Vedi LISIPPO dell'anno: 1961 - 1995
LISIΡΡΟ (v. vol. IV, p. 654)
Prima di esporre le acquisizioni dovute alla ricerca successiva, vanno segnalate alcune inesattezze οοηίεημίε nella precedente voce. La data iniziale dell'attività di L. veniva fissata attorno al 368 «rifacendosi a una base firmata che sosteneva la statua del generale tebano Pelopida morto nel 369»: in realtà Pelopida morì nel 364 e la data d'inizio dell'attività di L. può essere in linea di massima confermata, avendo egli eseguito a Olimpia nel 372 la statua di Troilo, vincitore nelle corse dei carri (Paus., VI, 1, 4-5). Risulta inoltre infondata l'affermazione che la Caccia al leone nel santuario di Delfi fosse stata «dedicata dal re Cassandro nel 318» (p. 655): la ricostruzione storica porta invece ad ambientare l'episodio a Sidone nel 332. Tra le omissioni più nocive alla comprensione della personalità di L. è quella dell’Eracle meditante di colossali proporzioni eseguito dal bronzista a Taranto, che già al tempo della stesura della precedente voce era una delle opere meglio documentate dal punto di vista iconografico, sia nella tradizione letteraria che monumentale (Furtwängler; Graeven; Gabrici; Dörig 1957). Conviene infine superare il pessimismo sulla possibilità di ricostruire la biografìa di L., poiché è lo scultore per il quale disponiamo del maggior numero di elementi cronologici, concatenati in una lunga attività che va dal 372-368, come si è detto, allo scorcio del secolo. Oltre all'epigramma di Agazia che qualifica L. quale γέρων, «vecchio» (Anth. Graec. XVI, 332, 1), si è potuto dimostrare che anche un'iscrizione d'incerta lettura lo definisce con lo stesso termine, a proposito della statua del fanciullo Timosseno a Coo: λυςιππος me ο γε[ρων] e non ο νε[ος] come leggevano W. R. Paton ed E. L. Hicks (Inscriptions of Cos, Oxford 1891, n. 406, 4); l'opera pertanto va tolta a un presunto scultore di nome Lisippo che sarebbe vissuto nel III sec. a.C., la cui personalità si dissolve anche per altre ragioni (v. vol. IV, p. 752, s.v. Lysippos, 2°).
Di famiglia artigiana (Plin., Nat. hist., XXXIV, 61), conservò nel contatto coi potenti l'autonomia di giudizio (Plut., Mor., 360 D), nella produzione vastissima, la puntigliosa cura dell'opera, nella ricchezza la severa economia delle origini (Plin., Nat. hist., χχχιν, 37, 62-65). Apparteneva a una famiglia d'iniziati al culto di Dioniso Lỳsios, come indicano il nome del padre, parzialmente conservato nell'iscrizione del Pelopida a Delfi: λυς[...], e quello del fratello Lysistratos (v.). Plinio chiamerà ambiguamente secta questo tiaso di artisti (Nat. hist., XXXIV, 67). Un bronzo di L., il Cavallo libero, come viene chiamato dai poeti (Anth. Graec., IX, 777; Appendix, III, 267), allude al nome dell'artista, che rientra in una serie di composti con hìppos, proprî dei personaggi dell'orgia bacchica: in particolare a Sicione era onorata Lysippe (v. vol. VI, p. 463, s.v. Pretidi), ricondotta alla ragione da Dioniso Lỳsios L. aveva comunque iniziato a modellare in proprio superando la consuetudine di un ambiente dove le corporazioni avevano un peso, e il mestiere era legato a norme, gerarchie e committenze. Di fatto non aveva avuto un maestro, e la cosa era ricordata come insolita per pochi altri artisti (v. vol. VII, p. 288, s.v. Silanion·, p. 397, s.v. Sokrates, I°; vol. VI, p. 516, s.v. Protogenes, I°). Di L. si celebrava la ricchezza al termine della carriera: «Il numero delle statue sarebbe stato rivelato dopo la sua morte, quando l'erede ruppe lo scrigno, perché L. era solito porvi una moneta d'oro dal compenso di ogni statua» (Plin., Nat. hist., χχχιν, 37). Il tono favolistico riflette la reale circolazione della moneta aurea al tempo di L., in particolare degli stateri di Filippo, di Alessandro e dei Diadochi che erano tra i committenti dello scultore, e dai quali anche Apelle (ν.) pretendeva il pagamento in oro.
L. secondo Plinio avrebbe prodotto mille e cinquecento bronzi: una dozzina di soggetti sono stati tramandati dallo scrittore latino, e si tratta anche di gruppi affollati di personaggi e animali. Con le notizie ricavate da altri autori greci, romani, bizantini e dagli umanisti mettiamo insieme un catalogo di più di cinquanta voci. Sicure restituzioni possono essere prodotte per una quindicina di opere; altrettante si prestano a soluzioni incerte; per le rimanenti si arriva a un inquadramento storico più o meno soddisfacente, e bisogna aggiungere una decina di attribuzioni condotte sul materiale archeologico, per analogia con i soggetti meglio documentati.
Partendo dalla città d'origine, i luoghi dell'attività di L. disegnano l'orbita più vasta mai raggiunta da un artista nel mondo antico: Sicione, Corinto, Argo, Olimpia, Megara, Atene, Tebe, Tespie, l'Elicona, Delfi, Thermos, Farsalo, Alizia, Dion, Cassandrea; Plutarco è esplicito nell'affermazione che lo scultore era al seguito di Alessandro, quando questi passò in Asia, e la sua presenza è attestata al Granico, a Lampsaco, Efeso, Mindo, Rodi, Lindo, Coo, probabile a Sagalasso, Sidone e Tiro; inoltre l'Alessandro fondatore ad Alessandria di Egitto viene descritto con caratteri confacenti a una creazione lisippea in quella città (Nicol., Progym., XXVII). Non sappiamo fin dove egli si sia spinto personalmente, ma la sua officina continuava a offrire le immagini del sovrano, dei cortigiani e del cavallo Bucefalo nelle città conquistate e nelle nuove fondazioni. L. infine è l'unico dei grandi maestri di questo periodo che si sia trasferito in Occidente per opere di lungo impegno quali i colossi di Taranto.
Tra i committenti troviamo comunità urbane che gli affidarono l'esecuzione di divinità importanti nel culto pubblico, quali lo Zeus e l'Eracle a Sicione, il Posidone per i Corinzî, lo Zeus Nèmeios ad Argo, lo Zeus a Megara (dove le Muse furono offerte da un Teramene), l'Eros a Tespie, il Dioniso per il santuario dell'Elicona, la Quadriga del Sole, divinità poliade di Rodi; una dedica pubblica appare a Tebe, il monumento commemorativo dei caduti di Cheronea, dove L. eseguì il Korpheidas. Il progetto dei colossi tarantini riflette la volontà di potenza dell'intera lega italiota. Il koinòn dei Tessali aveva commissionato a Delfi il Pelopida, gli Achei avevano commissionato il Cheilon in Olimpia. Daochos II, tetrarca della Tessaglia, fece innalzare a Farsalo il gruppo degli antenati nel quale L. eseguì almeno l'Agias; allo stesso dinasta si dovrà l'iniziativa di onorare una gloria tessala, Polidamante di Scotussa, in Olimpia; compagnie di mercenari dedicarono nello stesso santuario due statue di Pythes di Abdera. I tiranni Euphron e Aristratos di Sicione esercitarono la loro influenza rispettivamente nella giovinezza e nella prima maturità dell'artista. Tre sovrani di Macedonia lo ebbero successivamente al proprio servizio: Filippo, Alessandro e Cassandro. Secondo una tradizione che risale agli storiografi di Alessandro, L. avrebbe avuto in esclusiva il diritto di effigiare il re nel bronzo. Per dedicarlo ad Alessandro, L. eseguì il Kairòs, e su commissione del re, a quanto sembra, anche l'Aristotele in Atene: erano gli anni in cui la città era amministrata da Licurgo, che avrebbe preso contatto con l'officina lisippea per il Sofocle del tipo «Laterano» e l'Euripide dedicati nel Teatro di Dioniso. Altre sicure opere ateniesi di L., l'Esopo e il Socrate del secondo tipo, furono eseguite più tardi per iniziativa di Demetrio Falereo, che controllava la città nell'interesse di Cassandro. Tra i diadochi, L. eseguì un Seleuco, e forse si trovò a operare, alla fine della carriera, nell'orbita di Demetrio Poliorcete (v.).
