Lipoproteine
Si definiscono lipoproteine dei complessi macromolecolari costituiti da quantità variabili di proteine e lipidi (colesterolo e suoi esteri, trigliceridi, fosfolipidi), solubili in mezzo acquoso. Sono presenti sia nei liquidi sia nei tessuti di organismi animali. Nel siero le lipoproteine si distinguono, in base alla loro mobilità elettroforetica, in lipoproteine α, a peso molecolare relativamente basso, e lipoproteine β, a elevato peso molecolare e maggiore contenuto lipidico. Le lipoproteine rivestono un ruolo importante nel metabolismo intermedio dei lipidi e dei carboidrati. Alterazioni della loro concentrazione nel plasma sono associate al rischio di aterosclerosi (v. arteriosclerosi). I. Il metabolismo delle lipoproteine I lipidi (v.) sono sostanze caratterizzate da scarsa o nulla solubilità in acqua. Mentre le molecole lipidiche semplici, come gli acidi grassi liberi, possono essere trasportate nel plasma veicolate dall'albumina, non esiste un meccanismo efficiente per il trasporto di lipidi più complessi, quali i trigliceridi (v.) e il colesterolo (v.). Le lipoproteine costituiscono un sistema in grado di trasportare queste molecole idrofobiche in un mezzo acquoso qual è il plasma, e di rifornire gli specifici tessuti cui esse sono necessarie. Esistono quattro classi principali di lipoproteine (tab. 1), raggruppabili in due tipi fondamentali: le lipoproteine ricche in trigliceridi e le lipoproteine ricche in colesterolo. Alle lipoproteine ricche in trigliceridi appartengono i chilomicroni e le VLDL (Very low density lipoproteins, lipoproteine a bassissima densità). I chilomicroni hanno grosse dimensioni (80-100 nm) e sono costituiti essenzialmente da trigliceridi (90-95%), piccole quantità di colesterolo libero ed esterificato, fosfolipidi e proteine; le VLDL, di dimensioni minori (30-80 nm), contengono una notevole quantità di trigliceridi (oltre la metà, in termini percentuali), oltre a colesterolo libero ed esterificato, fosfolipidi e proteine, tutti rappresentati in proporzioni ancora piccole, ma superiori a quelle in cui si trovano nei chilomicroni. Alle lipoproteine ricche in colesterolo appartengono invece le LDL (Low density lipoproteins, lipoproteine a bassa densità) e le HDL (High density lipoproteins, lipoproteine ad alta densità); nella catena metabolica, tra le VLDL e le LDL, vi sono anche le IDL (Intermediate density lipoproteins, lipoproteine a densità intermedia). Le LDL, di piccole dimensioni (20-25 nm), trasportano soprattutto colesterolo (in termini relativi, 35-45% di esteri e 6-15% di colesterolo libero); le HDL sono le più piccole tra tutte le lipoproteine (solo 8-13 nm), contengono soprattutto proteine (circa 45%) e fosfolipidi (25%), ma anche una certa quantità di colesterolo. Per ciascuna delle classi maggiori di lipoproteine esistono numerose sottoclassi, alle quali si riconosce attualmente grande importanza, soprattutto per quanto attiene alla loro aterogenicità. Strutturalmente le lipoproteine presentano un core, nucleo centrale costituito da trigliceridi e colesterolo esterificato, e un mantello periferico composto da colesterolo libero, teste polari dei fosfolipidi, proteine (le apolipoproteine o, più semplicemente, apoproteine, presenti in quantità e forme differenti nelle varie classi di lipoproteine; tab. 2). Le proteine rivestono molteplici funzioni: sono infatti elementi strutturali, fattori modulanti attività enzimatiche, ligandi per recettori specifici situati sulla superficie delle cellule. Quest'ultima funzione rende possibile la captazione, l'internalizzazione e la successiva metabolizzazione delle lipoproteine. Il metabolismo delle lipoproteine comprende una via metabolica esogena e una endogena. Nella via esogena, il colesterolo e i trigliceridi della dieta vengono incorporati nei chilomicroni, che sono assorbiti nel torrente linfatico (v. assorbimento) e da qui passano nel sangue, dove, a livello dei capillari delle cellule adipose, muscolari, renali e neuronali, per l'azione idrolitica della lipoproteinlipasi (LPL), vengono scissi in acidi grassi liberi (ossidati nelle cellule muscolari a scopo energetico, oppure depositati, previa riesterificazione, come trigliceridi nel tessuto adiposo) e nei cosiddetti remnant dei chilomicroni, che vengono captati dal fegato attraverso uno speciale recettore, il recettore LRP (LDL-receptor related protein). La via endogena ha inizio a livello epatico con la secrezione delle VLDL, che