PALADIN, Livio
PALADIN, Livio. – Nacque a Trieste il 30 novembre 1933, da famiglia di origine istriana, figlio di Giovanni e di Rita Possa.
Il padre, nato a Visignano d’Istria, insegnante, mazziniano e irredentista da giovanissimo, partecipò alla lotta partigiana e all’insurrezione di aprile, rappresentò il Partito d’Azione (Pd’A) nel Comitato di liberazione nazionale triestino e scrisse un libro sull’attività clandestina a Trieste e sulle vicende drammatiche del CLN della Venezia Giulia. Consultore nazionale e dirigente del Pd’A, nell’estate 1945 fece parte della delegazione giuliana inviata a Parigi per le trattative di pace.
A Trieste Paladin conseguì la maturità classica e si laureò in giurisprudenza, il 28 ottobre 1955, discutendo una tesi sulla potestà legislativa regionale di cui fu relatore Vezio Crisafulli, un maestro con il quale iniziò il suo percorso di studioso. Collaboratore alla cattedra di diritto costituzionale a Trieste fino al 1957, fu poi assistente a Roma, dove insegnava Carlo Esposito, altro maestro per lui fondamentale. Dopo la libera docenza (conseguita insieme a Leopoldo Elia, Enrico Spagna-Musso e Francesco Cossiga), insegnò nell’Università di Trieste, prima come professore incaricato, dal 1959 al 1961, e dal 1962 e successivamente, vinto il concorso a cattedra (insieme a Elia e Manlio Mazziotti), come professore straordinario e poi ordinario. Nel 1969 si trasferì a Padova sulla cattedra di diritto costituzionale che era stata ricoperta da entrambi i suoi maestri nella facoltà di giurisprudenza, di cui fu preside dal 1972 al 1977, quando venne nominato giudice costituzionale dal presidente della Repubblica Giovanni Leone.
Esercitò quella funzione con grande impegno, circondato da grandissima stima per la conoscenza delle materie, il lucido ragionare, la capacità di individuare i nodi delle questioni e di indicarne la soluzione. Il suo contributo alla giurisprudenza della Corte non si limitò alle sentenze di cui fu relatore, ma fu importante anche nell’attività collegiale. Eletto presidente della Corte nel luglio 1985, alla scadenza (luglio 1986) tornò all’Università di Padova dove volle rimanere, insegnando sino alla fine.
Ideatore e primo condirettore (1973-77) della rivista Le Regioni, nel 1981 fu tra i fondatori della rivista Quaderni costituzionali, che diresse dal 1987 alla morte. Partecipò alla costituzione dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, di cui fu anche presidente. Nel 1987 Cossiga, allora presidente della Repubblica, lo chiamò a presiedere la commissione di esperti incaricata di esaminare la disciplina dei poteri di comando delle Forze armate e, nel 1990, la commissione di studio sul Consiglio superiore della magistratura.
Accademico dei Lincei, socio effettivo dell’Istituto veneto di scienze, lettere e arti e dell’Accademia galileiana di scienze lettere ed arti di Padova, medaglia d’oro dei benemeriti della Scuola della cultura e dell’arte (d.p.r. 2 giugno 1986), Paladin ricoprì anche importanti cariche politiche: ministro indipendente per gli Affari regionali e ministro della Funzione pubblica nel sesto governo Fanfani dal 17 aprile al 28 luglio 1987; ministro indipendente per il Coordinamento delle politiche comunitarie nel governo Ciampi dal 4 maggio 1993 al 10 maggio 1994. Non aveva ambizioni politiche né ebbe mai rimpianti per l’attività politica, che pure esercitò per servire lo Stato e considerò un’utile esperienza come momento di confronto fra teorie giuridiche e pratica istituzionale, subito pronto però a lasciarla per riprendere gli studi.
Di Paladin, sempre attento ai fatti politico-costituzionali, meritano di essere ricordati i numerosi articoli pubblicati sui quotidiani. Lunga e costante, in particolare, fu la sua collaborazione con Il Messaggero (2 agosto 1987 - 8 gennaio 1997).
Alla moglie, Dora Polli, che lo seguiva in ogni attività, lo univa un legame intenso, manifesto, durante la malattia che la colpì, nell’amore con cui le fu costantemente vicino. Soltanto negli ultimi mesi della sua vita si arrese al fatto che per Dora – che gli sopravvisse – il miglioramento non sarebbe venuto mai. Figli non ne ebbero.
