanza in cui sono più numerosi i derivati (parasintetici e no) che hanno per base il nome di una parte del corpo:
(1) a. braccio → abbracciare, imbracciare, sbracciare, sbracciarsi
b. fronte → affrontare, fronteggiare, sfrontare
c. occhio → adocchiare, inoculare
d. bocca → abboccare, imboccare, sboccare
e. testa → intestare
f. collo → accollare, decollare, incollare
g. petto → impettire
h. dito → additare, diteggiare, digitare
Ma, lasciando da parte queste caratteristiche isolate, veniamo a tratti più sistematici. In questa voce le proprietà tipologiche dell’italiano sono illustrate con particolare riferimento al francese e allo spagnolo, che sono tra l’altro le lingue romanze che con l’italiano hanno avuto storicamente maggiori contatti (altri confronti in Agard 1984; Harris & Vincent 1988).
Tra le lingue romanze, l’italiano è la lingua in cui la grafia meglio lascia prevedere la corrispondente pronuncia (➔ ortografia). Un notevole numero di grafemi (11 su 21) indica stabilmente un solo fonema (➔ alfabeto); quelli che indicano più fonemi sono pochi (‹c›, ‹g›, ‹z›, ‹s›); mancano i timbri di vocale nasale (presenti in francese e in portoghese) e i corrispondenti grafemi (presenti in portoghese). Inoltre, non ci sono lettere ‘mute’ (a cui cioè non corrisponde alcuna pronuncia), salvo la h in alcune posizioni (come all’iniziale delle voci del verbo avere: ho, ha, ecc.), sicché in italiano quasi tutte le lettere scritte si ‘leggono’ (cioè hanno un corrispettivo fonico).
Ciò non significa però che la grafia italiana sia fonetica in senso proprio: alcune grafie sono sovrabbondanti (la ‹i› di scienza, per es., è solo etimologica: la parola si pronuncerebbe allo stesso modo se fosse scritta *‹scenza›) e inoltre, dato il gran numero di pronunce regionali, alcune grafie sono in conflitto con questa o quella pronuncia locale. Per es., l’occlusiva sonora intervocalica, benché semplice nella grafia, è pronunciata doppia in tutto il Centro-sud (si scrive ‹sabato› ma si pronuncia [ˈsabːato], ‹abile› ma [ˈabːile]); l’affricata dentale sorda /ʦ/, trascritta con un solo grafema nel contesto -ione (‹azione›, ‹organizzazione›, ecc.) è pronunciata doppia in varie parti d’Italia ([aˈtːsjone]) o risolta in sibilante in altre ([aˈsːjone]); la ‹n› finale di certe parole (come non) è pronunciata [ŋ] in Veneto, ecc.
A dispetto di questi dettagli, per la corrispondenza tra grafia e pronuncia, l’italiano è unico tra le lingue romanze. Lo spagnolo, apparentemente prossimo, si distacca a causa delle numerose alternanze grafematiche: in hice «feci» e hizo «fece» le lettere sottolineate trascrivono il medesimo fonema interdentale /θ/; del pari in quepo «(ci) entro» e cabe «(ci) entra», le lettere sottolineate trascrivono il medesimo /k/, ecc. Catalano, portoghese, romeno e soprattutto francese stanno all’altro estremo, dato che presentano forti dissociazioni tra forma scritta e pronuncia.
Il seguente è un esempio istruttivo: nel romanzo Zazie dans le métro di Raymond Queneau (uno dei principali esponenti del surrealismo francese) si trova la frase seguente:
(2) doukipudonktan, se demanda Gabriel excédé
La prima parola non è che la traslitterazione scherzosamente quasi-fonetica della frase francese d’où qu’il pue donc tant (più o meno «com’è che puzza insomma tanto»): l’una e l’altra hanno la stessa pronuncia. In pratica, l’effetto comico della frase si ottiene non alterandone la pronuncia, ma perturbando il rapporto tra la pronuncia (corretta) e la grafia (scorretta). Il francese può usare siffatti espedienti a fini comici o espressivi: del resto la letteratura patafisica si basa largamente su questi giochi. L’italiano, invece, non può: tutt’al più può permettersi scherzi estemporanei come amerikano, disusata grafia schernevole per americano, o, come nel linguaggio degli sms (➔ posta elettronica, lingua della), scrivere perkè o anche xchè invece di perché, o 6 invece di (tu) sei, ki invece di chi, e così via.
L’italiano ha inoltre un uso limitato e regolare dell’➔accento grafico, che usa perlopiù in fine di parola a indicare un troncamento, a differenza delle altre lingue romanze (romeno escluso), ove l’accento fornisce una varietà di informazioni e dipende da una varietà di motivi: cfr. fr. régner «regnare» e (je) règne «(io) regno», il primo con accento acuto, il secondo con accento grave, per indicare che la vocale è chiusa nel primo caso e aperta nel secondo; celer «celare» e (je) cèle «(io) celo», il primo senza accento sulla e per indicare che si tratta di una [ə], il secondo con accento grave per indicare che la vocale è aperta, ecc. Si pensi anche allo spagnolo, ove l’accento, oltre che marcare l’ultima posizione, ha valore diacritico o segna le sedi accentuali più arretrate della penultima (per es., interesantísimo) oppure quelle in cui l’accento è diverso da quello che sarebbe prevedibile in base alla grafia (difícil, fácil, dato che le parole terminanti in /l/ hanno di norma l’accento sull’ultima: perfil, abril, perejil, ecc.).
Quanto ai segni diacritici, l’italiano ha solo l’accento acuto, e più spesso grave, e il ➔ trattino interno (che occorre in diverse condizioni: porta-finestra, odio-amore). Nessuna grafia comporta accento circonflesso se non per preferenza personale: un tempo si adoperava la grafia principî (o anche principii) come plurale di principio per distinguerlo da principi plurale di principe, e sim., ma si tratta di grafie fuori moda (➔ Graziadio Isaia Ascoli). Del pari, nessuna grafia (che non sia antica o poetica) comporta dieresi: questi segni sono invece obbligati su una varietà di parole francesi e romene.
Indiscutibile peculiarità grafica italiana è invece l’➔apostrofo, che ha due funzioni peculiari:
(a) come segnale grafico di ➔ elisione (di parole clitiche: l’argento, s’innalza, m’accosto; di parole con accento, specialmente dimostrativi e altri aggettivi ‘vuoti’, oltre a un gruppetto di parole generali, come: quest’oggi, quell’uomo, cos’altro, poc’anzi, brav’uomo, grand’uomo, pover’uomo, ecc.) l’italiano lo adopera moderatamente (anche con poca sicurezza da parte degli scriventi); tra le lingue romanze l’apostrofo è presente solo in francese, ma è ignoto allo spagnolo e al portoghese;
(b) come indicatore di antichi troncamenti (➔ troncamento), l’italiano è l’unica tra le lingue romanze ad adoperarlo: po’ (da poco), fa’ (da fai), da’ (da dai), va’ (da vai), sta’ (da stai), to’ (da togli), mo’ (da modo), ecc.
Entrambi questi segni grafici patiscono turbolenze nell’uso scritto e orale: i parlanti, all’oscuro del valore etimologico dell’apostrofo, facilmente sbagliano nel primo caso, confondendo per es. la forma elisa e quella sana dell’articolo un / uno, su cui si basa la distinzione tra un’artista o un’assistente (donna) da un artista o un assistente (uomo); o la forma elisa e quella troncata ma senza apostrofo di taluni aggettivi: qual e quale, tal e tale, ecc.
Ciò è dovuto a vari motivi: all’oscillazione che si ha nei testi e all’insufficiente normazione nella storia della grammatica; alla complessa tradizione, che vuole, per es., che i dimostrativi si apostrofino coi nomi al singolare ma non al plurale: quest’uomo ma non *quest’uomini. A ciò si aggiungono le oscillazioni dell’uso: tal eliso, per es., è scritto con apostrofo non meno spesso di quanto lo sia senza: tal altro, tal’altro e perfino talaltro; quale si trova scritto altrettanto spesso senza apostrofo (qual ambito) che con (* in qual’avventura ti sei messo), anche se tutte le fonti normative (educazione scolastica, grammatiche normative, scrittori illustri) riconoscono solo la prima forma (non si può non notare, del resto, che quale accetta troncamento dinanzi a vocale solo se è aggettivo o pronome, non se è parte del pronome relativo, nel qual caso deve essere intero: i quali alberi, non * i qual alberi).
Ma gli italiani sbagliano ancor più nel secondo caso, a giudicare dalla frequenza, anche in scritture di persone istruite (come i giornalisti), di forme in cui al posto dell’apostrofo appare un accento sulla vocale: si ha allora un pò, và, stà, fà, ecc. Talune parole tronche la cui forma grafica richiederebbe apostrofo sono reinterpretate come esclamazioni e dotate di una diversa, anche fantasiosa, forma: chi non avverte che be’ non è che il troncamento di bene scrive bè o beh; la stessa cosa accade per to’ (troncamento dell’antico togli «prendi»; vedi spagn. toma, con ugual senso e funzione), reinterpretato graficamente in toh, tò, ecc.