vengono idrolizzate dalla LPL, con formazione di remnant delle VLDL (detti anche IDL), i quali possono essere captati dal fegato attraverso il recettore LRP, oppure ulteriormente delipidati a opera della lipasi epatica o HTGL (Hepatic triglyceride lipase) con trasformazione in LDL. Le LDL vanno incontro o a captazione epatica da parte del recettore LDL, oppure a captazione da parte dei monociti-macrofagi (mediante i recettori scavenger), che, non possedendo un sistema autoregolato, al contrario di quanto avviene per la cellula epatica, accumulano una grande quantità di lipidi trasformandosi in cellule schiumose o foam cells. Le HDL sono in grado di caricarsi di parte del colesterolo già depositato nelle cellule dei tessuti periferici, per trasferirlo, principalmente attraverso una proteina di trasporto (CETP, Cholesteryl ester transfer protein), alle altre classi di lipoproteine, che lo porteranno poi al fegato. Da questo schema generale del ricambio lipoproteico emerge chiaramente la funzione centrale che in esso svolge il fegato, funzione che risulta ancor più essenziale quando si passi ad analizzare in maggiore dettaglio le principali tappe metaboliche e il ruolo delle singole classi lipoproteiche, delle diverse apoproteine e, infine, dei vari enzimi e dei differenti recettori. a) Chilomicroni. Circa il 50% del colesterolo di origine alimentare o biliare viene assorbito, mentre gli altri lipidi lo sono in misura proporzionale alle quantità presenti nel lume enterico, con l'eccezione di quelli a catena corta e media, cioè con meno di 12 atomi di carbonio, che passano direttamente nel sangue portale. Durante l'assorbimento di un pasto grasso nella mucosa dell'intestino tenue si formano micelle, costituite da colesterolo libero, acidi grassi liberi e mono- e digliceridi liberatisi in seguito all'azione degli enzimi digestivi. Una volta che le micelle sono penetrate nell'enterocita, il colesterolo viene esterificato e partecipa alla formazione di chilomicroni nativi, che contengono anche altre apoproteine. Raggiunto il plasma attraverso il dotto toracico, i chilomicroni acquisiscono rapidamente dalle particelle lipoproteiche di altre classi, e in particolare dalle HDL, numerose apoproteine, cedendo in cambio apoA, che è appunto la principale classe di apoproteine delle HDL. A mano a mano che l'idrolisi del core trigliceridico procede, i chilomicroni divengono sempre più piccoli. Quindi, attraverso la rimozione di una parte dei trigliceridi e il rimodellamento della particella residua più piccola, si formano dei remnant dei chilomicroni, che vengono rapidamente captati dal fegato a opera di uno specifico recettore. I remnant dei chilomicroni possono venire captati anche dai recettori presenti sulla superficie di cellule diverse dagli epatociti (per es. macrofagi). b) VLDL. La secrezione di VLDL avviene a livello epatico ed è influenzata dalla quantità di acidi grassi liberi presenti. Sull'entità della sintesi epatica di trigliceridi a partire dagli acidi grassi può avere una notevole influenza la dieta: così, una dieta ricca in carboidrati, che induce una lipogenesi epatica, può avere quale effetto la secrezione di ben 100 g al giorno di VLDL, mentre una dieta iperlipidica può limitare questa secrezione a soli 25 g (aumentando peraltro la formazione di chilomicroni, che sono invece molto bassi quando vengono assunte diete iperglicidiche). Tra i costituenti assemblati nelle VLDL vi è apoB-100, la cui molecola è sintetizzata nel fegato. Il fegato secerne numerose e distinte specie di VLDL (e non una singola popolazione di particelle, come si riteneva un tempo); le loro dimensioni e la loro densità variano in rapporto alla quantità di trigliceridi che devono essere trasportati. La rimozione da parte del fegato può avvenire direttamente o indirettamente, previa trasformazione in IDL o in LDL (per le particelle di più piccole dimensioni). c) LDL. Le LDL sono un prodotto del catabolismo delle VLDL. Normalmente solo il 50% circa delle VLDL è convertito a LDL, e nei soggetti ipertrigliceridemici tale proporzione è ancora più bassa, a causa della rapida captazione epatica di VLDL particolarmente ricche in apoE. Anche tra le LDL si devono distinguere diverse sottoclassi, a seconda della loro composizione che, peraltro, influenza il catabolismo. Le LDL vengono rimosse per circa 1/2-2/3 per via recettoriale epatica, la restante quota attraverso i recettori scavenger. Il sistema recettoriale epatico è ad