Salviati, Lionardo
Lionardo Salviati (1540-1589) fu uno dei protagonisti della ➔ questione della lingua del Cinquecento. Appartenente a un’illustre famiglia fiorentina le cui vicende si intrecciano con quelle dei Medici (Brown 1974), Salviati divenne console dell’Accademia fiorentina nel 1566 e Cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano nel 1569. La sua fama è legata soprattutto alla fondazione dell’Accademia della Crusca (1582-1583) e al progetto di un Vocabolario storico ‘nazionale’ che gli accademici, dopo la sua morte, realizzarono in circa venti anni di lavoro (1593-1612; ➔ accademie nella storia della lingua; ➔ lessicografia).
La ricerca filologica e linguistica cominciò a impegnare Salviati fin dalla giovinezza e lo portò a scrivere opere molto rilevanti; alcune furono edite durante la sua vita, come l’Orazione in lode della fiorentina favella (1564) e gli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone (2 voll., 1584-1586), altre invece rimasero manoscritte, come una grammatica (Regole della toscana favella, 1576-1577), la traduzione e commento alla Poetica aristotelica (il nucleo fondamentale fu scritto probabilmente tra il 1574 e il 1576), una raccolta di Proverbi toscani (conservata presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara) e le correzioni linguistiche al Pastor Fido di Guarini (1586). Salviati pubblicò anche due commedie, il Granchio (1566) e la Spina (1592), lezioni e trattati (tra questi la lezione Della poetica, recitata all’Accademia fiorentina nel 1564 e data alle stampe nel 1575, e il trattato De’ dialoghi d’amicizia, 1564), molti opuscoli polemici contro ➔ Torquato Tasso, scritti sotto diversi pseudonimi (ma per lo più con il nome accademico di Infarinato) ed edizioni di testi (tra cui, nel 1585, Lo Specchio di vera penitenza di Iacopo Passavanti).
Il suo carattere polemico procurò a Salviati danni gravi, non solo sul piano materiale (le frequenti rotture con i propri protettori, in particolare con Francesco I de’ Medici), ma anche su quello intellettuale. Lo sottolineò, poco dopo la sua morte, un suo ammiratore, il senese Orazio Lombardelli, riferendosi in particolare agli interventi contro Torquato Tasso (sui quali cfr. Engler 1988), che
gli hanno per avventura ingambato gli Avvertimenti della lingua, che son rimasti senza il lor fine, il Vocabolario toscano il quale forse mai più comparirà e ’l Comento stesso della Poetica, tutt’e tre opere fruttuosissime, aspettatissime et immortalissime (Lombardelli, in Maraschio 1984: 31)
Del Vocabolario toscano, al quale Salviati nelle sue opere fa riferimento, finora nulla è stato ritrovato, mentre il manoscritto della traduzione-commento della Poetica aristotelica è conservato alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
Uno degli obiettivi dichiarati di Salviati è mostrare la «bellezza» della sua lingua e quella della tradizione letteraria fiorentina e toscana («con gli esempi dei quali [poeti fiorentini e toscani] ho in animo di dovere principalmente gli oscuri luoghi di questo libro dichiarare») e permettere una lettura differenziata della Poetica, fornendo accanto al testo greco, la traduzione letterale italiana, «a parola a parola» e il commento, teso non solo a «spianare le materie e snodare i concetti, ma tritare i vocaboli e dichiarargli dovunque sia bisogno». Tra traduzione e commento Salviati colloca una parafrasi per coloro «al cui bisogno è troppo lunga la lettura del Comento, ma che con brevità e con agevolezza desiderino di imprender questi ammaestramenti continuati e senza che sieno interrotti» (Poetica, in Salviati 1997-1998: 2°, 4-5).
