Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Seicento emerge il problema di trovare o costruire artificialmente una lingua universale che permetta di superare le barriere delle differenze linguistiche nazionali. Mentre alcuni si limitano a sottolineare l’utilità pratica di una simile lingua, altri ritengono che una lingua universale debba essere anche “filosofica” e “perfetta”, debba cioè rispecchiare la classificazione reale degli enti e sopperire alle imperfezioni delle lingue naturali.
L’origine dei progetti di lingue universali
I progetti secenteschi di lingue universali e filosofiche nascono innanzitutto da due tipi di constatazioni pratiche. La prima è che sulla Terra si parlano moltissime lingue assai diverse tra loro: i resoconti di viaggio e delle scoperte geografiche hanno diffuso in tanti ambienti questa consapevolezza, generando l’esigenza di avere una sola lingua comune, comprensibile a tutti i popoli, per facilitare il compito di viaggiatori, soldati, mercanti e missionari.
La seconda constatazione è che neanche in Europa esiste più una sola lingua per tutti: il latino è ormai parlato dai soli ecclesiastici e intellettuali, mentre il popolo, i letterati e gli stessi sovrani parlano le loro lingue nazionali, affermatesi definitivamente e divenute oggetto di studio tra Cinque e Seicento.
A queste considerazioni si aggiunge una constatazione condivisa da molti filosofi: le lingue umane creano confusione ed equivoci, perché i singoli individui, pur usando le stesse parole, possono dar loro un diverso significato o sfumature differenti. Per di più la sintassi e la grammatica delle lingue sono così complesse che consentono a chiunque di organizzare complicati discorsi col semplice scopo di convincere, affascinare o, peggio, ingannare chi ascolta, persuadendolo illusoriamente della verità di quel che è stato detto. Un’altra osservazione ricorrente è che ormai nessun filosofo capisce più quello che dice un altro, perché non esiste un accordo internazionale sui concetti fisici o filosofici principali, e ognuno li interpreta secondo il proprio sistema di riferimento. Tutto ciò spinge molti a pensare che sia giunto il momento di cercare o, qualora non la si trovi, di inventare una lingua universale che consenta a tutti di comunicare facilmente e di intendersi sul significato dei discorsi.
Tuttavia mentre per linguisti, religiosi e viaggiatori si tratta solo di accordarsi su un sistema di comunicazione internazionale, i filosofi propongono qualcosa in più: la lingua universale deve essere anche filosofica o “perfetta”, deve cioè rispecchiare l’ordine e la classificazione degli enti.
I precedenti e le innovazioni secentesche: il mito della Cina
L’idea di una lingua universale o filosofica esisteva già da alcuni secoli nella cultura filosofica e religiosa europea, ma era intesa in senso completamente differente. Si pensava infatti che fosse esistita una sola lingua originaria e primigenia dell’umanità, poi perduta o dimenticata, vuoi per l’evoluzione storica, vuoi per la volontà di pochi eletti di tenerla segreta e riservata, vuoi infine per colpa teologica, perché Adamo l’aveva perduta commettendo il peccato originale o perché Dio aveva punito i costruttori della Torre di Babele confondendo le lingue.
Questa tradizione è ripresa nel Seicento da mistici e religiosi, che pensano che la lingua perduta sia l’ebraico, e che dell’ebraico restino tracce in tutte le lingue moderne. Tra questi vi sono Duret, Guichard e van Helmont. Non mancano tuttavia coloro che ritengono che non sia necessario cercare o inventare la lingua perfetta, perché questa esiste già e coincide con la lingua parlata in una determinata regione della terra. Ciascuno ritiene che la lingua parlata nel proprio paese d’origine derivi dall’ebraico prebabelico e abbia mantenuto pure le caratteristiche di questa origine. Tra questi ci sono Abraham Mylius, Schrickius, Stiernhielm, Kempe, Rudbeck, Harsdörffer.
Altri sono attratti dalla presunta perfezione di lingue e scritture esotiche come i geroglifici egizi o gli ideogrammi cinesi. Molto importante è l’influenza del cinese studiato dal Cinquecento in poi: per molti è la vera lingua perduta, per altri è il modello di una scrittura internazionale codificata.
Nel Seicento si diffonde una sorta di “mito della Cina” secondo il quale la scrittura cinese è ideografica e costituisce, dunque, un buon modello di scrittura internazionale e inoltre poiché essa viene efficacemente utilizzata da tutti i popoli d’Oriente, potrebbe utilmente ispirare linguisti e filosofi europei per l’invenzione di una lingua universale.