Oltre al Cavallo libero, altre opere contenevano allusioni autobiografiche. Il Kairos (ν.) condensava un ideale estetico, e insieme ricordava che l'autore aveva còlto l'«occasione» propizia per passare dall'artigianato alla produzione personale. L'Eracle stanco (v. ercoli farnese), realizzato in più di una versione, esprimeva la desolazione subentrata alla scomparsa di Alessandro. La personificazione del Dèmos portava capelli così lunghi da coprire interamente le orecchie: a chi gliene chiedeva la ragione, L. rispondeva «perché il Popolo non ascolta, ma decide presuntuosamente». Una delusione politica? Nella giovinezza, a Sicione, L. era stato legato alla fazione democratica, partecipando alle onoranze per Pelopida. Alla corte di Alessandro conservò l'adesione al realismo ellenico, rifiutando di rappresentare il sovrano con attributi divini. Morto il re, lo ritroviamo dalla parte democratica e antimacedone, con la dedica del monumento a Cheilon, caduto combattendo contro Antipatro a Lamia (322). Successivamente riappare alla corte di Macedonia al seguito di Cassandro (316-314). Era avvenuto che attorno al nuovo sovrano si raccogliessero i pensatori peripatetici, malvisti da Alessandro, e che intendevano vendicare sulla memoria del conquistatore l'uccisione di Callistene. Nella loro ideologia L. riconosceva lo sviluppo di quella linea moderata che egli stesso aveva sostenuto quando si era trattato di definire l'apoteosi del sovrano. Di fatto L. è presente nelle imprese di Cassandro intese ad annullare le direttive del predecessore. Cassandrea era destinata a continuare Potidea e a ospitare gli ultimi profughi di Olinto, cui l'ira di Filippo e di Alessandro aveva negato una città: ed è per questa nuova fondazione che L. progetta una forma di anfora vinaria. Nello stesso anno 314, Cassandro promosse la ricostruzione di Tebe, che Alessandro aveva parimenti impedito: L. collabora a innalzare il gruppo commemorativo del «battaglione sacro» immolatosi nella battaglia di Cheronea contro Filippo e Alessandro.
L'opera più antica di cui si abbia notizia, come si è detto, è il Troilo a Olimpia nel 372. Non molto più tardo deve essere lo Zeus di Sicione, noto da una moneta coniata nella città al tempo di Caracalla: esso si ispirava allo Zeus Brontàios eretto da Leochares a Megalopoli nel 371, di cui conosciamo a Roma le riproduzioni come Juppiter Tonans (v. vol. IV, p. 565, s.v. Leochares, I°): nell'uno e nell'altro caso si tratta di schemi di tradizione policletea.
I caratteri originali della ponderazione lisippea traspaiono invece dalle monete imperiali coniate ad Argo che riproducono lo Zeus Nèmeios eretto dal bronzista in quella città (Paus., II, 20, 3): il dio insiste sulla gamba destra, e stringe con la mano destra sollevata lo scettro puntato al suolo; la gamba sinistra è scartata, e la mano riposa sul fianco; la testa è girata da questo lato, privo di tensione, secondo lo schema che troveremo costantemente realizzato dallo scultore. Se al disegno policleteo è stato attribuito il nome del «chiasmo» che indica la relazione incrociata nelle proposizioni di un periodo, allo schema lisippeo si addice la definizione di «antitesi», nel senso di «opposizione» tra le parti della figura, secondo la partizione verticale.
Di poco anteriore al Pelopida di Delfi del 364 è la statua dello stesso personaggio, di cui si è trovata nel 1992 la base a Tebe, con la firma di L. e un epigramma di notevole portata storica: «La patria che trionfa di tutta l'Eliade con la forza della lancia, ha scelto come condottiero in guerra questo qui [che vedi], il quale già altra volta affrontando i numerosi perigli di Ares rese più grande l'intrepida Tebe. Ippia figlio di Erotione dedicò a Zeus Sotere. Lisippo sicionio eseguì» (A. Pariet, in BCH, CXVII, 1993, p. 824; E.B. French, in ARep- Lond, 39, 1993, p. 35). Il plinto reca la traccia di una figura stante che puntava la lancia al suolo con la destra.
Nelle Olimpiadi del 344 o del 340 potrebbe aver vinto Callicrate, nativo di Magnesia nella Ionia, specialista nella corsa armata, la cui statua è ricordata da Pausania (VI, 17, 3) come opera di L. in Olimpia, lungo il fianco meridionale del Tempio di Zeus. Tra il 343 e il 340 si svolse l'educazione di Alessandro a Mieza, sotto la guida di Aristotele; in quell'occasione L. avrebbe eseguito i primi ritratti del principe (Plin., Nat. hist., XXXIV, 63), dei quali può essere un'eco la testa in marmo del museo di Pella. Un gruppo plastico di tale periodo è all'origine del mosaico di Pella con la caccia al leone, dove il giovane figlio di Filippo viene soccorso dal coetaneo Efestione (v.): la composizione segue linee oblique parallele, come l'Amazzonomachia del Mausoleo, confermando la componente scopadea nella formazione di Lisippo.
Poco dopo la battaglia di Cheronea, Daochos II, uno degli artefici del successo macedone, dedicò a FarsaIo il gruppo dei proprî predecessori a somiglianza del syngenikòn eretto da Filippo in Olimpia, e opera di Leochares: le statue dei Tessali erano in bronzo e quella di Agias, figlio di Aknonios, era stata firmata da L., come mostrava un'iscrizione esaminata nel secolo scorso, ora scomparsa. Eletto hieromnèmon dei Tessali nella Lega Pitica, l'anno 337/336, Daochos ripetè la dedica a Delfi in un heròon rettangolare (v. vol. III, pp. 38-39, figg. 38, 55, 56, 58); qui i personaggi, riprodotti in marmo pario con l'esattezza di repliche di bottega, si sono in gran parte conservati, e l’Agias ci dà la prima immagine sicuramente datata di un'opera di Lisippo. L’Atleta vincitore dipinto negli stessi anni su un frammento di anfora panatenaica, al Museo del Ceramico, si vede il medesimo atteggiamento dell’Agias: il giovane stringe con la mano destra un ramo di palma che nell’Agias possiamo immaginare applicato in bronzo. Questo elemento vegetale attraversava obliquamente il busto, suggerendo un piano trasversale a quello del corpo: soluzione di cui L. studierà numerose varianti intese ad accrescere la profondità della rappresentazione. La sequenza dei personaggi nel donario di Delfi va percorsa da destra verso sinistra. Nell'alloggiamento all'estremità destra della base, viene proposta una figura frammentaria di Apollo seduto sull’omphalòs, nota peraltro da monete dell'Anfizionia Delfica: lo schema è simile a quello dell’Eracle meditante seduto sulla cista, realizzato da L. a Taranto. Vi sono inoltre motivi per attribuire al maestro l'ultima statua a sinistra, il giovane Sisyphos II, appoggiato a un'erma, con un panneggio che ritroveremo nell’Hermes che si slaccia il sandalo.
Alla situazione determinata dai Macedoni nella Grecia centrale nel 335, appaiono legate altre opere lisippee. È in tale periodo che si concentrano le probabilità per la dedica dell'eroi di L. nel santuario di Tespie dove la giovane divinità godeva di un proprio culto. L'identificazione del bronzo di L. attraverso le copie romane dell'Eroi che prova la tensione dell'arco, ha segnato il primo passo per la conoscenza moderna dello scultore. Nei primi anni del secolo scorso, Ennio Quirino Visconti attribuiva a L. l'originale della statua di Villa d'Este, già trasferita al Museo Capitolino. Da allora sono stati segnalati più di quaranta statue o torsi riferibili a questo tipo, e una quindicina di teste. Apprezzabili elementi iconografici sono offerti dall'Eroi venuto in luce a Gabî, e che si conserva presso la Scuola Archeologica Spagnola in Roma. Una moneta di Cidonia, nella seconda metà del IV sec., conferma la cronologia dell'archetipo e aiuta a comprendere il gesto, spesso equivocato con quello di applicare la corda all'arco: Cidone, eroe eponimo della città cretese, è rappresentato quale cacciatore che prova la tensione dell'arco già montato. Un verso di Ovidio (Met., V, 383) spiega mirabilmente l'atto della statua: «contrastando col ginocchio curvò il flessibile corno».
