Lingue
E glòssama e’ fonì, fonì manechò (in griko, «La nostra lingua è voce, voce soltanto»)
Lingue minacciate
di Raffaele Simone
20 febbraio
Alla vigilia della giornata internazionale della lingua materna, l’UNESCO presenta a Parigi l’Atlante delle lingue in pericolo nel mondo, uno strumento interattivo che propone dati aggiornati su circa 2500 lingue a rischio di estinzione. In Italia sono giudicate seriamente in pericolo cinque parlate: töitschu della Valle d’Aosta, croato del Molise, griko del Salento, griko e gardiol della Calabria.
Il patrimonio della glottodiversità
Chi ha mai sentito parlare di lingue come il baldemu o lo ngong? Sono idiomi del Camerun e hanno da 3 a 6 parlanti il primo e 3 il secondo. O forse avevano, perché i dati sono vecchi di qualche anno. E chi conosce anche solo il nome del puelche o del baure? Lingue dell’America Meridionale, hanno rispettivamente 5 e 13 parlanti. O forse, ancora, li avevano; oggi potrebbe non esserne sopravvissuto nessuno.
Si calcola che le lingue del mondo siano oggi tra 6000 e 7000, anche se il computo di entità così sfuggenti è difficile e poco affidabile. Purtroppo, è invece più attendibile la previsione secondo cui quasi la metà di esse sparirà entro questo secolo, per la forza di un inequivocabile trend che si è annunciato nei decenni scorsi e ha già cancellato dalla faccia della Terra varie centinaia di idiomi. Anche qui, come è ovvio, i calcoli sono approssimativi. Non mancano le prospettive catastrofiche: Colette Grinevald, dell’Università di Lione, nota specialista di lingue amerindiane, prevede per esempio che, entro il 21° secolo, al 90% delle lingue di uso locale, che sono non meno di tre quarti del totale, toccherà in sorte l’estinzione. Del pari, qualcuno calcola che in Africa le lingue in pericolo in questo momento siano una cinquantina, nelle Americhe 170, in Asia circa 80, in Europa 12 e nelle isole del Pacifico poco più di 200. Altri calcoli predicono perfino quante lingue scompariranno ogni anno.
Può darsi che a qualcuno fenomeni come questi paiano insignificanti: che ci importa che scompaiano delle lingue, con tutti i pericoli che gravano sul mondo? Non è scomparsa la lingua degli antichi Egizi? Non è scomparso il latino o l’etrusco? Come risposta basta considerare che la diversità linguistica (si comincia a parlare oggi, con molta pertinenza, di glottodiversità) non è troppo difforme dalla biodiversità o dalla varietà delle forme di cultura. La scomparsa di una lingua equivale più o meno alla perdita di una forma di vita e insieme della possibilità di accedere al mondo di cui quella lingua è manifestazione primaria. Quindi, chi ritiene che la biodiversità sia un bene da preservare non dovrebbe pensarla in altro modo a proposito della glottodiversità.
Del resto, dal punto di vista del linguista, una lingua non è una collezione di etichette incollate sugli oggetti per indicarne il nome, come ritiene la conoscenza ingenua. È il risultato dello sforzo, maturato nei millenni, di esplorare gli orizzonti del significato, di organizzare la vita sociale, di costruire complesse classificazioni dell’esperienza di trovare modo di esprimere emozioni e conoscenze; e, dall’altro lato, lo sforzo di rendere trasmissibile tutto questo delicato patrimonio collegandolo a una gamma di suoni (gli esperti la chiamano fonologia) che sfruttano peculiarmente le risorse della fonazione umana e che rendono ogni lingua riconoscibile rispetto alle altre. Per questi motivi ogni lingua è l’icona di una lunga guerra vinta, e bene ha fatto l’UNESCO a dichiarare eredità intangibile il patrimonio delle lingue del mondo. Sebbene la morte delle lingue sia uno dei portati inevitabili della storia, il rischio che le lingue corrono oggi è elevatissimo, più di quanto sia mai stato nell’evoluzione umana. Nessuno, 30 o 40 anni fa, avrebbe potuto prevedere che la scomparsa delle lingue sarebbe diventata uno dei contrassegni più crudeli della modernità globale. Di ‘morte delle lingue’ si parlava allora solo a proposito di idiomi remoti. Uno tra i più citati era il gotico di Crimea, di cui alla fine del Cinquecento l’ambasciatore fiammingo Ghiselin de Busbecq indicava in una sua lettera talune proprietà. I parlanti di quella lingua, residuo di un antico stanziamento rimasto poi isolato dalla madrepatria, erano già pochissimi, tanto che uno degli informatori dell’ambasciatore aveva abbandonato la propria lingua per passare al greco, più prestigioso e diffuso. Oggi il rischio non è più un aneddoto storico. La strage delle lingue è in pieno svolgimento ed è sotto gli occhi di tutti. Al punto che il problema si è fatto chiaro, oltre che agli specialisti, anche alle organizzazioni internazionali e ai politici (almeno in alcuni paesi), anche perché glielo ricordano, con proteste e iniziative anche dure, le comunità il cui idioma corre maggiori rischi. Le lingue in pericolo sono oggi indicate con l’espressione quasi tecnica di ‘lingue minacciate’ (in inglese, endangered languages) e si vanno creando fondi, centri di ricerca e organizzazioni per il loro salvataggio o almeno per la raccolta di documenti che, prima della loro scomparsa, ne registrino l’aspetto e ne conservino tracce. La perdita si realizza anche a livelli più microscopici: un sito Internet (creato dal compianto Peter Ladefoged, illustre fonetista scomparso nel 2006) raccoglie
i suoni in pericolo di questa o quella lingua (www.linguistics.ucla.edu/people/ladefoged). Pochi sanno, infatti, che una delle trafile che le lingue seguono prima di estinguersi sta proprio, letteralmente, nel ‘perdere pezzi’: parole peculiari sono sostituite da altre importate, i suoni più tipici si semplificano o si cancellano…
Perché le lingue scompaiono
Nella storia, le lingue esposte al rischio di scomparire sono anzitutto quelle i cui popoli hanno subito colonizzazioni, occupazioni o altre forme di oppressione esterna. Il fenomeno è più drammatico se esistono implicazioni razziali o religiose che spingano i vincitori a cancellare la lingua dei vinti, ma non sempre alla base della morte delle lingue c’è la violenza. Tutti sanno, per esempio, che le terre assorbite dall’Impero romano si latinizzarono alla svelta, benché i Romani non imponessero ai vinti l’uso della propria lingua. Erano gli stessi popoli assoggettati che adottavano il latino in segno di prestigio e distinzione, oltre che per approssimarsi al potere. Come conclusione, gli idiomi originari (l’etrusco o le parlate della Spagna o della Dacia preromane) scomparvero o divennero marginali, lasciando poche tracce nel latino. Del pari, la diffusione dell’arabo fuori delle sue terre d’origine non avvenne a scapito delle lingue dei territori via via occupati: erano i vinti che assorbivano per proprio conto elementi arabi, a partire dall’alfabeto.