Oscillazioni nella relazione grafia/pronuncia si notano a proposito di alcuni digrammi:
‹gn› è pronunciato /ɲ/ ma anche, in talune parole, /gn/ ([gno]seologia);
‹gl› è pronunciato /ʎ/ nel trigramma ‹gli›: aglio, foglia, coglione, ecc.; /gl/ in altri contesti: deglutire, glifo, glicine; in varie pronunce regionali dell’italiano (specialmente al Centro e al Sud) la prima situazione viene risolta in [j] o [jː] (cfr. la pronuncia [ˈajːo] aglio o [faˈmijːa] famiglia del napoletano, in Sicilia o dell’area di Roma);
‹sc› è pronunciato /ʃ/ in pesce, scimmia (il trigramma ‹sci› ha lo stesso valore in sciarpa, sciocco) e /sk/ in scarpa, scoglio).
Infine, modesta peculiarità nella corrispondenza tra grafemi e fonemi è il fatto che l’italiano è l’unica lingua romanza in cui si abbia una doppia ‹q› (soqquadro), e in cui il digramma ‹gl› si pronunci anche [ʎ].
Rinviamo per un’inquadramento fonetico-fonologico generale alle voci pertinenti (➔ fonetica; ➔ fonetica articolatoria, nozioni e termini di; ➔ fonologia). Ci limitiamo qui a richiamare alcuni tratti caratterizzanti (vedi Bertinetto 1981; Mioni 1993; Sorianello 2009):
(a) dal punto di vista segmentale, l’italiano è ricco di ➔ affricate (quasi assenti in francese, salvo che in prestiti e adattamenti; in spagnolo limitate a poche parole: gazpacho, remolacha, ecc.); questo tratto lo rende singolarmente prossimo al russo;
(b) le vocali sono, almeno nella lingua standard, pronunciate in modo netto (salvo in posizione finale atona, dove tendono, anche nelle pronunce professionali, ad essere poco udibili) e non indebolite, al pari che in spagnolo (e a differenza che in portoghese e in francese); sommato alla varietà di posizioni accentuali, questo tratto fa sì che l’italiano dia l’impressione di essere una lingua ‘musicale’ (➔ immagine dell’italiano; ➔ musica e lingua): in ciò può essere avvicinato al turco;
(c) le ➔ vocali, pur essendo poche (sette nella varietà standard, cinque in diverse varietà locali di prestigio) rispetto ad altre lingue romanze (per es., rispetto alle 14 o 16 – secondo i computi – del francese), danno alla lingua una forte caratterizzazione percettiva: le parole terminanti in vocale sono la stragrande maggioranza (➔ parola italiana, struttura della) e questa proprietà è sentita come caratterizzante; lo spagnolo, l’unica lingua romanza che gli si avvicini per questo tratto, ha però numerose parole terminanti in consonante (specialmente sibilanti, liquide e nasali);
(d) l’italiano è l’unica lingua romanza (e una delle poche in Europa) ad avere una distinzione tra consonanti brevi e lunghe (tradizionalmente, tra semplici e doppie): caro è diverso da carro, pala da palla. Le coppie minime (➔ coppia minima) di questo genere sono migliaia. Francese, spagnolo e portoghese (non il romeno) hanno sì doppie grafiche (in spagnolo solo ‹ll› e ‹rr›), a cui non corrispondono lunghe fonetiche (salvo per ‹rr› spagnola). A ciò si aggiunge il fenomeno delle cosiddette geminate intrinseche (➔ fonetica): /ʎ/ /ʃ/ /ɲ/ e, nello standard tradizionale, anche /ʦ/ e /ʣ/ si pronunciano lunghe tra vocali ([ˈaʃːa] ascia) nella maggior parte delle varietà italiane (salvo alcune varietà settentrionali);
(e) tra i fenomeni di giuntura (➔ fonetica sintattica) l’italiano ha importanti fenomeni di elisione (come il francese, ma a differenza dello spagnolo e del portoghese) e di ➔ raddoppiamento sintattico, diffuso in tutta la penisola (unica lingua romanza): vedi it. l’onda rispetto a spagn. la ola;
(f) l’accento di parola è mobile in base a una varietà di requisiti sia morfologici sia fonologici (➔ accento). Questo fatto dà luogo anche a numerose incertezze di pronuncia per quanto attiene alle forme flesse dei verbi (cònstato o constàto?), ma anche su altre parole: èdile o edìle, bàule o baùle, régime o regìme, sclèrosi o scleròsi? Per contro, il francese ce l’ha fisso sull’ultima sillaba disponibile e lo spagnolo mobile, ma secondo altri principi;
(g) l’italiano ha una decisa prevalenza di sillabe aperte (più o meno come lo spagnolo), tra le quali le più frequenti sono le sillabe Consonante + Vocale (CV), le più diffuse al mondo (➔ sillaba);
(h) l’isocronismo sillabico (più o meno come in francese ma a differenza dello spagnolo), dovuto al già menzionato tratto della nettezza delle vocali, rende tipico e riconoscibile il ➔ ritmo della pronuncia italiana (almeno nella varietà standard; alcune pronunce locali, come quella sarda, sono di diversa natura);
(i) dal punto di vista dell’➔intonazione, sia l’➔italiano standard che le parlate regionali non conoscono il tono sopracuto e il falsetto di cui si serve spesso il francese; manca d’altronde del tutto la curva melodica ‘cantante’ dello spagnolo. Ciò si nota tipicamente nell’intonazione che si usa quando si attira l’attenzione di una persona chiamandola per nome: in italiano si aumenta il volume della sillaba accentata (ehi PiEro!; indichiamo con la maiuscola l’innalzamento di volume), in francese si allunga e si innalza l’intonazione sdoppiando la sillaba interessata ([ˈpje-ˈeʀ] Pierre!).
L’italiano è una lingua moderatamente flessiva, nel senso che pur avendo perduto il sistema latino dei casi (➔ caso) ne conserva qualche traccia: nomi, aggettivi, pronomi e verbi hanno infatti forme diverse per numero, genere, tempo, modo, ecc. (➔ flessione).
La flessione ha luogo mediante sostituzione di vocali e l’aggiunta, alla radice, di una varietà di ➔ suffissi (cioè allo stesso modo dei casi latini), a differenza di quel che accade in francese e in spagnolo, dove invece ha luogo anche per aggiunta di un elemento alla parola di base, come si vede nello specchietto che segue, contenente gli schemi di flessione singolare/plurale e maschile/femminile in tre lingue romanze:
nomi e aggettivi verbi
italiano libr-o → libr-i am-o
bianco → bianca am-i-amo
francese livre → livre-s (j’) aim-e
blanc → blanche (nous) aim-ons
spagnolo libro → libro-s quier-o
blanco → blanca quer-emos
Dello stesso segno è la sopravvivenza di superlativi e comparativi alla latina (ottimo, massimo, sommo; pessimo, minimo, infimo; migliore, peggiore, inferiore, superiore, ecc.), che nelle altre lingue romanze non hanno avuto continuazione. Esse li trattano quali aggettivi normali o li sostituiscono con altre forme (it. ottimo ~ fr. excellent; it. pessimo ~ fr. exécrable; ecc.). L’italiano ha invece il ➔ superlativo con suffisso alla latina (bellissimo, grandissimo, fortissimo), che è stato perduto in francese (salvo determinati casi tipici) e che si trova in via di sparizione in spagnolo, ove, pur esistendo la forma in - ísimo (interesantísimo), nel parlato si tende a sostituirlo col prefisso super- (un discurso superinteresante).
Altri tratti flessivi conservati solo in italiano sono le flessioni interne nei verbi:
(3) cado → caddi; rompo → ruppi; redigo → redassi; voglio → volli
(4) redigo → redassi → redatto
A queste forme, tanto il francese (esempi 5 a. e 6 a.) quanto lo spagnolo (esempi 5 b. e 6 b.) oppongono forme regolarizzate:
(5) a. je romps → je rompis
b. yo rumpo → rompí
(6) a. je rédige → rédigé
b. yo redacto → redactado
Una fondamentale peculiarità dell’italiano (cui tiene dietro, a qualche distanza, lo spagnolo) è l’impiego dell’➔alterazione (soprattutto di nomi e aggettivi) a scopi espressivi e pragmatici. Questi suffissi (considerati, giustamente, da secoli come una delle più tipiche proprietà della lingua; ➔ immagine dell’italiano) sono in parte comuni allo spagnolo (che ne fa però un uso diverso). Questa procedura, che produce una varietà di fenomeni di ➔ lessicalizzazione (per es., bicchierino, chiavino, portoncino, occhialetti, camiciola, calzino, macchinetta, ecc. non sono diminutivi delle basi corrispondenti), è invece quasi sconosciuta in francese, ove l’alterazione espressiva si ottiene con l’aggiunta di aggettivi specializzati (un grand baiser «un gran bacio» → it. un bacione, un mauvais vin «un cattivo vino» → it. un vinaccio, sale garce «sporca puttana» → it. puttanaccia, ecc.), salvo pochi casi cristallizzati (fermette «piccola fattoria», studette «appartamentino», ecc.).
Il significato di questi suffissi non è prevedibile in modo regolare, in quanto uno stesso suffisso alterato può conferire una sfumatura di significato diversa secondo la radice cui si collega: casetta «piccola casa», donnaccia «prostituta», donnetta «donna piccola e di livello modesto», gridolino «grido di modesta forza e intermittente», ometto «bambino che si comporta come un adulto» o «piccolo uomo», ragazzaccio «ragazzo maleducato», storiaccia «brutta storia, storia turpe». In taluni casi, questi suffissi esprimono sfumature di significato difficilmente analizzabili: ragazzotto «ragazzo grande per dimensioni e/o rozzo nei modi». Altrove, essi si presentano in coppia nella stessa parola: libriccino, librettino, casettina, ecc. In molti casi, solo il contesto può chiarire il senso: mettere una firmetta, lett. «piccola firma», significa in effetti «mettere una firma che non ti costa molta fatica».