Morì a Padova il 2 aprile 2000. Per suo desiderio, dopo la cremazione le sue ceneri furono deposte a Trieste nella tomba di famiglia.
Nonostante la lunga e dolorosa malattia aveva continuato a insegnare e a scrivere. Lavorava con ansia, nel tentativo di portare a termine la storia costituzionale della Repubblica cui tanto teneva, ma che fu pubblicata incompiuta e postuma (Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna 2004), priva anche delle ultime pagine che non aveva fatto in tempo a dettare. Scritte con la grafia incerta di una mano malata che voleva ostinatamente continuare e conservate da Ludovico Mazzarolli, uno dei suoi allievi, quelle ultime pagine rimasero indecifrabili. Secondo testimonianze dirette, era sua intenzione completare quella storia per giungere all’attualità, ma soprattutto per esaminare sotto un diverso profilo gli anni già considerati: stava scavando nei fatti sociali ed economici oltre che politici, per coglierne il nesso con le forme giuridiche e comprendere il senso profondo delle loro trasformazioni. L’intento che lo animava era quello di tracciare un profilo completo e disincantato degli anni della Repubblica, legato alla realtà in evoluzione, dove il diritto si presentasse intrecciato alla vita della società nella trama mutevole dei rapporti economici sottostanti. La parte pubblicata (che copre circa 25 anni a partire dal 2 giugno 1946) è di grande interesse per la serietà dell’indagine, la stringatezza della prosa, la critica lucidità delle osservazioni. Una era relativa alla preoccupazione diffusa negli anni Cinquanta che con la ‘legge truffa’ (la legge elettorale promulgata nel 1953 e abrogata l’anno successivo) si volessero vanificare le garanzie delle minoranze nel procedimento di revisione costituzionale: «La Democrazia cristiana e l’intera maggioranza centrista non avevano bisogno, in quel momento storico, di revisionare a fondo la Costituzione repubblicana; bastava lasciarla inattuata per qualche altra legislatura […] e la continuità dello Stato italiano, considerato in una prospettiva conservatrice, sarebbe stata perfettamente salva» (p. 213).
La sua personalità riservata presentava lati diversi; la grande passione per la musica si univa all’amore per lo sport, in particolare la montagna e il calcio: giocatore nella squadra giovanile della Triestina, Paladin fu anche presidente della Commissione d’appello federale della Federazione italiana giuoco calcio dal 1986 al 1992.
L’attività scientifica di Paladin comprende i principali temi del diritto costituzionale. Nel suo primo volume, La potestà legislativa regionale (Padova 1958), riprese il tema della tesi di laurea sul quale sarebbe tornato anche successivamente, in particolare nello scritto del 1971, Problemi legislativi e interpretativi nella definizione delle materie di competenza regionale (in Foro amministrativo, III [1971], pp. 3 ss.), mettendo in luce difficoltà e rischi causati dalla formulazione degli elenchi di materie di competenza delle Regioni che non fornivano criteri idonei a determinarne con certezza la portata. Da un lato – rilevava – perché numerose materie non erano indicate (dalla Costituzione o dagli Statuti speciali) «con la menzione di oggetti legislativamente definiti, ma con riguardo alle finalità» che la Regione doveva soddisfare; dall’altro perché gli elenchi contenevano materie di cui l’ordinamento vigente non dava una definizione precisa oppure individuava in termini elastici. E dunque, contro l’opinione allora prevalente, Paladin riteneva indispensabile una ridefinizione delle materie regionali: questione che resta tutt’oggi aperta, pur dopo la riforma costituzionale del Titolo V varata nel 2001.
L’attenzione costante di Paladin per le Regioni è testimoniata da numerosi scritti, dal noto commento allo Statuto speciale del Friuli-Venezia Giulia elaborato nei suoi primi anni di insegnamento a Trieste (Commento allo Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, I, Udine 1964; II, ibid. 1969) a Diritto regionale (Padova 1973), un manuale importante e diffuso che, seguendo l’evoluzione di una materia in movimento, arrivò alla settima edizione nel 2000.