Anche se un simile meccanismo di adesione spontanea opera ancora (basti pensare al modo in cui l’inglese si diffonde nel mondo), oggi prevalgono altri canali. Inoltre, il regesto delle zone colpite deve aggiornarsi di continuo. Dal punto di vista geografico, le aree più colpite sono i tre continenti meno avanzati, che sono anche quelli che presentano maggior glottodiversità: America del Sud e del Nord, Africa non arabofona, il vasto complesso austronesiano. Le lingue di cui via via si registra la morte sono numerose: chi volesse vederne la lista, di certo incompleta, può rifarsi al sito www.ethnologue.com/nearly_extinct.asp o all’UNESCO Atlas of the world’s languages in danger (2009), benemeriti punti saldi per lo studio e la documentazione di questi fenomeni. Da siffatte fonti si evince che la morte delle lingue concerne soprattutto gli idiomi di popoli minori, arretrati, isolati, esposti al rischio di estinguersi come gruppo, di sparpagliarsi o di inurbarsi. Ciò mostra che, alla fine dei conti, la morte delle lingue non è che una delle facce della povertà e dell’emarginazione. Dal punto di vista sociologico, le lingue si estinguono per talune ragioni ben definite, alle quali non sembra si possa mettere rimedio. La prima, anche dal punto di vista storico, è il colonialismo, manifesto o occulto. L’occupante tende a inibire, o almeno a scoraggiare, l’uso della lingua dei popoli colonizzati, sia per indebolirne la cultura sia per imporre la propria come standard. D’altro canto, o per debolezza o per bisogno di affiliazione, una parte dei colonizzati tende ad abbandonare la propria lingua per adottare quella del vincitore. Le procedure sono note: si cambiano i nomi alle persone; si fissano nuovi nomi anche per gli oggetti di uso comune; si arriva a proibire l’uso della lingua locale nelle funzioni pubbliche principali (scuola, giustizia, amministrazione); si impone la propria grafia a scapito di quella locale (se ce n’è una). In piccola misura, ci serviamo di questo metodo anche noi Europei educati quando ribattezziamo Piero o Enzo il tunisino Mohammad o Tariq che gestisce un banco di frutta al mercato; ma non ci accorgiamo di piegare il collo allo stesso fenomeno quando chiamiamo spa le terme, wine bar un’osteria elegante, store un grande magazzino, o ticketteria la biglietteria di un museo. La storia pullula di questi casi: gli Arabi chiamarono Sudan il territorio occidentale a sud del Sahara, con una parola che originariamente significa ‘nero’; nei nascenti Stati Uniti d’America, agli indiani leni-lenape (‘popolo dell’inizio’) fu affibbiato il nome di un eroe inglese, Lord de la Ware, e si trovarono così, senza saperlo, a cambiare il proprio appellativo in delaware, mentre ai nez percé (‘nasi forati’) il nome lo dettero i francesi, dall’uso di portare un anello al naso. Il nome di molti popoli indiani o africani è stato ottenuto così, per una sorta di umiliante nuovo battesimo.
Più drastico è il sistema di inibire, con norme esplicite o con i fatti, l’uso della lingua del posto. Nel 1880, una volta avvenuta la pacificazione (almeno teorica) con i nativi, nelle aree indiane degli Stati Uniti furono create scuole in cui, sebbene gli scolari fossero tutti amerindi, la sola lingua permessa era l’inglese. Nella Martinica dell’Ottocento gli schiavi erano espressamente divisi per impedirgli di comunicare: si separavano i membri di una medesima famiglia, le squadre di lavoro erano composte da persone di etnie diverse. Agli Armeni di Turchia, nelle epoche più dure della persecuzione, era proibito parlare la propria lingua, che poté restare vitale solo perché sostenuta dalle fitte comunità armenofone delle aree vicine.
Questi procedimenti, una volta esaurita la loro carica immediata di crudeltà, lasciano tracce permanenti nella dinamica delle lingue. Nelle prime generazioni l’interdizione della propria lingua produce il fenomeno noto come diglossia: la lingua locale è ristretta alle relazioni tra amici o familiari e quindi praticamente occultata, mentre la lingua coloniale si parla con gli altri. In altri termini, la lingua nativa viene limitata ad ambiti circoscritti e specializzata per tematiche determinate. Il processo è facilitato da quanti, tra i locali, sono più a ridosso della sfera del potere sopraggiunto: burocrazia, amministrazione, mediatori, turcimanni e interpreti tendono a lasciare la propria lingua per assorbire quella del vincitore, che poi trasmettono ai propri figli come contrassegno di distinzione e di rango rispetto alla società locale. In questo modo, nelle generazioni successive la lingua locale tende a dissolversi, lasciando il posto dapprima a un creolo (lingua mista delle due, la locale e la coloniale), poi alla lingua sopravvenuta (o, a volte, a una sua forma approssimata e ‘rotta’: è il caso del black English americano). In fondo, la semplificazione e la frantumazione sono per una lingua modi estremi per resistere alla dissoluzione. Questi fenomeni sono estranei a ogni ideologia. Il passaggio da una lingua all’altra si produce, per così dire, per la forza delle cose, senza che nessuno si proponga la realizzazione di un disegno. Un altro caso interessante si ha quando un’intera comunità, che ha parlato fino a un certo momento una determinata lingua, comincia a usare quella di una comunità prossima, che sente più prestigiosa, più moderna o meno discriminante. Gli esempi sono numerosi. L’inizio della crisi del bretone rispetto al francese coincide con il momento in cui, nel Cinquecento, la corte ducale si francesizzò. Questo è ciò che accadde al gaelico d’Irlanda sotto il peso della colonizzazione inglese. È ben noto che la nobiltà e l’alta borghesia russa parlarono francese fino alla Rivoluzione, allo scopo di distinguersi dai ceti di cultura modesta. Quest’usanza non arrivò mai a mettere in pericolo
la stabilità del russo, ma lo impregnò di prestiti francesi. La propensione verso l’inglese che si registra in diversi paesi bilingui è della stessa natura. Senza spingersi così lontano, anche nei nostri dintorni si trovano lingue che tendono a dissolversi spontaneamente, per una sorta di suicidio deliberato. Un esempio notevole, sul territorio italiano, è quello del griko, secolare varietà di greco parlata e scritta in una parte del Salento e della Calabria, derivante da antiche (secondo alcuni antichissime) immigrazioni. Il griko, pur avendo alle spalle una rispettabile tradizione di letteratura e di musica popolari, negli ultimi decenni del 20° secolo si è virtualmente estinto. Il motivo è dei più impalpabili: a un certo punto i nativi non hanno più avvertito il bisogno di insegnare quest’idioma ai loro figli, forse perché lo sentono come segno di distinzione negativa. Più violento è il metodo che consiste nell’eliminazione o nella deportazione, coatta o obbligata, dei gruppi interessati o nella loro dispersione. Sistema particolarmente attivo nell’epoca moderna, questo è uno dei principali motivi della spettacolare accelerazione attuale della morte delle lingue. Lo sfruttamento estensivo delle risorse dei paesi poveri da parte di multinazionali (del legname, dell’agricoltura, delle costruzioni, delle miniere) frantuma i gruppi in sottogruppi staccati l’uno dall’altro, che si disperdono nello spazio e rinunciano gradualmente all’uso dell’idioma comune; la frammentazione induce la perdita dei contatti tra i gruppi e la graduale alterazione della lingua d’origine. Nella foresta amazzonica, una delle aree mondiali con più alta glottodiversità e insieme con più serio pericolo per le lingue, interi gruppi etnici (a volte poche centinaia di persone), perlopiù cacciatori e raccoglitori e dunque molto dipendenti dal contesto territoriale, sono costretti a migrare per sottrarsi ai guasti della deforestazione. Spostandosi in ambienti diversi, non favorevoli al proprio modo di vita, il gruppo subisce un graduale assottigliamento e finisce per estinguersi, con l’ovvia conseguenza della scomparsa della lingua.