A Salviati fu riconosciuta dai contemporanei grande abilità oratoria e molte sue orazioni furono pubblicate sia ‘alla spicciolata’ sia in un’ampia antologia: Il primo libro delle orazioni del Cavalier Lionardo Salviati (Firenze 1575). Si segnalano specialmente le orazioni recitate in occasione di importanti eventi, in particolare della morte di personaggi illustri: il suo maestro ➔ Benedetto Varchi, Michelangelo Buonarroti, Piero Vettori e il Granduca Cosimo de’ Medici. L’Orazione in lode della fiorentina favella, del 1564, è un vero e proprio manifesto di ➔ politica linguistica (cfr. Engler 1975). L’oratore, appena ventiquattrenne, in una riunione solenne dell’Accademia fiorentina, rende omaggio alla propria lingua, con l’obiettivo esplicito di provocare un drastico cambiamento d’atteggiamento proprio negli accademici.
La carica aggressiva, della quale nel chiudere l’Orazione Salviati stesso sente l’esigenza di scusarsi («del mio troppo ardimento, se forse l’affezione della cosa, più oltra, che io non havrei dovuto, m’avesse con la lingua fatto prevalicare, humilissimamente vi domando perdono»), giova molto all’incisività del suo discorso. Lo scopo è quello di risvegliare nei propri concittadini l’orgoglio della loro tradizione linguistico-letteraria, spingendoli a ridare a Firenze il ruolo che le spetta in campo linguistico: «Risentiamci, risentiamci una volta, e facciam cosa degna d’animi fiorentini. Ripigliamo le ragioni, racquistiamo il possesso; riguadagniamo il dominio delle cose nostre».
I nuclei dell’argomentazione salviatesca, svolti con lucidità e rigore, sono i seguenti:
(a) alle lingue per imporsi non bastano le virtù naturali né un’illustre tradizione letteraria;
(b) il fiorentino da questo punto di vista ha le carte in regola e non teme rivali, essendo lingua viva e non morta come il greco e il latino, e avendo fra i suoi autori «quello stupore e quel miracolo» che è ➔ Dante;
(c) ma le lingue si affermano solo se chi le parla è consapevole del loro valore e se quelli che hanno il prestigio per farlo si impegnano per il loro riconoscimento e la loro diffusione;
(d) il fiorentino è stato risvegliato «dal sonno» agli inizi del Cinquecento dalla maggior autorità di quel momento, ➔ Pietro Bembo, «tenuto il maggiore huomo che havesse l’Italia in quel tempo»;
(e) ma è necessario, perché non ricada proprio quando sta per risorgere, che qualcuno altrettanto capace e autorevole si impegni nella stessa direzione;
(f) a Firenze c’è chi può assolvere a questo compito, la più importante istituzione culturale della città: l’Accademia fiorentina, direttamente governata da Cosimo de’ Medici, «uno dei maggiori Principi della Christianità».
Salviati riprende inoltre nell’Orazione, ma con maggior forza, idee già espresse da altri linguisti toscani, in particolare da Claudio Tolomei e Giovan Battista Gelli, circa un’accettazione spontanea e non forzata del fiorentino da parte dei popoli più lontani che lo vengono a imparare «con incredibile avidità» per la sua dolcezza, non ‘forzati’ come i popoli che erano stati soggetti a Roma (Salviati 1564: 36). E conclude sottolineando il ruolo decisivo dell’Accademia fiorentina, istituzione culturale voluta e sostenuta da Cosimo:
Questa Accademia darà le regole della lingua. Questa dell’altre lingue caverà le scienze, nella sua trasportandole. Questa farà nostro cittadino Aristotile, e ogni parte della filosofia nella nostra favella fedelmente trasporterà. Per questa insomma tutta la Medicina, tutta la professione delle leggi, tutta la sacra Teologia nel Fiorentino idioma puramente tradotta si leggerà (Salviati 1564: 35).
