Vedi LISIPPO dell'anno: 1961 - 1995
LISIPPO (Λυσιππος Lysippus)
Scultore, particolarmente bronzista, figlio di Lys[ippos], nato a Sicione. Della vita dell'artista non sappiamo nulla direttamente, solo ci è dato comprenderne alcuni momenti sulla base di notizie aneddotiche provenienti, in generale, da Duride di Samo (Plin., Nat. hist., xxxiv, 61): Lysippum Sicyonium Duris negat ullius fuisse discipulum, sed primo aerarium fabrum audendi rationem cepisse pictoris Bupompi responso. Eum enim interrogatum, quem sequeretur antecedentium, dixisse, monstrata hominum multitudine, naturam ipsam imitandam esse non artificem (Duride dice che L. di Sicione non fu discepolo di alcuno, e che, dapprima fabbro bronzista, prese coraggio e osò affrontare le difficoltà dell'arte in seguito al responso del pittore Eupompo. Era stato domandato infatti a costui chi fosse il suo modello tra i maestri antecedenti, ed Eupompo aveva risposto, mostrando la folla, che si doveva imitare la natura non un artista (trad. Ferri).
La sua acmè (Plin., Nat. hist., xxxiv, 51) è fissata al 328 circa, certamente in concomitanza con Alessandro Magno, di cui egli fu l'artista prediletto e il ritrattista ufficiale.
L'artista è ricordato vecchio, autore di numerosissime opere. È stato proposto di fissare l'inizio della sua attività attorno al 368 e quindi la data della sua nascita al principio del IV sec., rifacendosi ad una base firmata che sosteneva la statua del generale tebano Pelopida morto nel 369 e offerta nel santuario di Delfi, ma la scultura potrebbe essere stata dedicata anche in un secondo momento.
Una iscrizione che accompagna un ritratto di L., ora perduto, ricorda d'altra parte Seleuco Nicatore come re (dopo il 306 a. C.). Ma anche questo dato cronologico non è certo, perché l'iscrizione, così come il ritratto, poteva appartenere ad una copia alla quale era stato aggiunto il titolo di re per Seleuco.
L'ultima citazione sicura dell'attività di L. è quella relativa all'ordinazione di un gruppo che rappresentava una caccia al leone da parte di Alessandro, dedicata dal re Cassandro nel santuario di Delfi nel 318.
Opere di L. sono ricordate a Tespi, Sicione, Argo, Olimpia, Corinto, Megara, Atene, in Beozia, a Delfi, in Etolia, in Acarnania, in Tessaglia, in Macedonia, a Lampsaco, a Myndos, a Roma, a Taranto; esse rappresentavano divinità, esseri mitologici o allegorie (Zeus, Diòniso, Eracle, Posidone, Eros, le Mùse, le imprese di Eracle, un satiro, Helios, Kairos [v.]) atleti, ritratti (la poetessa Praxilla, Alessandro e i suoi compagni, Efestione, Seleuco, Pythes, Polidamas, Troilos, Cheilion, Kalhkrates, Xenarches, Esopo, Socrate, Pelopida, il gruppo di Daochos), animali (un leone per Lampsaco, quadrighe, ecc.).
Le sue statue erano sia isolate che in gruppi (fatiche di Eracle, gruppi di Alessandro).
Conosciamo dalle fonti l'artista sia come autore di opere colossali (Zeus a Taranto alto m 17,76) sia di opere di piccole proporzioni (il piccolo Eracle epitrapèziòs).
Insieme a Leochares L. è ricordato attivo nel gruppo della caccia di Alessandro del santuario di Delfi.
Opere dello scultore furono trasferite a Roma e più tardi a Costantinopoli, probabilmente si trovavano anche nelle città fondate da Alessandro.
Di lui non si è conservato alcun originale, la stessa difficoltà di riprodurre gli schemi lisippei ha impedito la realizzazione di numerose copie di età romana da opere del maestro. La sua fama, durata per tutto l'ellenismo, ha determinato la creazione di numerose varianti dalle sue creazioni, così che spesso è ancora più difficile riguadagnare attraverso di esse i problemi espressi dallo scultore.