Come definire il grado di vitalità delle lingue
L’UNESCO, che si è particolarmente distinta nella definizione del concetto di lingua minacciata e nella difesa delle lingue che lo integrano, ha precisato di recente alcuni criteri per definire il grado di vitalità e rispettivamente di pericolo che va attribuito a ogni lingua. Il primo e più ovvio è di carattere quantitativo: il numero assoluto dei parlanti e la proporzione di questi rispetto al resto della popolazione. È chiaro che una delle ragioni intrinseche della debolezza dello ngong (di cui parlavo all’inizio) sta nel fatto che i suoi parlanti sono meno numerosi delle dita di una mano e che questo dato non potrà essere modificato. D’altro canto, anche un gruppo numeroso è linguisticamente debole se si trova disperso in una comunità numericamente rilevante che usa un’altra lingua.
Il secondo criterio concerne piuttosto la sfera delle autovalutazioni: se la comunità dei parlanti comincia a considerare poco prestigioso o perfino mortificante l’uso della propria lingua di origine, il destino di questa è segnato: verrà gradualmente sostituita da un’altra lingua (o varietà linguistica), che si suppone dotata di maggiore prestigio. In un caso simile, la trasmissione di quella lingua alle nuove generazioni si farà debole e intermittente. Questo è, tra l’altro, il processo attraverso il quale i dialetti italiani (e di altri paesi, come la Francia o la Germania) tendono a scolorirsi e finanche a estinguersi del tutto.
Un caso particolare del processo appena descritto si ha quando una forte immigrazione, portatrice di una sua lingua, si riversa su un territorio ove si parla una lingua diversa. Curiosamente, in un caso del genere non è la preponderanza numerica a prevalere, ma l’imperfetta acquisizione da parte dei nuovi venuti. La parlata del territorio d’arrivo è acquisita imperfettamente da questi, che avvertono il bisogno di mimetizzarsi agli occhi dei locali, e in tal modo si trasforma fino ad alterarsi o perire. Questo è tipicamente il destino delle capitali metropolitane, come Roma. Gli esperti hanno segnalato che l’antica parlata della città (il romanesco) non esiste praticamente più, non per estinzione coatta ma per il suo graduale dissolversi nel ‘dialetto congetturale’ che usano gli immigrati della più varia provenienza sociale e geografica. Un esempio minimo basta a mostrare come opera questo meccanismo: in romanesco vedere era vède, con l’accento sulla prima sillaba; nella parlata ‘supposta’ degli immigrati (influenzata dall’italiano) è diventato vedè, con l’accento sull’ultima.
Un altro fattore cruciale è il sostegno delle istituzioni: se una lingua non viene insegnata nelle scuole (o loro equivalenti), non è usata negli atti ufficiali e nelle leggi, non viene diffusa dai media (giornali, informazione, radio, televisione), non è documentata in biblioteche e archivi, la sua vitalità ne patisce. Nessuno la sente risuonare fuori delle cerchie più ristrette, nessuno può ritrovare le tracce delle sue fasi antiche. Anche le cerchie in cui una lingua è usata contano per la sua conservazione. Se un idioma si usa solo in casa o in contesto di lingua franca, la sua stabilità è in pericolo; se invece ne è autorizzato l’uso (poniamo) in una corte, la sua eventuale debolezza esterna può essere compensata. Il caso dell’ebraico nella Spagna pre-isabellina è uno di questi: lingua minoritaria e perfino discriminata, era però largamente adoperata dai funzionari della corte, perché diversi uffici centrali dell’amministrazione dello Stato erano tenuti da ebrei. Ciò permise a quella lingua di non estinguersi, anzi favorì la formazione di una varietà mista ebreo-spagnola (il ladino o giudesmo), che non ebbe difficoltà a trasportarsi, dopo la cacciata (1492), in Grecia e in Turchia, dove ancora si parla. Qui si osserva però un altro fattore della morte delle lingue: ciò che restava delle comunità ladine dopo la Seconda guerra mondiale migrò in Israele, ove dovette abbandonare il ladino per acquisire l’ebraico, e oggi il giudeo-spagnolo sarebbe probabilmente estinto se il suo ricordo non fosse ravvivato dall’uso che ne fa la musica popolare.
È chiaro che la percezione della propria identità di gruppo contribuisce a conservare, insieme al gruppo, anche la lingua. L’ebraico e le diverse varietà linguistiche associate agli ebrei (a partire dallo yiddish) si sono conservati proprio perché a sostenerli c’era la forte coerenza identitaria del gruppo. Non è però inevitabile che a tenere unita una comunità sia la religione. In letteratura è conosciuto il caso di un’etnia di Papua-Nuova Guinea, gli engan, che sono orgogliosi non solo di essere i più numerosi a parlare la lingua enga (circa 165.000 persone), ma anche del fatto che hanno una forte solidarietà interna, che li spinge ad aiutarsi a vicenda, a morire per i loro simili o anche a essere pronti a combattere per difenderli.