L’interesse linguistico di Salviati per il Decameron è strettamente connesso all’edizione cosiddetta purgata (1582), da lui realizzata in seguito a quella dei Deputati del 1573 (in effetti curata da Vincenzio Borghini). Com’è noto, fin dal 1570, dopo che il Decameron era stato incluso nell’Indice dei libri proibiti, il Granduca Cosimo intervenne «rivendicando i diritti di Firenze» nella rassettatura e nella ristampa di quel capolavoro, che era considerato fondamentale modello di lingua (Mordenti 1982: 256). La rassettatura di Borghini non parve tuttavia sufficiente a Roma e meno di dieci anni dopo gli stessi Giunti pubblicarono l’edizione di Salviati (1582), che ebbe poi molte ristampe (una decina in circa cinquant’anni), e che costituisce una revisione molto più radicale rispetto a quella di Borghini.
Per quanto riguarda più propriamente la lingua e in particolare la grafia, Salviati anticipò nella sua edizione alcune scelte che avrebbe ripreso e giustificato ampiamente negli Avvertimenti. L’esame delle copie manoscritte, il loro confronto con il codice Mannelli e altri testi coevi lo mise di fronte a una variabilità di forme assolutamente non trascurabile. Salviati decise di rispettare in linea di massima le oscillazioni del codice Mannelli (ad es., prego / priego; denari / danari; senza / sanza) scelto a base della propria edizione, dichiarandosi convinto della loro realtà fonetica, «poiché è verisimile che non pur da diversi, ma né da uno stesso, non si favelli sempre ad un modo». Ma non si trattenne da modernizzare il testo, inserendo l’interpunzione, eliminando i molti nessi latineggianti (astratto non abstracto) e l’h all’interno di parola (allhora), scrivendo zi e non ti (notizia non notitia), normalizzando forme come bascio e camiscia in bacio e camicia. Il criterio generale al quale Salviati si attenne è quello, di matrice classica e sostenuto dalla maggior parte dei grammatici cinquecenteschi, di cercare una corrispondenza ravvicinata fra ➔ grafia e ➔ pronuncia, senza peraltro rinnovare radicalmente l’alfabeto com’era stato proposto da ➔ Gian Giorgio Trissino, Claudio Tolomei e Giorgio Bartoli.
Se per quanto riguarda il ➔ lessico Salviati pensa che sia necessario riprendere quanto più possibile il fiorentino trecentesco, per la pronuncia (e quindi per la grafia) è convinto che sia meglio invece seguire quella moderna: «Piglieremo dagli antichi il getto delle parole, ma del pulirle se di pulirle sia talor mestieri alla moderna lima la impresa lasceremo» (Salviati 1584: 208). La ricerca di una conciliazione fra antico e moderno, fra le scritture trecentesche e il fiorentino parlato contemporaneo rappresentò un elemento portante della riflessione e della proposta linguistica di Salviati (Maraschio 1985), fermamente convinto della continuità sostanziale fra le due fasi della stessa lingua fiorentina.
Ma negli Avvertimenti Salviati non si occupa solo di grafia e di fonetica. L’opera (su cui si veda da ultimo Gargiulo 2009) è una vera e propria summa, che procede analiticamente, partendo dall’edizione decameroniana, per trattare molti aspetti importanti del dibattito intorno alla lingua sviluppatosi lungo tutto il secolo e molte questioni grammaticali ancora controverse. Nel primo volume (Salviati 2005), dedicato al suo protettore Jacopo Buoncompagni, duca di Sora, Salviati espone la propria teoria, riprendendo dalle Prose del Bembo il modello arcaicizzante, scostandosene però nel rivendicare non solo il valore di Dante, ma quello di tutte le scritture trecentesche fiorentine di ogni genere e registro:
le regole del volgar nostro doversi prendere dai nostri vecchi autori, cioè da quelli che scrissero dall’anno milletrecento, fino al millequattrocento: perciocché innanzi non era ancor venuto al colmo del suo bel fiorire il linguaggio: e dopo senza dubbio subitamente diede principio a sfiorire (Salviati 1584: 74)
Salviati si muove in un’ottica ‘naturalistica’, che lo porta a sostenere «la sovranità popolare nell’uso linguistico, […] la priorità del parlato nel funzionamento della lingua, […] la purezza linguistica come dato naturale del fiorentino», e quindi a riconoscere «implicitamente l’uso vivo e attuale come realtà importante alla dinamica linguistica» (Vitale 1978: 103). L’ostilità al latinismo quattrocentesco, considerato artificiale e in qualche modo inquinante l’originaria purezza della lingua, lo spinse a criticare Tasso e uno stile in cui il ricorso ai ➔ cultismi è frequente e caratterizzante. Di particolare importanza è il cap. XII, in cui è riportato l’elenco degli autori e delle opere trecentesche da assumere a modello (Pozzi 1988: 833-896). Il secondo volume (Salviati 2009-2010), dedicato a Francesco Panigarola, tratta invece di questioni grammaticali, in particolare del nome, dell’aggettivo, dell’articolo e delle preposizioni, in maniera più approfondita rispetto alle Regole della Toscana favella, la grammatichetta che Salviati scrisse per l’ambasciatore estense presso la corte medicea Ercole Cortile, con la speranza di essere accolto a Ferrara (Antonini Renieri 1991; Salviati 2009-2010).