La sicura identificazione in una copia di età romana dell'Apoxyòmenos (v.) (atleta che si deterge dalla polvere con lo strigile) ricordato da Plinio (Nat. hist., xxxiv, 62) a Roma, ha permesso di fissare un punto fermo nella critica dell'arte dello scultore.
Attraverso un lungo lavoro di attribuzioni si è ormai giunti alla ricostruzione sufficientemente sicura della personalità dell'artista.
La prima opera attribuibile con certezza a L. è l'Eros che incorda l'arco, conservata attraverso un numero notevole di copie di età romana, tra le quali quella migliore nel British Museum (due copie erano contrapposte nel Ninfeo detto degli Eroti ad Ostia). Nella scultura (probabilmente da un originale bronzeo) L. manifesta l'inizio della sua problematica. La tensione delle figure, rappresentata in un momento di instabilità, le proporzioni di essa suggeriscono una datazione a dopo la metà del IV secolo. Lo stesso modellato, nel quale l'artista mostra di avere rivissuto i problemi dell'arte prassitelica, è profondamente elaborato. La caratteristica principale della statua è fornita nelle braccia portate parallelamente a sinistra, di cui una attraversa diagonalmente il corpo: non si tratta più in questo caso di una forma aperta su uno sfondo e delimitata dalla linea di contorno, ma dalla presentazione dei diversi piani di un corpo che si articola come volume nello spazio con la illusione di un fondo.
Ad un momento già avanzato dell'attività dello scultore ci riporta la statua dell'atleta Agias (vincitore nel 408) rinvenuta insieme al gruppo di quelle dedicate da Daochos re di Tessaglia nel santuario di Delfi. L'Agias non è l'originale, ma la copia, forse della stessa officina di L., da una statua che esisteva a Farsalo. Il gruppo di Delfi fu dedicato da Daochos, tetrarca di Tessaglia dopo il 338, a sé e ai proprî antenati. Il problema per la datazione dell'Agias consiste nel fatto che tutto il gruppo presenta notevoli affinità stilistiche, e non può essere considerata a parte la sola statua dell'Agias, benché solamente questa rechi la iscrizione con la firma di Lisippo. Si può forse pensare che l'Agias fosse il solo originale lisippeo e che da essa sia stato tratto lo spunto anche per le altre statue del gruppo; essa comunque non è stilisticamente molto lontana dal 338, anno dell'assunzione da parte di Daochos del titolo di tetrarca, come può essere dimostrato dalle proporzioni e dal ritmo della scultura.
Posteriore è forse l'originale di un Alessandro con la lancia, conservato in repliche di piccolo formato ed in erme e varianti per quanto riguarda il capo, dalle quali solo a fatica è possibile risalire all'originale. Le fonti antiche ricordano la scultura nella quale l'artista (sfruttando una imperfezione fisica del principe) aveva rappresentato Alessandro con lo sguardo rivolto al cielo, la chioma alta sul capo, l'umidore degli occhi brillanti.
Attraverso il ritmo ascensionale della figura ispirata ed insieme caratterizzata del sovrano, L. determina un nuovo canone nella ritrattista antica che rimarrà basilare sino al Medioevo, quello del personaggio principesco veduto in apoteosi, in diretto rapporto con la divinità.
Alla piena maturità dell'artista deve essere riportata la statua dell'Apoxyòmenos (v.). In essa i canoni della statuaria classica sono ormai completamente trasformati. La complessità della posa, con il braccio portato avanti quasi ad impadronirsi dello spazio, la estrema instabilità dell'espressione sono gli elementi più caratteristici di una scultura che rappresenta il punto di partenza per ogni successiva esercitazione.
L'avvio ad una maggiore ricerca di ritmi e di volumi si manifesta con il ritratto di Socrate seduto, che L. creò per gli Ateniesi e da essi dedicato nel Ceramico. La struttura volumetrica del corpo seduto che non presenta un solo punto di vista, ma che determina un volume entro lo spazio, la nervosità dell'espressione nel volto assorto fanno di questa opera il primo ritratto individualistico del mondo antico.