Le ideografie internazionali
Per creare un’adeguata ideografia internazionale non basta una semplice riforma delle lingue naturali. Occorre invece stabilire un sistema di simboli, come disegni o segni grafici astratti, che si riferiscano univocamente a un’idea o a un oggetto.
Un tale sistema di segni dotati di riferimento univoco costituirebbe, naturalmente, solo un sistema di comunicazione scritta. La notazione ideografica potrà poi essere verbalizzata, dai parlanti di diverse lingue, attraverso i lessemi delle varie lingue nazionali. Il sistema garantirebbe così la comunicazione internazionale senza eliminare le lingue nazionali.
Sono in molti a scrivere di un sistema simile senza però riuscire a realizzarlo: tra tutti si segnala Athanasius Kircher anche perché tenta di dimostrare che i geroglifici egizi già costituivano un’ideografia perfetta, il cui segreto era stato conservato nell’antichità dai sapienti egizi.
Kircher tenta di decifrare i geroglifici egizi sulla base di questi presupposti. I suoi risultati sono scientificamente errati, ma un’opera come l’Oedipus Aegyptiacus contiene un insieme stupefacente di leggende, miti, dati e informazioni, tavole, disegni, testimonianze ed etimologie fantastiche di enorme impatto letterario. Kircher crea anche un nuovo sistema ideografico che impiega simboli geometrici e si dedica a progetti poligrafici in cui prevale l’idea di creare un nuovo sistema lessicale o alfabetico.
Poligrafie e lingue filosofiche
Numerosi sono i tentativi di creare una lingua filosofica originale. I più semplici adottano un principio ideografico di base, ma il loro sistema prevede simboli astratti di tipo geometrico, o per puntini, lineette, segni curvi e spiraliformi, che hanno il vantaggio di mantenere la segretezza se si ignora la chiave di lettura. Un punto cruciale di tali progetti è l’esigenza di fissare e delimitare un elenco chiaro e definitivo di nozioni o concetti base che costituiscono il dizionario della nuova lingua o scrittura, eliminando altri termini superflui.
A progetti simili si dedicano tra gli altri Douet, Becher, Schott, Lodwick, Cave Beck, Urquhart, ma anche Wilkins e Dalgarno, autori dei due progetti più celebri e più studiati per tutto il secolo successivo.
Il punto essenziale di tali progetti, come si è già accennato, è che a ogni simbolo deve essere associato uno e un solo significato chiaramente definito, di modo che risulti impossibile fraintendere il significato dei termini del linguaggio. Un corollario di questo principio è il divieto di introdurre nuovi termini non definiti (o, almeno, una simile possibilità viene ristretta a pochi casi e resa difficile da regole severe).
John Wilkins
Analisi
Saggio per un carattere reale e una lingua filosofica
I vantaggi proposti da questo linguaggio filosofico erano la facilitazione dei rapporti reciproci fra le varie nazioni del mondo, il miglioramento della conoscenza della natura e la propagazione della religione: il nostro autore era anche del parere che avrebbe potuto recare un notevole contributo alla risoluzione di alcune moderne controversie religiose, smascherando molti gravi errori che si nascondono sotto la parvenza di frasi affettate. Molte di tali nozioni che si pretendono misteriose e profonde, quando sono espresse in termini gonfi e altisonanti, dopo un esame di questo genere apparirebbero assurde o sterili. Quale che possa essere il risultato di questo tentativo di istituire una scrittura reale e introdurla nell’uso comune presso diverse nazioni del mondo - in ciò il nostro autore nutriva scarsa fiducia -, tuttavia era convinto di questo, che la riduzione di tutte le cose e dei concetti a tavole del tipo che egli propone, se fosse realizzata con tutta la completezza possibile, si rivelerebbe la via più breve e semplice per il conseguimento dell’autentica conoscenza che si sia finora presentata al mondo. (...) Nella sua prefazione al lettore egli riferisce sul modo in cui è giunto a intraprendere questo lavoro: in seguito alle sue conversazioni con il Dr. Seth Ward, allora vescovo di Salisbury, sui vari desiderata che alcuni dotti personaggi proponevano come necessari per l’avanzamento dei vari campi del sapere, trovò che questo progetto di una scrittura universale era uno dei principali e dei più facilmente realizzabili, qualora fosse perseguito con metodo; ma la maggior parte di coloro che avevano fatto qualche tentativo in questo senso erano partiti da presupposti erronei, proponendo una caratteristica corrispondente a qualche lingua particolare, senza fare riferimento alla natura delle cose e ai concetti di queste ultime su cui tutti gli uomini concordano. Questa considerazione gli fornì la prima intuizione della linea che occorreva seguire per la realizzazione di tale disegno.