L’italiano ha un complesso sistema di ➔ derivazione (Scalise 1983; Thornton 1990-1991), in cui le proprietà del latino sono sensibilmente modificate. Dato che nel ➔ lessico italiano convivono materiali latini, latino-classici, greci e d’altre lingue, a volte il rapporto tra parole morfologicamente imparentate può non essere facilmente prevedibile. Nello specchietto che segue si mostrano le relazioni tra base e derivati per alcune coppie nome/aggettivo:
base derivato
casa domestico
cavallo equestre/equino
guerra bellico
In questi esempi, la base proviene da un determinato strato lessicale (nel caso specifico, dal latino volgare o, nell’ultimo es., da una lingua germanica), i suoi derivati da altri strati (qui, dal latino classico).
Analogamente, l’italiano si distingue dal francese in quanto questa lingua fruisce, in molti registri linguistici, di materiali di argot, cioè della parlata popolare di Parigi, che costituiscono un livello di lingua colloquiale adoperato diffusamente.
Illustriamo alcuni schemi di derivazione che si possono considerare tipici dell’italiano. Uno di questi è costituito dai nomi deverbali (➔ deverbali, nomi; ➔ nominalizzazioni) a suffisso zero:
base derivato
ammollare ammollo
degradare degrado
impiegare impiego
incontrare incontro
Molto produttivo è anche l’insieme dei derivati nominali costituiti da una forma femminile singolare del participio passato (quindi, una desinenza in -ata o equivalenti in altre coniugazioni): telefonata, corsa, mangiata, guardata, camminata, chiamata, pensata, trovata, e perfino videata («il contenuto dello schermo del computer»), letta («una lettura rapida e sommaria»: a questo libro ho dato solo una letta), comparsata, studiata («uno studio rapido e superficiale»), ecc. Anche i verbi sintagmatici (➔ sintagmatici, verbi) hanno nominalizzazioni, che si colgono specialmente nel parlato colloquiale: andata via, venuta meno.
Il significato generale di questo schema è «operazione breve e rapida» (e quindi anche «colpo», quando aggiunto a nomi: ginocchiata, pedata, testata, manata), oppure «piccola quantità» (la mescolanza di questi due significati si osserva in parole come cucchiaiata, che vale sia «colpo di cucchiaio» sia «quantità contenuta in un cucchiaio»). Va però sottolineato che questo schema prende in alcune varietà informali di italiano anche altri sensi: Giovanni ha una camminata molto strana («un modo di camminare»; in Dante con un valore diverso: camminata di palagio «galleria», Par. XXX, 97), Elsa ha una guardata che non mi piace («uno sguardo, un modo di guardare») (Simone 2008; Simone & Masini 2009).
Un profilo somigliante è quello dei nomi derivati in -istica, usati per indicare «insiemi di oggetti e di procedure», o «insiemi di tematiche»: italianistica, oggettistica, anglistica, regalistica, tempistica («l’insieme delle procedure per il calcolo dei tempi di lavoro in azienda»). In questa accezione, -istica è produttivo.
La lista dei prefissi italiani supera il centinaio di elementi, alcuni dei quali produttivi (cfr. Iacobini 1992; ➔ prefissi). Comunque, particolari della lingua attuale sono dei quasi-prefissi come petro- (petrodollari), narco- (narcotrafficanti, narcotraffico), mini- (miniriforma, ministereo), maxi- (maxistangata), mega- (megaateneo, megagalattico) e calcio- (calciomercato, calcioscommesse, ecc.).
Tra le forme specifiche di composizione, menzioniamo le seguenti:
(a) Nome + Nome: è il profilo più produttivo (anche per effetto dei linguaggi giornalistico, burocratico e pubblicitario, che se ne servono largamente); va segnalato che il nome-testa (cioè quello che impone al complesso il suo comportamento sintattico) è il primo, e non (come in inglese) il secondo: la casa vacanza è una casa, la legge truffa è una legge, ecc.; porta-finestra, ufficio stranieri, vacanze avventura;
(b) Avverbio (o preposizione) + Nome: sottobicchiere, soprattassa;
(c) Verbo (al modo imperativo di II persona sing.) + Nome, altamente produttivo: cercapersone, copricostume, giranastri, mangiadischi, mangiapreti, portauovo, prendisole, sturalavandino, tornaconto.
La flessione verbale italiana è, tra le lingue romanze, una delle più complesse per il numero delle forme a cui dà luogo (uguagliato solo dalla spagnola) e l’imprevedibilità degli esiti formali, ed è caratterizzata da ben precise proprietà di comportamento.
(a) Delle tre coniugazioni (➔ coniugazione verbale), quella in -are è più regolare e stabile dal punto di vista dell’accento, ed è l’unica produttiva. I verbi neologici, infatti, sono formati praticamente sempre secondo questo modello: dall’informatica, per es., viene un verbo scrollare «far scorrere l’immagine sullo schermo» (dall’ingl. to scroll «far scorrere, srotolare»). D’altro canto, alcuni verbi in -e- e in -i- sono sostituiti nell’uso recente da rielaborazioni che danno come risultato verbi regolari in -a-: stortare (part. pass. stortato) invece di storcere (part. pass. storto), spintonare «spingere», strattonare, posizionare invece di porre, direzionare invece di dirigere, movimentare invece di muovere, ecc. Un analogo processo di riorganizzazione si è avuto in altre lingue romanze, a vantaggio della classe verbale più prevedibile e con la sostituzione di verbi irregolari con altri resi forzatamente regolari. In spagnolo, per es., già da molto si ha solucionar o solventar «risolvere» e regresar «regredire, tornare». In francese, dove pure forme come progresser «progredire» o concéder «concedere» (con flessione regolare, a differenza dell’italiano concedere) sono acquisizioni remote, ulteriori regolarizzazioni sono introdotte nella forma parlata: solutionner «risolvere» accanto a résoudre, ambitionner «ambire», visionner accanto a voir «vedere», réceptionner insieme a recevoir «ricevere» (Gadet 1992), o rédiger «redigere, scrivere» reso perfettamente regolare, diversamente da quel che accade all’italiano redigere (che ha forme come redassi o redatto ma che viene spesso forzatamente regolarizzato in redarre).
(b) Numerosi verbi (i cosiddetti irregolari) non si conformano però a questi schemi. Tuttavia, nessun verbo è irregolare all’imperfetto indicativo (salvo essere, che fa un caso a sé in tutte le forme). La maggior parte delle irregolarità si concentrano nel presente dell’indicativo e del congiuntivo, nel passato remoto e nel participio passato.
(c) Alcuni aspetti della flessione verbale sono tipicamente latini:
(i) per ottenere talune forme del passato remoto, come si è già accennato prima, si raddoppia la consonante finale della radice, caso unico tra le lingue romanze (cado → caddi, tengo → tenni, ecc.);
(ii) un altro tipico fenomeno di derivazione latina è l’alternanza di radici in diverse forme della flessione:
(7) a. prendere → prendo / presi
b. tenere → tengo / tenni
c. correre → corro /corsi
d. tendere → tendo / tesi
Questa tendenza è talmente spinta da produrre casi estremi come togliere, che ha nella sua flessione non meno di quattro allomorfi: tolgo, togli, tolsi, tolto. Un altro, più sottile, fenomeno di allomorfia è lo spostamento dell’accento nella flessione di taluni verbi: vièni → venite, telègrafo → telegrafàte, àltero → alteriàmo, ecc.
(d) Il verbo forma una varietà di strutture perifrastiche (➔ perifrastiche, strutture), che hanno la funzione di codificare sfumature di ➔ aspetto. Ciò significa anche un alto numero di verbi fraseologici (➔ fraseologici, verbi) e ausiliari (➔ ausiliari, verbi). Per es., la durata di un evento, o la sua simultaneità con il momento in cui si emette l’enunciazione, è marcata con stare + gerundio:
(8) sto leggendo un libro
(9) stiamo lavorando da un pezzo
Benché molto diffusa, questa forma (identica allo spagnolo estar + -ndo) in italiano non è obbligatoria: si alterna liberamente con la corrispondente forma semplice (stiamo lavorando da un pezzo = lavoriamo da un pezzo), anche se è di alta frequenza.
Usato per secoli più per scrivere che per parlare (➔ lingua scritta), l’italiano, una volta avviatosi a diventare lingua parlata, ha attraversato una varietà di processi di semplificazione che ne hanno modificato diversi aspetti. In tale semplificazione si verificano anche fenomeni di affioramento di strutture antiche (Nencioni 1987).
Per cominciare, la gamma dei tempi verbali italiani è adoperata per intero soltanto in testi scritti di tipo accurato: nella maggior parte degli usi correnti si usano solamente alcune delle forme disponibili.
