LISIPPO (Λύσιππος, Lysippus)
Scultore greco, nato a Sicione, fiorito all'età di Alessandro Magno. Egli, per età, è il terzo della gloriosa triade di scultori del sec. IV a. C., costituita da Scopa di Paro, da Prassitele ateniese e da lui. Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 51) colloca l'apogeo dell'attività di Lisippo nella olimpiade 113ª e, cioè negli anni 328-324 a. C.; ma lo scultore dovette essere attivo sino alla fine del sec. IV, poiché un'iscrizione, poi perduta, di Roma attesta che L. eseguì una statua di Seleuco Nicatore, il quale assunse il titolo regio nel 306-05. È perciò probabile che, essendo L. pervenuto sino all'età senile, come appare dall'Antologia Greca (IV, 16, 35), egli fosse nato all'incirca nell'anno 370 a. C.
L. formò la sua personalità artistica a Sicione, dove, come nella non lontana Argo, era fin dai tempi dell'arcaismo viva la tradizione della scultura atletica e rimaneva tuttora valido l'influsso del maggiore rappresentante di questa scultura, Policleto. In realtà, da un passo del Brutus (86,296) di Cicerone, apparirebbe che L. considerava come suo modello la statua del Doriforo di Policleto; invece da un passo di Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 61), risalente allo scrittore Duride di Samo, parrebbe che L. non appartenesse a nessuna scuola, sicché è da ritenere che egli, pur tenendo in grande considerazione gl'insegnamenti di Policleto, concretati nel suo capolavoro, cioè nel Doriforo, seguisse essenzialmente la sua indole osservatrice della natura. Ed invero in questo medesimo passo è detto che, mentre L. da giovane si esercitava nella lavorazione del bronzo, fu ammonito dal suo concittadino, il celebre pittore Eupompo, di seguire non già un determinato artista, ma la natura. Nei suoi primi tempi di attività artistica non poté tuttavia L. sottrarsi all'influsso non solo di Policleto, ma anche di Scopa, il quale, più anziano di L. di trenta o quarant'anni, operò sin al 350 a. C. coltivando anche la scultura atletica e palesandosi come il caposcuola di un indirizzo di arte passionale.
Nel 1894 si scoprì nel santuario di Delfi un complesso di statue marmoree consacrate da una famiglia tessalica originaria di Farsalo, negli anni tra il 338 e il 334 a. C.; tra i personaggi rappresentati è un certo Agias effigiato come nudo atleta. Si volle vedere in questa statua una copia di una statua bronzea già esistente a Farsalo, opera, come si desume da una iscrizione ora perduta, di Lisippo. L'Agias delfico presenta caratteri policletei e scopadei insieme, ben diversi da quelli che noi possiamo constatare nelle opere verosimilmente lisippee. Ma sembra ormai assodato che l'Agias delfico sia stato eseguito in età anteriore all'Agias di Farsalo di L., e perciò si ha ora ogni ragione di allontanare, come inutile ingombro, questa statua delfica nella ricerca della personalità artistica di L.
Oltre all'Agias di Farsalo, ora perduto e non identificabile, L. eseguì altre statue atletiche; dalle fonti scritte abbiamo notizia di altri cinque atleti: di Polidamante (olimpionico nel 408 a. C.), di Troilo (olimpionico nel 372 a. C.), di Chilone (vincitore più volte in varî santuarî), di Callicrate, di Senarche. Forse all'inizio della carriera di L. si deve ascrivere la statua di Troilo innalzata verso il 350 a. C., mentre all'età di Cheronea (338-37) discenderebbe l'esecuzione del Polidamante.
