LIPPI, Filippo, detto fra Filippo
Pittore. Nacque a Firenze circa il 1406, morì nel 1469 a Spoleto dove, nel duomo, ha nobile sepoltura, disegnata dal figlio Filippino, voluta da Lorenzo il Magnifico. Messo, ancor fanciullo, nel convento del Carmine a Firenze (nel 1430 vi era qualificato tra i frati come pittore), sembra ne uscisse nel 1431; ma non spogliò mai l'abito religioso, né il titolo, nemmeno dopo esser stato rimosso (1455), per un processo, da rettore della chiesa di S. Quirico a Legnaia; dal 1456 al 1461 fu cappellano di S. Margherita a Prato, benché avesse tolto dalle monache di quel convento Lucrezia Buti, da cui ebbe Filippino (v). Queste vicende, forse narrate più avventurose dai biografi (il Bandello ripete dal Vasari, con altro, il racconto della breve schiavitù del L. in Barberia), non diminuirono la grande operosità del pittore, devoto alla sua arte, nella quale egli improntò una vita profonda e in continuo sviluppo originale, creatore di modi nuovi nella pittura fiorentina, più che per solito non si stimi. Adolescente, nella chiesa del Carmine, il L. vide lavorare alla cappella Brancacci prima Masolino, poi (circa 1426) Masaccio; e sembra che da principio Masolino lo abbia attratto più dell'innovatore, poiché vi sono tracce della sua influenza nella Natività (Museo di Berlino), di cui il L. ripeté poi il fantastico sfondo silvestre in altre due tavole consimili (Firenze, Uffizî): una delle più antiche opere del L., e nondimeno, per altri caratteri, già matura.
Ma presto il giovane pittore dovette essere preso da Masaccio. Lo dimostra un mirabile frontale (Madonna dell'umilta fra angioli, Milano, coll. Trivulzio) che persuade, con la sua robusta rosata tonalità, ad attribuire agl'inizî del L., forse aiutato da qualche compagno, i resti di un grande affresco nel chiostro del Carmine a Firenze. Di questo suo periodo, in cui il L. lasciò anche a Padova (nel 1434; e aveva forse seguito nell'esilio Cosimo de' Medici, poi sempre suo patrono) affreschi che furono tra le prime apparizioni nel Veneto della nuova arte fiorentina, scomparse quelle e altre opere, conosciamo almeno la fase finale, al ritorno di lui in Toscana, nella Madonna (Tarquinia, Museo) per il cardinale Vitelleschi. È la prima sua opera di data certa (1437). Il L. vi riesce a un'energica impressione plastica, provocandola col contrasto d'ombra e di chiari, ma, pur in tale intento sommamente masaccesco, egli afferma già un temperamento suo, nel definire i contorni, e nei guizzi di luce che attenuano la stabilità del rilievo, nonché nell'appassionato impeto del Bambino. La pala d'altare commessa per Santo Spirito nel 1437 (Louvre), ma eseguita probabilmente nel corso di più anni, mostra in crescente sviluppo i caratteri particolari del maestro, diminuita la dipendenza da Masaccio: giuochi di chiaro e d'ombra dànno alla modellazione movimento piuttosto che consistenza, il colore è toccato d'una luce dolce, perlacea, in mobile iridescenza; e nella predella (Uffizî), certo dipinta per ultima, sulla forma e sul colore il disegno è accentuato con tanta evidenza di linee da diventare il mezzo più vivace per esprimere il moto, e in qualche figura ha il ritmo impetuoso che sarà poi ripreso dal Botticelli. Nella pala per la cappella medicea di S. Croce (Uffizî), quasi coeva a quella di Santo Spirito, si attenua alquanto più il rilievo nel colore e nel chiaroscuro, è inquietudine fin nell'atteggiamento dei santi. Nella grande Incoronazione della Madonna (Uffizî), incominciata nel 1441 ma forse non finita prima del 1447, la festosa scena terrena viene trasfigurata dal passare della luce che vela e modifica il colore, dal tremolio di ombre in cui le forme corporee si affinano e diventano vibranti, anche nell'intimo; in qualche parte, si presente Leonardo. Nella tavola rappresentante Marco Datini e gli amministratori del Ceppo di Prato ai piedi della Vergine (Prato, Galleria), la Madonna fu definita dal maestro stesso con grande delicatezza psicologica nella lieve malinconia del volto, il cui modellato si risolve quasi senza chiaroscuro in disegno.