In particolare, nel parlato (specialmente quello di tipo familiare e colloquiale) il ➔ passato remoto è relativamente raro (salvo ovviamente nell’italiano regionale di zone come la Sicilia): la designazione dei tempi passati è assicurata solo dall’alternanza tra imperfetto e passato prossimo, con funzioni aspettuali diverse (Bertinetto 1986: capp. 6-7). Per questo, sono assolutamente normali frasi come:
(10) ho comprato questa casa un anno fa
(11) dieci anni fa abbiamo visto Carlo per l’ultima volta
Lo stesso processo è in atto in francese, dove la forma del passé simple copre quasi per intero (in opposizione al solo imperfetto) l’area del passato. Pressoché inutilizzato, nel parlato, è il ➔ trapassato remoto (quando ebbi fatto ...), che comunque è raro anche nello scrivere, salvo che in alcune varietà particolarmente accurate. Il registro parlato tende a rifiutare inoltre il trapassato del congiuntivo (se fossi stato ...), che sostituisce con l’➔imperfetto dell’indicativo, e in generale usa relativamente poco tutta la gamma del congiuntivo, che sostituisce con forme dell’indicativo (ciò non accade, ovviamente, nelle formule ottative: volesse il cielo, e simili).
Tanto lo spagnolo quanto il francese, infatti, hanno sistemi verbali che nell’insieme si possono considerare più semplici di quello italiano quanto alla varietà delle forme effettivamente adoperate. Un solo esempio tra i tanti possibili: in clausola dipendente, queste due lingue adoperano il condizionale solo nella forma del presente:
(12) fr. il dit qu’il viendrait
spagn. dijo que vendría
«disse che verrebbe» [= «disse che sarebbe venuto»]
L’italiano, dopo aver oscillato a lungo nella storia tra la soluzione ... che sarebbe venuto e la soluzione ... che verrebbe (adoperata normalmente, per esempio, da Manzoni e anche più di recente; ➔ condizionale), sembra avere scelto la prima, più complessa e isolata nell’area romanza (cfr. Durante 1981: 179; Nencioni 1987: 296).
Da spogli condotti su un campione di parlato (Voghera 1992), è risultato, per es., che in clausole principali l’uso dell’indicativo copre il 91,3% del totale delle forme verbali, seguito con enorme scarto dal condizionale (4%). Se guardiamo alle frequenze dei tempi dell’indicativo in frase principale, troviamo ancora che il presente copre il 79,4% degli usi, seguito dal passato prossimo (10,4%); l’imperfetto indicativo, forma essenziale nell’organizzazione dell’italiano di oggi, espone un misero 5,7%, mentre le altre forme, a partire dal passato remoto, sono praticamente irrilevanti (Voghera 1992: 213 segg.). Si direbbe che, per parlare l’italiano usando solo clausole principali, sono sufficienti quasi solo il presente, l’imperfetto e il passato prossimo dell’indicativo!
La serie di semplificazioni accennata presenta interessanti regolarità, che sono presenti anche nelle altre lingue romanze.
(a) La variazione si risolve a vantaggio delle forme semplici dell’indicativo, in particolare indicativo presente, imperfetto e passato prossimo (più il trapassato prossimo con un ruolo marginale) (➔ tempi semplici).
(b) Si va indebolendo lo statuto del ➔ futuro, mentre si espande quello dell’imperfetto (e delle forme affini, come il trapassato prossimo). Il futuro semplice, infatti, si usa soltanto nelle varietà accurate di lingua (partirò domani); in quelle parlate e informali, al pari di ciò che succede in una vasta gamma di lingue europee (dall’inglese allo spagnolo), il suo posto è preso dal presente dell’indicativo (parto domani). Analogamente, il ➔ futuro anteriore è di uso raro e sempre di tono ricercato, con l’unica eccezione del suo impiego come forma di supposizione in frase principale (sarà venuto qualcuno «suppongo che sia venuto qualcuno»).
L’imperfetto, all’inverso, trova molto consolidato il suo ruolo soprattutto come forma di ‘trasposizione’ in clausole dipendenti, ed espande largamente le sue funzioni, fino a diventare una delle forme verbali più versatili. Un esempio tipico del rafforzamento dell’imperfetto indicativo è offerto dal verbo in quelle forme del ➔ periodo ipotetico tradizionalmente chiamate del secondo e del terzo tipo. Nel parlato informale o semiformale si espungono le forme del congiuntivo e del condizionale, sostituendole con quelle dell’indicativo:
(13) se ci vedessimo subito, sarebbe meglio → se ci vediamo subito, è meglio
(14) se ti avessi visto subito, sarebbe stato meglio → se ti vedevo subito, era meglio.
L’espansione funzionale dell’imperfetto non è però un fenomeno moderno né limitato all’italiano. Se ne trovano esempi numerosi, da ➔ Dante fino ad ➔ Alessandro Manzoni («Se Lucia non faceva quel segno, la risposta sarebbe probabilmente stata diversa»: I promessi sposi, cap. III) e altri numerosi autori di diverse epoche (cfr. Durante 1981; Nencioni 1987: 295-96; D’Achille 1990: 302 segg.).
Qualcosa di simile si registrò secoli fa nella clausola ipotetica francese: anche questa lingua, infatti, usa le forme dell’imperfetto nella protasi, una posizione in cui il latino avrebbe usato forme diverse dell’indicativo (come l’imperfetto e il piuccheperfetto):
(15) si je savais cela, je le dirais «se io sapevo questo, io lo direi» [= «se lo sapessi, lo direi»].
Altri tipici fenomeni di semplificazione colpiscono il sistema pronominale, specialmente nei pronomi atoni (➔ clitici).
Si sa che l’italiano ha ➔ pronomi specializzati per operare come ➔ soggetto per la I, II, III persona sing. e la I persona plur. (io, tu, egli/ella, essi/esse), a cui si oppongono pronomi tonici che si adoperano come complemento (lui, lei, loro). Ha inoltre, alla III persona, una distinzione tra pronomi soggetto per designare persone (egli/ella) e altri per designare non-persone (esso/essa, essi; v. tab. 1).
Seguendo questa partizione, dovremmo avere frasi come
(16) egli ha messo il guinzaglio al cane ed è uscito con esso
Di fatto, però, un enunciato simile non si incontrerà nell’uso reale. Infatti, l’uso italiano tende a semplificare lo schema riportato sopra, adoperando lui, lei e loro in tutte le posizioni (prima e dopo il predicato) e in tutti i ruoli: come soggetto e non-soggetto, per persone e per non-persone. L’enunciato di cui sopra, allora, in un registro informale sarebbe:
(17) lui ha preso il cane ed è uscito con lui [o ci è uscito]
Questa semplificazione – che sopprime le distinzioni tra soggetto e non-soggetto, tra persona e non-persona, e tra forma pre-verbale e forma post-verbale del soggetto) – è un affioramento dell’antico: esempi se ne trovano da Dante a Manzoni e oltre, fino ad oggi, per es. in ➔ Pirandello e in altri scrittori sensibili al parlato: «lei deve già saperlo»; «ora lei sta bene» (rispettivamente in Prima notte e Scialle nero, entrambi in Novelle per un anno).
Ancora una volta, l’italiano si ricolloca tra le lingue romanze (e in particolare vicino al francese) che hanno specializzato taluni pronomi per la funzione di soggetto, indifferentemente alla funzione che essi svolgono (così in francese il, elle, ils, elles, che valgono per designare tanto persone quanto non-persone; analogamente in spagnolo, dove él, ella, ecc. valgono sia per persone che per non-persone). La mancata distinzione tra persona e non-persona alla III persona, invece, sembra conforme agli usi romanzi generali, in cui non è riconosciuta (così in spagnolo e in francese).
Un’altra semplificazione imponente colpisce il complesso sistema dei clitici (v. tab. 2).
Nessuna lingua romanza ha tale varietà di mezzi pronominali e nessuna ha tante regole per il loro funzionamento (Simone 1983; Berretta 1985; Russi 2008). I clitici italiani infatti sono caratterizzati:
(a) da fenomeni di variazione formale; così l’alternanza regolare tra -i ed -e in tutte le particelle che hanno una -i finale: ci ha parlato Carlo ma Carlo ce lo ha detto; vi racconto la storia ma ve la racconto;
(b) da vistosi fenomeni di omofonia, per cui la stessa sequenza fonica può riferirsi a entità completamente diverse (ci è pronome personale e avverbio locativo, come vi; gli è articolo e pronome; le è articolo femminile, accusativo plurale femminile e dativo singolare femminile, ecc.);
(c) da complessi meccanismi di ordinamento: prima del verbo di forma finita, dopo il verbo di forma non finita:
(18) a. ve lo dico
b. diccelo
c. diccene una
d. lo puoi fare ~ puoi farlo
e. stagli accanto
(d) da una certa sensibilità (come in altre lingue romanze) alle distinzioni di ➔ caso: per es., io è soggetto, me/mi atoni oggetto e complemento indiretto, me (tonico) ha diverse funzioni;
(e) dal fatto che la coesione (➔ coesione, procedure di) del testo è assicurata da una rete di clitici più fitta che in altre lingue romanze: basti pensare che lo spagnolo non ha un equivalente di ne, e che ad alcune formule con uno o due clitici il francese risponde con uno solo o senza alcun clitico: ce l’ho → je l’ai, lo so → je sais, ecc.; lo spagnolo con uno: ne ho due → tengo dos.