alta affinità e autoregolato. Questa caratteristica dipende da una serie di eventi. Nell'uomo, come già detto, il colesterolo ha una doppia origine: esogena (alimentare e biliare) ed endogena (biosintesi, soprattutto a opera delle cellule epatiche). Il recettore rappresenta il mezzo con cui le cellule, epatiche ed extraepatiche, possono approvvigionarsi del colesterolo necessario per il rinnovo delle membrane o per la sintesi di ormoni steroidei (nel caso delle cellule surrenali e gonadiche) o di acidi biliari (a livello dell'epatocita). L'attività recettoriale condiziona i livelli plasmatici di LDL (e quindi di colesterolo), il cui aumento rappresenta uno dei fattori di rischio coronarico, e più in generale cardiovascolare, di maggiore importanza. Gli effetti negativi, a questo riguardo, di diete ricche in acidi grassi saturi e in colesterolo si esercitano verosimilmente attraverso la soppressione dell'attività recettoriale, e ciò porta a un accumulo nel plasma delle LDL, prodotte anche dalla secrezione epatica stimolata dal colesterolo contenuto negli alimenti. d) HDL. Le HDL svolgono un ruolo di primo piano nel catabolismo lipoproteico. Esse partecipano ai più importanti processi metabolici, coinvolgono le lipoproteine ricche in trigliceridi (basti pensare, per es., allo scambio di materiali, lipidici e proteici, che avviene con i chilomicroni e le VLDL). Le HDL intervengono anche nel trasporto extracellulare del colesterolo, regolando il flusso dinamico di costituenti lipoproteici che ha luogo continuamente durante la cascata metabolica delle lipoproteine e che si realizza anche grazie all'attività di particolari enzimi. Queste reazioni complesse servono sia ad avviare il catabolismo lipoproteico sia a rimodellare i prodotti catabolici in nuove forme di lipoproteine stabili. Durante questi cicli, le HDL si formano, vengono degradate e si rigenerano. La formazione avviene parzialmente grazie al loro ruolo di accettori o di donatori tanto di lipidi quanto di proteine. Le HDL sono responsabili del cosiddetto trasporto inverso del colesterolo, che consente la rimozione del colesterolo già depositato nei tessuti periferici, in primo luogo lungo la parete delle arterie, e la sua reintroduzione in circolo, per il successivo trasporto al fegato e la sua ulteriore metabolizzazione. Inoltre, esse rappresentano una fonte di colesterolo per i tessuti endocrini. 2. Le iperlipoproteinemie La definizione di iperlipoproteinemia è di per sé in qualche modo arbitraria, come lo sono le definizioni che si riferiscono all'aumento di variabili di tipo quantitativo continuo (come, per es., la pressione arteriosa), in quanto la prevalenza delle condizioni indicate con il prefisso iper- è largamente condizionata dal livello scelto per operare la distinzione rispetto ai soggetti con valori considerati normali. La scelta non può essere ovviamente casuale, ma viene in genere operata sulla base del notevole aumento del rischio che si registra a partire da determinati livelli (per es. laddove la curva che definisce il rischio tende a divenire, da lineare, esponenziale). Gli studi epidemiologici hanno fornito indicazioni numerose e concordi riguardo ai livelli di rischio che si associano ai differenti livelli sierici di colesterolo (sia totale, sia legato alla frazione aterogena delle LDL o a quella protettiva delle HDL), e di trigliceridi. Peraltro, attualmente, anziché parlare di valori soglia oppure di valori limite si tende a considerare il concetto di valore desiderabile. Livelli di colesterolemia inferiori a 200 mg/dl rappresentano il punto d'arrivo di strategie preventive sul piano sia individuale sia, soprattutto, di popolazione. a) Classificazione. Una classificazione clinica, ed essenzialmente fenotipica, è quella proposta da D.S. Fredrickson et al. (1967; tab. 3) che, però, non differenzia le forme primitive da quelle secondarie e, soprattutto, non considera la diversa eziopatogenesi. Certamente più moderna è la classificazione genotipica (tab. 4), la quale contempla varie forme di iperlipoproteinemie, molte delle quali possono assumere fenotipi diversi, ma per la cui terapia è evidentemente richiesta la precisazione della natura eziologica; si tratta, il più delle volte, di forme su base genetica, peraltro non sempre nota (come è invece il caso per gran parte delle ipercolesterolemie familiari), ma nelle quali i fattori ambientali, e in modo particolare quelli dietetici, svolgono pur sempre un ruolo