Il contributo di Paladin alle fonti del diritto non si ferma alle fonti regionali, né agli atti legislativi del Governo, cui sono dedicati vari scritti (le voci Decreto-legge e Decreto legislativo, in Nuovissimo Digesto Italiano, V, Torino 1960), Commento agli artt. 76-77 (in Commentario della Costituzione, a cura di Giuseppe Branca, Bologna-Roma 1979), Atti legislativi del Governo e rapporti fra i poteri (in Quaderni costituzionali, 1996, pp. 7-29): oltre agli studi su singoli atti e fatti normativi, una trattazione completa e sistematica ne viene fatta in Le fonti del diritto italiano (Bologna 1996). Si tratta di un’opera nella quale le diverse posizioni dottrinali sono attentamente considerate e messe criticamente a confronto; le soluzioni non appaiono mai estreme, costante è l’attenzione alla prassi valutata senza eccessiva rigidità, tranne quando siano in gioco valori essenziali. Lo si vede, per esempio, a proposito dei limiti alla revisione costituzionale, questione complessa e carica di implicazioni politiche. Esclusa la possibilità di individuarli partendo da un concetto universalmente valido di Costituzione, Paladin ritiene necessario guardare a ciò che stabilisce ciascuna carta costituzionale «sia pure alla luce di un’interpretazione extratestuale» (pp. 154 s.). Quest’ultima precisazione è un’apertura formidabile che gli avrebbe consentito di arrivare dalla formula scritta all’individuazione di una assai larga area di limiti. Il ragionamento è il seguente: nell’Assemblea costituente «un unico limite formò oggetto di un dibattito abbastanza ampio», la definitività della forma repubblicana, e dunque il vero problema sono i significati del divieto di modificarla (p. 160). Scartata ogni lettura riduttiva dell’art. 139, in particolare che la forma repubblicana riguardi il solo carattere elettivo del capo dello Stato, Paladin ritiene che la scelta degli elettori nel referendum del 2 giugno 1946 sia stata di ben più ampio respiro. Una decisione compiutamente democratica relativa al rapporto fra governanti e governati, che impone d’interpretare l’art. 139 in connessione strettissima con l’art. 1, che definisce l’Italia una Repubblica democratica in cui «la sovranità appartiene al popolo». Sottratti a revisione, di conseguenza, «sono anzitutto i presupposti indefettibili della democrazia liberale e pluralistica voluta dai costituenti», vale a dire la libertà (personale, di associazione, di manifestazione del pensiero), il diritto di voto, «il libero concorso dei partiti alla determinazione della politica nazionale», oltre ai limiti impliciti quali i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), l’unità e l’indivisibilità della Repubblica (art. 5). I limiti così individuati non sono intesi da Paladin in modo rigido (non escludono, per esempio, mutamenti nel sistema elettorale o nell’elezione del capo dello Stato) tranne quando sia in gioco la salvaguardia dei valori del costituzionalismo democratico: «Essenziale è soltanto che il pluralismo democratico non ceda il passo a una dittatura mascherata, quand’anche sostenuta dalla maggioranza di un singolo momento storico» (pp. 156-160).
Il profondo rispetto per il valore dell’individuo e della democrazia conduce Paladin a seguire, completandolo significativamente, il pensiero dei suoi due maestri sull’art. 1: la sovranità del popolo non può ridursi all’espressione del voto, ma consiste nell’esercizio effettivo e continuo dei diritti costituzionali per influire sulle decisioni degli organi dello Stato. Il popolo cui la sovranità appartiene è figura complessa, formata da gruppi e individui: dal corpo elettorale agli elettori, dai partiti ai sindacati e alle altre formazioni sociali «fino ai cittadini cui spettano le libertà e i diritti proclamati e garantiti nella prima parte della Costituzione» (Diritto costituzionale, Padova 1991; 1995; 1998, p. 272). La sovranità – esercitabile da ciascuno anche individualmente attraverso le libertà – non si trasferisce agli eletti, ma rimane al popolo cui ‘appartiene’. E il popolo non si identifica col corpo elettorale né viene assorbito nello Stato: la distinzione fra apparato statale e popolo è fondamentale nel pensiero di Paladin, che insiste sulla natura strumentale dell’apparato rispetto al sovrano (il popolo) e sulla conseguente responsabilità dei soggetti cui è demandato l’esercizio del potere. La rappresentanza politica è «resa effettiva dalla responsabilità politica degli eletti e dei governanti […] che devono governare in collegamento costante con il detentore ultimo del potere sovrano, cioè con il popolo» (p. 268).
Se non c’è coerenza fra azione politica e orientamento degli elettori, lo stacco fra classe politica e società civile genera la «dissoluzione della democrazia»: così si legge in Diritto costituzionale (cit., p. 269), opera iniziata nel 1973 da appunti degli studenti e completata negli anni, frutto di esperienze scientifiche e didattiche. Abissale è la distanza di questa visione, genuinamente liberal-democratica, da teorie alla moda negli ultimi decenni, la ‘democrazia d’investitura’ in particolare, che ritiene la sovranità ‘trasferita’ dal popolo con l’elezione.