Ma di L. ci è pervenuta in copia marmorea una statua atletica, che serve come punto di partenza per lo studio dell'attività del grande scultore: l'apoxyómenos o atleta che si deterge con la strigile il sudore e la polvere dopo gli esercizî ginnastici. L'originale, di bronzo, stava ai tempi di Plinio nelle Terme di Agrippa; racconta Plinio che l'imperatore Tiberio aveva trasportato questo bronzo nel suo palazzo sul Palatino, ma aveva dovuto rimetterlo al suo posto, date le proteste clamorose dei Romani. La copia marmorea proviene dal Trastevere, ed ora è nel Braccio Nuovo dei Musei Vaticani: in essa è riconoscibile l'impronta di un artista non solo originale, ma di genio, il suggello dell'arte di L., dato il confronto che possiamo istituire con opere anteriori o contemporanee, dato quanto possiamo sapere su L. dalla tradizione letteraria.
L'apoxyómenos è snello, svelto, nervoso. Invero lo slancio agile della figura è accentuato dalla piccolezza della testa, e in questo impiccolimento del capo L. si ricollega all'antica scuola argiva della prima metà del secolo V. Poi, pur essendo l'apoxyómenos rappresentato fermo, esso dà un senso di agitazione, quasi tutta la figura sia percorsa da un fremito nervoso, poiché si prova l'impressione che egli cambi di continuo dall'appoggio della gamba destra a quello della sinistra e così via. Vi si osserva una piena libertà di movimento, sia in avanti sia lateralmente; esso possiede la terza dimensione. Nel volto nobilissimo, proprio di un atleta in cui alla vigoria e sanità del corpo si uniscono la luce dell'intelletto e la moralità della coscienza, pare di avvertire il riflesso dell'agitata vita ellenica dei tempi di Alessandro Magno: gli occhi, non molto aperti, sono allungati, e dànno un'impressione di leggiera stanchezza, la bocca è un po' dischiusa con gli angoli distesi; nella piega orizzontale della fronte e anche nella corta, ricciuta chioma, in intricato disordine e madida di sudore, pare rispecchiarsi l'inquietudine nervosa dello spirito.
Attorno all'apoxyomenos, che è sì discosto dalle patetiche figure di Scopa, dalle gentili e molli figure di Prassitele, possono aggrupparsi altre sculture. Per rimanere nel campo della scultura atletica si possono menzionare i due bronzi di Ercolano nel Museo di Napoli che rappresentano lottatori: sono figure slanciate e con atteggiamento saturo di vibrazioni. Vi sono poi statue di numi: precedono numi atletici, cioè Ermete ed Ares. Ermete ci appare in due belle creazioni lisippee: in quella offertaci dal bronzo da Ercolano del Museo di Napoli (v. XIV, tav. XXX), ove il dio, adolescente, riposa su un masso, ma nel riposo ha tutta la figura tesa per scattare in piedi al comando di Zeus; anche qui nel riposo è agitazione, è nervosismo, specie nelle gambe che toccano appena il terreno. Poi l'Ermete che si allaccia il sandalo: il dio, appoggiando il piede destro su una sporgenza rocciosa, curva il torso, ma solleva il capo per ascoltare il comando di Zeus; delle copie di tale tipo sono notevoli quella dell'ora dispersa collezione Lansdowne (v. XIV, tav. XXX) e quella del Louvre.
Un Ares lisippeo si può riconoscere nella statua dell'Ares Ludovisi, ora nel Museo nazionale romano (v. IV, p. 160); nella bella figura del nume rappresentato seduto, con il ginocchio sinistro alzato, stretto da entrambe le mani, è vigoria vigile, quasi aggressiva, corrispondente al carattere del personaggio rappresentato.
Pausania (IX, 27, 3) ci fa parola di una statua di bronzo di L. rappresentante Eros ed esistente nel santuario del dio a Tespie in Beozia, vicino alla statua, pure di Eros, di Prassitele.
Sembra che si possa riconoscere questa statua lisippea nel tipo offertoci da alcune copie marmoree, tra cui la più nota è quella di Tivoli al Museo Capitolino, ma tra cui è degna di menzione anche la copia di Cirene (v. X, tav. CXVIII). Il dio fanciullo è rappresentato nell'atto d'infilare la corda nell'arco; pure in questo caso l'azione non esige grande movimento, ma vi è la solita impressione d'irrequietezza nervosa, e si avverte quasi il battito delle ali impazienti di recare a volo il bellissimo fanciullo, il quale sembra il fratello minore dell'apoxyómenos.