A causa di questi fattori, il sistema dei clitici si è semplificato; in particolare (Berretta 1985 e 1986):
(a) la differenza tra gli e le come dativi singolari maschile e femminile tende ad annullarsi a vantaggio del solo gli (gli ho detto, «ho detto a lui» e «ho detto a lei»), seguendo un processo che il francese e lo spagnolo hanno già attraversato per proprio conto (fr. lui, spagn. le «a lui / a lei»); lo stesso fenomeno di fusione ha avuto luogo in queste due lingue anche al plurale (fr. leur, spagn. les «a loro»);
(b) la differenza tra gli e (a) loro, come dativi rispettivamente singolare e plurale, tende ad annullarsi ancora una volta a vantaggio di gli, che opera come dativo plurale di tutti i generi (ho visto i ragazzi e gli ho parlato «ho parlato a loro»);
(c) l’uso di ne, nel parlato informale, tende ad attenuarsi fin a scomparire, salvo in casi ben definiti (essenzialmente frasi fatte, come non ne so niente, ecc.);
(d) l’uso di ci avverbiale, nel parlato informale, tende a espandersi al di là delle previsioni, fino a coprire una varietà di usi che altrimenti sarebbero risolti con pronomi tonici: accanto a ho visto Carlo e ho parlato con lui è corrente ho visto Carlo e ci ho parlato; invece di esco con Luisa e vado al cinema insieme a lei si ha esco con Luisa e ci vado al cinema (insieme), ecc.;
(e) nei complementi indiretti composti da pronome personale tonico + preposizione terminante con sillaba aperta, l’ordine normale non è (come ci si aspetterebbe) verbo + preposizione + pronome personale tonico (vieni dietro a me; va’ avanti a lui), ma verbo + pronome personale atono + preposizione (vienimi dietro; vagli incontro), ecc.
Un caso particolare è il comportamento del si. Come è noto, questa particella ha in italiano diversi usi (a parte quello riflessivo, come in Carlo si lava; ➔ riflessivi, pronomi), come negli esempi seguenti:
(19) qui si parla [o si parlano] italiano e spagnolo
(20) gli spaghetti si cuociono al dente
(21) si vendono giornali
(22) quando si è stanchi, bisogna riposare
I quattro casi sono diversi. Nel primo, si è soggetto del predicato verbale, che è al singolare; nel secondo il soggetto è gli spaghetti, e il si opera come falso riflessivo (è il si «passivante» delle grammatiche tradizionali; ➔ diatesi); nel terzo caso, affine al secondo malgrado le apparenze, giornali è soggetto, si è un falso riflessivo e per conseguenza il verbo è al plurale; nell’ultimo esempio, si è soggetto di un predicato nominale e, paradossalmente, la parte nominale del predicato (stanchi) è al plurale, pur avendo verbo al singolare.
Le cose possono essere ancora più complesse. Quando, per es., un verbo che ha si come clitico è accompagnato da una clausola completiva dipendente, si pone il problema dell’accordo del nome. La scelta tra la soluzione a. e la soluzione b. degli esempi che seguono non è sempre facile, e si notano varie oscillazioni nell’uso:
(23) a. si comincia a preparare i dolci
b. si cominciano a preparare i dolci
(24) a. si finisce di rilegare i libri
b. si finiscono di rilegare i libri
(25) a. i giornali che si preferisce non leggere
b. ? i giornali che si preferiscono non leggere.
L’italiano dispone di due risorse pronominali per indicare la III persona: lui/lei/loro e sé. La distinzione si riferisce a un’opposizione, molto sensibile in latino, tra due terze persone: una generica e una coreferente con il soggetto (o l’attore) che si trova più prossimo nell’enunciato.
Questo è un altro terreno su cui altre lingue romanze hanno già proceduto a una semplificazione drastica (sopprimendo la distinzione e riducendola alla sola versione tonica del pronome di III persona, secondo una linea, anche qui, di allontanamento dal latino: il francese ha solo lui/elle; lo spagnolo e il portoghese sono invece organizzati come l’italiano, con due pronomi distinti, ma con forti incertezze nell’uso). In italiano, benché l’alternativa tra pronome di III persona e pronome riflessivo esista, la forma non riflessiva è largamente usata nel parlato, sicché si può avere (in 26, uguale lettera sottoscritta indica coreferenza, cioè il fatto che le parole in questione si riferiscono alla stessa entità):
(26) Carloi ha incontrato Luigik e lok ha portato con luii.
Rispetto alle altre lingue romanze, la sintassi dell’italiano moderno è caratterizzata da alcuni tratti evidenti, che formuliamo così, procedendo dal basso (il sintagma) verso l’alto (l’enunciato) (➔ frasi nucleari):
(a) i sintagmi hanno una notevole mobilità, più alta di quella di lingue come l’inglese, e simile a quella dello spagnolo o del francese; questa mobilità è una visibile eredità latina, e serve a scopo di focalizzazione (➔ focalizzazioni; ➔ ordine degli elementi);
(b) la posizione dell’aggettivo rispetto al nome testa varia secondo regole semantiche specifiche (➔ aggettivi; ➔ relazione, aggettivi di), a differenza del francese, dove per lo più l’aggettivo tende a seguire il nome, e dello spagnolo, dove, sia pure in minor misura, la tendenza è la stessa del francese;
(c) nelle frasi oggettive (➔ completive, frasi; ➔ oggettive, frasi), caratterizzate dal largo uso di modi verbali come il ➔ congiuntivo e il ➔ condizionale, tali modi sono imposti in molti casi non dalla necessità di codificare modalità, ma da pure questioni di ➔ concordanza dei tempi;
(d) il soggetto non è obbligatorio; per conseguenza, è usato solo se serve a rispondere a particolari necessità pragmatiche;
(e) la posizione del soggetto rispetto al predicato non è rigida (come in inglese, dove il soggetto sta prima del predicato e, se è costituito da un nome personale, deve precederlo immediatamente); in italiano, quest’ordine varia secondo il tipo di enunciato e in particolare secondo le specificità semantiche del verbo; inoltre, il soggetto può dislocarsi anche a notevole distanza dal predicato;
(f) il soggetto è spesso posposto, non solo nel caso dei verbi inaccusativi (➔ inaccusativi, verbi; ➔ verbi);
(g) alcune costruzioni, come la passiva e la causativa (➔ causativa, costruzione) sono adoperate più spesso che nelle altre lingue romanze, e anche quando non sono indispensabili alla codifica dell’evento.
In italiano, l’aggettivo qualificativo può trovarsi prima o dopo il nome secondo regole complesse. Il francese invece tende a collocare l’aggettivo qualificativo pressoché sempre dopo il nome (con qualche eccezione: les beaux livres «i bei libri» e non les livres beaux), lo spagnolo ha (sia pure meno spiccata) la stessa tendenza.
Per questo, quando un sintagma contiene due o più aggettivi, essi tendono a disporsi prima o dopo del nome secondo la funzione che svolgono:
(27) una rapida visita turistica
(28) un vero romanzo russo
In questi casi, l’aggettivo ‘restrittivo’ deve restare dopo il nome, quello qualificativo può stare prima o dopo (una visita turistica rapida o anche una rapida visita turistica, ma non * una rapida turistica visita). Il francese tende a mettere entrambi gli aggettivi dopo il nome.
Un altro aspetto tipico del sintagma nominale è il comportamento dell’➔articolo (Korzen 1996). Oltre ai noti articoli determinativi e indeterminativi, l’italiano ha un articolo zero (costituito cioè dalla mancanza di articolo) molto adoperato al singolare (il simbolo «Ø» indica la mancanza di articolo). Questa caratteristica lo accomuna allo spagnolo (in cui l’articolo zero è frequente), ma non al francese (salvo alcuni casi specifici):
(29) d’inverno metto Ø cappotto o pelliccia
(30) non dico Ø bugie
(31) cerco Ø casa
In parte, l’articolo zero si spiega come manifestazione del cosiddetto oggetto incorporato, in parte fa capo a espressioni fisse (cercare casa, prendere moglie, cambiare città, prendere cappello, ecc.) o a espressioni tecnicizzate di gerghi e ➔ linguaggi settoriali (così nel calcio: prendere palla, toccare palla, ecc., addirittura con derivati: possesso palla); ma non sempre è così. Aspetto interessante dell’articolo zero è che al plurale si ha spesso dei/delle/degli, ossia forme apparentemente partitive ma che in effetti hanno un altro valore, perché indicano non un prelievo (come nei veri partitivi: prendi del caffè) ma un’entità indefinita (➔ partitivo):
(32) ho comprato delle calze pesanti
(33) mettiti dei guanti di lana
(34) vorrei delle sigarette.
Rinviando per un’analisi dettagliata alla voce apposita (➔ sintagma verbale), qui ci limitiamo a ricordare alcuni aspetti utili per la comparazione tra le lingue romanze.
6.2.1Il gerundio. Una delle risorse più evidenti del sintagma verbale italiano è il ➔ gerundio, che è un’innovazione rispetto alle lingue romanze e al latino (Ferreri 1983-1986), a dispetto del marcato declino della sua frequenza nell’uso reale (Voghera 1992: 235-36; Solarino 1992; 1996). Esso si presenta in tre forme sintattiche diverse: in strutture assolute (➔ assolute, strutture), in strutture perifrastiche (➔ perifrastiche, strutture), del tipo stare + gerundio (sto prendendo il caffè), e come predicato di frase dipendente.
Rinviando per i primi due caratteri alle relative voci, vediamo il terzo.