Alla fine dei conti, la lingua è salva quando viene trasmessa da una generazione all’altra in modo generalizzato, senza restrizioni né interruzioni. Se la trasmissione è disturbata, si interrompe o si svolge in modo parziale e frammentario, la lingua comincia a essere in pericolo. In base a questo criterio, è stata suggerita dall’UNESCO una gradazione (v. tab. alla pag. seguente), nella quale però manca (né potrebbe essere altrimenti) una colonna: quella indicante le cause dei fenomeni che perturbano o interrompono la trasmissione tra generazioni. Il fatto è che molte di quelle cause sono inarrestabili, perché connesse ai più impetuosi moventi della modernità (come lo sfruttamento globale). In altri casi, diversamente che con le specie in via di estinzione, di cui può essere contrastata la caccia o l’alterazione dell’habitat, con le lingue che muoiono non c’è niente da fare: muoiono anche perché i loro parlanti non intendono più trasmetterle alla generazione seguente. È triste ammettere che l’unica cosa che si può fare in numerosi casi consiste nel registrare le forme e le varietà, parlate o anche scritte, di queste lingue, studiarne le strutture, raccoglierne manifestazioni e documenti. Di esse, come del latino e di tanti altri idiomi dell’antichità, resteranno se non altro tracce e documenti. Lo sforzo, elitario e spesso cervellotico, di riportare alla vita idiomi scomparsi o estenuati, sembra nei fatti destinato a fallire. È riuscito, per esempio, per l’ebraico di Israele, ricostruito e rivitalizzato a partire dall’ebraico biblico negli ultimi cinquant’anni; non sembra destinato a successo l’analogo tentativo per il bretone o per il gallego, malgrado gli sforzi di accademie, associazioni e partiti politici. È chiaro che l’ebraico aveva dalla sua parte una fortissima motivazione religiosa, che manca invece alle altre lingue menzionate. Per queste, l’unico modo, ancorché silenzioso, di conservarne traccia consiste nel documentarle, studiarle, raccoglierne attestazioni e manifestazioni.
A questo scopo si prodiga un numero crescente di enti di ricerca e di studio, primi tra i quali il SIL (Summer Institute of Linguistics, www.sil.org) con la sua emanazione, il sito Ethnologue (www.ethnologue.com), il più recente Endangered Languages Fund (www.endangeredlanguagefund.org) e l’UNESCO. L’Italia potrebbe fare qualcosa per suo conto, dato il notevole numero di dialetti e varianti dialettali che via via scompaiono.
Le minoranze linguistiche in Italia
Il concetto di minoranza
L’espressione minoranze etniche dovrebbe designare, in senso proprio, tutte quelle popolazioni o gruppi di esse che vivono all’interno di una nazione dove è maggioritaria un’altra etnia. Nell’uso corrente tuttavia, quando si tratta di problemi, diritti e tutela delle minoranze etniche, la parola è generalmente riferita, in un significato più ristretto, alle minoranze linguistiche, ossia a quelle comunità che rappresentano una minoranza all’interno dello Stato in cui si trovano, parlano un proprio idioma e risiedono in un proprio territorio. Nella definizione di minoranza non rientrano le minoranze religiose (come i valdesi) o etnico-religiose (come gli Ebrei), né i gruppi linguistici immigrati e non dotati di un proprio habitat, né i dialettofoni che parlano idiomi regionali o locali quali strumenti di comunicazione di secondo livello rispetto a una lingua ‘superiore’. Le numerose minoranze presenti in Italia sono tutelate per dettato costituzionale a datare dal 1948, anno dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana: l’art. 2 garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, conformando l’ordinamento giuridico italiano alle norme del diritto internazionale; l’art. 3 afferma la pari dignità dei cittadini; l’art. 6, in particolare, dichiara che la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche, assicurando agli abitanti alloglotti l’uso della propria lingua negli atti ufficiali e nelle relazioni con la pubblica amministrazione. A rafforzare il principio, di per sé esplicito, concorrono altri articoli che adeguano disposizioni legislative alle esigenze di forme di autonomia e decentramento (art. 5) nelle regioni e province di confine, Valle d’Aosta, Trentino Alto-Adige, Bolzano, in cui le minoranze, attraverso l’istituzionalizzazione del bilinguismo e la creazione di speciali ruoli del personale civile nell’amministrazione, si sono viste garantire la più ampia protezione. Di portata innovativa, la l. 482/1999 riconosce l’esistenza di 12 minoranze linguistiche ‘storiche’, ossia di comunità dislocate sul territorio nazionale che parlano una lingua diversa dalla italiana, costituite dalle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo, nella prospettiva di una valorizzazione della loro lingua e cultura attraverso il bilinguismo in campo amministrativo ed educativo, nella toponomastica, negli organi di stampa, nelle emittenti radiofoniche e televisive.
Delle 12 lingue ammesse a tutela, alcune, in regime di coufficialità accanto all’italiano, rappresentano minoranze nazionali dotate di riferimenti culturali e politici in paesi esteri (tedesco in Alto Adige, francese in Valle d’Aosta, sloveno in Friuli-Venezia Giulia), altre sono lingue regionali (ladino, friulano, sardo), altre ancora sono ‘isole’ o ‘colonie’ linguistiche originate da immigrazioni in epoche storiche diverse di genti che hanno mantenuto proprie prerogative linguistiche (griko, dialetti galloromanzi nel Meridione, dialetti germanici, catalano, albanese, croato molisano); riguardano una varietà di situazioni sociolinguistiche con caratteri generalmente regressivi, fino all’obsolescenza, nell’uso dell’idioma locale rispetto alla lingua in contatto di più ampia diffusione. Non godono di alcun riconoscimento da parte dello Stato, invece, parlate regionali, pur classificate come lingue distinte dall’italiano (e non come dialetti dell’italiano) e definite ‘a rischio’ o ‘vulnerabili’ (piemontese, ligure, lombardo, emiliano-romagnolo, siciliano, napoletano, veneto).
Le norme nazionali di tutela hanno avuto applicazione disomogenea e asistematica nelle varie comunità (disattesi spesso gli obiettivi educativi e il bilinguismo a livelli formali); d’altro canto, il moltiplicarsi di associazioni e centri di ricerca, attività seminariali, iniziative di enti e comuni per il recupero delle lingue precarie si è tradotto a volte in una corsa agli incentivi e ai sussidi statali, sfiorando la prebenda assistenziale.