Le braccia dell'Eros di L. chiudendosi sull'arco, formano un piano obliquo che intercetta la visione del busto in maniera più risoluta di quanto non facesse l'eventuale fronda di palma nella mano dell’Agias. Ci si avvicina dunque alle composizioni della fase finale, quando troveremo simili proiezioni laterali delle braccia da parte del protagonista tra le Imprese di Eracle, e nell’Apoxyòmenos (v.) il più audace allungamento di un arto in direzione frontale.
Conoscendo le altre commissioni dei Tessali a L. (il Pelopida e il gruppo di Daochos) possiamo supporre che lo stesso Daochos II di Farsalo, città confinante con Scotussa, abbia promosso la dedica a Olimpia della statua di Polidamante che a Scotussa era nato. La dedica si può pensare tra il 338 e il 336, quando a Olimpia celebrava le glorie macedoni Filippo. L'ampia descrizione di Pausania (VI, 5, 1-9) ha consentito d'identificare un blocco della base del monumento, che conserva su tre facce rilievi con le imprese di Polidamante. L'atleta era vissuto nella seconda metà del V sec. e pertanto si trattava di un ritratto di ricostruzione. I fregi mostrano l'emulo di Eracle che abbatte a mani nude un leone ai piedi dell'Olimpo, in un'altra scena appare seduto su un gigantesco leone asiatico appena vinto, infine alla corte di Dario II Ochos dove combatte disarmato contro una guardia del sovrano di Persia. La superficie del blocco è preparata con una anathỳrosis per l'applicazione del plinto, che doveva essere un quadrato di poco più di un metro di lato. La statua non poteva essere dunque una semplice figura stante. Vi si può immaginare il pancraziaste in posa di guardia con le gambe divaricate, o in gruppo con un avversario, ovvero seduto come il Pugile delle Terme (v.), che occuperebbe esattamente lo spazio offerto dalla base di Olimpia.
La figura di Polidamante seduto sul leone, quale appare su uno dei lati della base di Olimpia, rinforza l'attribuzione di un'opera non documentata dalla tradizione letteraria: l’Hermes seduto. Una scultura in marmo del museo di Merida e numerosi bronzetti mostrano il dio in sosta sulle pendici del Monte Cillene, dove Hermes aveva visto la luce, e dove era ritornato pastore innamorato della ninfa Driope. L'esemplare di maggior pregio è la statuetta in bronzo al Kunsthistorisches Museum di Vienna. L'attribuzione a L. dell’Hermes Merida-Vienna trova conferma nel tipo di Socrate che esamineremo più avanti e nel Dioniso dell'Elicona, che Pausania (IX, 30, 1) riferisce all'artista, precisando che il dio era seduto. Per la vicinanza del santuario a Tespie, possiamo credere che la commissione si sia verificata nelle stesse circostanze dell'Eroi. Un esemplare in marmo di questo Dioniso fu disegnato a Roma nel Cinquecento, poi fu trasferito a Firenze nella raccolta dei Medici, dove andò distrutto nell'incendio degli Uffizi del 1762: ma ne resta un'altra riproduzione nel Museum Florentinum del Gori (III, Firenze 1740, tav. XLIX). Del tutto simile è una scultura in marmo, già a Roma nel Collegio del Nazzareno, ora a Filadelfia, con testa non pertinente. Trasformato in Hermes, il tipo è riconoscibile in un marmo della Collezione Potocki a Lańcut in Polonia.
La tradizione letteraria assegna alla fase iniziale del regno di Alessandro l'esecuzione da parte di L. di un Eracle seduto di piccole proporzioni che il sovrano avrebbe portato con sé fino alla morte: Stazio (Silv., IV, 6, 69-70) dice che Alessandro già lo possedeva quando distrusse Tebe nel 335. Con l'epiteto di Epitrapèzios, «protettore della mensa», concordano la descrizione dell'atteggiamento e una serie di notazioni nel testo di Stazio e in due componimenti di Marziale (IX, 43 e 44). La figura era alta un piede, sedeva su una roccia ammorbidita dalla pelle del leone, nella sinistra aveva la clava, nella destra la coppa del vino, e la testa era volta in alto. Nell'ambito delle testimonianze archeologiche, il monumento meglio rispondente alle parole degli autori latini è un bronzetto a Vienna. Secondo il criterio che abbiamo esaminato in altre opere le forze sono distribuite in antitesi. Per quel che riguarda il volto dell’Epitrapèzios, il bronzetto di Vienna richiama la testa in marmo del museo di Lucera, che ci consente il migliore apprezzamento della barba e della capigliatura. Tagliati a corte ciocche, vivacemente degradanti dall'occipite, i capelli modellano la calotta cranica, ridotta a una sezione sferica: il che coincide con la notazione di Plinio che nelle statue di L. le teste erano più piccole rispetto alle opere degli scultori precedenti.
La prima opera commissionata a L. in Asia è il gruppo dei cavalieri caduti alla battaglia del Granico nel maggio 334, destinato al Santuario di Zeus in Dion. La ricchezza delle fonti è dovuta all'eccezionalità dell'opera: la più antica dedica di un gruppo numeroso di statue equestri di cui si abbia notizia. La decisione delle onoranze fu presa subito dopo il combattimento, e gli scrittori lodavano la «somiglianza» dei ritratti: una tradizione che risale ad Aristobulo e Tolemeo, testimoni dei fatti.
Velleio Patercolo (1, 11, 3-4) e Plinio (Nat. hist., XXXIV, 64) descrivono il gruppo quale lo vedevano a Roma, dove era stato trasportato da Quinto Cecilio Metello Macedonico nel 146. I bronzi furono collocati nel Portico di Metello, di fronte ai templi di Giove e di Giunone, e qui rimasero dopo la ristrutturazione del complesso come Portico di Ottavia. Un'iscrizione tardoantica è stata talvolta letta come documento che il donario fosse scampato al saccheggio di Alarico. Vi erano rappresentati i venticinque hetàiroi caduti nel passaggio del fiume al fianco del re, che appariva con loro in un'impressionante cavalcata. Monumenti di ambiente ellenistico e romano ne riflettono la fortuna iconografica. Un bronzetto da Ercolano, al Museo Nazionale di Napoli, viene considerato copia ridotta di uno dei cavalieri, insieme a un piccolo cavallo in bronzo della stessa provenienza. Il cavaliere superstite, forse Alessandro, è colto mentre sta per colpire di fendente un nemico che va postulato nel gruppo originale, anche come occasione di puntello per la cavalcatura. L'azione è ripetuta ad altorilievo in una metopa in pietra tenera del museo di Taranto, che apparteneva a un naìskos datato ai primi decenni del III sec. per la ceramica che vi si è rinvenuta. Né resta senza confronti la cavalcatura che ci è giunta priva del conducente: per il movimento e l'acconciatura terminale della criniera, l'animale è del tutto simile a quello del gruppo equestre da Miseno al Museo dei Campi Flegrei a Baia, dove Domiziano (poi trasformato in Nerva) indossava una corazza analoga a quella del cavaliere nell'altro bronzetto da Ercolano. La completa integrazione di questo schema del cavaliere con la figura del vinto si apprezza sul rovescio di un contorniato del IV sec. d.C., accompagnato dall'iscrizione Alexander magnus macedón, dove un avversario cade sul ginocchio facendosi schermo della mano, in posizione tale da poter rappresentare un supporto nella realizzazione statuaria del gruppo equestre.