Attraverso la creazione del ritratto di Alessandro e di quello di Socrate l'arte ellenistica riceve i due schemi iconografici che rimarranno alla base delle due forme espressive della ritrattistica ellenistica, quella dinastica e quella filosofica. Con l'Eracle Farnese (notevole la replica bronzea in formato ridotto recentemente rinvenuta a Sulmona) (v.) il senso di instabilità del corpo, che sembra ruotare attorno al piede sinistro, la pesantezza delle masse, l'espressione stanca tragica dell'eroe arrivato al limite delle fatiche, determina la scoperta di nuovi ritmi che già preludono quelli ellenistici (v. greca, arte).
Nel ritratto di Seleuco, probabilmente l'ultima delle opere di L., l'impadronirsi dei caratteri individuali del personaggio, determina la creazione di un'opera di intensa passionalità.
(A. Giuliano)
La valutazione dell'opera di L. da parte degli antichi è condensata da Plinio (Nat. hist., xxxiv, 65): statuariae arti plurimum traditur contulisse capillum exprimendo, capita minora faciendo quam antiqui, corpora graciliora siccioraque, per quae proceritas signorum maior videretur. Non habet latinum nomen symmetria, quam diligentissime custodiit, nova intactaque ratione quadratas veterum staturas permutando; vulgoque dicebat ab illis factos quales essent homines, a se quales viderentur esse. Propriae huius videntur esse argutiae operum custoditae in minimis quoque rebus. (È fama che L. abbia contribuito molto al progresso dell'arte statuaria, dando una particolare espressione alla capigliatura, impiccolendo la testa, rispetto agli antichi, e riproducendo il corpo più snello e asciutto; onde la statua sembra più alta. Non c'è una parola latina per rendere il greco "symmetria", che egli osservò con grandissima diligenza, sostituendo un sistema di proporzioni nuovo e mai usato alle stature "quadrate" degli antichi. E soleva dire comunemente che essi riproducevano gli uomini come erano, ed egli invece come all'occhio appaiono essere. Una sua caratteristica è di avere conservato e figurato i particolari e le minuzie anche nelle cose più piccole).
Quintiliano loda la veritas di L., Plinio (Nat. hist., xxxiv, 65) la constantia unita alla elegantia delle sue opere; Properzio chiama animosa, cioè "vive" le sue figure.
La traduzione e l'esegesi di questi termini tecnici antichi in concetti moderni è del più alto interesse, e dimostra che la sensibilità critica dei Greci aveva ben colto l'essenza dell'arte lisippea. La constantia, che traduce, alla meglio, la söstasis o sönthesis greca (concetto che meglio sarebbe stato rappresentato da compositio o simili) si riferisce evidentemente alla costruzione ben proporzionata dei corpi lisippei, che ben rispondevano assieme alle esigenze del genus iucundum, del genus austerurn: della elegantia cioè e della constantia. La veritas è, come già è stato detto, la precipua qualità specifica dell'epoca ellenistica; ben differente da quella policletea, più ancora, da quella mironiana. Le argutiae, o minuziosità di particolari somatici, si trovano anche negli artisti arcaici e severi (Pythagoras, per esempio), ma queste argutiae sono di altro genere: sono particolari veristici, non esasperazioni di elementi corporei inesistenti o appena accennati in natura. Presentare i corpi umani come appaiono all'occhio, è anche questa una perfezione dell'arte già matura, giacché l'arcaica, e in parte anche la classica, sommettono talvolta la realtà effigiando in alcuni casi anche ciò che non si vede e non si può vedere (nel Partenone vediamo la processione, il suo compimento, e i suoi preparativi: tutto assieme); L. avrebbe rispettato la realtà fotografica senza torcerne alcuna parte; avrebbe applicato già nel IV sec. la visione "relativa" del Wölfflin (sulla teoria delle proporzioni lisippee si vedano canone; quadratura, ecc.). L., pur costruendo i suoi corpi secondo una procedura geometrica e matematica già perfezionata da Policleto, ne ingentilì la rigidità rimpiccolendo il modulo (nova intactaque ratione) e lasciando un largo margine a tutta un'altra serie di quadrationes, che Policleto aveva ignorato, quelle cioè ottico-psicologiche (Plut., Soph., 236 A). Laddove Policleto aveva curato i corpi, L. affronta un concetto umano più complesso; corpo anatomico, visione ottico-filosofica del corpo stesso. È come un nuovo Policleto pervaso ed edotto da tutto il sistema prospettico o scenografico dell'opera ellenistica; la quale è tutt'ora ancorata all'antica "analogia", ma esige la consistenza del decor retto naturalmente da esigenze esclusivamente ottiche. I corpi lisippei sono anch'essi "quadrati", cioè costruiti su quattro segmenti e su corrispondenze analogiche o anomale di "alti" e di "bassi", ma contemperano, con le loro "aperture", cogli sfumati dell'epidermide, con lo sguardo fisso in alto (accorgimenti che forse a noi sfuggono, e che soltanto l'occhio dello spettatore ben esercitato può valorizzare) la iniziale povertà di computo degli artisti del V secolo. Infine la testa piccola, come la snellezza del corpo sono esigenze del gusto ellenistico.