[Wilkins] afferma che passò molto tempo prima che mettesse in atto questo tentativo; e la prima occasione fu il suo desiderio di assistere un’altra persona nell’elaborazione di caratteri reali in base alle idee naturali delle cose. Allo scopo di incoraggiare il piano di quella persona compilò la tavola delle sostanze, o delle specie dei corpi naturali, riuniti sotto vari capitoli. (...) Ma quel personaggio, ritenendo che questo metodo fosse troppo esteso e pensando di poter formare tutte le principali radici in modo più breve e semplice, non fece uso delle tavole del dottore. Il nostro autore tuttavia, convinto che questo fosse l’unico metodo per realizzare tale impresa, e poco propenso a sprecare tanta fatica, continuò con le tavole degli accidenti e quindi tentò di ricondurre a queste tavole gli altri termini del dizionario, sia che fossero sinonimi o che dovessero essere definiti mediante questi. Questo costituì un valido sistema per provare la completezza di quelle tavole, e anche un aiuto per chi doveva imparare e senza una simile indicazione non sarebbe forse stato in grado di trovare a prima vista il posto esatto e il significato di molti termini.l’ulteriore perfezionamento di tale opera, il nostro autore ritenne necessario elaborare una grammatica naturale, che fosse adeguata alla natura del linguaggio, facendo astrazione da molte regole superflue appartenenti alle lingue istituzionalizzate. Egli mette in rilievo l’assistenza ricevuta dai suoi dotti amici in svariati campi: in particolare dal signor Francis Willoughby per le varie specie di animali; dal signor John Ray, per le tavole delle piante; e per le altre difficoltà dal dottor William Lloyd, che gli pareva più competente di chiunque altro per l’esattezza dei suoi giudizi in materia di filosofia e di filologia: a lui in particolare è debitore per l’adattamento delle tavole al dizionario e la redazione del dizionario stesso, che egli non dubita sarà considerato il più perfetto che sia mai stato fatto per la lingua inglese. (...) Il capitolo quinto comprende tre sezioni. La prima sostiene che né le lettere né le lingue sono state istituite metodicamente secondo le regole dell’arte: né avrebbe potuto essere altrimenti, poiché la grammatica (mediante la quale dovrebbero essere regolate) è un’invenzione assai più recente rispetto alle lingue stesse, come risulta evidente dall’ebraico, che, pur essendo la più antica di tutte, non fu ordinata secondo regole grammaticali fino all’anno 1040. Nella seconda tratta dei fondamenti e principî dei vari mezzi di comunicazione tra gli uomini; qui sostiene che, come essi in genere si accordano nel medesimo principio della ragione, in modo analogo concordano negli stessi concetti e nell’intuizione delle cose. Queste idee interiori vengono trasmesse all’orecchio mediante suoni, in particolare mediante parole, e all’occhio mediante i movimenti e le figure ecc., e in particolare mediante la scrittura. Così, se gli uomini si trovassero d’accordo sul medesimo modo di espressione, così come concordano sulla medesima idea, saremmo liberati dalla maledizione della confusione delle lingue, e da tutte le sue funeste conseguenze.obiettivo può realizzarsi solo mediante qualche lingua o scrittura che venga universalmente applicata e imposta d’autorità: ciò non può verificarsi senza una monarchia universale, e forse neppure allora; oppure con l’aiuto di qualche metodo che, in assenza di tale autorità, possa indurre gli uomini al apprenderlo a causa della sua semplicità e utilità, [metodo] che costituiva l’obiettivo del presente saggio. La terza sezione ci informa che, in vista di questo scopo, la prima cosa da prendere in considerazione è un’esatta enumerazione e descrizione degli oggetti ai quali dovrebbero venire assegnati dei simboli o nomi, ideati in modo da essere completi e adeguati senza lacune o ripetizioni quanto al loro numero, e regolari secondo il loro posto e ordine.se ogni cosa e concetto avesse un segno distinto, con qualche accorgimento per esprimere le derivazioni e modificazioni grammaticali che risultano naturali e necessarie, ciò realizzerebbe uno dei grandi scopi della scrittura reale, [la capacità di] significare cose e non parole. (...) Dunque, se questi simboli o nomi potessero essere ideati in modo da avere una tale relazione e dipendenza reciproca quale potesse corrispondere alla natura delle cose che essi rappresentano; e d’altro canto, se i nomi delle cose potessero essere formati in modo da contenere nelle loro lettere e suoni una affinità o opposizione che in qualche modo potesse corrispondere alla natura delle cose che significano, questo sarebbe un ulteriore vantaggio, poiché oltre ad aiutare la memoria con un metodo naturale, la comprensione sarebbe migliorata: imparando i caratteri e i nomi delle cose, potremmo altresì imparare a conoscere le loro nature.