Il gerundio codifica in forma condensata una serie di relazioni logico-sintattiche tipicamente associate a frasi dipendenti: l’ipotesi (impegnandosi al massimo si riesce = se ci si impegna al massimo ...), la temporalità (arrivando ho incontrato Luigi = mentre arrivavo ...), il risultato (è fallito portando tutta la famiglia alla rovina), ecc. Ci sono però casi in cui è difficile ridurre il gerundio a una dipendente:
(35) è entrato sorridendo
(36) cammina zoppicando
(37) canta sgolandosi
(38) legge guardando la televisione
In questi casi, a differenza dei precedenti, è possibile lo scambio tra gerundio e verbo principale (è entrato sorridendo = ha sorriso entrando; cammina zoppicando = zoppica camminando). Ciò lascia pensare che il gerundio sia un modo per esprimere un evento unico in forma ‘frazionata’: il verbo principale ne indica l’aspetto centrale, il gerundio ne indica una singola caratterizzazione: scegliendo l’aspetto dell’evento da esprimere col verbo principale scegliamo anche di dare maggior rilievo a quell’aspetto rispetto all’altro. Infatti, mentre in è entrato sorridendo l’aspetto principale dell’evento è l’entrare, in ha sorriso entrando l’aspetto principale è il sorridere.
Va notato che il gerundio si alterna con relative attributive di altre lingue, per es. dello spagnolo:
(39) ho visto tuo fratello che correva ~ vi a tu hermano corriendo.
6.2.2Infinito nominale. L’italiano dispone di un infinito pienamente nominale (➔ sostantivato, infinito), cioè che si comporta sintatticamente come un nome (può prendere articolo, aggettivi e determinanti di varia natura, agire da soggetto e da complemento di ogni tipo, e così via) ma ha la struttura argomentale (➔ argomenti) e il significato del verbo:
(40) il suo continuo gridare ingiurie gli ha portato via la voce
(41) nel suo viaggiare per il mondo si è danneggiata la salute (Salvi 1985)
(42) l’aver noi fatto il liceo insieme ci ha reso amici
L’infinito sostantivato è rilevante per due motivi:
(a) con questa forma l’italiano si affianca allo spagnolo (che ha una risorsa simile) ma si distanzia dal francese, che non la conosce se non per frammenti; in francese l’infinito sostantivato esiste ormai solo lessicalizzato, cioè trasformato stabilmente in nome: fr. le devoir, le pouvoir;
(b) siccome questa risorsa discende dagli usi nominali dell’infinito latino, è un ulteriore segnale del carattere conservativo dell’italiano entro la famiglia romanza.
6.2.3 Il passivo. Come tutte le lingue romanze, l’italiano dispone di un insieme di risorse per esprimere il passivo (➔ ausiliari, verbi; ➔ movimento, verbi di). Tra queste, la più diffusa e conosciuta è la costruzione essere + participio passato (Luigi è stato operato ieri), ma sono praticate anche altre soluzioni (con altri verbi ausiliari), che complessivamente formano l’insieme più ricco nell’ambito romanzo: venire + participio passato (vengono diffuse strane voci), andare + participio passato (il latte è andato buttato), o, in forma non perifrastica, si + verbo flesso (così il vaso si romperà). Il valore di queste soluzioni ha a che fare largamente con questioni di ➔ aspetto.
È interessante notare inoltre che l’italiano fa grande uso delle strutture passive (➔ passiva, costruzione), sia nel parlato che (e più ancora) nello scritto (Sansò 2003). In ciò è abbastanza isolato rispetto alle altre lingue romanze, che pur disponendo di questa risorsa la impiegano in misura minore. Lo spagnolo, per es., preferisce riorganizzare l’enunciato con l’aiuto di se + forma flessa del verbo:
(43) it. il bicchiere è stato rotto ~ spagn. se rumpió el vaso.
Il francese adopera in un caso simile un soggetto indefinito: on a cassé le verre. Come si vede da quest’ultimo es., il tema del passivo si ricollega a quello, non meno caratterizzante, dei mezzi per indicare un soggetto indefinito, generico o ipotetico (➔ generico, interlocutore). In questo l’italiano è tra le lingue romanze con più mezzi, benché le risorse più frequenti per indicare un soggetto generico siano principalmente due:
(44) III persona plur. del verbo: dicono che pioverà
(45) si soggetto: si dice che domani pioverà
Vanno tenute in conto anche quelle che servono più specificamente a indicare un soggetto ipotetico o fittizio:
(46) a. uno: se uno ti urta, tu come rispondi?
b. tu: se tu vuoi diventare ricco, devi avere gli amici giusti
c. si arbitrario: se si vuol diventare ricchi, bisogna avere gli amici giusti.
L’ordine degli elementi principali dell’enunciato (soggetto, verbo e complementi) ha in italiano caratteristiche peculiari (Benincà et al. 1988). Esso non serve infatti a indicare le funzioni grammaticali, come in inglese (dove di regola il primo elemento della frase è il soggetto, e dove il soggetto tende, salvo che nelle clausole interrogative, a porsi prima del verbo), ma a codificare altri significati, descritti analiticamente nella voce ➔ soggetto. In italiano, è possibile usare con uguale plausibilità enunciati come quelli in a. e in b. delle coppie seguenti:
(47) a. Luigi ha parlato
b. ha parlato Luigi
(48) a. mio figlio è partito
b. è partito mio figlio.
6.3.1Soggetto non obbligatorio. Quanto al soggetto, abbiamo due principali variabili:
(a) il soggetto può essere presente o omesso;
(b) quando il soggetto è presente, la sua posizione rispetto al verbo può cambiare.
Per il primo punto, gli aspetti principali sono i seguenti:
(a) il soggetto è omissibile come in spagnolo, ma diversamente da francese, inglese e tedesco (in cui è rigidamente obbligatorio); invece obbligatorio solo quando occorre creare un contrasto con altri possibili costituenti, nel qual caso tende a porsi dopo il predicato (con il meccanismo noto come inversione):
(49) io penso che tu abbia torto [a differenza di quel che pensano altri]
(50) lo faccio io, questo lavoro [per evitare che lo faccia tu, o un altro, ecc.]
Va sottolineato che nel parlato il soggetto sembra essere molto più frequentemente pieno che nello scritto, anche quando non ha nessuna funzione di opposizione: ciò lascerebbe pensare che l’italiano sia una lingua a soggetto nullo solamente nella sua forma scritta;
(b) il soggetto fittizio (detto talvolta espletivo) non è ammesso: l’italiano dice piove o sembra (senza soggetto), mentre francese, inglese, tedesco richiedono, con gli impersonali e simili, un soggetto fittizio (per es., fr. il pleut, lett. «esso piove»).
6.3.2 Posizione. Il soggetto (come si è accennato) non sta necessariamente prima del verbo, ma si sposta per una varietà di motivi, riconducibili in gran parte a focalizzazioni.
In particolare, si pospone al verbo nei seguenti casi:
(a) per creare un contrasto (come si è già detto); nello specifico, in frasi copulative (➔ copula), la possibilità di posporre il soggetto al predicato dà luogo a una varietà di effetti di messa in rilievo:
(51) il colpevole sei tu
(52) il marito sono io
(53) la bambina è quella
(54) i primi arrivati siamo noi
(55) tenera è la notte
(b) per creare contrasto con un altro elemento dell’enunciato:
(56) il latte non lo bevo, io [a differenza di te, ecc.]
(57) pago io [non tu]
(58) lo dici tu! [quindi non è vero]
(c) con alcune specifiche classi di verbi, per es. gli inaccusativi (vedi oltre); meno studiato, ma evidente, è il fatto che anche essere e esserci (salvo casi di focalizzazione) hanno il soggetto posposto:
(59) c’è molta gente qua dentro
(60) è proprio tuo fratello
Si veda a contrasto l’italiano antico:
(61) Taide è, la puttana che rispuose al drudo suo (Dante, Inf. XVIII, 133)
(d) quando il predicato è tematico (➔ tematica, struttura) e quando è nuovo (➔ dato/nuovo, struttura).
Un’altra proprietà importante circa la posizione del soggetto sta nel fatto che il soggetto della completiva dipendente da un verbo di dire o di pensare può, nella lingua parlata, scavalcare la principale collocandosi all’inizio assoluto dell’enunciato (fenomeno chiamato tecnicamente risalita: Benincà 1993):
(62) speriamo che io me la cavo → io speriamo che me la cavo
(63) temo che Carlo sarà in ritardo → Carlo temo che sarà in ritardo.
Una volta detto che l’ordine dei costituenti maggiori della frase italiana è SVO (sostantivo verbo oggetto; ➔ frasi nucleari), che il soggetto non è obbligatorio e può (come si è visto) essere posposto, non si risolve la questione dell’ordine degli elementi nella sequenza sintattica.
6.4.1 Spostamenti. Se prendiamo in considerazione anche i costituenti argomentali, si vede che l’ordine degli elementi in italiano permette anche una varietà importante di operazioni, in particolare ➔ dislocazioni, topicalizzazioni e frasi scisse (➔ scisse, frasi), tutte a fini di focalizzazione. Questa possibilità esiste anche in altre lingue romanze (particolarmente il francese); sicché da questo punto di vista l’italiano rientra nel quadro. Rispetto al latino, invece, l’italiano opera un singolare rovesciamento: mentre in latino l’ordine dei sintagmi era relativamente stabile, e ciò che poteva cambiare posizione erano le parole entro il relativo sintagma, in italiano le parole entro il sintagma sono relativamente stabili, mentre quel che cambia posizione sono i sintagmi maggiori, l’uno rispetto all’altro.
