LIUTPRANDO di Cremona (Liuto, Liuzo)
Nacque probabilmente a Pavia intorno al 920. Le informazioni sulla sua famiglia, la sua giovinezza e gli inizi della sua carriera si ricavano da quanto egli stesso dice nell'Antapodosis. All'inizio del IV libro L. dichiara di essere stato testimone diretto dei fatti di lì in poi narrati, il primo dei quali è l'incoronazione a re d'Italia di Lotario, figlio di Ugo di Provenza, avvenuta il 15 maggio 931; dunque si ritiene in genere che egli avesse raggiunto in quel momento almeno l'infanzia avanzata. Tuttavia il fatto che nell'appassionata descrizione dell'incendio di Pavia da parte degli Ungari (III, 3), avvenuto nel marzo 924, non si faccia cenno a una sua presenza al momento dell'evento e soprattutto il fatto che intorno al 945, al momento di entrare al servizio di Berengario d'Ivrea, egli risulti ancora fortemente condizionato dalla famiglia, potrebbe, indurre a spostare la data di nascita a qualche anno dopo. Passò l'infanzia quasi certamente a Pavia, capitale del Regno d'Italia, che definisce patria, così come pater noster è da lui chiamato s. Siro, il protettore della città; il suo nome denuncia una probabile appartenenza alla stirpe longobarda. Il padre di L., del quale non è noto il nome, dovette godere di un certo prestigio alla corte del re d'Italia Ugo di Provenza, che nei primi tempi del suo regno, iniziato nel 926, gli affidò una missione diplomatica a Costantinopoli, poco dopo la quale egli morì. L. passò allora sotto la tutela del nuovo marito della madre, del quale egli parla con rispetto e riconoscenza; anche questi fu incaricato da Ugo nel 942 di un'ambasceria a Costantinopoli, al fine di rinsaldare l'alleanza fra i due Regni tramite il matrimonio fra Berta, figlia illegittima di Ugo, e Romano, figlio del coimperatore Costantino VII Porfirogenito. L. fu introdotto a corte ancora bambino, secondo quanto lui stesso afferma, come membro del coro; certamente a Pavia, dove esisteva una scuola di particolare eccellenza e di antichissime tradizioni, ebbe la sua formazione, e presso la Chiesa pavese, in epoca imprecisata, divenne diacono.
Quando nel 945 il Regno d'Italia passò di fatto nelle mani di Berengario, che sconfisse ed emarginò Ugo e suo figlio Lotario, pur conservando a quest'ultimo nominalmente il titolo reale, la famiglia di L. ottenne - in cambio di un consistente esborso economico, secondo il racconto di L. - che il giovane entrasse al servizio di Berengario come signator epistolarum, un incarico di cui non sono chiare le esatte attribuzioni. In tal modo poté farsi conoscere dal nuovo signore, che nel 949 affidò anche a lui, così come era avvenuto al padre e al patrigno, una missione diplomatica a Costantinopoli, dove nel frattempo Costantino VII era rimasto unico imperatore; secondo quanto racconta malevolmente L., Berengario riuscì a ottenere che le spese della spedizione fossero pagate dalla famiglia dello stesso ambasciatore. Partito il 1° agosto da Pavia, L. giunse il 17 settembre a Costantinopoli, dove si trattenne almeno fino alla Pasqua dell'anno successivo. L'ambasceria, narrata nel sesto e ultimo libro dell'Antapodosis, fu per lui un'esperienza entusiasmante: accolto con pompa e onore da Costantino VII, egli rimase ammirato dalla magnificenza della corte e poté approfittare dell'occasione per conoscere il mondo bizantino e approfondire le sue conoscenze di greco.
Il viaggio a Costantinopoli del 949-950 è l'ultimo evento di cui si parla nell'Antapodosis; da quel momento per oltre un decennio non si hanno più notizie dirette su Liutprando. Nelle sue opere accenna ripetutamente ed esplicitamente a un violento contrasto con Berengario, che lo costrinse ad abbandonare l'Italia e a rifugiarsi presso Ottone I di Sassonia, re di Germania; ma del contrasto non vengono riferiti né le ragioni, né lo svolgimento.