in C. Giuntini, Scienza e società in Inghilterra dai Puritani a Newton, Torino, Loescher, 1979
I progettisti di lingue filosofiche perfette contano in tal modo di evitare il difetto principale delle lingue naturali: la polisemia, ovvero la possibilità che le parole abbiano più di un significato, o che il loro significato cambi nel tempo e a seconda del parlante, così da creare equivoci, inganni e fraintendimenti. L’elaborazione di dizionari di base è dunque un compito prioritario per la proposta di un nuovo progetto di lingua universale.
Affinché a ogni termine corrisponda una idea definita occorre stabilire un sistema universale delle idee, una sorta di recensione organizzata delle nozioni comuni a ogni essere umano e a ogni cultura. Il progetto più completo in merito è quello dello Essay Toward a Real Character di Wilkins (1668), ma anche una rapida esposizione di questo sistema mostra i limiti insiti in ogni progetto di lingua razionale.
Wilkins propone di rappresentare i significati di ogni termine attraverso un sistema gerarchico di incassamenti da genere a specie (puntigliosamente esibito), ma nel contempo vuole rendere conto della molteplicità non-irreggimentabile di nozioni di cui un parlante comune dispone. Pertanto elabora una sorta di colossale recensione del sapere e stabilisce una tavola di 40 Generi maggiori per poi suddividerli in 251 Differenze peculiari e derivarne 2030 Specie (che si presentano in coppie). La tavola dei 40 generi parte da concetti generalissimi come Creatore e Mondo e, attraverso una divisione tra sostanze e accidenti, sostanze animate e inanimate, creature vegetative e sensitive, perviene a Pietre, Metalli, Alberi, Uccelli, oppure accidenti come Grandezza, Spazio, Qualità sensibili, Relazioni Economiche.
Più articolate sono le tavole che permettono di arrivare alle singole specie, dove Wilkins pretende di classificare, per esempio, anche bevande come la birra, in modo da rappresentare l’intero universo nozionale di un cittadino inglese del XVII secolo. Rispetto a questo sistema di idee, che Wilkins presume comuni a tutti gli uomini (peccando ovviamente di etnocentrismo) i “caratteri reali” che egli propone sono segni (che assumono sia una forma scritta, quasi geroglifica, sia una forma pronunciata, e trascritta in caratteri latini pronunciabili). Pertanto, se De significa Elemento, e Deb la prima differenza (Fuoco), Deb* denoterà la prima Specie, che è Fiamma.
Tuttavia questo sistema permette di classificare la Fiamma ma non di riconoscere le sue varie proprietà, per esempio la sua capacità di bruciare. Parimenti accade con le altre specie: per esempio il sistema wilkinsiano, date le Bestie Vivipare Dotate di Zampa, le distingue in Rapaci e Non Rapaci, e tra i Rapaci annovera il cat-kind e il dog-kind, quest’ultimo dividendosi in Europei ed Esotici, gli Europei in Anfibi e Terrestri, i Terrestri in “più grandi” (Cane/Lupo) e “più piccoli” (Volpe/Tasso); e tuttavia non riesce a esprimere quali siano le proprietà che distinguono un cane da un lupo (per non dire da un gatto). Per conoscere queste proprietà bisogna andare a consultare le densissime tavole enciclopediche che Wilkins fa seguire alle classificazioni, e solo in quella sede si apprende per esempio che i vivipari con le zampe hanno piedi con dita, i rapaci hanno usualmente sei incisivi aguzzi e due lunghe zanne per trattenere la preda, i dog-kind hanno la testa rotonda e per questo si distinguono dai cat-kind che l’hanno invece più oblunga, i più grandi tra i canidi si suddividono in “domestico-docili” e “selvaggi-ostili alle pecore”. Insomma la lingua filosofica di Wilkins tassonomizza ma non definisce. Per definire, il sistema deve fare ricorso a una raccolta di informazioni espresse in linguaggio naturale che hanno appunto il formato di una enciclopedia. Ma a questo punto il formato della lingua artificiale è altrettanto complesso quanto quello dell’universo di cui dovrebbe parlare e pertanto presuppone il sapere che dovrebbe esprimere.