Fondamentale e assolutamente originale è il contributo di Paladin al concetto di eguaglianza (art. 3), cui dedica numerosi scritti: Il principio costituzionale d’eguaglianza (Milano 1965), la voce Eguaglianza (diritto costituzionale) (in Enc. del diritto, XIV, ibid. 1965), il saggio Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza (in Scritti in onore di Vezio Crisafulli, I, La giustizia costituzionale, Padova 1985, pp. 605-665) nel quale mette a confronto la sua costruzione teorica con la giurisprudenza della Corte costituzionale, registrando concordanze e, più rare, discordanze. Una giurisprudenza fortemente influenzata dal suo pensiero, e non poteva non esserlo: la via da lui indicata, infatti, se applicata senza rigidità formalistiche, appare l’unica in grado di evitare il rischio di lasciare spazio a valutazioni arbitrarie del giudice delle leggi. La preoccupazione costante di Paladin è la stessa di Carlo Esposito: agganciare i giudizi di eguaglianza al diritto positivo, ritenuto l’unico criterio utilizzabile per accertarne l’eventuale violazione. Nel rapporto controverso fra eguaglianza e giustizia la sua posizione è chiara: «l’eguaglianza, per non essere un concetto vago o un valore dagli indefiniti contorni, si misura esclusivamente all’interno di un ordinamento positivo dato, venendo a rappresentare, in definitiva, una sorta di coerenza interna all’ordinamento medesimo, che poco ha a che fare con la giustizia» (p. 139). Su questa premessa, nella sua lineare costruzione entrano in gioco tre norme anziché due: il giudizio sul rispetto del principio di eguaglianza da parte di una disposizione legislativa non può essere condotto mettendo direttamente a confronto la disposizione medesima con l’art. 3 che, da solo, non costituisce un parametro sufficiente. Nel giudizio di eguaglianza deve entrare un tertium comparationis, una terza disposizione che serva a integrare il parametro costituzionale, che altrimenti sarebbe muto; solo raffrontando due situazioni e le rispettive discipline si potrà affermare che una è ‘diseguale’ rispetto all’altra. Il giudizio di eguaglianza, insomma, è necessariamente trilatero, altrimenti si trasforma in un giudizio di giustizia: «L’assunto che l’organo della giustizia costituzionale possa anche sindacare la legittimità delle leggi sulla base di parametri esterni all’ordinamento suscita gravissime ragioni di dubbio in quanto il compito che la Costituzione affida alla Corte […] è quello di decidere alla stregua della Costituzione stessa, sia pure interpretata e reinterpretata di continuo» (Ragionevolezza, in Enc. del diritto, Aggiornamento, Milano 1997, pp. 906 ss.). Nelle ultime parole riappare quell’equilibrio che non consente di rinchiudere Paladin negli schemi di un rigido positivismo: se la decisione va assunta alla stregua della Costituzione «interpretata e reinterpretata di continuo», si aprono spazi tali da indurre Gustavo Zagrebelsky (che intende diversamente il principio di eguaglianza ) a concludere che, con quell’inciso, «si apre una breccia nelle certezze normativistico-positiviste nelle quali ci si voglia riconoscere nel nome di Paladin» (Eguaglianza e giustizia nella giurisprudenza costituzionale, in Corte costituzionale e principio di eguaglianza, 2002, pp. 59 ss.).
Fra i molti temi approfonditi da Paladin, particolare rilievo assumono gli studi relativi agli organi costituzionali e ai loro rapporti, dove il suo contributo è importante anche dal punto di vista del metodo: nelle due voci Governo italiano (in Enc. del diritto, XIX, Milano 1970) e Presidente della Repubblica (ibid., XXXV, 1986), all’esame delle norme, scritte e non scritte, si accompagna sempre un attento studio della prassi non soltanto per verificarne la corrispondenza al diritto ma, e forse soprattutto, per ricavare anche dalla prassi il senso delle disposizioni. Tuttavia, anche qui il suo equilibrio riappare: pur non condividendo le ricostruzioni puramente teoriche e astratte basate esclusivamente sulle norme, neppure condivide le posizioni opposte, interamente rivolte all’effettività. Il profilo essenziale in ogni ricerca è l’inverarsi delle norme nel tempo, è la storia, valutata però alla luce del diritto costituzionale ‘vivente’ ricostruito dal giurista attraverso l’individuazione dei principî impliciti della Costituzione, dei principî generali del sistema. Un metodo che consente di trovare risposte anche riguardo all’ordinamento del governo – «una tipica zona di confine fra il diritto costituzionale e la storia o la scienza o la sociologia politica» (Governo italiano, cit., p. 677), dove la distinzione fra norme giuridiche ed extra giuridiche è messa continuamente alla prova per l’intreccio di fonti del diritto e di fatti non normativi – rendendo possibile valutare «quanta parte della prassi […] sia giuridicamente necessaria e quanta invece derivi da contingenti esigenze politiche (indifferenti od anche antitetiche alla Costituzione) o rappresenti addirittura un semplice rituale del tutto mancante di obbligatorietà».