tutt'altro che trascurabile. b) Diagnosi e forme cliniche. Nelle iperlipoproteinemie, l'iter diagnostico da adottare prevede: la definizione del fenotipo lipoproteico attraverso l'esecuzione del profilo lipidico completo, comprendente colesterolemia totale (CT), colesterolemia-HDL (C-HDL), trigliceridemia (TG) e colesterolemia-LDL (C-LDL), quest'ultima calcolata per mezzo della formula C-LDL = CT ‒ (C-HDL + TG/5); l'identificazione di eventuali forme secondarie, mediante la determinazione di glicemia (anche dopo carico con glucosio), azotemia, creatininemia, ormoni tiroidei, enzimi epatici, bilirubinemia, amilasi, proteinemia totale e frazioni, esame delle urine; un attento esame clinico, per la ricerca di sintomi e segni di possibili complicanze d'organo dell'arteriosclerosi; un'accurata indagine familiare; la definizione, ove possibile, del genotipo lipoproteico (studi di genetica molecolare, definizione di isoforme apoproteiche ecc.). La classificazione fenotipica consente unicamente un inquadramento temporaneo della situazione dismetabolica, che oltretutto può variare nel tempo (per es. i tipi IV e V di Fredrickson possono trasformarsi vicendevolmente, e altrettanto può accadere tra fenotipi IIa, IIb e IV). Naturalmente, le forme secondarie sono sensibili alla correzione delle cause sottostanti. L'ipercolesterolemia familiare è, tra tutte le ipercolesterolemie, quella di cui si conoscono meglio i meccanismi, rappresentati nella grande maggioranza dei casi da un difetto genetico che porta alla sintesi di recettori per le LDL non funzionanti; ha carattere autosomico dominante, come è stato dimostrato dalla modalità di trasmissione verticale dell'ipercolesterolemia, e può essere diagnosticata ancor prima della nascita in colture in vitro di fibroblasti ottenuti per amniocentesi, oppure per mezzo delle moderne tecniche di analisi della genetica molecolare. Dal punto di vista clinico, esistono spesso i segni della deposizione di colesterolo a livello cutaneo, tendineo e corneale (xantomi, arco corneale), talora assai precoci. Precoci sono anche le manifestazioni cardiovascolari, e in particolare coronariche, dovute all'accumulo di colesterolo nella parete delle arterie di grosso e medio calibro, che danno luogo a quadri di arteriosclerosi grave e diffusa. Notevolmente aumentati sono i livelli sierici del colesterolo totale, del colesterolo-LDL e di apoB. L'iperlipidemia familiare combinata, la cui prevalenza è più elevata rispetto all'ipercolesterolemia familiare, e che si associa anch'essa ad arteriosclerosi prematura, si caratterizza per la variabilità del fenotipo nel tempo e per la frequente esistenza, nell'anamnesi familiare, di casi di ipercolesterolemia, di ipertrigliceridemia e di entrambe queste condizioni. Il difetto biochimico alla base di tale forma sarebbe l'aumentata sintesi epatica di VLDL. La xantomatosi è piuttosto rara, mentre sono spesso presenti sovrappeso corporeo od obesità, ridotta tolleranza al glucosio o diabete, ipertensione arteriosa, iperuricemia; queste alterazioni, insieme con quelle del ricambio lipidico (tra cui, non di rado, anche bassi livelli di colesterolo-HDL), configurano il quadro della cosiddetta sindrome plurimetabolica, alla base della quale sembra esistere, come elemento patogenetico comune, una condizione di insulinoresistenza e di iperinsulinemia. L'ipercolesterolemia poligenica è sicuramente la più diffusa forma di ipercolesterolemia, e le complicanze cardiovascolari sono meno gravi che nelle forme precedenti. I livelli sierici di colesterolo, elevati in maniera consistente solo in una minoranza di soggetti, sono verosimilmente sotto il controllo di più geni, che in ambito familiare danno luogo a varie combinazioni sia tra loro sia con geni normali. Notevole è anche l'influenza dei fattori dietetici, e la risposta terapeutica è generalmente buona. Le altre forme di iperlipoproteinemia di più comune osservazione riguardano soprattutto i trigliceridi (tra le forme genetiche, peraltro relativamente poco frequenti, vanno ricordate l'ipertrigliceridemia familiare e i difetti congeniti di LPL e di apoCII). c) Trattamento delle iperlipoproteinemie. La dieta deve rappresentare sempre il primo provvedimento terapeutico da attuare nelle ipercolesterolemie, e più in generale in tutte le forme di iperlipoproteinemia. Le misure dietetiche possono risultare di per sé sufficienti a riportare gli aumentati livelli lipidemici entro limiti desiderabili (ciò si