La varietà degli armamenti - spada, sarissa, giavellotti-e quindi della condotta in battaglia doveva produrre una complessa articolazione dell'insieme, tanto da far pensare al Gruppo del Granico come a una fonte d'ispirazione per gli autori dei donari pergameni con le vittorie sui Galati e sugli Orientali dell'armata siriaca (v. vol. VI, pp. 42-45).
Anche Lampsaco, la colonia ellenica più vicina al luogo dello scontro, fu sede delle onoranze che le fonti ricordano come eccezionale tributo da parte di Alessandro ai compagni perduti. Qui L. eseguì il Leone caduto, trasferito poi da Agrippa a Roma e significativamente collocato nel parco fra lo Stagnum e l'Euripo, visto che il monumento in origine dominava le acque dell'Ellesponto (Strab., XIII, 590). Il rilievo della base del Polidamante con il leone ucciso dall'atleta è la versione lisippea che conosciamo per tale soggetto. Non è escluso che l'opera, ammirata a Roma da Ovidio (Ars, I, 67-68), abbia influito sull'immagine del leone ucciso nel tondo adrianeo dell'Arco di Costantino (v. vol. I, fig. 781).
Prendendo come punto di riferimento l’Agias, realizzato pochi anni prima, il tipo più persuasivo che ci sia documentato per l’Alessandro con la lancia, eseguito da L. a Efeso nel 334 (Plut., Mor., 355 Β; 360 D; Alex., IV, 1), è quello del bronzetto rinvenuto a Velleia, ora nel Museo Nazionale di Antichità a Parma. La pettinatura abbondante e fluente che caratterizza il giovane sovrano ha rispondenze in una testa al British Museum, in una terracotta da Antemnae al Museo di Villa Giulia, nell'Apollo dal Tempio dello Scasato di Civita Castellana, nella stessa raccolta, e in uno dei ritratti di Alessandro alla Ny Carlsberg Glyptotek (inv. 441).
L. seguì Alessandro in Caria, se è: giusta l'attribuzione all'artista di un Eros a Mindo: la notizia si ricava dal testo di Giorgio Cedreno, dove lo scrittore bizantino cita le sculture antiche raccolte nel Lausèion di Costantinopoli: «Eros alato con l'arco, opera di Lisippo, proveniente da Mindo» (Synopsis historiarum, 322 b).
Il soggetto, simile a quello realizzato per Tespie, trova identificazione attraverso la riproduzione del monumento quale lo si vedeva a Costantinopoli. Tra i disegni del Louvre che rappresentano i rilievi della Colonna di Arcadio, quelli con la scena trionfale mostrano un edificio adorno di statue, che non vi è difficoltà a riconoscere come la residenza di Lausos, funzionario di Arcadio. Eros appare in una nicchia, girato sulla propria destra con un'impostazione che sarebbe poco indicativa per il tipo «Capitolino»; inoltre la testa non è rivolta all'arco, ma in direzione opposta, verso la sinistra della figura; infine l'arma non sta all'esterno della gamba destra, bensì all'interno del ginocchio. Troviamo la spiegazione in altre statue di Eros, al Museo Archeologico di Verona, a Venezia, al Vaticano, dove il dio stringe l'arco tra le gambe per incordarlo, voltando bruscamente il capo a sinistra, come per un'improvvisa distrazione. Particolarmente indicative ai fini del riconoscimento di questo schema nel disegno del Louvre, sono le riproduzioni in rilievi, quali il bozzetto del Museo Nazionale di Atene, il sarcofago di Kephisià, e un lavoro d'incerta autenticità a Hever Castle. Tra le copie statuarie il torso di Verona è vicino per le proporzioni slanciate al giovinetto che traspare dal disegno del Louvre, e dunque all'originale; le altre indulgono a forme infantili e grassocce che fanno pensare a una rielaborazione ellenistica del tema.
Una moneta imperiale coniata a Sagalasso ribadisce la presenza di L. nelle fasi iniziali della campagna d'Asia. Alle violente lotte con gli abitanti della Pisidia allude il gruppo statuario testimoniato da un bronzo di Claudio II il Gotico: sul rovescio Alessandro a cavallo, identificato dall'iscrizione αλεξανδρος, incalza con la lancia un avversario a piedi, mentre al centro, su un piedistallo arretrato rispetto alle figure in primo piano, Zeus leva il braccio armato di folgore. Ancora una volta l'azione del sovrano si svolge parallelamente alla volontà divina, senza che si giunga all'identificazione con Zeus.
Abbiamo visto che tra il 332 e il 307 si svolse l'attività di Leochares e di L. attorno al gruppo di Delfi con la Caccia al leone da parte di Alessandro e Cratero. Quanto alla distinzione della paternità delle singole sculture, Plutarco (Alex., XL, 4) elenca quattro soggetti: il leone, i cani, Alessandro alle prese con la fiera, e Cratero che gli andava in aiuto, concludendo che di queste figure le une le aveva eseguite L., le altre Leochares. Tenendo conto della successione delle immagini, la partizione avviene a gruppi di due, e al primo artista nominato, L., spettano gli animali, a Leochares i cacciatori. Ciò risponde all'espressione di Plinio (Nat. hist., XXXIV, 63) che lodava L. per i cani di una caccia. La migliore testimonianza iconografica è nel rilievo a Messene, dove ornava una grande base circolare. Il settore che se ne conserva al Louvre rappresenta un sesto dello sviluppo che poteva comprendere l'intera scena della Caccia di Delfi: sul margine sinistro del blocco si vede la punta del giavellotto appartenente a un cacciatore per il resto perduto. Abbiamo però la parte centrale, con Cratero a cavallo, il leone alle prese con i cani e Alessandro armato di doppia ascia. Per quel che riguarda le figure riferibili a L., il leone si confronta efficacemente con quello del già citato mosaico di Pella. I cani rivelano un magnifico studio. L'animale accanto ad Alessandro ancora punta coraggiosamente la belva, l'altro è stato artigliato al fianco. La concezione di questo segugio che prostrato volge la testa verso la ferita, richiama la Cagna ferita del Museo Barracco, a sua volta copia di un bronzo, celebrato da Plinio (Nat. hist., XXXIV, 38), che si custodiva a Roma nel Tempio di Giove Capitolino. A giudicare dall'artificioso allungamento della zampa anteriore destra, la scultura era destinata a poggiare su una base monumentale, all'altezza degli occhi dell'osservatore: di qui lo scorcio dell'arto lo rendeva proporzionato alla figura, la quale trovava unità nell'iscrizione entro un segmento sferico.
Medaglioni d'oro di età imperiale, provenienti da Tarso, alla Bibliothèque Nationale di Parigi, riflettono un gruppo di caccia in cui Alessandro era protagonista munito di corazza e montato su un cavallo al galoppo: molte le analogie col bronzetto da Ercolano relativo alla battaglia del Granico, e con un altro bronzetto al Museo di Villa Giulia, già nella Collezione Castellani, che conserva la sola immagine di Alessandro in atto di cavalcare nudo, col mantelletto al vento dietro le spalle, e con la mano destra levata come a colpire il leone con una lancia. Alla luce dell'iconografia così verificata per le statue di Alessandro e della sua cerchia, non è difficile ascrivere al maestro l’Alessandro fondatore di Alessandria, che conosciamo dalla descrizione del retore Nicolao di Mira, come si è accennato.