L. trattò anche le figure di Apollo e di Dioniso, come ci informano Pausania (IX, 30,1) e Luciano (Giove tragico, 12); ma l'identificazione è incerta. Meglio siamo informati sul Poseidone di bronzo che stava a Corinto (Luciano, Giove tragico, 9) e che è riprodotto su monete di Demetrio Poliorcete (303 a. C.).
Un'eco di esso da riconoscere in una grandiosa statua marmorea di Nettuno proveniente da Porto, ora nel Museo Laterano. È in essa il motivo del piede sollevato su un rialzo del terreno, motivo comune allo Ermete che si allaccia il sandalo, e che già Scopa aveva usato per il suo Apollo Sminteo. Ma nella statua di Porto non è fedelmente seguito lo stile di L., perché le forme sono piatte. Piuttosto l'impronta lisippea è in una testa marmorea da Porcigliano nel Museo Chiaramonti al Vaticano: l'immagine di Poseidone ha le disordinate ciocche della chioma e della barba piene di umida salsedine, con le ciglia corrugate nello sforzo visivo.
Sappiamo da Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 63) che di L. era in Rodi una quadriga del Sole, di bronzo, guastata poi da una doratura che volle farvi Nerone. Abbiamo inoltre notizia di quattro statue di Zeus: una a Taranto era alta, come dice Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 40), ben 40 cubiti, una seconda era a Megara, una terza ad Argo, una quarta nella città natale di L., a Sicione.
Oltre ai numi L. trattò un'allegoria, quella del Kairós o Genio dell'occasione, opera forse giovanile di lui, esistente a Sicione.
Riprese L. in quest'opera un argomento trattato da Policleto, ma con audacia di concezione del tutto nuova. Come si può desumere da un epigramma dell'Antologia Greca (II, 49, 13) e dalla descrizione di Callistrato sofista (Descrizioni, 6) il Kairós lisippeo era sotto l'aspetto d'un adolescente alipede, diritto sulla punta dei piedi al disopra di una sfera, con un rasoio nella mano destra: la chioma era ricondotta sulla fronte e la nuca era nuda di capelli. La statua fu trasportata, come si desume da un passo di Cedreno (Comp. Histor., 322 C), a Costantinopoli e perciò se ne hanno ricordi affievoliti e lontani in monumenti tardi, come in un rilievo copto del museo del Cairo e nel rilievo marmoreo del duomo di Torcello. Non solo Dioniso fu riprodotto da L., ma anche i demoni del suo corteo, cioè i Satiri; da Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 64) abbiamo notizia di un Satiro lisippeo in Atene e un'opera lisippea possiamo riconoscere nel gruppo, che conosciamo attraverso varie copie, di cui la più nota è quella del braccio nuovo del Vaticano, e che rappresenta un barbuto Sileno pieno di paterna benevolenza, il quale regge tra le mani Dioniso bambino: bellissimo nesso tra una figura adulta e una infantile.
Prediletta dovette essere per L. la figura di Eracle. Di quattro statue lisippe dell'eroe abbiamo notizia dalle fonti letterarie, cioè di un Eracle inerme, di un Eracle di Sicione, di un Eracle colossale a Taranto, di un Eracle minuscolo che fu di Alessandro Magno.