Quelli successivi al 950, del resto, dovettero essere anni non facili per la piccola aristocrazia di corte italiana. È assai probabile che Berengario, incoronato re d'Italia con il figlio Adalberto nel dicembre 950, subito dopo la morte di Lotario, ne abbia rinnovato i ranghi, ridimensionando chi doveva la propria posizione alla dinastia precedente, come appunto L. e la sua famiglia; ed è altrettanto probabile che una nuova purga dovesse verificarsi nel 951 contro i cortigiani che, al momento della temporanea occupazione dell'Italia settentrionale da parte di Ottone, intervenuto contro Berengario e Adalberto ma poi con loro rappacificatosi, avevano mostrato simpatia per il sovrano straniero. I frequenti accenni di L. alla smisurata avidità di Berengario e di sua moglie Willa possono far pensare che i due regnanti abbiano proceduto, in una o in un'altra circostanza, a una confisca del suo patrimonio familiare.
Non è noto come e quando L. giunse alla corte di Ottone; presso il sovrano egli potrebbe essere stato introdotto e appoggiato dalla regina Adelaide, che prima di sposare il re di Germania (951) era stata moglie di Lotario. Egli appare comunque ben inserito presso la corte tedesca all'inizio del 956, quando vi giunse un'ambasciata del califfo omayyade di Cordova ‛Abd ar-Raḥmā´n III, guidata da Recemundo (Rabi ibn Zaid), vescovo di Elvira; questi esortò L. a comporre un'opera di carattere storiografico e da tale invito nacque l'Antapodosis. La conoscenza fra L. e Recemundo, nata presumibilmente durante le trattative collegate alla missione, è indizio del fatto che già in quell'epoca Ottone doveva servirsi di L. per incarichi di natura diplomatica; e all'interno di un incarico diplomatico presso l'imperatore bizantino andrà con ogni probabilità inquadrato anche un misterioso soggiorno di L. nell'isola ionica di Paxo, occorso nel 959 o nel 960, e noto per un accenno dell'Antapodosis.
Nel 961 Ottone scese di nuovo in Italia contro Berengario e Adalberto, li costrinse alla fuga e si impadronì definitivamente del Regno. Nella ridistribuzione dei benefici feudali che ne seguì, il sovrano conferì a L. il vescovado di Cremona, dove risulta insediato il 14 genn. 962. Non c'è prova che egli fosse presente all'incoronazione imperiale di Ottone, avvenuta a Roma il 2 febbr. 962; ma nella città papale compì, negli anni seguenti, varie e importanti missioni. Nella primavera 963 Ottone lo inviò a Roma, insieme con Landoardo di Minden, per dissuadere papa Giovanni XII da propositi di alleanza con Berengario e Adalberto, che mantenevano il possesso di alcune piazzeforti e meditavano la rivincita. Partecipò poi, con il delicato ruolo di interprete di fiducia dell'imperatore, al sinodo che si tenne a Roma nell'autunno successivo alla presenza di Ottone stesso, e che si concluse il 4 dicembre con la deposizione di Giovanni XII e l'elezione di Leone VIII; con ogni probabilità partecipò anche al successivo sinodo del 23 giugno 964, in seguito al quale fu deposto anche Benedetto V, eletto in maggio dal partito antimperiale dopo la morte di Giovanni XII, e Leone VIII rimase unico papa. Morto Leone nel marzo 965, L. fu inviato nuovamente a Roma da Ottone, questa volta insieme con Otgero di Spira, per sostenere la nomina di un nuovo pontefice di gradimento imperiale, che fu Giovanni XIII, eletto in settembre. In seguito L. sembra essersi fermato nella sua sede cremonese fino alla nuova discesa dell'imperatore in Italia (autunno 966); nell'aprile 967 partecipò al sinodo di Ravenna, presieduto da Ottone e dal papa, e fu al seguito dell'imperatore a Roma fra il dicembre 967 e il gennaio 968, quando figura fra i sottoscrittori dei benefici concessi dal pontefice al monastero di S. Massimino di Treviri e alla Chiesa di Meissen.