Le varie lingue perfette devono inoltre seguire una grammatica che, per essere adeguata a tutte le lingue nazionali, deve essere anch’essa generale e universale: perciò gli inventori delle lingue si affidano alle “grammatiche generali” derivate dalla tradizione della riflessione grammaticale inaugurata dai filosofi di Port-Royal.
Queste grammatiche finiscono per essere tutte modellate su una grammatica latina semplificata e ridotta, considerata come il modello grammaticale soggiacente a tutte le lingue: con una sola declinazione, una sola coniugazione verbale e pochi tempi e modi. Solo in alcuni casi la nuova grammatica filosofica finisce per innovare anche le categorie grammaticali e sintattiche. Ciò accade in George Dalgarno (1626-1687), che elimina le declinazioni, o in Francis Lodwick (1619-1694), che elimina le otto parti del discorso e le fa derivare tutte da un ristretto repertorio di “azioni” fondamentali. Sono pochi i casi, infine, di progettisti che propongono di elaborare linguaggi universali prescindendo dai sistemi linguistici.
Se le lingue umane sono false e corrotte, e le nuove lingue artificiali non riescono a funzionare, si possono sostituire tutti questi sistemi con quello più originario, puro ed elementare del linguaggio gestuale. Alcuni teorici, considerando la comunicazione gestuale pura e incorrotta proprio per la sua elementarità, cercano di descrivere e classificare i gesti utilizzati da tutte le genti, per individuare un alfabeto comune sul quale edificare una lingua universale. Nell’opuscolo Riduzione delle lettere e tecnica per insegnare a parlare ai muti (1620) lo spagnolo Juan Pablo Bonet sostiene l’opportunità di usare, nell’educazione dei sordomuti, il linguaggio dei gesti, ovvero un sistema di comunicazione naturale piuttosto che un sistema artificiale come la scrittura. Nel trattato Chirologia, o il linguaggio naturale della mano (1644) l’inglese John Bulwer propone l’adozione di un linguaggio gestuale come sistema internazionale di comunicazione. Si sofferma quindi ad analizzare, allegando numerose tavole illustrative, diversi tipi di gesti e tenta di ricavare i princípi generali su cui basata la loro significazione naturale.
Nessuna lingua universale o filosofica proposta nel Seicento riesce a funzionare: si tratta perlopiù di progetti di grande erudizione, che mescolano suggestioni mistiche e cabalistiche a tentativi di unificazione delle Chiese del mondo o ad aspirazioni di sistematicità filosofica.
Gli elementi primi e la sintassi logica: Cartesio e Leibniz
I progetti di lingue universali si basano sul principio che occorre trovare alcune idee-base del pensiero, dalla cui composizione e combinazione derivino tutti i concetti che costituiscono il nuovo dizionario: si tratta, diremmo oggi, di identificare i “primitivi semantici” del pensiero.
Un simile progetto è ritenuto necessario anche da Cartesio (1596-1650) che, in una famosa lettera a Mersenne, critica uno dei tanti progetti di lingue perfette che gli erano stati sottoposti. Egli pensa anche che si tratti di un progetto impossibile perché non si troverà mai un accordo universale su quali siano gli elementi primitivi del pensiero.
Dello stesso avviso è Leibniz (1646-1716), che tenta numerosi progetti, di tipo diverso e secondo direzioni nuove in epoche successive della sua vita, basandosi tuttavia sull’idea che si possano adottare alcuni principi iniziali “arbitrari” a partire dai quali sviluppare un dizionario rigoroso e preciso.
Leibniz supera così le obiezioni di Cartesio, ma anche tutti i progetti precedenti, poiché propone che i termini, anziché riferirsi a idee già definite, siano “vuoti” come i simboli algebrici, ma come questi ultimi permettano operazioni rigorose di calcolo. L’interesse di Leibniz si sposta dunque sul piano sintattico della nuova lingua. Sulla base di quest’idea elabora il progetto di una characteristica (un sistema di caratteri o segni) universale, in cui ogni termine primitivo è espresso da un simbolo alfabetico o grafico. Il modo in cui questi simboli si collegano e si combinano per creare nuovi simboli è un calcolo, di cui Leibniz definisce regole e condizioni. La “caratteristica universale” si presenta dunque come un sistema di controllo dei processi di combinazione (o di calcolo) dei termini ed è la sintassi del calcolo che garantisce, secondo Leibniz, il rigore dei discorsi rendendo impossibile l’errore e la confusione.