verifica per lo più nelle forme meno gravi di ipercolesterolemia poligenica); ma anche quando non sia possibile raggiungere esiti soddisfacenti, esse dovranno costituire la base della terapia, che sarà eventualmente integrata con (e non sostituita da) l'impiego di farmaci. Anche nelle forme gravi di ipercolesterolemia familiare, infatti, notevoli quantità di grassi saturi e di colesterolo apportati con l'alimentazione possono rappresentare un carico eccessivo per un sistema recettoriale (saturabile) che, per un difetto genetico, ha dimensioni ridotte di circa il 50% rispetto a quello degli individui normali. Come suggerito dall'American heart association, la dieta che meglio sembra rispondere all'obiettivo di ottenere e mantenere bassi livelli lipidemici è di tipo multifasico, e si basa su alcuni semplici ma importanti principi: rappresentare una ragionevole estensione dello stesso regime raccomandato per la popolazione generale; prevedere la progressiva riduzione, in tappe successive, dell'assunzione di grassi saturi e di colesterolo; evitare un'eccessiva introduzione di acidi grassi polinsaturi; facilitare la riduzione ponderale rimuovendo i cibi a più alta densità calorica. Per evitare che una riduzione della colesterolemia totale si accompagni a una diminuzione ancor più importante, in termini percentuali, della colesterolemia-HDL, è importante che la quota di acidi grassi monoinsaturi venga mantenuta relativamente elevata (a spese di quella dei polinsaturi) e che ugualmente elevato sia il contenuto in fibre della dieta; quest'ultimo è soprattutto importante in caso di diete fortemente ipolipidiche, e quindi corrispondentemente ricche in carboidrati e potenzialmente ipertrigliceridemizzanti. Tutte queste caratteristiche sono tipicamente presenti nella dieta mediterranea, che rappresenta pertanto un modello ideale di alimentazione, da seguire non soltanto a fini terapeutici ma, ancor più, a scopo di prevenzione. Nel caso di inadeguata risposta della colesterolemia totale e della colesterolemia-LDL alle misure di ordine dietetico, occorre affiancare a queste l'impiego di farmaci. La loro prescrizione può essere, tuttavia, motivata anche da altri fattori: l'incapacità del paziente di seguire il regime alimentare consigliato, evenienza particolarmente frequente nei soggetti asintomatici; la gravità dell'ipercolesterolemia, poiché è difficile che una risposta alla dieta, per quanto buona, possa da sola consentire il raggiungimento di concentrazioni sieriche soddisfacenti; l'entità di lesioni arteriosclerotiche eventualmente riscontrate per mezzo di indagini speciali (per es., esami angiografici o metodiche diagnostiche non invasive); il rischio particolarmente elevato di complicanze, per la coesistenza di alti livelli di altri fattori di rischio; una storia familiare di cardiovasculopatie premature. La terapia farmacologica può essere condotta con l'impiego di un gran numero di sostanze, aventi caratteristiche farmacologiche e farmacocinetiche assai diverse, che permettono di realizzare trattamenti combinati, sfruttando i differenti meccanismi di azione dei vari composti somministrati in associazione. I farmaci disponibili possono essere classificati in farmaci ad attività ipocolesterolemizzante prevalente o esclusiva, e in farmaci ad attività prevalentemente ipotrigliceridemizzante. Attualmente, hanno un ruolo assolutamente primario nel trattamento delle ipercolesterolemie la colestiramina e le statine. I trattamenti combinati (soprattutto alcuni, come quello tra fibrati e statine) richiedono comunque una sorveglianza quanto mai attenta degli effetti collaterali, che potrebbero risultare aumentati, in termini di frequenza e gravità, dall'associazione di farmaci che possiedono entrambi, già da soli, un determinato potenziale tossico; al riguardo, grande importanza assume l'accurata selezione dei pazienti da sottoporre a trattamenti di questo tipo. In casi di ipercolesterolemia molto grave, è stato tentato con successo l'intervento chirurgico di bypass parziale dell'ileo, consistente nella esclusione dal transito intestinale degli ultimi due metri del tenue; per effetto di tale procedura, l'assorbimento di colesterolo risulta nettamente diminuito, e il circolo enteroepatico degli acidi biliari interrotto. Altra procedura chirurgica, tentata con successo in alcuni casi di ipercolesterolemia familiare omozigote, è il trapianto di fegato.
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