Le lingue minoritarie protette
Albanese (arbëresh) Considerato un idioma a sé stante all’interno della famiglia indoeuropea con apporti latini e romanzi, slavi e turchi che ne hanno alterato i caratteri originari, l’albanese presenta varietà dialettali distinte in ghego e tosco, usate rispettivamente a nord e a sud del fiume Shkumbni. Gruppi di Albanesi parlanti varietà di tipo tosco giunsero nell’Italia meridionale a più riprese a partire dalla metà del 15° secolo. Le zone di maggiore immigrazione furono la Calabria (1448: arrivo di Demetrio Reres con un contingente armato al servizio di Alfonso I d’Aragona) e la Sicilia (colonie dei figli di Reres). Con l’intensificarsi dei rapporti tra l’Albania e il Regno e l’invio da parte di Giorgio Castriota Scanderbeg di truppe in aiuto a Ferdinando I nelle lotte contro gli Angioini e poi contro i baroni, i Castriota ottennero estesi feudi in Puglia. Un’ultima grande immigrazione si ebbe a seguito dell’espugnazione ottomana della fortezza di Corone (1533-34). Ben accolti dal governo spagnolo e dalla Chiesa romana, che consentì loro la pratica del rito greco, gli Albanesi costituirono particolari colonie, in prevalenza di contadini e soldati, con propri ‘capitoli’ e regolamenti. La discontinuità degli stanziamenti ha prodotto una frammentazione territoriale ad arcipelago, caratteristica della Arberia (l’insieme delle comunità albanofone d’Italia), e ha influito sulla tipologia linguistica per l’esposizione al contatto con diverse varietà italoromanze e prestiti differenti da una località all’altra. I comuni di espressione albanofona (43) sono distribuiti nelle regioni Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Sicilia, Calabria (roccaforte dell’Arberia, con più di 20 centri in alcuni dei quali la lingua è estinta). A differenza dell’Albania storica che dopo la conquista turca abbracciò l’islamismo, l’Arberia mantenne la fede cattolica e in gran parte il rito greco-bizantino nelle pratiche liturgiche; in questo campo gli episcopati di Lungro (Cosenza) e Piana degli Albanesi (Palermo) hanno svolto una importante funzione nel conservare l’identità culturale e religiosa delle comunità dipendenti. Nel contesto meridionale l’arbëresh, pur parlato o inteso da una significativa percentuale di abitanti (su complessivi 100.000, il 70-80%), dà segni di progressivo logoramento dietro la spinta del più prestigioso italiano.
Catalano (català)
Lingua neolatina parlata ad Alghero, sulla costa nord-occidentale della Sardegna, in provincia di Sassari. Tipologicamente è ritenuta una sottovarietà del gruppo dialettale orientale del catalano, con tratti arcaizzanti nella fonetica e influssi lessicali sardi e italiani. La presenza di quest’isola linguistica risale al 1353, anno in cui la città, fino ad allora colonia genovese, fu conquistata dall’ammiraglio Bernat de Cabrera e, dopo l’espulsione degli abitanti ribelli, ripopolata (dal 1372) con elementi originari della Catalogna, delle Baleari e del Regno di Valencia. L’uso del catalano si potenziò nei secoli della dominazione aragonese e poi spagnola sulla Sardegna fino a divenire lingua ufficiale dell’area settentrionale, favorito dai traffici con la madrepatria e dal particolare statuto della città, che rappresentò a lungo un corpo separato rispetto al retroterra. Il risveglio dell’interesse per la minoranza algherese cominciò a emergere nel 19° secolo per opera di eruditi e letterati catalani di Spagna, tra i quali Edouard Toda che nel 1902 fondò ad Alghero la prima Agrupació catalanista de Sardenya, cui seguì nel secondo dopoguerra il Centre d’Estudis Algueresos (1950). Il catalano, pur dando segni di vitalità (su una popolazione di 40.000 abitanti è parlato da circa il 50% e compreso da un altro 34%), tende a essere minato dalla recente forte immigrazione dal retroterra sardo e dallo sviluppo turistico.
Croato (hrvatski)
Un dialetto arcaico slavo del tipo stokavo, cioè della varietà alla base dello standard croato e serbo, è parlato nei centri di San Felice del Molise, Montemitro e Acquaviva Collecroce, in provincia di Campobasso. L’origine delle comunità risale ai secoli 15° e 16° quando gruppi di abitanti delle sponde dalmate, di fede cattolica, per sfuggire all’avanzata ottomana nel Balcani si riversarono al di qua dell’Adriatico, fondando sulla costa e nell’entroterra tra Marche e Puglia diverse colonie poi romanizzate e assorbite dalle popolazioni circostanti. Il numero dei parlanti, dai 20.000 attestati nel 19° secolo, è sceso a poco più di 2000 persone concentrate nei tre comuni molisani, che rappresentano così una delle più piccole isole alloglotte presenti in Italia.
Francese (français)
Lingua del gruppo neolatino, ha rappresentato per secoli in Italia un modello culturale e di prestigio per l’aristocrazia e la borghesia colta; nel contesto attuale non ha un ruolo di particolare rilievo, se non come lingua straniera la cui conoscenza e il cui apprendimento rientrano nella formazione scolastica o nella prassi di ceti professionali ed economici. Mantiene una qualche presenza come lingua di comunicazione quotidiana nelle zone di confine dove, nell’ambito della pluriglossia e del bilinguismo tipici delle aree di frontiera, gli abitanti, specialmente nel passato, hanno conservato la capacità di comprenderlo e parlarlo. Ciò è avvenuto in Valle d’Aosta, nelle aree di dialetto occitanico e franco-provenzale delle province di Torino e Cuneo, segnate anche da una storica emigrazione verso la Francia e da una prossimità aperta a rapporti e scambi, e soprattutto in certe valli sottoposte in più fasi all’amministrazione francese (in Val di Susa fu lingua ufficiale fino al 1915). Una certa vitalità conserva nelle valli di confessione valdese, Pellice e Germanasca, dove ha antiche e radicate tradizioni liturgiche. In Valle d’Aosta l’uso del francese come lingua amministrativa e di cultura risale agli antichi legami di questa terra con i domini transalpini dei duchi di Savoia, nella cui orbita entrò stabilmente con l’atto di sudditanza del 1191 accompagnato dalla concessione di statuti autonomi, e nei quali il francese fu idioma ufficiale dal 1560. Annessa alla Francia rivoluzionaria, la regione fu percorsa da rivolte legittimiste fino alla restaurazione dopo il Congresso di Vienna (1815); successivamente (1837) perse le tradizionali autonomie sostituite dallo Statuto Albertino. La francofonia fu l’elemento fondamentale delle istanze autonomistiche – ancora nel 1921 la popolazione era per il 91% di madrelingua francese – risoltesi (1945-48) con la promulgazione dello statuto regionale e con l’azione politica di tutela svolta dall’Union Valdôtaine. In forte regresso nell’uso quotidiano, soppiantato dall’italiano (il 71,5% degli abitanti si dichiara di madrelingua italiana a fronte dello 0,99 francese), trova prevalente impiego in funzioni di tipo statutario e rappresentativo, accanto ai locali dialetti franco-provenzali (patois), al tedesco walser in alcune zone e al piemontese, il dialetto degli immigrati.