Pur non essendoci documentazione sicura, è molto probabile che L. abbia accompagnato l'imperatore anche nella spedizione da lui condotta nei primi mesi del 968 contro i Bizantini, presso i quali cercava aiuti Adalberto, e che culminò con l'assedio di Bari: più tardi egli si vantò di aver personalmente indotto in quella circostanza l'imperatore a rinunciare alle armi e a perseguire la strada della trattativa diplomatica (Legatio, 7, 57). Di tale trattativa fu incaricato lo stesso L., che fu inviato da Ottone a Costantinopoli presso l'imperatore Niceforo Foca; fra gli obiettivi della missione vi era quello di promuovere il matrimonio fra Ottone II, figlio di Ottone I, da poco associato al trono dal padre, e una principessa bizantina di sangue reale. Giunto a Costantinopoli il 4 giugno, L. vi si trattenne fino al 2 ottobre, senza ottenere i risultati sperati, a suo dire per l'ostilità dimostratagli dalle autorità bizantine; a nulla valse l'azione di un'ambasceria parallela inviata dal papa in suo appoggio, giunta a Costantinopoli in agosto. Il viaggio di ritorno, per via terrestre fino allo Ionio, fu lento e complesso e si concluse soltanto all'inizio dell'anno successivo; L. si diresse probabilmente nell'Italia meridionale, dove si trovava in quel momento Ottone, per riferirgli di persona. Al seguito dell'imperatore si trovava ancora il 26 maggio 969 a Roma, quando sottoscrisse l'atto con cui l'episcopato di Benevento fu elevato al rango arcivescovile. Nell'autunno 969 era a Milano, dove prese parte al sinodo tenuto dall'arcivescovo Valperto per procedere alla soppressione della diocesi di Alba, devastata negli anni precedenti dalle scorrerie saracene, e alla sua unione con quella di Asti; all'incontro L. presenziò nella doppia veste di rappresentante imperiale e di latore della lettera papale che sollecitava l'accorpamento. L'anno successivo era a Ferrara (probabilmente in marzo, quando vi soggiornò anche Ottone), dove presiedette insieme con il conte Eccico, missus imperiale, un placito che riconobbe all'arcivescovo di Ravenna Pietro la giurisdizione su alcuni territori contesi dai Ferraresi; l'ipotesi, avanzata nell'Ottocento, che egli detenesse in quel momento anche la qualifica di conte di Ferrara è oggi considerata priva di fondamento.
L'ultimo documento databile con sicurezza in cui L. figura in vita è un passaggio di beni effettuato a Cremona il 20 apr. 970. Il tenore di un privilegio aquileiese del 20 luglio 972, nel quale dei terreni già concessi a L. vengono assegnati ad altro beneficiario, può far pensare che egli fosse ormai morto; il suo successore Odelrico era certamente insediato nell'episcopato cremonese il 5 marzo 973. La Translatio sancti Hymerii riferisce che, quando L. lasciò per l'ultima volta Cremona, lo fece per recarsi a Costantinopoli su mandato dell'imperatore e che da questo viaggio non ritornò più. L'affidabilità della notizia - risalente, nella forma a noi pervenuta, a epoca più tarda - è discussa e si è pensato a un riferimento alla missione del 968-969; ma su vari particolari la Translatio appare ben circostanziata e sembra attingere a fonti molto vicine all'età di Liutprando. Se l'indicazione è esatta, essa si riferisce alla nuova ambasceria inviata nell'autunno del 971 da Ottone all'imperatore bizantino Giovanni Zimisce, guidata da Gero di Colonia, che si concluse positivamente con la venuta della principessa Teofano, sposa designata per Ottone II; alla missione L. avrebbe preso parte, sia pure in una posizione subordinata, ma sarebbe morto prima di rientrare.