Dell'Eracle dell'agorà di Sicione forse è da riconoscere il ricordo in una serie di repliche marmoree, in bronzetti, in monete: l'eroe è rappresentato ignudo, appoggiato alla clava posta sotto l'ascella sinistra con sopra la pelle leonina. L'idea più vicina all'originale ci è data da un bel bronzetto di provenienza umbra, ora al Louvre, mentre un rifacimento barocco è nell'Ercole Farnese (v. XIV, tav. XII) firmato da Glicone. È un Eracle patetico che si riposa dopo una delle sue imprese, ed è in questo stanco riposo l'espressione del contrasto tra la forza invitta, superiore a mostri e a belve, e l'accorato senso di dolore, da cui l'eroe è stato alla sua volta vinto. Nelle due figure bronzee dell'Eracle di Taranto e di quello di Alessandro Magno scorgiamo una prova della grande versatilità e potenza artistica di L., il quale sapeva trattare magnificamente lo stesso soggetto e nel colossale e nel minuscolo. L'Eracle di Taranto era di proporzioni colossali; trasportato a Roma da Fabio Massimo, passò in seguito a Costantinopoli, dove fu distrutto nel 1204 dai crociati latini per battere moneta; un ricordo di questa statua è in una cassetta eburnea bizantina di Xánthä. Un tardo scrittore bizantino, Niceta (De Alexio Isaaci Ang., III, p. 687), ci dice che nell'Eracle di Taranto era espresso un senso di sconforto e di stanchezza; invece nel bronzetto, alto meno di un piede, che L. eseguì per Alessandro Magno, risplendeva la serenità.
Il bronzetto era il portafortuna del conquistatore macedone, che lo tenne sempre con sé nell'impresa d'Asia e d'Africa; questo piccolo Eracle era chiamato epitrapézios, perché di solito adornava la mensa del re; subì poi varie vicende; fu in possesso di Annibale, poi di Silla e fu cantato da Marziale (IX, 44 seg.) e da Stazio (Silvae, IV, 6, v. 32 segg.). Il ricordo del minuscolo capolavoro ci è conservato in riproduzioni più o meno fedeli, di marmo e di bronzo, tra cui una statuetta da Babilonia, il luogo ove morì Alessandro Magno, al British Museum, e, più notevole per accuratezza di forme, un torso acefalo da Gabii nel Louvre.
Ma L. rappresentò l'eroe anche nelle sue dodici fatiche, in un ciclo di gruppi per Alizia, città dell'Acarnania. Gli echi di questi gruppi sono forse da percepire in rilievi di sarcofagi romani; inoltre è probabile che il gruppo bronzeo di Eracle imberbe e un cervo del Museo nazionale di Palermo risalga al prototipo lisippeo, e che ad un Eracle del ciclo di Alizia si possa ricondurre la bella statua, piena di fisica tensione, degli Orti mecenaziani, ora nel Palazzo dei Conservatori a Roma.
Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 63) ci dice che L. cominciò a essere il ritrattista di Alessandro sin da quando questi era fanciullo. Il che significa che L. fu lo scultore della corte macedone sin dai tempi di Filippo, il padre di Alessandro (359-336 a. C.). Ma il regno di Alessandro segna l'apogeo dell'arte lisippea. È noto che il bellissimo re macedone non volle essere effigiato se non da Apelle in pittura, da Pirgotele nell'intaglio, da L. nel bronzo.
Presso gli antichi scrittori troviamo cenno di tre immagini lisippee di Alessandro Magno. Plutarco (De Alexandri Magni, ecc., II, 2) fa menzione d'un ritratto del Macedone in cui questi era in piedi, poggiato all'asta, col volto un po' alzato. Di questa immagine sono rimasti ricordi modesti in statuette bronzee; ma lo schema rimase, perché fu applicato sia a diadochi, come nella bella statua bronzea del Museo nazionale romano (v. VII, tavola CCVII), sia a imperatori romani, come nell'Augusto del rilievo di San Vitale in Ravenna.
Velleio Patercolo (I, 11, 3), Arriano (Anab., I, 16, 7), Plutarco (op. cit., 16), Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 64), Giustino (XI, 6, 13) ci dànno notizia d'un gruppo bronzeo lisippeo in cui era Alessandro Magno a cavallo fra una torma di cavalieri nella battaglia del Granico; forse un'eco della figura del re risuona nella bella statuetta bronzea di Ercolano del Museo di Napoli (v. IX, tav. CLXV). Infine da Plinio (loc. cit.) e da Plutarco (op. cit., 40) sappiamo che in un dono votivo del macedone Cratero in Delfi, eseguito da L. insieme con Leocare, era rappresentato l'episodio di caccia in cui Cratero aiutò Alessandro assalito da un leone; un ricordo di questo gruppo è in un rilievo da Messene nel Louvre.