L’importanza delle dislocazioni nella sintassi italiana è enorme. Si può dire anzi che l’italiano nasca storicamente con una dislocazione (Placito capuano, anno 960: Sao ko kelle terre, per kelle fini che ki contene, trent’anni le possette parte Sancti Benedicti; ➔ origini, lingua delle), quasi ad attestare una tendenza profonda; e del resto dislocazioni si possono reperire in quantità lungo tutto il suo sviluppo (D’Achille 1990: 135 segg.).
Per questo, non è del tutto improprio dire che l’ordine SVO in italiano attuale è, in effetti, fragile, e che ad esso si affianca l’ordine dislocato, che in molti casi non è più marcato: le dislocazioni (specialmente quella a destra) infatti non sempre servono a mettere in rilievo un elemento della frase, ma sono percepite come normali: hai preso il giornale? può esser considerato identico a l’hai preso il giornale? Questo fatto ha spinto alcuni (per es., Berretta 1989) a suggerire che l’italiano abbia una «coniugazione oggettiva».
6.4.2 Natura degli elementi dislocati. Un altro aspetto importante delle dislocazioni è che in italiano l’elemento dislocato può essere di qualunque natura sintattica (salvo il soggetto, anche per la mancanza di un pronome soggetto atono: Simone 1997):
(64) a. frase: che tu fossi così sciocco, non lo immaginavo
b. oggetto: queste patate, le devi mangiare tutte
c. indiretto: a tuo padre, non dirgli niente
d. indiretto: non ne voglio parlare, di tua zia
In francese (lingua che usa dislocazioni con frequenza molto maggiore dell’italiano) non può essere dislocata la frase e in spagnolo non può essere dislocato l’oggetto.
Le frasi scisse sono molto frequenti in italiano in tutte le varietà, pur non raggiungendo la frequenza che hanno in francese, in cui sono una peculiarità sintattica primaria (cfr. Gadet 1992). Nondimeno, esse hanno prodotto anche alcune strutture grammaticalizzate, come una struttura di negazione tipica (Benincà 1993), molto frequente nel parlato (➔ negazione):
(65) non è che verresti al cinema con me? [«verresti al cinema con me?»]
(66) non è che hai preso tu la macchina?
Quanto alle frasi dipendenti, l’italiano presenta una notevole complessità di fenomeni, alcuni dei quali ancora non studiati in modo approfondito (ma cfr. Renzi, Salvi & Cardinaletti 1988-1995). Qui ci limiteremo a segnalare alcune aree di maggiore delicatezza, anche dal punto di vista della ‘instabilità’ dell’italiano.
In dipendenza di principali con un verbo di dire e simili (verbi di pensare, percepire, sperare, ecc.), il latino usava clausole completive con l’➔accusativo con l’infinito. A dispetto della sua frequenza, questa soluzione era inefficiente (Coleman 1987: 197), perché neutralizzava nella dipendente alcune distinzioni che erano invece perfettamente chiare nella forma indipendente: quella tra soggetto e oggetto, quella tra tempi e quella tra modi diversi.
Le lingue romanze hanno modificato questi meccanismi elaborando soluzioni diverse. In mezzo ad altri importanti mutamenti nella struttura delle completive, esse continuano in due diversi modi la costruzione dell’accusativo con l’infinito:
(a) soluzione ‘esplicita’ (con verbo finito: penso che verrò);
(b) soluzione ‘implicita’ (con verbo all’infinito: penso di venire).
Quanto alla scelta tra l’una e l’altra soluzione, esistono sensibili differenze tra le lingue romanze. Lo spagnolo, per es., ha una spiccata preferenza per la forma esplicita nelle clausole completive con verbi di opinione e di influenza (➔ psicologici, verbi), con i quali l’italiano usa invece la soluzione implicita:
(67) chi credi di essere? ~ quién te crees que eres?
(68) ti prego di uscire ~ te ruego que salgas
L’italiano, invece, adopera tanto la soluzione implicita quanto quella esplicita, in parte secondo la natura del verbo principale, in parte con alternanza libera tra le due (in ogni caso, la soluzione esplicita in 70 a. e b. è sentita come colloquiale):
(69) diverso significato
a. Luigi, mik ha detto di venirek
b. Luigi, mik ha detto che viene
(70) uguale significato
a. ha promesso di arrivare / ha promesso che arriva
b. spero di farcela / spero che ce la faccio
Se guardiamo ai dati quantitativi, verifichiamo che l’italiano sfrutta le due soluzioni in misura diversa secondo il mezzo di cui si serve: nel parlato, le esplicite hanno il 68,2% (Voghera 1992: 219 segg.); quindi, due clausole esplicite su una implicita. Nello scritto, invece, le due classi sono all’incirca alla pari (esplicite al 53,3%, implicite al 45,8%): una esplicita su 1,2 implicite. Insomma l’italiano, pur avendo una varietà di soluzioni per le completive, nel parlato tende a preferire le esplicite.
Concludiamo con alcune considerazioni a cavallo tra morfologia e lessico. Nel lessico italiano esistono alcune classi di parole peculiari tra le lingue romanze: si tratta di classi di verbi (verbi pronominali, verbi sintagmatici) e di alcune classi di nomi (nomi supporto), che sembrano essere specificamente italiane.
Unico tra le lingue romanze, l’italiano ha un fitto elenco di verbi costituiti dalla voce lessicale + un elemento aggiuntivo (➔ pronominali, verbi). In mancanza di un temine stabile, chiameremo questa classe verbi complessi (Masini in stampa). L’elemento aggiuntivo può essere di tre tipi:
(a) il clitico ci;
(b) uno o due clitici del tipo di -se + ne o -se + la (o anche il solo -la);
(c) un avverbio, normalmente esprimente movimento o direzione.
Vediamo partitamente queste classi:
(a) verbo + -ci: questo costrutto ricorre in una varietà di voci di alta frequenza: averci (forma colloquiale di avere nel senso di «possedere»: ci hai mezz’ora di tempo?), capirci (non ci ho capito niente), entrarci (quante persone ci entrano?, ma anche questo non c’entra «non è pertinente»), esserci, farci (che ci fai qui?), restarci (male), rimetterci (in questo affare, ci ho rimesso), sentirci (con questo rumore, non ci sento), starci «essere d’accordo» (non ci è stata!), vederci, volerci «essere necessario»; va notato, a proposito di averci, che, sebbene frequentissimo nell’uso parlato, è raro in quello scritto, al punto che non ha neanche una trascrizione attendibile e perspicua: la pronuncia [ʧo], per es., della frase [ʧo] la febbre si trova trascritta sia ci ho (ambigua, perché potrebbe essere pronunciata anche [ʧiˈo] «stesso significato» o essere omofona di ciò) sia c’ho (imprecisa, dato che verrebbe probabilmente pronunciata [ko]);
(b) verbo + -la/-sela/-sene: andarsene, avercela (con), farcela «riuscire», fregarsene, prendersela, ecc.;
(c) verbo + avverbio di movimento, con voci semplici equivalenti: sono i cosiddetti verbi sintagmatici, circa 200 voci, attestate sin dall’antichità (Simone 1996; Masini 2006; Cini 2007, ➔ sintagmatici, verbi), tipica specificità italiana (lo spagnolo ne ha meno di una decina, il francese qualcuno di più): andare dietro «seguire», andare indietro «arretrare», andare sotto «immergersi; decadere», andare su «salire; aumentare», andare avanti «avanzare», buttare giù «buttare; scrivere rapidamente; deprimere», fare fuori «uccidere; eliminare», portare avanti «sviluppare», tirare su «sollevare; confortare», ecc.
Proprietà dell’italiano dal punto di vista lessicale è la possibilità di associare, praticamente a qualsiasi verbo transitivo, un pronome clitico personale indicante la persona in rapporto alla quale l’azione descritta viene vista. Quest’uso è percepito come tipico del parlato informale, ma è facile trovarne esempi anche in registri più accurati:
forma senza riferimento forma con riferimento
personale personale
ho bevuto una birra mi sono bevuto una birra
ho fatto un lungo viaggio mi sono fatto un lungo viaggio
abbiamo visto un bel film ci siamo visti un bel film
Negli esempi citati, il riferimento personale ha il significato di indicare la persona a vantaggio o a svantaggio della quale l’azione descritta è compiuta. In questo senso, le forme di verbo con riferimento personale sono probabilmente un’eredità del cosiddetto ➔ dativo etico latino, che aveva approssimativamente la stessa funzione. Ma ci sono altri casi in cui il riferimento personale serve a dare espressione a relazioni più complesse:
forma senza riferimento forma con riferimento
personale personale
a. ? ha rotto il suo braccio a’. si è rotto il braccio
b. ha portato mio figlio a scuola b’. mi ha portato il figlio a scuola
c. ha portato mio figlio a casa sua c’. mi si è portato il figlio a casa
d. scrivi questa lettera al posto mio? d’. mi scrivi questa lettera?
e. chiami un taxi per me? e’. mi chiami un taxi?
In questa funzione più larga, i verbi con riferimento personale indicano, secondo i casi:
(a) una relazione di proprietà o possesso (caso a’., dove quella è l’unica codifica possibile);
(b) la persona al posto della quale viene compiuta una certa azione (casi b. e c.);
(c) la persona a vantaggio della quale l’azione è compiuta (casi d. ed e.).