L. fu uno dei più importanti e influenti funzionari italiani a servizio di Ottone e costituisce un esempio emblematico e perfettamente riuscito della politica di infeudamento ecclesiastico a vantaggio di propri fedeli, perseguita dal sovrano tedesco nell'Italia del Nord. La sua presenza, pressoché costante, a fianco di Ottone durante le discese in Italia indica grande familiarità con la corte; la sua collaborazione con i grandi ecclesiastici del Regno germanico (fra gli altri Landoardo di Minden, Otgero di Spira, Abramo di Frisinga, ma anche Raterio di Verona) dimostra la stima di cui egli godeva, guadagnata con ogni probabilità già negli anni dell'esilio tedesco grazie all'abilità letteraria e alla conoscenza delle lingue, che lo rendevano prezioso. Alcune iniziative politico-diplomatiche ottoniane nei confronti dell'Impero bizantino - come la sospensione dell'assedio di Bari del 968 e l'invio della successiva ambasceria - potrebbero essere state suggerite o autorevolmente sostenute da lui.
Rispetto all'importanza dei compiti che appare aver svolto come diplomatico e fiduciario di Ottone, l'attività di L. come vescovo di Cremona risulta decisamente secondaria; nella città lombarda egli sembra del resto aver soggiornato solo in modo assai discontinuo. Il nome di L. figura in vari documenti cremonesi fra il 962 e il 970, tutti relativi a concessioni di modesta importanza; in diversi di questi atti egli non compare di persona, ma attraverso un proprio rappresentante. Analogamente, non sembra aver lasciato particolare memoria presso la Chiesa cremonese - meno di dieci anni dopo, l'episcopato non possedeva più esemplari delle sue opere, ammesso che mai ve ne fossero stati -, se non per il merito di avervi portato le reliquie di s. Imerio, presunto antico vescovo di Amelia. La vicenda si svolse probabilmente durante uno degli ultimi passaggi di L. dal territorio romano ed è narrata da una breve e vivace Translatio: ottenuta la complicità del vescovo locale grazie alla promessa di fornirgli appoggi presso l'imperatore e ridotto al silenzio il guardiano della chiesa, una notte L. trafugò il corpo e lo trasportò a Cremona, ma morì prima di poter provvedere alla sistemazione della reliquia nella cattedrale, cui attese il suo successore Odelrico. I fatti narrati appaiono, nel complesso, credibili; i furti di corpi santi a Roma e nella zona circostante risultano essere stati largamente praticati durante le discese in Italia di Ottone da vari prelati tedeschi del seguito.
La più lunga fra le opere letterarie di L. è l'Antapodosis, in sei libri, scritta, come si è detto, su esortazione di Recemundo e a lui dedicata. Essa fu iniziata a Francoforte intorno al 958 e giunse allo stato di composizione a noi noto dopo l'incoronazione imperiale del 962; nella forma attuale essa appare incompiuta e a ciò si devono varie contraddizioni interne. Si tratta di un'opera di storia e di memorialistica, che narra le vicende occorse a partire dalla morte di Carlo il Grosso (888) fino alla presa del potere da parte di Berengario II (l'ultimo evento ricordato è, come si è detto, l'ambasceria costantinopolitana dello stesso L. del 949-950); la dimensione geografica della narrazione spazia fra l'Italia, la Germania e Costantinopoli, le tre aree nelle quali l'autore visse e operò. Lo scopo dichiarato nel prologo del primo libro è quello di conservare memoria delle imprese di grandi personaggi e sovrani dell'epoca recente, con intendimenti didattici e morali; ma a partire dal terzo libro, con il quale si inizia la narrazione di fatti di cui L. fu spettatore e talvolta protagonista, emerge sempre più nettamente l'obiettivo polemico di denunciare e ridicolizzare i nemici personali e politici dell'autore, Berengario II e sua moglie Willa. Lo spazio riservato alla memorialistica personale rispetto alle vicende storiche generali tende perciò ad aumentare e all'intendimento polemico risponde la scelta del titolo greco di Antapodosis ("contraccambio", "ritorsione").