Questa è la somma esegetica del pensiero degli antichi dell'arte di L., espressa in termini moderni, e dobbiamo riconoscere che la valutazione degli storici moderni ha dovuto accogliere e seguire le conclusioni già acquisite, apportandovi solo quelle perfezioni e quegli accorgimenti che una critica più fredda, più storica e più provveduta di materiale di raffronto poteva apparecchiare. D'altra parte lo storico moderno si trova in una condizione estremamente svantaggiosa: non possiede alcun originale di L., ma soltanto probabili copie di alcune statue lisippee. Comunque si è messa in maggior evidenza, rispetto agli antichi, la piena conquista della tridimensionalità delle statue lisippee; che non è più da considerare tanto come una invenzione dovuta a un dato ingegno artistico, quanto un adattamento funzionale della statua alle nuove condizioni scenografiche. Cioè, mentre prima bastava una visione unica del corpo umano, giacché trattavasi o di statue di dèi in funzione sacrale, o di atleti in funzione agonistica, ma sempre con significato religioso o vincolato almeno a uno scopo: ora, col IV sec., con l'arte scopo a se stessa, e con le statue esposte evidentemente sulle nuove leggi ottiche che prevedevano la visione da ogni parte, la terza dimensione si profonda da sé, senza alcun intervento fantastico o anche soltanto cerebrale di un dato artistico. Inoltre è stata constatata e messa in rilievo la grande innovazione delle statue lisippee per quanto riguarda la ponderazione del corpo: questa presenta una gamba di carico e una di quiete, ma il peso è più equamente compensato e distribuito su ambedue, di quel che fosse in Policleto.
Tutto ciò in linea generale e senza eccezioni. Ma lo storico, quando voglia uscire da una comprensione d'insieme, o da contorni più o meno indecisi, e fissare, per sé e per gli altri, l'intima essenza della fatica creatrice di L., deve necessariamente procedere a una precisa e decisa discriminazione di fonti: eliminare tutti i documenti che hanno un valore soltanto erudito, in quanto attribuzioni scolastiche, scegliere soltanto quelli e quello che presentano, per fortunata concomitanza di dati, la maggiore attendibile genuinità. E sotto questo punto di vista "strettamente procedurale e nonostante alcune incertezze, ed anche qualche parere contrario, sembra che l'Apoxyòmenos e l'Agias possono considerarsi come i "monumenti chiave". E non perché ambedue concorrono in ugual misura a fornire gli elementi della nostra valutazione; ma soltanto nel senso che l'Apoxyòmenos derivazione tarda di un originale sicuro - conferma punto per punto l'essenza lisippea dell'Agias; sicché la comprensione storica del maestro sicionio, potrà essere condotta con maggior fiducia, non disgiunta da ineccepibile rigidità metodologica, attorno e attraverso la statua di Delfi. Nella quale sola, oltre tutte le già ricordate caratteristiche di statua, muscolatura, snellezza, proporzione, capigliatura, ponderazione, noi vediamo, sì, la meticolosità, già lodata dagli antichi, e la precisione di tutte le minuzie, ma troviamo anche ciò che forse gli antichi non sentivano e non vedevano nella minuta rappresentazione dei muscoli e che certo non esiste nei monumenti policletei: il fatto che i muscoli pur appena accennati, paion vivi; come dotati dall'artefice, nella loro marmorea fissità e immobilità, di una loro intima e potenziale vitalità, di una segreta e latente energia, la quale, pur nella volontà di rimanere segreta e di rimaner latente, sembra avvertire lo spettatore che è pronta a trasformarsi in energia cinetica, in movimento scattante, in elastica e vibrante vitalità. Sono situazioni psicologiche proprie della prima epoca ellenistica così in letteratura, come nelle arti figurative; il cerebralismo e il razionalismo concettoso del tempo si compiace di far "sentire" potenzialmente una situazione di fatto - nel caso nostro una situazione anatomica - precludendone contemporaneamente l'attuazione, considerata probabilmente troppo ovvia, troppo volgare, troppo, nel caso nostro, "policletea", o "mironiana". Mirone e Policleto erano "attimisti in atto"; L., con gli ellenistici, è un "attimista potenziale", un "attimista interrotto".