Nel 331, dopo la vittoria di Arbela, Alessandro manifestò la propria compiacenza verso Rodi con una dedica ad Atena Lìndia: andrà messa in relazione con questa iniziativa la firma di L. rinvenuta sull'acropoli di Lindo, ora al Museo Nazionale di Copenaghen, e uno dei suoi più celebrati monumenti: la «Quadriga dei Rodi col Sole», secondo la definizione di Plinio (Nat. hist., XXXIV, 63). La visione frontale di questo complesso appare parzialmente ricostruita dai frammenti di un vaso prodotto a Rodi attorno al 325, come premio per le gare degli Halièia: i cavalli sono impennati, e il dio veste il chitone cintato degli aurighi, i lunghi capelli spartiti nel mezzo come Alessandro, e come la testa di Elio che appare sulle monete di Rodi allo scorcio del IV sec. impropriamente avvicinate all'iconografia del Colosso (v. vol. II, fig. 1018). Ridotta nelle dimensioni, ma più vivace e di completa conservazione è la veduta di profilo che compare sui bolli di un'anfora di Rodi nel III sec., in numerosi esemplari trovati nell'isola stessa, a Delo e nell'Agorà di Atene: i cavalli hanno lo stesso atteggiamento, ma si avverte il curvarsi in avanti del conducente, si scorge l'asta sollevata nella destra, tutta la lunghezza del chitone, e il mantello agitato dal vento dietro le spalle. La versione pittorica su un kàlathos apulo rivela l'analogia del gesto nella personificazione del Sole con quello dell’Eros del tipo «Capitolino». Ancora una volta è stato rappresentato un momento di equilibrio dinamico, nel quale un elemento esterno alla figura gioca il ruolo decisivo: né il cocchiere né i cavalli potrebbero mantenersi nella posizione rappresentata senza il tramite delle briglie, attraverso le quali viene controllato il galoppo. L'opera fu riprodotta contemporaneamente a Delfi, dove se ne può idealmente restituire il basamento da numerosi blocchi, di fronte al Tempio di Apollo. Si tratta di un grandioso pilastro, il più antico di questo genere esistente nel santuario, che ricorda la notazione di Pausania a proposito del Polidamante di L. a Olimpia, collocato su una base eccezionalmente alta. La conservazione di elementi del plinto consente di verificare l'ambientazione naturalistica dell'evento, tra le onde del mare popolato da delfini: il levarsi del Sole, in uno scenario dove il «carro d'oro» (G. Daux, Fouilles de Delphes, III, 3, Parigi 1943, n. 383, 35-36) sfolgorava sulla policromia delle pietre.
La riduzione del fenomeno cosmico a una rappresentazione istantanea era propria dell'estetica di L., che ne aveva configurato il principio nell'allegoria del Kairos (v.), una delle ultime opere che la tradizione letteraria ponga in relazione con Alessandro (Tzetz., Epist., 70 e Chil., VIII, 200, 422-427). La caratteristica capigliatura che scende in avanti con lunghe ciocche ha attinenza con quella dell'Aristotele, che secondo un'iscrizione fu dedicato in Atene da Alessandro, senza che ci sia stato tramandato il nome dello scultore (v. vol. I, p. 656, s.v. Aristotele).
Reduci dell'armata di Alessandro potevano essere i dedicanti delle due statue di Pythes in Olimpia. Poco dopo la morte del sovrano, L. appare comunque impegnato nel santuario con una commissione di cui si è visto il significato politico, la statua del pancraziaste Cheilon di Patrasso, caduto combattendo contro i Macedoni a Lamia (322). Una figura di lottatore non lontana da questi anni si riconosce nell'atleta che si deterge con lo striglie, ricordato da Plinio con particolare rilievo nel catalogo lisippeo (Nat. hist., XXXIV, 62) e illustrato da una celebre copia al Vaticano (v. vol. I, p. 497).
Considerato troppo a lungo come unico fondamento per la restituzione dell'arte di L., l'Apoxyòmenos viene ora affiancato da un originale in bronzo, l'Atleta rinvenuto in Adriatico, al Getty Museum di Malibu. Si tratta della versione innovativa del vincitore che si pone sul capo la corona di fronde, utile ad aggregare all'immaginario lisippeo il tipo di Eracle che s'incorona, secondo tipi monetali della Battriana, e una statuetta al Vaticano: potrebbe essere l'Eracle che Lucio Mummio portò a Roma da Corinto (dove l'attività di L. è attestata da due iscrizioni), dedicandolo in un tempio appositamente costruito quale Hercules Victor (CIL, VI, n. 331). L'obiezione da più parti avanzata contro l'attribuzione a L. del Bronzo Getty, in quanto esso non offre vedute laterali significative, si estingue nella constatazione che L. collaborava all'impianto di fitti allineamenti di figure. Ciò non solo risulta di riflesso dal donario di Daochos a Delfi, ma si chiarisce direttamente nella base del museo di Tebe, dove L. ha firmato la statua di Korpheidas accanto a quella di un altro giovane innalzato da Policleto II (v. vol. VI, p. 298, s.v. Polykleitos, 4°): il blocco mostra che il monumento si prolungava ulteriormente verso sinistra, e doveva comprendere almeno una terza dedica letta nel secolo scorso (IG, VII, n. 2536). Gli epigrammi celebrano esponenti di nobili famiglie tebane, accomunati dalla morte nel fiore dell'età, per un evento che aveva mutato tragicamente le sorti della patria: si presume che siano i caduti del «Battaglione Sacro» nello scontro di Cheronea (338 a.C.) commemorati nel 316 quando Cassandro consentì la ricostruzione di Tebe. Concettualmente non siamo distanti dalla rappresentazione d'insieme di un corpo militare, come la turma (propriamente αγημα) di Alessandro, nei componenti che si erano immolati al Granico. Il personaggio la cui statua era stata assegnata a L. aveva partecipato al pancrazio dei giovani nei giochi pitici l'estate dello stesso anno in cui si combatté per la libertà degli Elleni, e «ancor caldo di vittoria» (come recita l'epigramma) avrebbe affrontato la guerra e la morte il primo settembre del 338.
Le impronte del Korpheidas rivelano una figura orientata col .fianco sinistro verso lo spettatore all'estremità destra del basamento, con il piede sinistro al suolo, e l'altro su di un rialzo, in un'ideale conversazione col compagno rappresentato di fronte.
Ciò apre un'interessante prospettiva per l'attribuzione a L. di tipi analoghi con un piede su appoggio, quali l’Hermes che si slaccia il sandalo, il Posidone del Laterano, l'Eracle e l'Amazzone nel Gruppo di Alizia, ed eventualmente alcune delle Muse di Megara.
Come è accaduto per l’Apoxyòmenos (v.), le città dell'Asia Minore restituiscono monumenti decisivi per la conoscenza di Lisippo. In particolare il rinvenimento a Perge di una statua ben conservata di Hermes col piede destro su una tartaruga poggiata a sua volta su roccia, ha catalizzato in una definitiva identificazione una serie di testimonianze che fluttuavano tra controverse letture. Mentre le statue del Louvre e di Monaco furono restaurate secondo un diverso disegno (di cui si è riconosciuto oggi il modello antico in un frammento del Museo Nazionale Romano), la copia della Ny Carlsberg Glyptotek è in migliori condizioni e per ogni dettaglio confrontabile con quella di Perge. Entrambe conservano la testa, come pure il frammento ad Atene nel Museo dell'Acropoli, consentendo di omologare al medesimo archetipo una testa ¡su busto moderno alla Ny Carlsberg Glyptotek, la Testa Fagan al British Museum, e uno spezzone (già ritenuto policleteo) al museo di Aquileia. Torsi sono stati riconosciuti a Side, al museo di Edirne (da Perinto), al Museo del Palazzo dei Conservatori e a Palestrina. Monete di età imperiale confermano la fama del soggetto dalla Mesia alla Paflagonia.
Il motivo del piede in appoggio accomuna al Korpheidas, all'Hermes «Perge-Copenaghen», e allo Zeus dell'ipotetico gruppo di Sagalasso, il diffuso schema del Posidone del Laterano. Nello stesso dialogo che ci trasmette memoria del Dioniso e di un Eracle di L., Luciano (Iupp. trag., 9) rammenta il Posidone eseguito dall'artista per i Corinzi.
Dai cenni di Pausania e dalle riproduzioni su monete coniate a Corinto in età romana si evince una certa varietà di tipi del dio, sia seduto sia stante. L'idea del «povero lavorante» (πένης), ironicamente espressa da Luciano può ben essere resa dal Posidone nudo seduto su una roccia, la mano destra abbandonata sulla coscia, nella sinistra il tridente, quasi un vecchio pescatore: è noto da una moneta di Antonino Pio e da uno stucco al Vaticano (con variazioni).
