litote
La litote (dal gr. litótēs «attenuazione, diminuzione, semplicità», reso in latino col termine deminutio «diminuzione») è una figura retorica (➔ retorica) che consiste nell’attenuare ciò che si enuncia attraverso la negazione del contrario, ottenendo così effetti di varia natura, sia di amplificazione enfatica, sia più spesso di tono ironico.
I discorsi mostrano spesso una ‘forza’ enfatica non enunciando direttamente quanto si vuole dire, ma – a seconda dei contesti – negando il concetto o l’espressione allo scopo di ottenere un effetto di dissimulazione rafforzata. Così nelle seguenti espressioni:
(1) non è un’aquila
(2) ha fatto non pochi sacrifici
(3) non passare sotto silenzio
l’effetto voluto è rafforzare il senso ‘inteso’ attraverso il gioco dei contrari per intendere in questo modo:
(4) non è acuto
(5) ha fatto molti, numerosi sacrifici
(6) dover dire, non tacere
L’idea è pertanto quella di un calcolo discorsivo che tende a nascondere il concetto rafforzandolo e mirando così a un effetto ironico (1) o a esiti iperbolici (2-3). Nel dissimulare il pensiero che si vuole enunciare, in realtà se ne ottiene una sottolineatura perché l’ascoltatore o il lettore vengono indotti a passi inferenziali che ristabiliscono l’originario intento comunicativo.
Questo aspetto pratico e inferenziale della litote fu visto con chiarezza nell’antichità. Nella Retorica a Gaio Erennio (opera del I sec. a.C., per tradizione attribuita a Cicerone ma in realtà di autore ignoto, il cosiddetto Pseudo-Cicerone), la deminutio è vista come una tecnica raffinata per non insospettire il pubblico con una enunciazione troppo diretta di quanto si vuole dire. Per farlo, occorre diminuire o attenuare il concetto spesso col ricorso alla negazione (l’esempio è quello di una doppia litote: «Per indigenza? A lui precisamente il padre ha lasciato un patrimonio – non voglio dire troppo – non modestissimo»: IV, 50, 38).
Quintiliano, nella Istituzione oratoria (I sec. d.C.), eredita questa visione pratica della litote, ma la indica come tecnica discorsiva adatta, in alcuni contesti, alla perifrasi, cioè al giro di parole, che attenua il concetto negandolo («non mi sfugge» invece di «nessuno ignora»: X, 1, 12). Questo aspetto del ‘dire di meno’ di quanto in realtà si voglia significare entrò saldamente nei manuali di retorica della tarda antichità e nei trattati di poetica di fine medioevo.
La litote si presta così a intenti più apertamente ironici, come in ➔ Dante, che se ne serve, ma raramente, con questi fini (ad es., quando allude ai dannati per i quali «non era via da vestito di cappa»: Inf. XXIV, 31). Con ➔ Francesco Petrarca la litote trova una nuova, originale maturità espressiva, che tende ad ampliare l’uso della negazione in costrutti più raffinati ed elaborati, per più correlativi ed espliciti (ad es., «ch’al suon d’altra squilla, / ma di sospir mi fa destar sovente», Canz. CLIII, vv. 7-8; o «Basso desir non è ch’ivi si senta, / ma di onor, di vertute», Canz. CLIV, vv. 12-13).
Fu però a fine Settecento e per tutto l’Ottocento che i potenziali espressivi della litote tornarono in auge. Pierre Fontanier, in Les figures du discours (1830), le riserva un ruolo importante sottolineandone gli intenti allusivi, che non necessariamente si affidano alla sola negazione: si può dare litote anche senza negazione.
Essa entra così saldamente nelle tecniche compositive poetiche del secolo, come in ➔ Ugo Foscolo («Tu non altro che il canto avrai del figlio / o materna mia terra», “A Zacinto”, vv. 12-13). Ma è ➔ Giacomo Leopardi a fornire in versi una definizione della litote quando, in “A Silvia”, la usa iperbolicamente per denotare la forza del sentimento rispetto alle parole («Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno», vv. 26-27). La litote si dispone così a complessi moduli sintattici di varia natura («di cari inganni, / non che la speme, il desiderio è spento», “A sé stesso”, vv. 4-5).