Franco-provenzale (francoprovençal)
Termine coniato nel 1873 dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli per accomunare quei dialetti galloromanzi che in base a criteri dialettologici non erano riconducibili, pur con diverse analogie, né alla lingua francese né a quella occitana (al tempo chiamata ‘provenzale’). Attratte nell’area culturale francese, le parlate franco-provenzali al di qua e al di là delle Alpi non hanno espresso una koinè letteraria o usi pubblici ufficiali, restando differenziate e frammentate anche per l’area di diffusione geografica che non ha mai costituito un’unità politica a sé stante. Il tentativo di elaborare una varietà sopradialettale artificiale chiamata convenzionalmente harpeitan («arpitano»), su cui poggiare rivendicazioni culturali o politiche, ha avuto scarsa fortuna. Per lo più in regresso, il franco-provenzale è parlato – oltre che in Francia (media valle del Rodano, Giura e Savoia) e, sempre meno, nella Svizzera Romanda – in Italia, nella Valle d’Aosta, dove convive con le varietà locali, e in qualche valle della provincia di Torino (Sangone, Susa, Soana), dove è stato in larga parte sopravanzato dal piemontese. L’italiano e il francese, che coesistono in Valle d’Aosta come lingue ufficiali e di cultura, hanno contribuito a emarginare la pratica dei patois, rimasta circoscritta nelle alte valli e nei centri meno esposti al contatto: la loro vitalità è affidata all’uso parlato, a livelli bassi della prassi comunicativa, di circa 20.000 persone in situazione di plurilinguismo e diglossia, e allo sviluppo recente di una produzione letteraria promossa dalla Société des Recherches et d’Études francoprovençales. Un dialetto franco-provenzale si parla nelle comunità di Faeto e a Celle San Vito (provincia di Foggia), importato tra 12° e 15° secolo da eretici valdesi in fuga dalle persecuzioni religiose o forse introdotto come riflesso della politica di ripopolamento della Capitanata voluta da Carlo d’Angiò per contrastare la presenza araba; da sempre esposto al contatto con i contermini idiomi pugliesi è da tempo in declino, contando poche centinaia di locutori.
Friulano (furlan)
Appartiene al gruppo delle lingue neolatine e in particolare viene inserito nell’ambito delle lingue ‘retoromanze’ o ladine con cui presenta analogie ma se ne differenzia per influsso delle lingue e culture circostanti (tedesco, sloveno). È parlato da circa 600.000 persone nelle province di Udine, Pordenone, Gorizia (ovest dell’Isonzo), in alcune zone dell’ex mandamento di Portogruaro in provincia di Venezia.
La matrice preponderante del friulano è il latino: il grande evento a fondamento della lingua e cultura friulana fu l’arrivo dei Romani che nel 181 a.C., dopo aver assoggettato i Carni, fondarono la prima colonia ad Aquileia, consentendo alla popolazione sconfitta la colonizzazione della pianura circostante. Da tale mescolanza di Romani e Carni si suppone possa essere derivato un latino volgare con influenze celtiche, base della successiva evoluzione della lingua friulana. Se le origini della lingua e il sostrato pre-latino sono questione controversa, un largo consenso è stato raggiunto sul periodo di formazione del friulano, che si fa risalire attorno all’anno Mille. Ascoli avanzò la teoria dell’unità del ladino sostenendo che un tempo queste parlate si estendevano da Muggia e forse dalla parte settentrionale dell’Istria fino in Svizzera. La continuità fu poi interrotta dalla storia e rimasero le tre isole attuali: romancio, ladino e friulano, la più vasta.
Griko (o grecanico)
Nell’antichità (8°-6° secolo a.C.) genti elleniche colonizzarono la Sicilia ed estese aree costiere del Sud Italia dove l’uso del greco come lingua di cultura perdurò a lungo dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.). Fino al 13° secolo in molti centri del Salento, della Calabria e della Sicilia orientale si parlava greco e ancora nel 16° secolo, quando la liturgia orientale fu sostituita da quella latina con perdita di prestigio della lingua, le comunità ellenofone erano 27 nel Salento, 20 in Calabria e una in Sicilia. Attualmente i dialetti greci, parlati in Puglia (provincia di Lecce) in 9 comuni che costituiscono la Grecìa salentina, e in Calabria nell’Aspromonte, appaiono in regresso, fenomeno dovuto anche alla disomogeneità areale e al basso status sociale delle parlate, tradizionalmente associate a contadini e pastori: si calcola in circa 12.000 la totalità degli ellenofoni.
Sull’origine delle comunità grecaniche si avanzano generalmente due ipotesi, di cui una intravvede nella persistenza della lingua greca nel Sud una sopravvivenza dell’antico processo di colonizzazione, l’altra considera tale presenza come portato di eventi più recenti legati alla politica della corte bizantina. Nel 727 la guerra iconoclasta mossa da Leone III e sfociata in guerra civile causò la fuga di migliaia di monaci verso le regioni meridionali d’Italia, dove fondarono numerosi conventi basiliani, divenuti poi centri di cultura greca, promotori anche di una rinascita sociale ed economica. Nell’867, sotto Basilio I, la liberazione dagli Arabi e dai Longobardi di Benevento e buona parte del Meridione determinò una consistente immigrazione dalle regioni periferiche dell’Impero bizantino, connessa a una politica di ripopolamento di terre rimaste in abbandono. Insieme a militari, monaci, contadini, giunsero dall’Oriente funzionari e giudici; i nuclei abitativi si organizzarono in casali o insediamenti in grotta, più frequenti verso l’area di Taranto dove la morfologia del terreno, con le gravine, favoriva la creazione di estesi insediamenti rupestri. Effetto delle immigrazioni fu il sorgere nella fascia mediana del Salento, tra Otranto e Gallipoli, di una serie di villaggi costituiti da abitanti che parlavano in greco, praticavano la religione greco-ortodossa e avevano usi e costumi greci. Nell’11° secolo i Normanni posero fine al dominio bizantino e sostennero il culto cattolico ai danni di quello ortodosso, così come le successive dominazioni angioina, aragonese e spagnola, strettamente legate alla Chiesa cattolica. Se già nel 12° secolo l’attività delle comunità monastiche si mostrava ridimensionata sotto l’aspetto devozionale e liturgico, nel 15° secolo il monacato orientale era quasi scomparso, sostituito da quello francescano e domenicano. Fattori di carattere demografico, uniti alla scarsa tolleranza della Curia romana nei confronti del clero di rito greco, poi mutata in aperta ostilità dopo il Concilio di Trento (1563), accelerarono la fine del grecismo in terra d’Otranto.