Ma lo schema più diffuso è quello stante, col piede sollevato su una roccia (ovvero una prua di nave), l'avambraccio rilassato sul giocchio, la sinistra alzata che tiene il tridente, la testa rivolta anche in questo caso verso il lato meno impegnato che è il destro. La presenza di un delfino nella mano, originariamente libera, altera in talune repliche il gioco delle forze, ma la maggior parte delle copie mostra il dio nudo e con la mano destra vuota, a partire dalle monete di Demetrio Poliorcete. Il carattere monumentale risulta dalla statua in marmo rinvenuta a Porto di Roma (non ad Anzio come erroneamente si ripete, v. vol. VI, p. 396, s.v. Porto d'Anzio), e ora nel Museo Gregoriano Profano (già Laterano); tra le versioni più fedeli, il bronzo (alto m 0,45) da Ambelokipi al Museo Nazionale di Atene, e un bronzetto dal mare di Malamocco al Museo Archeologico di Venezia.
Un'iscrizione incisa sul supporto di roccia nella statua di Eracle in riposo trovata a Roma sul Palatino, e ora in Palazzo Pitti a Firenze, lega il nome di L. a una delle immagini più frequenti nel mondo antico, quella dell'eroe stanco che si abbandona al sostegno della clava puntata sotto l'ascella sinistra, mentre la mano destra è portata dietro il dorso. La statua Pitti è simile a quella già Farnese, al Museo Nazionale di Napoli, firmata dal copista Glykon, e ad altre dello stesso soggetto che costituiscono il tipo «Pitti-Farnese» (v. ercoli farnese). Ma lo schema espresso da quella serie di repliche non è il più antico nella produzione di L. che sembra essersi fermato più volte sul tema. Una statua rinvenuta nelle Terme di Argo mostra in forma semplice e coerente gli elementi dell'invenzione lisippea.
La disposizione ricorre in una statuetta a Vienna che conserva anche il capo rivolto, come sempre nella ponderazione lisippea, verso il lato in riposo, nel nostro caso a sinistra. L'antichità dello schema è provato da alcuni tetradrammi di Demetrio Poliorcete coniati nel Peloponneso, verisímilmente ad Argo, attorno al 290: l'Eracle in riposo vi appare come piccolo simbolo del rovescio. Ne resta sicura testimonianza in età imperiale con il tipo monetale ripetuto sul rovescio di brónzi coniati ad Amastri.
Strettamente affine al tipo di Argo, e come quello anteriore al colosso Farnese-Pitti, è il disegno della statua in marmo rinvenuta nel mare di Anticitera, al Museo Nazionale di Atene. Essa è nelle proporzioni di una volta e un quarto il naturale, e differisce dal tipo di Argo perché la clava poggia verticalmente sulla roccia e la leontea la copre quasi completamente. Vi si possono accostare un frammento ellenistico di terracotta ai musei di Berlino, un bronzetto da Foligno al Louvre, due statuette in marmo rispettivamente ai musei di Campobasso e di Ostia, e un pezzo di eccezionale qualità, il piccolo bronzo da Sulmona al Museo Nazionale di Chieti. Dedicato attorno al 50 d.C. dal mercante M. Attius Peticius Marsus, noto per i suoi traffici in Oriente, si distanzia dalla produzione corrente di età imperiale, rivelandosi come replica di scuola lisippea, virtuosistica riduzione di una complessa struttura, secondo la pratica dello stesso maestro (Plinio, Nat. hist., XXXIV, 65: «in minimis quoque rebus»; Stat., Silv., IV, 6, 43: «ac spatio tam magna brevi mendacia formae»).
Figure in appoggio dovevano trovarsi tra le Muse eseguite da L. a Megara in una fase avanzata della sua attività, poiché la firma ha il verbo all'imperfetto, come l'iscrizione lisippea del Seleuco, anziché all'aoristo come nel più antico autografo del Maestro a Corinto. Alla fine del secolo scorso furono rilevati due blocchi contigui della base, con la preparazione sulla faccia superiore per due plinti quadrati: il primo da sinistra era affiancato dall'incasso per un pilastrino, tanto da far pensare allo schema del Sisyphos II nel donario di Daochos a Delfi (ma vi è il sospetto che l'incavo fosse stato praticato per una tarda utilizzazione della pietra come basamento di una transenna; non restano oggi che due schegge del secondo blocco).
L'attività di L. a Megara appare comunque coeva all'intensa prova fornita a Demetrio Falereo, che controllava Atene a nome di Cassandro (317-307). Autore dei Dialoghi socratici e di una Apologia di Socrate, l'uomo politico promosse la dedica di una statua del filosofo nel Pompèion, dove di fatto la base è stata trovata all'interno, presso l'entrata. Il blocco superstite e le tracce visibili sui gradini d'ingresso dicono che il monumento era allineato alla panchina che si appoggiava alla parete, e l'area disponibile per la figura sul plinto sarebbe stata di m 1,15 per 0,75, adatta a una figura seduta. Tale è l'immagine di Socrate che ci è stata tramandata da una pittura di
Efeso, databile al I sec. d.C., quasi una sintesi tra il Dioniso e l’Hermes seduto, simile anche al Polidamante seduto sul leone, nel rilievo di Olimpia. Dei diversi tipi conosciuti per la testa di Socrate nella statuaria (v. vol. HI, figg. 474-476), la pittura di Efeso ha la massima somiglianza con il c.d. secondo tipo, unanimemente riferito a L.: in particolare l'erma iscritta al museo di Napoli serve da collegamento tra le numerose teste isolate e l'affresco, accompagnato anch'esso dal nome del filosofo: l'Erma Farnese conserva infatti la torsione del capo a destra e il mantello che gira dietro la schiena come nella riproduzione di Efeso.
Disparate combinazioni sono state tentate per illustrare la notizia di Plinio (Nat. hist., XXXIV, 64) relativa a un'altra opera ateniese dello scultore: Athenis Satyrum. La più fondata rimane l'identificazione con il Sileno che reca tra le braccia il piccolo Dioniso, per l'analogia della posa con l'Eracle Farnese-Pitti: ne rimangono copie al Louvre, al Vaticano, a Monaco, a Wilton House, all'Ermitage, a Versailles, oltre a numerose teste al Museo Nazionale Romano, alla Galleria Corsini, al Museo Capitolino, al Museo di Napoli, a Berlino, Venezia, Madrid, Castle Howard, e nei magazzini dei Musei Vaticani.
Al tempo del tiranno Aristrato, lo scultore aveva partecipato in Sicione all'esaltazione delle glorie letterarie locali modellando il ritratto postumo di Prassilla, portato più tardi a Roma (Tat., Adv. Graec., 33).
Della «temulenta tibicina», attribuita a L. da Plinio (Nat. hist., XXXIV, 63), resta l'opportunità di riconoscere il soggetto nella statuaria grazie alla Danzatrice discinta nota da un bronzetto al Museum of Art di Santa Barbara, e da copie in marmo al Museo Nazionale Romano, a Berlino, a Francoforte, alla Bibliothèque Nationale di Parigi, e già in collezione privata a Vienna. Se quest'opera risultasse confermata a L., l'artista sarebbe all'origine degli studi di composizione a spirale.
Una coincidenza stringente suggerisce di riconoscere in Demetrio Falereo il promotore di un altro bronzo del periodo ateniese, l'Esopo. Un orientamento cronologico viene da Agazia, che a proposito di tale statua apostrofa l'autore quale «vecchio»: se, come pare, l'attività ad Atene va posta subito dopo l'intervento a Tebe del 316, lo scultore aveva superato i settant'anni. L'epigramma precisa inoltre che l'Esopo era stato collocato davanti alle immagini dei Sette Sapienti: la notizia coincide e si integra con l'affermazione di Fedro (11, epil. 1-4) che erano stati gli Ateniesi a dedicare una statua al genio di Esopo, «e avevano posto lui schiavo su una base imperitura».