L'incompiutezza finale, che lascia fra l'altro interrotta la "vendetta" di L., non permettendo di comprendere la natura dei presunti torti da lui subiti, potrebbe giustificarsi con la perdita di interesse politico di uno scritto ormai schiettamente polemico dopo la definitiva sconfitta di Berengario (964) o la sua morte in prigionia (966). L'Antapodosis è scritta in una prosa latina spigliata ed elegante, all'interno della quale trovano spesso posto brevi componimenti in versi, nonché frasi e parole in lingua greca, introdotte allo scopo di impreziosire lo stile; le parti più riuscite sono quelle di carattere aneddotico, dove L. si dimostra narratore caustico e brillante. Al di là degli aspetti più strettamente letterari, l'opera è anche una delle principali fonti per il periodo che tratta, in particolare per le intricate vicende del Regno d'Italia, e si basa su informazioni di prima mano. Il testimone principale che la riporta è il manoscritto Clm, 6388 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, coevo all'autore, che per le sue caratteristiche sembra essere stato vergato sotto la sua diretta sorveglianza e, in certe parti, probabilmente di suo pugno; oltre che in questo manoscritto, l'opera è conservata in una quindicina di altri codici medievali, tutti di provenienza oltralpina, alcuni dei quali derivano da una redazione preliminare successivamente modificata dall'autore.
A sostegno della politica perseguita da Ottone nei confronti del Papato fra il dicembre 963 e l'estate 964, quando egli aveva deposto papa Giovanni XII e lo aveva sostituito con Leone VIII non senza forzare a proprio vantaggio le procedure canoniche, L. scrisse un libello noto con il nome - non originario e in larga misura improprio - di Historia Ottonis (o Gesta Ottonis), nel quale l'intervento dell'imperatore viene presentato come soluzione ineluttabile e meritoria di fronte alla gravità della situazione; l'opuscolo, il cui carattere propagandistico e apologetico è evidente, è costruito con grande abilità e giunge a prefigurare nella lotta fra il papa degenerato e il santo imperatore la lotta fra il Male e il Bene. Fu scritto a breve distanza dagli eventi narrati, fra il momento dell'abdicazione di Benedetto V (23 giugno 964, ultimo episodio conservato) e quello della morte di Leone VIII (1° marzo 965), che nell'Historia è presentato come ancora in vita; ci è giunto, mutilo della fine, nello stesso manoscritto Clm, 6388 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, che contiene anche l'Antapodosis e in altri manoscritti che da esso derivano.
L'opera più celebre e originale di L. è forse la Relatio de legatione Constantinopolitana, detta anche più semplicemente Legatio, scritta nei primi mesi del 969, poco dopo il termine della sfortunata ambasceria a Costantinopoli, di cui l'autore era stato incaricato l'anno prima da Ottone. Si tratta di un opuscolo nel quale L. giustifica il suo operato e cerca di attribuire la responsabilità dell'insuccesso all'atteggiamento ostile mostrato dai governanti bizantini, a partire dall'imperatore Niceforo Foca. Lo strumento con cui lo scrittore tenta di ottenere questo risultato è quello, a lui abituale, dell'attacco polemico, non privo di venature satiriche. I funzionari bizantini vengono presentati come infidi e corrotti, l'imperatore come un inetto pagliaccio; l'accoglienza ricevuta è descritta come oltraggiosa e infamante, al limite del sequestro di persona; le usanze bizantine - che in altra occasione avevano suscitato l'ammirazione dello scrittore - come sordide e incivili. Oltre che un pregevolissimo documento letterario e una fonte singolare per l'evento politico che racconta, l'opuscolo costituisce altresì un'interessante testimonianza dei pregiudizi culturali esistenti nelle relazioni fra mondo occidentale e mondo bizantino nella parte centrale del Medioevo. La Legatio, indirizzata ai due Ottoni e all'imperatrice Adelaide, ebbe scarsissima circolazione: l'unico manoscritto medievale di cui si abbia notizia, oggi irreperibile, si trovava fra il XVI e il XVII secolo presso la biblioteca del duomo di Treviri, e da esso trasse una copia del testo Enrico Canisio, che lo pubblicò, permettendo così la sopravvivenza dell'opera (Chronicon Victoris episcopi Tunnunensis… Legatio Liutprandi Cremonensis ad Nicephorum Phocam…, Ingolstadii 1600, pp. 79-125).