Ma le Regole, seppur in forma più breve rispetto agli Avvertimenti, sono molto interessanti perché si occupano di tutte le «parti del favellare» (che per Salviati sono dieci) e dedicano particolare attenzione e spazio al verbo. Vale la pena notare che Salviati, seguendo in parte l’insegnamento del suo maestro Benedetto Varchi, rompe gli schemi tradizionali, applicando al verbo un sistema combinatorio, basato su tre parametri: quelli del tempo (passato, presente e futuro), del modo (indicativo, imperativo, ottativo o desiderativo, soggiuntivo o condizionale, infinitivo) e anche dell’aspetto (perfetto / imperfetto, determinato / indeterminato).
Nella Premessa ai lettori alla prima edizione del Vocabolario della Crusca, gli accademici dichiarano di volersi attenere a Salviati per la grammatica e la grafia:
Quanto a regole, precetti, o minuzie gramaticali, non essendo questo luogo da doverne trattare, ex professo, ce ne rimettiamo a quello, che n’ha scritto il Cavalier Lionardo Salviati […]. Nell’ortografia abbiam seguitato quasi del tutto quella del sopraddetto Salviati, parendoci di presente non ci avere, chi n’abbia più fondatamente discorso (Vocabolario 1612, Premessa).
Ma lo seguono soprattutto nell’impostazione filologica del loro lavoro e nella scelta degli autori e dei testi da sottoporre a spoglio. Pur con qualche differenza, infatti, la Tavola degli autori citati nel Vocabolario coincide con l’elenco fornito da Salviati negli Avvertimenti (I, cap. XII) e trova riscontro in un suo quaderno manoscritto conservato alla Biblioteca Riccardiana (Stanchina 2009).
Ma c’è un altro aspetto interessante: Salviati è particolarmente interessato agli aspetti idiomatici della propria lingua. Il confronto fra la Raccolta ferrarese di proverbi compilata dal Salviati e il Vocabolario mostra infatti moltissime coincidenze (Salviati 2008-2009). Si tratta di una significativa apertura dei cruscanti all’uso parlato cinquecentesco, certo stimolata da Salviati, che la recente digitalizzazione del Vocabolario ha permesso di mettere in luce (La lessicografia della Crusca in rete: www.accademiadellacrusca.it). Si conferma quindi l’importanza fondamentale dell’insegnamento di Salviati per gli Accademici della Crusca, i quali tuttavia nella compilazione del Vocabolario dimostrarono di sapersi muovere anche autonomamente (Parodi 1974). A Salviati si deve comunque l’iniziativa di trasformare una «brigata di Crusconi» in un’Accademia ben strutturata, con un capo e degli obiettivi definiti. Presso l’Archivio storico dell’Accademia della Crusca è conservato un interessante documento di mano di Piero de’ Bardi che fornisce il verbale (autunno 1582) della memorabile riunione di fondazione e il discorso di Salviati (Maraschio & Poggi Salani 2008: 28-29)
Salviati, Leonardo (1564), Orazione in lode della fiorentina favella, in Il primo libro delle orazioni, Firenze, Giunti, pp. 23-36 [la prima edizione presenta molte varianti a cominciare da un titolo diverso: Orazione di Lionardo Salviati nella quale si dimostra la fiorentina favella e i fiorentini autori essere a tutte l’altre lingue, così antiche come moderne, e a tutti gli altri scrittori di qual si voglia lingua di gran lunga superiori].