L'attività di L. nell'orbita di Cassandro non si esaurisce col fecondo periodo ateniese. Nel 314 furono innalzate le mura di Alizia, in parte ancora conservate, dove compaiono figure di divinità a rilievo sui blocchi e su tagli in roccia: in particolare un Eracle può essere confrontato con l'eroe che trascina Cerbero, quale doveva trovarsi tra i gruppi in bronzo del vicino santuario. Strabone (X, 459) ci informa su quest'opera di L., destinata ad avere lunga fortuna nel mondo antico e imprevedibili derivazioni nel Medioevo e nella Rinascenza: «presso la città c'è un porto sacro a Eracle e un santuario dal quale uno dei governatori trasportò a Roma le Imprese di Eracle, opere di L., che giacevano abbattute in abbandono». Se la presenza dello scultore ad Alizia si pone come momento conclusivo della collaborazione ai disegni urbanistici di Cassandro, non meno perspicuo è l'inquadramento storico del trasferimento dei bronzi. Il funzionario di cui parla Strabone è uno dei proconsoli che ressero la provincia di Macedonia (comprensiva dell'Acarnania) tra il 146, anno della costituzione di quell'organismo, e la fine del secolo, quando scriveva Artemidoro di Efeso, fonte di Strabone per questa sezione della Geografia. Un'eco della presenza a Roma di tale complesso statuario si avverte in un epigramma di Archia (Anth. Graec., XVI, 94), il quale raggiunse l'Urbe nel 102. Nel suo soggiorno a Roma ne tenne conto anche Diodoro Siculo (IV, 11-33) il quale, nella sua opera composta tra il 60 e il 30, descrive le dodici fatiche di Eracle, nella selezione che già appariva sulle metope del Tempio di Zeus a Olimpia. A giudicare dalla ricostruzione del gruppo lisippeo, condotta sulle derivazioni iconografiche di età romana, lo scultore aveva contribuito alla costituzione del Dodekàthlos, rimasto canonico nel mondo antico. Direttamente ispirati ai gruppi plastici visibili in Roma sono i sarcofagi di fabbricazione urbana decorati con Imprese di Ercole. Gli esemplari di maggiore interesse sono quelli di Palazzo Corsini in Roma, del Giardino di Boboli a Firenze, e del Palazzo Ducale a Mantova, nella serie a fregio continuo, e quello a pilastri rinvenuto lungo la Via Cassia, al Museo Nazionale Romano, dove la struttura architettonica imita modelli orientali, ma i soggetti mitici sono fedeli alla tipologia seguita dalle botteghe di Roma.
L'Eracle col Leone abbattuto si associa per la ponderazione e il gesto all'Agias, all'Atleta di Berlino, all'Alessandro con la lancia, al Bronzo Getty e all'Eracle che s'incorona Chiaramonti: in particolare la profondità sondata con la clava dietro la testa dell'eroe, ricorda l'andamento della spada nel combattente a cavallo da Ercolano.
Piccole versioni statuarie del tipo sono riconoscibili nei marmi rispettivamente al Vaticano e a Catania, nonché in un frammento passato in una vendita all'asta. Oltre ai sarcofagi citati, riproducono tale composizione quelli agli Uffizi (inv. 145), a Roma, Museo Nazionale Romano (già Ludovisi, inv. 8642) e frammento (inv. 49506), e al Louvre. A tali testimonianze meglio note va aggiunta la metà sinistra di una lastra già a Villa Albani, apparsa nel 1961 sul mercato antiquario di Lucerna. L'antichità dello schema è provata da un Eracle che trascina la fiera uccisa su un vaso di Gnathia a Bari (collezione privata), databile attorno al 300 a.C. Il gruppo è descritto inoltre nell'epigramma citato di Archia, dove la fiera appare inanimata ai piedi dell'eroe (ύφ' Ήρακλῆος), il quale è detto conseguentemente «vincitore nella lotta» ('αριστάθλος), ed era presente a Ovidio, quando fa dire a Ercole «giace la mole del Leone Nemeo soffocato da queste mie braccia» (Met., IX, 197). I tre successivi episodi relativi al cinghiale, alla cerva e all'idra, confermano la coerenza di L. con la pittura sicionia, ripetendo gli schemi noti dalla caccia al cervo di Alessandro e Efestione nel mosaico di Pella: rispetto alla presunta opera di Melanthios (v.), l'Eracle lisippeo che trasporta il cinghiale riprende la sagoma dell'Efestio- ne, la cerva rispecchia all'inverso l'animale raggiunto dai cacciatori e l'eroe con l'idra imita l'Alessandro.
Il gruppo col cinghiale, dove Eracle è caratterizzato dal moto all'indietro del braccio destro trova riscontro inoltre nel Polidamante che sta per gettare al suolo un avversario nella lotta, quale è raffigurato sulla base dell'originale di L. a Olimpia.
La cerva ancora combattiva è afferrata da Eracle con proiezione laterale delle braccia e uno sforzo differenziato degli arti, che ricordano l'intervento dell'Eros di Tespie sull'arco: ai sarcofagi si aggiunge una gemma ellenistica a Monaco. Nella contesa con l'idra spicca il tentacolo che passa davanti al busto dell'eroe: stretto dalla mano sinistra, questo elemento chiude un piano prospettico avanzato, con l'artificio altre volte osservabile nelle composizioni lisippee: oltre ai sarcofagi Corsini, Boboli e Via Cassia, si vedano quelli agli Uffìzi (inv. 110), al British Museum, e a Los Angeles, Royal Athena Galeries (già a Hever Castle). Lo stesso risultato è ottenuto nella Caccia agli Uccelli, questa volta mediante l'arco teso davanti al petto, con la freccia incoccata: ai sarcofagi Corsini e Via Cassia si unisce una delle coppe d'argento dalla Casa del Menandro al museo di Napoli. La figura di Eracle che sottrae la cintura all'Amazzone, puntando un piede sul corpo della nemica, ricorda l'Hermes che si slaccia il sandalo e il Posidone del Laterano: il sarcofago Corsini rappresenta il cavallo dell'Amazzone caduto sotto Ippolita, con l'originaria struttura piramidale che le successive versioni hanno semplificato.
L'eroe reduce dalla pulizia delle stalle di Augia corrisponde per la ponderazione all'Agias di Delfi, in posizione inversa: lo si apprezza nei sarcofagi Corsini e Boboli, mentre il frammento al Museo Gregoriano Profano conserva solo porzioni del personaggio.
Il gesto di Eracle che abbranca il toro riflette quello dell’Apoxyòmenos, giudicando dai sarcofagi più volte citati, nonché dagli esemplari agli Uffizi (inv. 145), al Louvre e al Museo Nazionale Romano (Ludovisi, inv. 8642). L'evidenza plastica del gruppo si evince da un avorio al British Museum; la lunga fortuna del tipo da una stoffa copta all'Ermitage (v. vol. II, fig. 1063, s.v. Copta Arte).
L'episodio delle Cavalle di Diomede è risolto nel sarcofago Corsini con l'immagine del re vinto che tocca terra con un ginocchio, mentre Eracle lo trattiene per i capelli prima di colpirlo con la clava. L'insieme ricorda scene di combattimento dal Mausoleo (v. Mausoleo, Atlante, tav. 206, lastra XII) e nel Sarcofago delle Amazzoni; valori tridimensionali dell'originale si recuperano attraverso le derivazioni ellenistiche nel gruppo di Eracle e Galata (stele da Cizico al museo di Istanbul), e dai bronzetti con sovrani della dinastia tolemaica che opprimono un barbaro vinto alla lotta (Istanbul, Pietroburgo, Atene).
Il sarcofago Corsini non riproduce la scena di Gerione, e pertanto si fa ricorso al frammento del Museo Gregoriano Profano, dove Eracle si allontana dal luogo dell'uccisione con uno schema di marcia che richiama l'episodio delle stalle di Augia. La cattura di Cerbero appare sul Corsini come decorazione del fianco destro: l'eroe incede con la gamba sinistra flessa, la clava a spalla, la leontea ripiegata sull'avambraccio destro, mentre con la sinistra conduce alla catena la fiera.
Una scultura di questo tipo è riprodotta tra le arcate del Colosseo nel rilievo dal Monumento degli Haterii (v. vol. Ill, ρ. 1112, s.v. Haterii, Monumento degli). Simile il disegno sul fianco sinistro del sarcofago a Boboli.