E un'altra novità leggiamo nell'Agias: l'espressione pensierosa e concentrata del volto, espressione che non è sufficientemente definita dalle formule tradizionali di èthos-pàthos, in quanto non è, dell'Agias, una speciale disposizione muscolare del viso intesa ad esprimere uno stato d'animo meno o più eccitato, e neanche è, come può trovarsi altrove, un semplice elemento addizionale, limitato al viso, perché soltanto nel viso compaiono più evidenti i turbamenti dell'animo; si direbbe invece che l'espressione dell'Agias sia il naturale risultato dell' energia, della vitalità, onde tutte le membra si avvivano, trasferita nel viso, nella sede cioè del pensiero e dell'intelligenza. È l'energia stessa di L. e di Agias assieme, muscolare nel tronco, pensierosa e intellettiva nel viso. Non è che l'occhio si profondi sotto l'arco sopraccigliare nella intimità angosciosa di un arcano pensiero politico o filosofico; e non è l'occhio stesso, proteso collo sguardo orizzontalmente innanzi a sé, verso un lontano problema scientifico da risolvere; bensì la volontà di vincere, l'energica tensione dell'atleta, aprono le labbra in un respiro denso quasi affannoso, e profondano l'occhio e lo tendono alla mèta. Ma tutto ciò e più preannunziato che attuato; è allo stato potenziale pronto al pieno svolgimento dell'azione, la quale forse si sa benissimo che non si attuerà mai più e non si svolgerà affatto, perché la sicurezza e la saldezza del ritmo e dei piani e dei volumi già ci assicura che Agias ha ormai conquistato la vittoria. Nella complessa anima creatrice ellenistica la capacità di vincere, la tensione al momento decisivo e la misurata gioia della vittoria, assieme alla naturale stanchezza dopo lo sforzo, possono ben coesistere nello stesso documento plastico ed apparire sapientemente distribuite nella disposizione degli arti, nel gioco dei muscoli, nella espressione del viso.
Non è pertanto affermazione esagerata considerare L. come il volgarizzatore e il traduttore nel bronzo della complicata e travagliata anima ellenistica nella seconda metà del IV secolo.
(S. Ferri)
Bibl.: J. Overbeck, Schriftquellen, n. 1443-1512; H. Brunn, Geschichte d. griech. Künstl., 2 ed., Stoccarda 1889, II, p. 358 ss.; E. Loewy, Lysipp und seine Stellung in der griechischen Plastik, Amburgo 1891; M. Collignon, Lysippe, Parigi 1905; A. Maviglia, L'attività artistica di Lisippo, Roma 1914; O. Waldhauer, Lisippo, Berlino 1923 (in russo); G. Lippold, in Pauly-Wissowa, XIV, 1928, c. 48, n. 6; F. P. Johnson, Lysippos, Durham 1927; G. Lippold, in Handbuch d. Archäologie, III, i, Monaco 1950, p. 276 ss.; W. Herwig-Schuchhardt, G. Kleiner, H. Koch, in Festschrift Schweitzer, Stoccarda 1954, p. 222 ss.; A. v. Salis, Löwenkampfbilder des Lysipp, in 112°. Berlin. Winck. Pr., 1956.
(A. Giuliano - S. Ferri)