Il carattere lisippeo si riconosce in due ritratti di Alessandro Magno: in un'erma da villa Adriana nel Louvre e in una testa da Pergamo nel Museo di Istambul: dal volto piuttosto magro ben appaiono l'agitazione dello spirito di Alessandro, con quelle caratteristiche di virile e di leonino, osservate da Plutarco, che dànno un'impressione di energia e di nobiltà.
L'attività ritrattistica di L. non si restrinse ad Alessandro; abbiamo notizia di altri ritratti, sia di defunti, quali Esopo, i sette sapienti, Socrate e la poetessa Prassilla, sia di contemporanei, quali Efestione, Pite di Abdera, Seleuco Nicatore. Di quest'ultimo si ha copia in un busto bronzeo di Ercolano del Museo di Napoli, pieno di vigore e di espressione.
Sappiamo anche che L. eseguì una statua di flautista ubriaca, tema codesto che sembra preannunziare quanto poi esprimerà l'arte del più maturo realismo. Per il genere animalistico si ha notizia di un leone caduto, di un cavallo sfrenato, di una quadriga. Tutto ciò dimostra la grande versatililà dell'arte di L., il quale tuttavia rappresentò assai più di frequente la figura maschile che la femminile. Oltre a Prassilla e alla flautista ebbra, di L. sappiamo che eseguì le statue delle Muse per il tempio di Tiche a Megara (Pausania, I, 43,6). Ma il tipo femminile di L. non ci è noto con tutta sicurezza: dobbiamo forse riconoscerlo nella statua marmorea detta la Grande Ercolanense dell'Albertinum di Dresda (v. VIII, p. 868) figura ammantata piena di decoro, di nobiltà, di eleganza?
Artista multiforme fu L.; di questo si ha una prova anche in un passo di Ateneo (Deipnosoph., XI, p. 784) che ci riferisce che quando Cassandro, padrone della Macedonia, trasformò nel 315 a. C. l'antica Potideia in Cassandreia, diede a Lisippo l'incarico di foggiare un nuovo tipo di recipiente per l'esportazione del vino di Mende; il celebre artista non rifiutò l'incarico modesto.
Egli fu sempre un artista celebrato, ma certo il periodo felice della sua età dovette essere troncato dalla morte di Alessandro Magno. Già vecchio continuava a lavorare; così invero comincia un epigramma dell'Antologia Greca (IV, 16, 35): "Orsù, lavora, o vecchio L., scultore sicionio". Fu artista longevo e attivissimo; Plinio (Nat. Hist., XXXIV, 37) riferisce che per ogni opera che compiva egli deponeva in uno scrigno una moneta d'oro, e che alla sua morte si contarono in questo scrigno ben 1500 monete, vale a dire il ricordo di 1500 sculture: patrimonio grandissimo d'arte in gran parte disperso e distrutto. Attiva e frequentata fu la sua scuola, e i suoi scolari trasmisero nei tempi ellenistici le formule del maestro, conservando, anzi accentuando, i caratteri di audacia degli schemi a forme contorte e incrociate, di espressione vivacissima dell'animo, di studio attento della natura, sì da inaugurare, precisamente nel ritratto, una corrente veristica. Un esempio di quest'arte lisippea nell'età ellenistica si può addurre nell'intricato nesso dei due lottatori in marmo trovato presso il Laterano, ora negli Uffizî a Firenze. Degli scolari diretti di L. conosciamo dalle fonti letterarie i seguenti: i tre figli, Boeda, a cui è da attribuire con ogni probabilità il bel bronzo del Museo di Berlino che rappresenta un ragazzo atleta in preghiera, Daippo, Euticrate; poi Fanide, Eutichide, Carete. Si aggiunga infine che alla scuola lisippea pare appartenga un marmo insigne, cioè la Fanciulla d'Anzio del Museo Nazionale Romano. (V. tavv. LV e LVI).
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