Lo doloroso amor che mi conduce
. Canzone (Rime LXVIII) di tre stanze con fronte e sirma, concatenatio e combinatio, sullo schema 6 + 8, abc, abc: CDEeFEGG e congedo, hilmmnn, che non corrisponde al sistema delle stanze, come avviene spesso in D. e nella lirica coeva. Sono da notare i due versi ‛ espars ' (8 e 11) in ogni stanza (e nel congedo), secondo un modulo provenzale, che però D. non ha usato altrove e neppure illustrato nel De vulg. Eloq., dove si limita a citare il caso di un verso ‛ dissolut ', cioè senza rima nella stanza, ma rimante con quelli che gli corrispondono nelle seguenti (II XIII 4). Altri caratteri arcaizzanti sono la rima ibrida quigli (v. 46), la rima imperfetta del v. 26 (ricolto, con morto e scorto) e varie forme lessicali e sintattiche.
È l'unica canzone fra le rime rare, cioè di tradizione più limitata, del canzoniere dantesco; si costituisce soprattutto sul Fiorentino della Nazionale II IV 114 e sul Riccardiano 100. Fu pubblicata dapprima da T. Bini (1852), poi dal Witte nel 1871 (" Jahrbuch der deutschen Dante-Gesellschaft " III [1871] 272) e nel 1879 (Dante Forschungen, II 540), e infine da G. Salvadori, che si giovò di tutti e quattro i mss., in appendice all'articolo D. e S. Margherita da Cortona, in " Nuova Antol. " 1 genn. 1906. Il testo fissato dal Barbi nella '21 fu posto fra le Altre rime del tempo della Vita Nuova. Il Lamma e lo Zingarelli ne contestarono l'autenticità; il Renier la pensò rivolta alla donna-pietra: ipotesi strana, non foss'altro perché questa è l'unica delle rime estravaganti ove sia nominata espressamente Beatrice (v. 14). Il Contini, dopo averne rilevato i caratteri arcaici metrico-stilistici e l'astrattezza scolastica della trattazione, conclude che in una cronologia ideale delle rime dolorose per Beatrice occupa certo il posto più antico.
Indubbiamente la canzone fa gruppo con E' m'incresce di me, Ne le man vostre e le rime contenute in Vn XII-XVI, cioè col momento che si usa definire cavalcantiano della lirica giovanile di D.; ma qui meno si avvertono movenze e stilemi del Cavalcanti, e più evidente appare la linea che risale a Guittone e, in genere, alle convenzioni curiali; si confrontino, ad es., i vv. 9-10 [la pena] la qual nasce del foco / che m'ha tratto di gioco, o l'analogo incipit guittoniano, ricordato dal Contini, La dolorosa mente ched eo porto e, in genere, il modulo narrativo-oratorio, più vicino a Guittone che alle atmosfere rarefatte e vagamente estatiche di Guido. Legata a una tradizione antica, anche se passa, poi, attraverso il Guinizzelli, è la proiezione della pena d'amore in un'atmosfera di Novissimi della terza stanza, con la componente di outrance sentimentale espressa in ardite immagini e trasposizioni metafisiche, che restano, però, iperboli, senza assurgere a un vero, intimo mito poetico-esistenziale, alla scoperta di una nuova dimensione etica e spirituale come avverrà nella Vita Nuova. Da essa la canzone fu esclusa per questo, come momento superato di un itinerarium che il libro configurò in un acquisto spiritualmente più elevato; e anche come raffigurazione di Beatrice non ancora sublimata, ma troppo legata all'idea cortese della donna seduttrice e impietosa, fino all'antitesi (quasi un ossimoro) che conclude la prima stanza: Per quella moro c'ha nome Beatrice.