Il L., seguendo una propria via, andava subordinando sempre più le impressioni plastiche a quelle di movimento, mediante sottigliezze di contorni e di chiaroscuro, adatte a cogliere tenui moti spirituali, spesso indifferente a costrurre saldamente le forme corporee. Né a ciò contrasta ch'egli giunga nello stesso tempo a più convincente rappresentazione della profondità dello spazio, spesso incerta nelle opere precedenti, perché poco v'è di comune tra l'arte gotica lineare e il disegno in cui egli trasfonde il senso plastico fiorentino, moderandolo ai suoi fini. Nel tondo della Galleria Pitti (Firenze), non ancora compiuto nel 1452, la prospettiva è scientificamente costruita; entro la luce moderata, senza più contrasti d'ombra, la modellazione lieve esprime quasi un tremito nel volto della Madonna. Gli affreschi del coro del duomo di Prato - Evangelisti, storie del Battista e di S. Stefano -, vasta opera intrapresa nel 1452 e condotta a termine nel 1464 non senza larga collaborazione di aiuti, nelle parti meno guaste e in cui meglio si può riconoscere il maestro mostrano quelle stesse qualità e nuova larghezza di composizione; nel Banchetto di Erode, nelle Esequie di S. Stefano, gli sfondi prospettici sono intentamente studiati, le scene ariose, non affollate, sono composte in ponderata euritmia; la vita vi irrompe nei molti ritratti. Ma se queste doti furono possedute da altri maestri fiorentini, si manifesta in esse tutta l'individualità del L. nella lievità della luce e del colore che dà leggerezza alle forme, ai moti, e si accompagna all'intima commozione. I resti (Richmond, Collezione Cook: S. Michele e S. Bernardo) di un trittico compiuto circa il 1457, e inviato dai Medici al re di Napoli, mostrano gli stessi caratteri; i quali, invece, appaiono assai meno puri nell'ultima grande opera assunta dal L. ma in gran parte compiuta dai suoi collaboratori: gli affreschi nell'abside del duomo di Spoleto. Colà andò il pittore nel 1467 con due aiuti, fra Diamante (che già lo aveva servito a Prato) e Pier Matteo d'Amelia accompagnato dal figlio Filippino, allora giovanissimo; e già nel 1468, benché egli fosse stato infermo a lungo, era compiuta l'Incoronazione della Madonna nella conca absidale, e due mesi dopo la sua morte (1469) l'intiera decorazione veniva scoperta.
Le opere del L. ricordate fin qui non sono che una parte della sua vasta attività, che esse segnano di date sicure; molte altre ancora integrano l'arte del maestro e le sue fasi, benché la loro controversa cronologia si possa stabilire soltanto approssimativamente entro la progressione stilistica indicata a grandi tratti dalle opere datate. Del periodo primitivo del L. non è l'Adorazione dei Magi della raccolta Cook (Richmond), perché le parti che vi eseguì il maestro hanno già caratteri della sua media maturità; finita nelle altre parti da uno stretto seguace dell'Angelico, che ricorda anche il Pesellino, la sua sapiente composizione entro un tondo fu ideata dal L., piena di così appassionato movimento, da precedere le Adorazioni del Botticelli. Tralasciando altre opere pure importanti, si possono ricordare, per la fase masaccesca, progressivamente scemante rispetto alla Madonna di Tarquinia, quattro Santi dell'Accademia di Torino, l'Annunciazione del S. Lorenzo di Firenze, poi una Madonna (Nizza, Raccolta B.) e un'altra, ritrovata a S. Andrea a Botinaccio (Firenze); per un periodo più inoltrato, due lunette nella Galleria nazionale di Londra; del tempo degli affreschi di Prato, nello stesso duomo, le Esequie di S. Bernardo, tavola che meglio rivela quanto di finezze appena s'intravvede in quegli affreschi; e, infine, la Madonna con angioli (Firenze, Uffizî), in cui la "delicatissima mano del L." (Vasari) trova nuova tenuità di luci e di ombre, veli di tinte lievissime, linee che tutto uniscono in un accordo solo, anche il paese, per esprimere una vibrante sensibilità spirituale.
Non poche opere uscirono dalla bottega del L., forse ideate da lui, ma in parte o in tutto eseguite dai suoi aiuti e allievi. Con aiuti egli aveva finito nel 1458 anche la pala della Trinità (Londra, Galleria nazionale) del Pesellino, già suo discepolo. Tra quelle opere ancora non è sicuramente distinto quanto appartiene a fra Diamante (1430 circa-1498); ma questi ebbe certo gran parte negli affreschi di Spoleto, e prima anche nelle tavole eseguite durante i lavori nel duomo di Prato (Prato, Galleria).
V. tavv. XLVIII-LII e tav. a colori.
Bibl.: H. Mendelsohn, F. L., Berlino 1909; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, VII, 1, Milano 1911, p. 360; L. Fausti, Le pitture di F. L. nel duomo di Spoleto, in Archivio per la storia eccl. dell'Umbria, 1915; R. v. Marle, The Development of the Italian Schools of Painting, X, L'Aia 1928, p. 328 segg.; G. Gronau, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, XXIII, 1929, p. 271 segg. (con bibl.); B. Berenson, Italian Pictures of the Renaissance, Oxford 1932; id., Fra Angelico, fra Filippo e la cronologia, in Boll. d'arte, XXVI (1932), pp. 1-22, 49-66 segg.; P. Toesca, ibid., 1917, p. 105 msegg.; id., in L'Arte, XXXV (1932), pp. 104-09; A. De Wit, in Dedalo, XII (1932), pp. 585-93; L. Venturi, Lo sviluppo artistico di F. L., in L'Arte, XXXVI (1933), pp. 39-45.