Per quel che riguarda l'ultima fatica, la raccolta dei pomi delle Esperidi, ci si orienta verso quei sarcofagi che riproducono da diversi punti di vista il medesimo modello statuario: il coperchio (perduto, ma noto da disegni) del sarcofago degli Uffizi (inv. 110), dove Eracle era visto di spalle, il fregio sulla cassa dell'esemplare Torlonia (inv. 422), e il frammento di coperchio al Museo Nazionale Romano (inv. 54747) dove l'eroe è in veduta frontale. In ogni caso il protagonista insiste sulla gamba destra, mentre la sinistra è flessa e scartata; con la mano destra tiene la clava poggiata a terra, il braccio sinistro regge la leontea sull'avambraccio e i pomi con la mano: Eracle appare in questa guisa accostato a un'Esperide nelle appliques di un'anfora a manici tortili del Museo Nazionale di Atene, databile intorno al 300 a.C.
Simmetrie e rispondenze tra le prime e le ultime scene del Dodekàthlos così restituito portano all'ipotesi che i bronzi lisippei fossero stati concepiti per una disposizione circolare, rispettata nel trasferimento a Roma.
Le coste dell'Acarnania, dove lo scultore si trovava per eseguire le Imprese di Eracle, offrivano gli ultimi scali alla navigazione per la rotta d'Occidente, ed è qui che i Tarantini avrebbero raggiunto L. con la proposta d'innalzare nella città italiota statue d'inaudita grandezza.
La progettazione dei colossi rappresentava un aspetto particolare della produzione artistica: Strabone (1, 1, 23) parla di κολοσσουργία; Plinio (Nat. hist., XXXIV, 39-47) vi riserva una sezione che comprende le notizie sullo Zeus di Taranto, avulso così dalla trattazione su Lisippo. Quando fu innalzato, lo Zeus era la statua più alta del mondo greco. Fonti indipendenti concordano nel tramandare la misura di quaranta cubiti. Secondo il piede romano, un cubito (pari a un piede e mezzo) è m 0,444, Per cui l'altezza sarebbe stata m 17,76. Calcolando con piedi greci di minore estensione si raggiungono comunque le quote di m 16,60; 16,40; 15,72. A prescindere dalla cifra assoluta cui si voglia pervenire, non può sfuggire che la misura di quaranta cubiti nasceva da un rapporto modulare, rispetto all'altezza ideale della figura umana che era quattro volte il proprio cubito, secondo il canone lisippeo trasmesso da Vitruvio (III, 1-3). Quaranta cubiti significava dieci volte il naturale: entrava così nelle proporzioni della statua una componente pitagorica, dovuta ai committenti tarantini, poiché il dieci era in quel sistema il numero perfetto. Lo Zeus era a Taranto al tempo di Plinio, e vi allude Stazio nel 91 d.C. (Silv., 1, 1, 102-103). Strabone (VI, 278) riferisce che era collocato nell'agorà. Plinio ne dà una descrizione insolitamente ampia. Collegandola a un'osservazione di Livio (XXVII, 16, 8), se ne ricava che il dio era in atto di combattere, e aveva a breve distanza una colonna. A questo elemento Plinio annetteva la funzione di frangere il vento dominante, ma esso coincideva con la tradizione locale dei culti aniconici. Una folla di cippi indicava a Taranto le case di coloro che erano stati colpiti dalla folgore per un sacrilegio: questo Zeus vendicatore era detto Kataibàtes, in quanto discendeva con la saetta nella profondità della terra, e si collegava infatti agli dei inferi. I Romani, che avevano tratto da Taranto i riti di Diispater e Proserpina, conoscevano questo intrigo di mito e storia. Nel 209, quando la città fu tolta ad Annibale, Fabio Massimo lasciò ai Tarantini il dio «irato»: i superstiti avrebbero visto nello Zeus incombente sulle rovine l'immagine delle Nemesi per il tradimento dell'alleanza romana. Oltre alle immagini statiche di Sicione e di Argo, L. aveva dato versioni dinamiche di Zeus in attacco: a Megara, come supponiamo da una moneta di età imperiale (se risponde all'accenno di Pausania, 1, 43, 6), e in Pisidia, secondo la testimonianza delle monete coniate a Sagalasso. Per il colosso di Taranto, sono le città della lega italiota ad averci salvato persuasive attestazioni. A Metaponto, nell'area del teatro, tra le tavolette votive in terracotta di un banco di vendita, si è rinvenuta la parte superiore di uno Zeus che brandisce con la destra la folgore, mentre con la sinistra impugna lo scettro; alla destra del dio si scorge l'aquila posata su di un sostegno, ora perduto. A Eraclea il tipo è noto da una matrice, custodita al museo di Policoro. Anche questa è spezzata, ma conserva una parte del supporto dell'aquila, che appare scanalato a guisa di colonna provvista di abaco, sormontato a sua volta da due volute simili a pulvini. Studiato nel calco, il movimento del busto è tale da far intendere che la gamba sinistra era avanzata e flessa, la sinistra tesa e arretrata; il mantello lasciava scoperta la spalla destra. Ben visibile la fluente pettinatura che appare come lo sviluppo di un motivo già osservato nell'Alessandro, nell'Aristotele e nel Kairòs. Nel caso specifico, con la parziale discesa sulla fronte, ben si collegava alla componente ctonia del culto.
Una delle ragioni che avevano trattenuto Fabio dal rimuovere lo Zeus era stata l'osservanza del divieto che accompagnava da secoli il costume romano: uomini e dèi in armi non potevano varcare il pomerio. Il console invece non ebbe riguardo a trasportare a Roma l'altro colosso eseguito da L. per i Tarantini, l'Eracle meditante (Strab., VI, 278), destinandolo a una fama ancor più vasta e durevole. Da Roma infatti il bronzo fu trasferito nel 325 d.C. a Costantinopoli, dove venne descritto accuratamente dagli autori bizantini, e andò distrutto soltanto nel 1204 dai Crociati. Dalle indicazioni degli scrittori medievali, si calcola che fosse nella proporzione di cinque volte il naturale: trattandosi di una figura seduta, toccava i cinque metri. La gamba e il braccio sinistro erano distesi, l'altra gamba piegata, il gomito poggiato al ginocchio, e il mento nella mano. Il sedile era rappresentato da una cesta, coperta dalla leontea. La più antica testimonianza iconografica è offerta da un quarto di statere in oro coniato a Eraclea, a poca distanza dalla creazione del colosso, datandosi tra la fine del IV sec. e gli anni di Pirro (280- 275). Al tempo in cui l'Eracle si trovava nella sua collocazione originaria, risale anche la testa in marmo pario al museo di Taranto, che conserva l'attacco della mano sotto la barba, e il tormentato corrugarsi del volto, non lontano dal realismo del Pugile delle Terme. Da Alessandria provengono due ornamenti di aghi crinali in bronzo, che riducono a proporzioni minime il soggetto. Una pittura ellenistica con Eracle seduto in quella guisa tra le Muse, fu imitata a Pompei nella Casa di Epidio Sabino: le iscrizioni greche indicano anche Orfeo; è dunque in un clima iniziatico che va vista la presenza della cista (riconoscibile nella moneta e in avori bizantini). Tra i cittadini della colonia Neptunia fondata dai Romani a Taranto, un Titus Septumulenus dedicò intorno al 100 a.C. un Ercole seduto nello schema del colosso lisippeo, di cui resta la base con la leontea. Altri monumenti si riferiscono al tempo in cui l'Eracle era a Roma. Oltre all'affresco pompeiano già citato, risalgono alla prima età imperiale i bronzetti della Bibliothèque Nationale (inv. 559), di Malibu, e già Collezione Santangelo, proveniente dall'agro di Pompei. Al periodo severiano si ascrive la statuetta in marmo da Ratiaria al museo di Vidin (Bulgaria), che compendia un corpo muscoloso, tale da richiamare la complessione dell'Eracle in riposo Farnese-Pitti. Anteriore al trasporto dell'originale a Costantinopoli è la derivazione come Giona sotto la pergola che appare a Roma nella catacomba della Via Latina. La testimonianza è utile per suggerire attraverso la pittura paleocristiana un altro possibile tramite della fortuna di questa iconografia lisippea nell'Occidente medievale e moderno, per il resto determinata dalle numerose rielaborazioni bizantine come Adamo, Elia, San Giuseppe e San Giovanni Evangelista.
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