I fatti e le norme: né gli uni né le altre possono essere trascurati. Così la storia entra decisiva nel discorso, con le sue vicende e con i comportamenti dei protagonisti della scena politico-costituzionale, rendendo vivo il percorso giuridico che mai può essere disgiunto, secondo Paladin, da quello storico.
La questione del metodo interessa sempre Paladin, in particolare riguardo alla storia costituzionale, nella quale non ritiene che il giurista possa fermarsi alla dimensione logico-analitica ma debba usare un metodo complesso, lasciando sempre nello sfondo «le tanto controverse basi concettuali delle indagini costituzionalistiche», in modo da consentire ai sostenitori di concetti opposti di «ritrovare nella storia un terreno comune». È sua ferma opinione, infatti, che la storia costituzionale spetti ai giuristi piuttosto che agli storici, essendo la storia contemporanea parte integrante della materia di studio del costituzionalista. Pur convinto che la storia non possa essere studiata con metodo giuridico, egli ritiene tuttavia indispensabile una sensibilità specifica e un’approfondita conoscenza dei temi da trattare, «temi ed oggetti che riguardano il diritto costituzionale, sia pure proiettato nella storia» (La questione del metodo nella storia costituzionale, in Il diritto costituzionale a duecento anni dall’istituzione della prima cattedra in Europa, Atti del convegno, Ferrara ... 1997, a cura di L. Carlassare, Padova 1998, p. 36). Infatti, in tutti i suoi lavori di giurista ha sempre scritto, e voluto scrivere, la storia: lo dimostrano per esempio le citate voci Governo e Presidente della Repubblica, in cui, per individuare il ruolo e la controversa posizione di entrambi gli organi nel sistema, oltre alle norme, Paladin esamina in concreto le vicende politico-costituzionali che li hanno visti protagonisti o coinvolti, inquadrandole nel tempo e cercando anche nei fatti elementi per delinearne il profilo giuridico.
Paladin non ha una visione statica del diritto: gli stessi principî fondamentali non sono da lui pensati come metastorici e «immuni dalle contingenze della nostra vita politica ed istituzionale»: il divieto di revisionarli «non implica affatto che si debba negare la loro storicità» (I “principi fondamentali” della Costituzione repubblicana: una prospettiva storica, in Giurisprudenza costituzionale, XLII [1997], pp. 3029 ss.).
Guardando in prospettiva il suo percorso di studioso si può dunque concludere che il lavoro di Paladin, in ragione del metodo e talora anche dell’oggetto (come la voce Fascismo, in Encicl. del diritto, XXV, Milano 1967, pp. 887 ss.), appare interamente proiettato verso l’ultima fatica, una fatica vera dato il male che lo attanagliava: la storia costituzionale della Repubblica che fermamente voleva scrivere e della quale non vedrà la fine (Per una storia costituzionale della Repubblica, Bologna 2004).
Fonti e Bibl.: Corte costituzionale e principio di eguaglianza. Atti del Convegno in ricordo di L. P., Padova, 2 aprile 2001, Padova 2002 (convegno organizzato a un anno dalla morte dall’Università di Padova - Dipartimento di diritto pubblico internazionale e comunitario); La sovranità popolare nel pensiero di Esposito, Crisafulli, P.; Atti del Convegno di studio per celebrare la casa editrice Cedam nel primo centenario dalla fondazione, 1903-2003. Padova, 19-21 giugno 2003, a cura di L. Carlassare, Padova 2004; Scritti in memoria di L. P., I-IV, Napoli 2004 (con bibl. completa, I, pp. XIII-XXX e repertorio delle opere).