A L. si attribuisce infine un'Homelia scritta e forse pronunciata in occasione di una Pasqua, segnalata da Bischoff nel 1966 e in seguito da lui pubblicata. Il tema dell'azione salvifica di Cristo viene trattato all'interno di una polemica antigiudaica - l'interlocutore fittizio è un ebreo che non riconosce il valore della Pasqua cristiana e nega la Resurrezione - e con richiami perentori alla gravità delle pene infernali; l'argomentazione è costruita con abilità ed eleganza. L'attribuzione a L. si deve al fatto che nell'unico testimone che conserva l'opera - un doppio fascicolo inserito all'interno del manoscritto monacense Clm, 6426, una miscellanea raccolta dal vescovo Abramo di Frisinga - essa è preceduta da un titolo in greco in cui l'autore è chiamato "Lioutzios" e definito "italikos diakonos", e che le caratteristiche stilistiche del testo ben si attagliano a quelle che configurano gli scritti di Liutprando. Anche nel doppio fascicolo che contiene l'Homelia si ritiene che possa comparire la mano dell'autore, che controlla il lavoro compiuto da un copista della Germania centrosettentrionale; il fatto che l'opera sia stata scritta in quest'area mentre L. non era ancora vescovo e sia stata poi inviata (e forse fin dal momento della composizione indirizzata) ad Abramo, che era vescovo di Frisinga dall'autunno 957, farebbe pensare che la Pasqua in questione sia una di quelle comprese fra il 958 e il 961.
L. va annoverato fra gli scrittori più vivaci e originali dell'intero Medioevo latino. Dotato di un'ottima formazione scolastica, egli padroneggia, oltre alle Sacre Scritture e ai principali autori cristiani, un gran numero di classici: fra gli altri, Boezio, Cicerone, Orazio, Marziale, Ovidio, Persio, Quintiliano, ma soprattutto Virgilio, Giovenale e, forse più di tutti, Terenzio, dal quale riprende le movenze teatrali che traspaiono in vari aneddoti narrati nelle sue opere. Più superficiali sono le sue competenze di diritto canonico, che pure riuscì a mettere a frutto nelle sezioni polemiche delle sue opere. La sua conoscenza della lingua greca, di gran lunga superiore a quella di qualsiasi letterato occidentale della sua epoca, sembra essere stata però di carattere essenzialmente pratico, maturata nel corso dei suoi soggiorni in terra greca o in vista di essi: le sporadiche citazioni di scrittori greci (Omero, Luciano, Platone) che si incontrano nelle sue opere sembrano più uno sfoggio di superficiale erudizione al fine di impressionare l'uditorio che l'indizio di un'effettiva lettura di quegli autori. Grandissimo e stupefacente narratore, egli appare meno originale negli aspetti speculativi; la sua visione della storia risulta appiattita su un provvidenzialismo radicale di stampo gregoriano, nel quale hanno parte preponderante l'insondabilità del disegno divino e la retribuzione dei meriti e delle colpe. Le sue fosche descrizioni della cosiddetta "pornocrazia" del Papato, che in vari passi dell'Antapodosis viene presentato come un giocattolo per lunghi decenni controllato dalle matrone appartenenti alle grandi famiglie romane, resero le sue opere sospette nell'età della Controriforma; oggi è unanimemente riconosciuto il loro valore come fonte storica, anche se la dichiarata parzialità politica dell'autore ne richiede un'attenta esegesi.
Edizioni delle opere: Die Werke Liudprands von Cremona, a cura di J. Becker, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, XLI, Hannoverae-Lipsiae 1915; Eine Osterpredigt Liudprands von Cremona (um 960), in B. Bischoff, Anecdota novissima, Stuttgart 1984, pp. 20-34; Opera omnia, a cura di P. Chiesa, Turnhout 1998.
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