Ladino (ladin)
I dialetti ladini delle Dolomiti rientrano con il friulano e il romancio in un gruppo linguistico ‘retoromanzo’ caratterizzato nell’ambito degli idiomi neolatini da aspetti fonetici, morfosintattici e lessicali che fanno supporre un’antica autonomia, unità e contiguità territoriale delle tre varietà. In regresso, il ladino è parlato da circa 30.000 persone abitanti, in Alto Adige, nelle valli Gardena e Badia; in Trentino, nella Val di Fassa fino a Moena, e nella Val di Fiemme, dove però presenta già caratteri di transizione verso il lombardo-veneto. Le differenziazioni culturali interne all’area bellunese (centri ex tirolesi di Livinallongo, Cortina d’Ampezzo, alto bacino del Piave, zone del Cadore) riflettono non solo i tipi linguistici ma anche le vicende politico-amministrative di un territorio storicamente diviso tra la Repubblica di Venezia e il Tirolo. Tentativi di creare una lingua scritta unificata, il ladin dolomitan, come elemento di coesione, sono stati attuati da vari istituti ladini.
Occitano (occitan)
L’occitano, o lingua d’oc (lenga d’òc), è una lingua romanza parlata, in sottovarietà regionali, in Occitania, regione storica della Francia meridionale dove si espresse durante il Medioevo la tradizione letteraria della scuola trobadorica o cortese, poi esauritasi per il venir meno delle condizioni sociopolitiche che ne avevano favorito lo sviluppo. Regredite a livello di parlate dialettali dal 14° secolo per l’imporsi del francese, le varietà occitane hanno conosciuto un revival culturale nel 19° secolo per opera del movimento poetico dei félibres e del suo esponente più noto, Frédéric Mistral, premio Nobel per la letteratura nel 1904: una rinascita non sorretta da adeguate leggi nazionali di tutela. In Italia dialetti occitani appartenenti alla sottovarietà alpina del tipo provenzale sono parlati (circa 200.000 unità) in valli delle province di Cuneo e di Torino, esposti tuttavia alla secolare pressione del piemontese (percepito come variante ‘superiore’) e oscurati dal prestigio dell’italiano e del francese, quest’ultimo tradizionalmente usato come lingua di cultura presso le genti di confessione valdese delle valli Pellice e Chisone, qui immigrate a partire dal 13° secolo, attratte dal regime di tolleranza. I provenzali cisalpini, dislocati in aree economicamente depresse, sottoposti a staterelli feudali, alla monarchia sabauda e in qualche distretto alla Francia, espressero solo sporadiche forme di autogoverno. Su questo sfondo, la maturazione di una coscienza etnico-linguistica provenzale è fenomeno recente – legato alla fondazione negli anni 1960 della Escolo dòu Po per la difesa degli idiomi valligiani – anche perché la frammentazione territoriale, amministrativa e religiosa non agevolò mai l’incontro tra le popolazioni delle diverse contrade. Un dialetto di tipo occitanico (gardiol) è parlato in Calabria a Guardia Piemontese, nel Cosentino, introdotto fra il 13° e il 14° secolo da rifugiati valdesi provenienti dalla Val Pellice che, sfuggiti alle persecuzioni religiose, trovarono accoglienza presso feudatari locali interessati al ripopolamento di zone depresse o abbandonate. La confessione valdese sopravvisse fino al 1560, quando il tribunale dell’Inquisizione impose la conversione al cattolicesimo. In forte regresso, il gardiol conta 340 locutori.
Sardo (sardu)
Gli aspetti arcaici della latinità insulare rispetto all’italiano e alle altre lingue romanze portano a considerare i dialetti sardi come una realtà a sé stante nel sistema degli idiomi neolatini. Le varietà presentano differenze marcate: l’area centrale, logudorese e nuorese, ha caratteristiche di originalità più spiccate e un legame con il campidanese, il tipo dialettale meridionale. I due gruppi dialettali del Nord della Sardegna, il gallurese e il sassarese, hanno affinità con il corso e il toscano, prodotto di influenze continentali legate al predominio pisano e genovese nei secoli 12°-14° per il sassarese, e di una immigrazione dalla Corsica per il gallurese. Al di là delle particolarità e distribuzioni interne degli idiomi, l’insularità contribuisce a configurare uno spazio linguistico sardo culturalmente e lessicalmente piuttosto omogeneo. La questione linguistica è strettamente connessa all’insorgere di un movimento a carattere regionalistico, erede di un ‘sardismo’ ottocentesco teso a valorizzare la specificità isolana come retaggio storico delle antiche tradizioni autonome dei Giudicati e del Regnum Sardiniae. Sviluppatosi dopo la Prima guerra mondiale nell’ambiente dei reduci (Partito sardo d’azione), il regionalismo politico, dopo aver colto un parziale successo con la promulgazione dello statuto di autonomia (1948), assunse decisi caratteri di rivendicazione etnica a partire dagli anni 1970, quando il problema della tutela e promozione linguistica divenne uno dei cardini dei programmi autonomistici. Le pronunciate differenze tra logudorese, nuorese e campidano – le varietà linguistiche che più si connotano come sarde – non approdano a una koinè uniforme, delineandosi così l’esigenza di una tutela di diverse ‘lingue’ all’interno dell’identità sarda: non ottiene unanimi consensi la proposta di adottare come modello sovralocale di lingua scritta la Limba Sarda Unificada che riflette la macrovarietà logudorese. Su una popolazione di circa 1.600.000 abitanti il sardo è parlato o inteso da almeno 1.000.000 di persone. Nelle cittadine di Carloforte (isola di San Pietro) e Calasetta (isola di Sant’Antioco), a sud-ovest della Sardegna, comunità alloglotte, numericamente esigue e inserite in un contesto dialettale completamente diverso, parlano una varietà di ligure, il tabarchino. L’origine è legata alla fondazione dei due centri da parte di coloni provenienti dall’isola tunisina di Tabarca, dove nel 16° secolo i Liguri avevano trasferito gruppi di pescatori e corallari, sviluppando in seguito un fiorente commercio con il retroterra e attività mercantili e di scambio lungo la costa tunisina. Ostacolati dal bey locale e dall’espansionismo francese, molti tabarchini abbandonarono la regione e si inserirono nel programma di ripopolamento di aree deserte della Sardegna avviato da Carlo Emanuele ottenendo di fondare nuove sedi: Carloforte nel 1738 e l’antistante Calasetta nel 1770, che prosperarono, malgrado le incursioni barbaresche e le ostilità con i sardi contigui, per la coltivazione delle saline, la pesca del tonno, le attività portuali di imbarco del minerale del Sulcis, la vitivinicoltura. Il tabarchino, parlato dall’86,7% della popolazione e compreso dal 13%, è riconosciuto come lingua minoritaria dalla legge regionale 26/1997 ma ignorato da quella nazionale, con palese discriminazione per i due Comuni, esclusi dai benefici della legge del 1999.