Salviati, Leonardo (1575), Il primo libro delle orazioni, a cura di S. Razzi, Firenze, Giunti.
Salviati, Leonardo (1584), Degli avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone, volume primo, Venezia, Domenico e Giovanni Battista Guerra.
Salviati, Leonardo (1586), Del secondo volume degli avvertimenti della lingua sopra il Decamerone, Firenze, Giunti.
Salviati, Leonardo (1991), Regole della toscana favella, a cura di A. Antonini Renieri, Firenze, Accademia della Crusca.
Salviati, Leonardo (1997-1998), Traduzione, parafrasi e commento alla Poetica d’Aristotele (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, cod. Magl. VII, 87), a cura di F. Boschieri (tesi di laurea, Università di Genova), 2 voll.
Salviati, Leonardo (2005), Degli avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone, I volume, a cura di M. Gargiulo (tesi di dottorato, Università per Stranieri di Siena).
Salviati, Leonardo (2008-2009), Raccolta di proverbi toscani (Ferrara, Biblioteca Ariostea, cod. I, 394), a cura di D. D’Eugenio (tesi di laurea, Università di Firenze), 2 voll.
Salviati, Leonardo (2009-2010), Degli avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone, II volume, a cura di F. Cialdini (tesi di laurea, Università di Firenze).
Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), Venezia, Alberti (ed. anast. con un vol. di introduzione e commento: Sabatini et al., 2008).
Antonini Renieri, Anna (1991), Introduzione, in Salviati 1991, pp. 11-150.
Brown, Peter M. (1974), Lionardo Salviati. A critical biography, London - Oxford, Oxford University Press.
Engler, Rudolf (1975), I fondamenti della favella in Lionardo Salviati e l’idea saussureana di “langue complète”, «Lingua e stile» 10, pp. 17-28.
Engler, Rudolf (1988), Tra teoria e pratica: considerazioni su Leonardo Salviati e la sua polemica tassesca, in Prospettive di storia della linguistica. Lingua linguaggio comunicazione sociale, a cura di L. Formigari & F. Lo Piparo, Roma, Editori Riuniti, pp. 97-112.
Gargiulo, Marco (2009), Per una nuova edizione “Degli avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone” di Leonardo Salviati, «Heliotropia» 6, 1-2, pp. 1-27.
Maraschio, Nicoletta (1984), Il Lombardelli, il Salviati e il Vocabolario, «Studi linguistici italiani» 10, pp. 29-43.
Maraschio, Nicoletta (1985), Scrittura e pronuncia nel pensiero di Lionardo Salviati, in La Crusca nella tradizione letteraria e linguistica italiana. Atti del Congresso internazionale per il IV centenario dell’Accademia della Crusca (Firenze, 29 settembre - 2 ottobre 1983), Firenze, Accademia della Crusca, pp. 81-89.
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Pozzi, Mario (1988), Discussioni linguistiche del Cinquecento, Torino, UTET (il cap. finale, pp. 793-896, è dedicato a Salviati e a un’edizione parziale del I volume degli Avvertimenti).
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Stanchina, Giulia (2009), Nella fabbrica del primo Vocabolario della Crusca: Salviati e il Quaderno Riccardiano, «Studi di lessicografia italiana» 26, pp. 157-202.
Vitale Maurizio (1978), La questione della lingua, Palermo, Palumbo (1a ed. 1960).