Nello stesso tempo, la litote non rinuncia a un suo uso ironico fino a risolversi in perifrasi eufemistiche, come nel famoso ritratto manzoniano di Don Abbondio: «Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone» (Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. I). La figura diventa centrale nel linguaggio letterario dell’epoca fino a presentarsi nei libretti d’opera:
Pur mai non sentesi
felice appieno
chi su quel seno
non liba amor
(Francesco Maria Piave, Rigoletto, vv. 514-516)
e a ricorrere spesso in ➔ Gabriele D’Annunzio con un cumulo di diverse figure
Tal chiaritate
il giorno e la notte commisti
sul letto del mare
non lieti non tristi
effondono ancora
(“Il novilunio”, vv. 68-72)
Nel Novecento la litote perde i suoi moduli più tradizionali e innesta nuove soluzioni semantiche soprattutto dirette verso la negazione non, che permette forme allusive di varia natura. Così in Guido Gozzano la litote sembra erodersi dall’interno in un complesso gioco anche citazionale («Pel tuo sogno, pel sogno che ti diedi / non son colui, non son colui che credi!», I colloqui, “L’onesto rifiuto”, vv. 34-35). Lo stesso vale per moduli sintattici come non essere che, pronti a rivitalizzare la figura, come in Sergio Corazzini e nei crepuscolari («Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange», “Desolazione del povero poeta sentimentale”, vv. 2-3); o in Vincenzo Cardarelli («e il saggio non è che un fanciullo / che si duole di essere cresciuto», Poesie, “Adolescente”, vv. 65-66).
In altri casi, la figura si conferma come cumulo di altre tecniche discorsive in grado di reggere ed armonizzare, ad es. in Giuseppe Ungaretti e nel suo celebre “San Martino del Carso” (in Porto sepolto):
di tanti
che mi corrispondevano
non mi è rimasto
neppure tanto» (vv. 5-8)
o ancora in Eugenio Montale:
C’è ancora qualche lume all’orizzonte
e chi lo vede non è un pazzo, è solo
un uomo e tu intendevi di non esserlo
(Diario del ’71 e del ’72, “A questo punto”, vv. 15-17)
L’➔ italiano standard attuale riporta la litote, come figura a sé stante, nei confini fissati dalla tradizione antica e in moduli facilmente memorizzabili (come negli esempi 1-3 sopra riportati).
Ma in una lingua ricca di suffissazione espressiva come l’italiano, i meccanismi allusivi possono anche funzionare al di fuori dello schema della negazione e affidarsi a molteplici espressioni attenuative paragonabili alla litote (come le comunissime espressioni un attimino, un momentino). Esse si presentano oggi nei più diversi contesti e nelle forme più svariate.
Cicerone, Marco Tullio (1992), La retorica a Gaio Erennio, a cura di F. Cancelli, in Id., Tutte le opere, Milano, Mondadori, 33 voll., vol. 32°.
Fontanier, Pierre (1827), Des figures du discours autres que les tropes, Paris, Maire-Nyon (rist. Les figures du discours, Paris, Flammarion, 1971).
Quintiliano, Marco Fabio (2001), Istituzione oratoria, a cura di S. Beta & E. D’Incerti Amadio, Milano, Mondadori, 1997-2001, 4 voll., vol. 4º (Libri X-XII, a cura di S. Beta).
Lausberg, Heinrich (1960), Handbuch der literarischen Rhetorik. Eine Grundlegung der Literaturwissenschaft, München, Hueber Verlag, 2 voll.
Faral, Edmond (1924), Les arts poétiques du XIIe et du XIIIe siècle. Recherches et documents sur la technique littéraire du Moyen âge, Paris, Champion (2ª ed. 1962).
Mortara Garavelli, Bice (199710), Manuale di retorica, Milano, Bompiani (1a ed. 1988).
Tateo, Francesco (19842), Litote, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, vol. 3º, ad vocem.