Sloveno (slovenko)
Lingua slava, parlata da circa 60.000 persone nelle zone rurali intorno a Gorizia e a Trieste, e in parte negli stessi centri urbani, come portato di una immigrazione cominciata nel corso dell’Ottocento in concomitanza con lo sviluppo industriale e commerciale delle due città al tempo dell’amministrazione austriaca, essendo comunque già diffusa nel retroterra fin da età medievale. Alla definizione di un’idea nazionale slovena contribuì la formazione di una borghesia colta nelle due dinamiche realtà urbane. Sul piano politico le vicende delle comunità slovene di Gorizia e Trieste furono complesse per rapporti conflittuali, nella difesa della propria identità, sia con la vicina componente italofona sia nei confronti dello Stato italiano: nei due centri uniti all’Italia nel 1919, l’elemento slavo, come del resto le altre minoranze sul territorio nazionale, fu osteggiato dal regime fascista subendo tentativi repressivi di assimilazione culturale e linguistica. Dopo la Seconda guerra mondiale, parte del retroterra giuliano passò alla Iugoslavia insieme all’Istria e all’area dalmata mentre il territorio di Trieste veniva diviso in due zone sotto diverso controllo. A seguito degli accordi di pace la popolazione slovena rimasta sotto amministrazione italiana otteneva il riconoscimento della propria lingua e cultura, riconfermato nel memorandum del 1954 e nel trattato di Osimo del 1975. L’introduzione di norme a tutela non riguardò invece la popolazione slavofona di Udine, che, in polemica con le comunità triestino-goriziane per la disparità di trattamento, preferisce tuttora disconoscere una ‘identità slovena’ e promuovere le specificità delle proprie varietà dialettali.
Tedesco (Deutsch)
La popolazione di dialetto tirolese e di lingua tedesca residente in Alto Adige (Südtirol), nella provincia di Bolzano, rappresenta la minoranza meglio tutelata dallo Stato italiano per applicazione del bilinguismo istituzionale e concessione di estesi privilegi e diritti culturali. L’Alto Adige fu esposto dal 9° secolo a una forte immigrazione di elementi germanici che, resa più penetrante nel passaggio del territorio sotto il dominio degli Asburgo (1363), comportò la sensibile riduzione dell’area in cui si parlavano gli originari dialetti ladini. Appartenente all’Impero austro-ungarico e percorso da tensioni irredentiste dei gruppi italofoni, al termine del Primo conflitto mondiale fu insieme al Trentino assegnato all’Italia (1919) e quindi sottoposto a una campagna di ‘italianizzazione’ forzata durante il fascismo. Con l’annessione dell’Austria al Terzo Reich (1938) il governo nazionale dovette far fronte al clima di ostilità e al crescente sentimento pangermanico della popolazione di lingua tedesca. Nel secondo dopoguerra le pressanti rivendicazioni della minoranza portarono alla formazione della Südtiroler Volkspartei (Partito popolare sudtirolese), il cui programma era la riunione del Südtirol alla repubblica austriaca: in seguito agli accordi di Parigi De Gasperi-Gruber, nel 1948 veniva istituita una regione a statuto speciale comprendente anche il Trentino. Nel regime di autonomia i maggiori problemi linguistici e culturali scaturirono dalla nuova situazione discriminatoria nei confronti della componente italiana (27,65% contro il 69,15 di germanofoni e il 4,37 di ladinofoni), che vive tuttora le difficoltà causate da rigide regole della proporzionale etnica e stenta a raggiungere una reale integrazione nella società altoatesina.
Dialetti germanici di tipo alamannico (walser) sono parlati da colonie stanziate in Piemonte nelle valli Anzasca, Formazza, alta Val Sesia, dove hanno subito un’erosione da parte delle circostanti varietà galloromanze, del francese e dell’italiano. A Issime nella valle del Lys (Valle d’Aosta), il dialetto locale (töitschu), forse la lingua parlata dai mercanti del Vallese migrati nel 1600 verso sud per esigenze demografiche, in regresso anche per spostamenti stagionali verso località francofone, conta oggi, nonostante tentativi di rilancio, 200 unità. Il dialetto di Gressoney (titsch), al pari degli altri idiomi consimili, ha subito un rapido declino nel secondo dopoguerra. Nei comuni germanofoni valdostani, su una popolazione complessiva di 3500 abitanti il walser è considerato madrelingua dal 17%.
Gruppi di dialetto germanico-bavarese si insediarono nel Medioevo in zone del Trentino, Veneto e Friuli. La presenza di germanofoni in provincia di Trento risale a movimenti migratori, a partire dal 13°-14° secolo, di coloni dalla Baviera chiamati da feudatari locali per praticarvi l’agricoltura, l’allevamento e l’attività mineraria (roveretano, altopiano di Lavarone); in queste località il dialetto si estinse lasciando tracce nella toponomastica. Isole linguistiche originatesi nel 14° e 15° secolo sopravvivono in Val Fersina, dove il bavarese arcaico (bersntoler sproch) è tuttora praticato dalla popolazione dei Mocheni (1000 parlanti). Altre genti di dialetto bavarese raggiunsero tra 12° e 13° secolo l’altopiano di Asiago e le colline veronesi, organizzandosi in forme di autogoverno che, pur riconosciute dalla Repubblica di Venezia (Magnifiche Comunità dei Sette e dei Tredici Comuni), non impedirono la progressiva venetizzazione delle comunità; il dialetto bavarese arcaico (chiamato cimbro) ha oggi poche decine di locutori.
Nel Friuli colonie di parlata germanica risalenti al 13° secolo si registrano in Carnia (dialetto carinziano di Timau, dialetto di probabile origine tirolese di Sauris); il posteriore insediamento di Tarvisio, nella Val Canale, mostra il quadro interessante di un comprensorio ristretto caratterizzato da plurilinguismo e pluriglossia, in cui convivono e si alternano tre grandi ceppi del panorama linguistico europeo: le parlate germanica (carinziana), slava (sloveno), romanza (friulano), cui si sommano la compresenza italiana e una esperienza diffusa del tedesco standard.