Dopo il lamento per la perduta ‛ gioia ' d'amore, e cioè per la negata luce della stella (lo sguardo della donna) e la confessione dolente della pena che conduce l'anima a fin di morte (prima stanza), la seconda stanza insiste sulla rappresentazione del disfacimento totale della persona, con una tonalità realistica originale che supera il convenzionalismo dei versi precedenti (e de la doglia diverrò sì magro / de la persona, e 'l viso tanto afflitto, / che qual mi vederà n'avrà pavento. / E allor non trarrà sì poco vento / che non mi meni, sì ch'io cadrò freddo), dove si avverte un presentimento della sestina, come ha osservato il Contini, " per la realtà sensibile ma poco particolarizzata delle parole-rima e per la distribuzione dell'accento e dell'energia lessicale nel verso ". Già in questa fase di apprendistato poetico si fa strada, fra gli echi della tradizione, la tendenza tutta dantesca all'energia dell'immagine e dell'espressione, che coincide, poi, con un riscatto poetico della fisicità, della terrestrità, e con l'esigenza, che verrà progressivamente attuata dalla Vita Nuova alla Commedia, di un realismo che superi l'esangue ed emblematica stilizzazione sia cortese sia stilnovistica. È, in sostanza, la stessa esigenza che induce D. in E' m'incresce, e poi nella Vita Nuova, a connettere i momenti irrelati della contemplazione in una ‛ storia ' personale, in uno spazio, in un tempo, in una vicenda continuata del vivere.
La terza stanza trasporta la situazione in un'atmosfera metafisica. Come in questo mondo l'amore, anche se deluso, rappresentò il diletto più alto, l'unico, anzi, fermamente voluto da D., così sarà nell'oltretomba. Anche se egli non otterrà perdono da Dio e andrà all'Inferno, la sua anima, colà, starà tanto attenta / d'imaginar colei per cui s'è mossa, / che nulla pena avrà ched ella senta. L'iperbole ardita, ed eterodossa, se non la si prenda nel suo vero significato, che è quello fabuloso e poetico, fu già messa dal Salvadori in relazione con la seconda stanza di Donne ch'avete, come diretto antecedente (e che dirà ne lo inferno: O mal nati, / io vidi la speranza de' beati, vv. 27-28). Il raffronto è servito soprattutto a controbattere l'opinione di chi riteneva, col Guerri e il Nardi, che inferno, nella seconda canzone, fosse da interpretare in senso traslato (" questo mondo "; " la vita sulla terra senza la beatitudine è inferno ", ha scritto il Nardi), e a ribadire la piena realtà letterale del termine. Va però rilevata la sostanziale diversità dei due passi. Donne ch'avete riprende l'immagine della prima canzone, ma proiettandola in un'aura di salvazione e sullo sfondo di una rivelazione celeste che condiziona il mito centrale della Vita Nuova; in Lo doloroso amor si esprime soltanto una outrance sentimentale che si riflette, con processo psicologico spontaneo, nell'iperbole e nel parlar figurato. Tuttavia in una preistoria ideale della Vita Nuova, questa stanza rivela già la tendenza ad appagarsi dell'immagine luminosa di bellezza che l'anima stessa ha creato, di là da ogni desiderio di contraccambio e di compenso, anche se questo acceso idealismo è ancora lontano dal proporsi come significato autentico di tutta una vita.
Bibl. - Fondamentali i commenti di Contini, Rime 67-70; Barbi-Maggini, Rime (di cui si veda la nota alle pp. 261-263, con la discussione dei principali interventi critici sulla canzone). Si aggiungano G. Salvadori, Sulla vita giovanile di D., Roma 1907, 156-157; G. Zonta, La lirica di D., in " Giorn. stor. ", suppl. 19-21 (1921) 85-87; D. De Robertis, Cino da Pistoia e la crisi del linguaggio poetico, in " Convivium " I (1952) 27-28; ID., Il libro della " Vita Nuova ", Firenze 1961, 82-83, e, nella II ediz. (ibid. 1970), 253-255 e 264-265 (nel saggio aggiunto Sulle rime = Le rime di D., in Nuove lett. 165 ss.); Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, Oxford 1967, II 71-77; F. Montanari, L'esperienza poetica di D., Firenze 1968² (I ediz. 1959), 25-31 e 77-78; M. Pazzaglia, Note sulla metrica delle prime canzoni dantesche, in " Lingua e Stile " 3 (1968) 319-331.