Per i verbi sintagmatici si veda la voce (➔ sintagmatici, verbi). Basta ribadire qui che costituiscono una peculiarità italiana, per la numerosità della lista che formano, per l’alta frequenza nell’uso (tanto nella varietà parlata quanto in quella scritta), per il fatto che tendono a prevalere sulle forme sintetiche sinonime (andare avanti è più frequente del sinonimo avanzare, andare indietro più di arretrare, ecc.) e anche per il fatto che se ne trovano documenti anche in italiano antico (Simone 1996; Masini 2006).
Per i verbi inaccusativi e la loro definizione, si veda la voce (➔ inaccusativi, verbi). Qui va detto che l’italiano è la lingua romanza in cui i verbi inaccusativi sono più numerosi. Questo è uno dei motivi (non il solo) per il quale in italiano il soggetto è posposto tanto spesso, sia in frasi principali che in subordinate, anche senza che siano in gioco focalizzazioni. Si veda, per es., questo confronto tra italiano e francese:
(71) quando arriva il tuo amico, partiamo ~ quand ton ami arrive, on part
(72) entra Luigi e mi fa … ~ Luigi entre et me fait …
A ciò si aggiunge il fatto che la posizione dei costituenti in italiano è molto sensibile alla distinzione tra dato e nuovo, per la quale l’elemento nuovo tende a stare per primo rispetto al dato (così entra, che è nuovo, rispetto a Luigi, che è dato, in 72).
Una peculiarità dell’italiano quanto ai nomi, infine, è una categoria, dal significato piuttosto generico, che alcuni (Simone & Masini 2009) hanno proposto di chiamare nomi supporto (➔ nomi). Costituiscono una lista relativamente limitata: colpo, botta, accesso, attacco, messa. Di alta frequenza e di vasto uso, questi nomi formano un sintagma del tipo nome 1 + di + nome 2, in cui occupano la prima posizione: attacco di ira. In simili sintagmi, i nomi supporto servono a conferire al secondo nome (tipicamente un nome astratto o non pluralizzabile) la capacità di pluralizzarsi, e nell’insieme designano un evento breve e improvviso:
(73) la bontà ~ * le bontà ma gli atti di bontà
(74) colpo di freni → colpi di freni
Tali nomi, molto frequenti in italiano, si trovano anche in francese (da cui probabilmente derivano per calco) ma non in spagnolo, dove lo stesso significato viene reso con altri mezzi (colpo di freni ~ frenazo; colpo d’occhio ~ vistazo).
Agard, Frederick B. (1984), A course in Romance linguistics, Washington (D.C.), Georgetown University Press, 2 voll., vol. 2º (A diachronic view. An historical comparison with reconstruction of their common source and a chronological account of their development through changes and splits).
Benincà, Paola (1993), Sintassi, in Sobrero 1993, pp. 41-100.
Benincà, Paola et al. (1988), L’ordine degli elementi della frase e le costruzioni marcate, in Renzi, Salvi & Cardinaletti 1988-1995, vol. 1° (La frase. I sintagmi nominale e preposizionale), pp. 115-225.
Berretta, Monica (1985), I pronomi clitici nell’italiano parlato, in Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, hrsg. von G. Holtus & E. Radtke, Tübingen, Narr, pp. 185-223.
Berretta, Monica (1986), Per uno studio dell’apprendimento dell’italiano in contesto naturale: il caso dei pronomi atoni, in L’apprendimento spontaneo di una seconda lingua, a cura di A. Giacalone Ramat, Bologna, il Mulino, pp. 129-52.
Berretta, Monica (1989), Tracce di coniugazione oggettiva in italiano, in L’italiano tra le lingue romanze. Atti del XX congresso della Società Linguistica Italiana (Bologna, 25-27 settembre 1986), a cura di F. Foresti, E. Rizzi & P. Benedini, Roma, Bulzoni, pp. 125-150.
Bertinetto, Pier Marco (1981), Strutture prosodiche dell’italiano. Accento, quantità, sillaba, giuntura, fondamenti metrici, Firenze, Accademia della Crusca.
Bertinetto, Pier Marco (1986), Tempo, aspetto e azione nel verbo italiano. Il sistema dell’indicativo, Firenze, Accademia della Crusca.
Cini, Monica (a cura di) (2007), I verbi sintagmatici in italiano e nelle varietà dialettali. Stato dell’arte e prospettive di ricerca. Atti delle Giornate di studio (Torino, 19-20 febbraio 2007), Frankfurt am Main, Lang, pp. 13-30.
Coleman, R.G.G. (1987), Latin and the Italic languages, in The world’s major languages, edited by B. Comrie, London, Croom Helm, pp. 180-202.
D’Achille, Paolo (1990), Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana. Analisi di testi dalle origini al secolo XVIII, Roma, Bonacci.
Durante, Marcello (1981), Dal latino all’italiano moderno. Saggio di storia linguistica e culturale, Bologna, Zanichelli.
Ferreri, Silvana (1983-1986), The evolving gerund, «Journal of Italian Linguistics» 8, pp. 25-66.
Franchi De Bellis, Annalisa & Savoia, Leonardo M. (a cura di) (1985), Sintassi e morfologia della lingua italiana d’uso. Teorie e applicazioni descrittive, Atti del XVII convegno internazionale della Società di Linguistica Italiana (Urbino, 11-13 settembre 1983), Bulzoni, Roma.
Gadet, Françoise (1992), Le français populaire, Paris, PUF.
Harris, Martin & Vincent, Nigel (edited by) (1988), The Romance languages, London, Routledge.
Iacobini, Claudio (1992), La prefissazione in italiano (tesi di dottorato inedita), Università di Roma La Sapienza.
Korzen, Iørn (1996), L’articolo italiano fra concetto ed entità. Uno studio semantico-sintattico sugli articoli e sui sintagmi nominali italiani con e senza determinante, København, Museum Tusculanum Press, 2 voll.
Masini, Francesca (2006), Diacronia dei verbi sintagmatici in italiano, «Archivio glottologico italiano» 91, pp. 67-105.
Masini, Francesca (in stampa), Costruzioni verbo-pronominali ‘intensive’ in italiano, in Atti del XLII congresso internazionale della Società di linguistica italiana (Pisa, 25-27 settembre 2008), a cura di P.M. Bertinetto, Roma, Bulzoni.
Mioni, Alberto M. (1993), Fonetica e fonologia, in Sobrero 1993, pp. 101-139.
Nencioni, Giovanni (1987), Costanza dell’antico nel parlato moderno, in Gli italiani parlati. Sondaggi sopra la lingua di oggi. Incontri del Centro di studi di grammatica italiana (Firenze, 29 marzo - 31 maggio 1985), Firenze, Accademia della Crusca, pp. 7-25 (rist. in Id., Saggi di lingua antica e moderna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1989, pp. 281-299).
Posner, Rebecca (1996), The Romance languages, Cambridge, Cambridge University Press.
Renzi, Lorenzo, Salvi, Giampaolo & Cardinaletti, Anna (a cura di) (1988-1995), Grande grammatica italiana di consultazione, Bologna, il Mulino, 3 voll.
Russi, Cinzia (2008), Italian clitics. An empirical study, Berlin - New York, Gruyter.
Salvi, G. (1985), L’infinito con l’articolo, in Franchi De Bellis & Savoia 1985, pp. 243-268.
Sansò, Andrea (2003), Degrees of event elaboration. Passive construction in Italian and Spanish, Milano, Franco Angeli.
Scalise, Sergio (1983), Morfologia lessicale, Padova, Clesp.
Simone, Raffaele (1983), Punti di attacco dei clitici in italiano, in Italia linguistica. Idee, storia, strutture, a cura di F. Albano Leoni et al., Bologna, il Mulino, pp. 285-307.
Simone, Raffaele (1996), Esistono verbi sintagmatici in italiano?, «Cuadernos de Filología Italiana» 3, pp. 47-61 (rist. in Lessico e grammatica. Teorie linguistiche e applicazioni lessicografiche, Atti del convegno internazionale della Società di Linguistica Italiana, Bulzoni, Roma, pp. 155-170).
Simone, Raffaele (1997), Une interprétation diachronique des ‘dislocations à droite’ dans les langues Romenes, «Langue française» 115, pp. 48-61.
Simone, Raffaele (2008), Verbi sintagmatici come costruzione e come categoria, in Cini 2007, pp. 13-30.
Simone, Raffaele & Masini, Francesca (2009), Support nouns and verbal features. A case study from Italian, «Verbum» 29, pp. 140-172.
Sobrero, Alberto A. (a cura di) (1993), Introduzione all’italiano contemporaneo, Roma - Bari, Laterza, 2 voll., vol. 1° (Le strutture).
Solarino, Rosaria (1992), Fra iconicità e paraipotassi: il gerundio nell’italiano contemporaneo, in Linee di tendenza dell’italiano contemporaneo. Atti del XXV congresso internazionale della Società di Linguistica Italiana (Lugano, 19-21 settembre 1991), a cura di B. Moretti, D. Petrini & S. Bianconi, Roma, Bulzoni, pp. 155-170.
Solarino, Rosaria (1996), I tempi possibili. Le dimensioni temporali del gerundio italiano, Padova, Unipress.
Sorianello, Patrizia (2009), L’italiano. Suoni e forme, Bologna, il Mulino.
Thornton, Anna M. (1990-1991), Sui deverbali italiani in -mento e -zione, «Archivio glottologico italiano» 75, pp. 169-207; 76, pp. 79-107.
Voghera, Miriam (1992), Sintassi e intonazione nell’italiano parlato, Bologna, il Mulino.